Bourdieu o il potere auto-ipnotico del dominio maschile

di Nicole-Claude Mathieu (*)

Nicole-Claude Mathieu ritratta da Laurence Prat

«Un libretto fitto e soffocante; non graffierà gli uomini, ma confonderà un po’ di più, ce ne fosse bisogno, la coscienza delle donne»: con queste parole, alla fine degli anni Novanta, la sociologa e antropologa femminista Nicole-Claude Mathieu concludeva una puntigliosa e incisiva disamina critica di La domination masculine (ll dominio maschile) di Pierre Bourdieu. Senonché, mentre il testo di Bourdieu è stato tempestivamente tradotto in italiano, ristampato, adottato nei corsi universitari di gender studies, ridotto in citazioni da sfoggiare a riprova di una squisita sensibilità culturale e magnificato (incredibilmente, anche da tante devote lettrici) per aver ricordato delle donne solo e soltanto ciò che si presta a dimostrare che queste riproducono il dominio patriarcale tanto quanto gli uomini, del dibattito femminista apertosi in Francia al momento dell’apparizione del volume non è stato recepito quasi nulla nel nostro paese. La politica della traduzione e della circolazione dei testi è politica tout court: stabilisce parametri di legittimità, condiziona l’approccio ai problemi e, in questo caso, sembra obbedire a regole pericolosamente vicine al precetto epistemologico che lo stesso Bourdieu enuncia ne Il dominio maschile, quando accusa le colleghe femministe di «introdurre nel campo scientifico una difesa politica dei particolarismi che autorizza il sospetto a priori», riservando a se stesso il ruolo di custode oggettivo dei fondamenti universalistici della «Repubblica delle scienze». Quale sia la garanzia di “oggettività” che un membro del gruppo dominante può dare quando parla del dominio patriarcale è il filo che percorre queste splendide pagine di Nicole-Claude Mathieu, qui presentate per la prima volta in italiano.

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Y a qué’qu’chose qui cloche là-d’dans / J’y retourne immédiatement

Boris Vian, La Java des bombes atomiques

1998. Che settembre! Tra la pioggia, la tempesta, il mare agitato, la valanga equivoca del caso Clinton e la grandine fitta del caso Bourdieu, ci si sarebbe quasi potuti dimenticare delle attrattive dell’estate, come la pubblicazione di La construction sociale de l’inégalité des sexes. Des outils et des corps di Paola Tabet [1], Le sexe du savoir di Michèle Le Doeuff, Medias et féminismes. Minoritaires sans paroles di Myriame El Yamani [2], Le savant et la politique. Essai sur le terrorisme sociologique de Pierre Bourdieu di Jeanine Verdès-Leroux [3], – tutti titoli che tornano utili al cospetto de Il dominio maschile, piccolo ordigno abortito di grande incoerenza che costituisce il rifacimento, appena rimaneggiato, di un articolo apparso con lo stesso titolo otto anni fa [4]. Sulla spiaggia o altrove, se vi domandaste che cosa trasmette questa sera la televisione… Grazie all’iniziativa del periodico Télérama [5], il dominio maschile è stato lo scoop dell’estate. Nessuno nelle case può ignorare che tale dominio esiste, e tutti devono ormai sapere che è simbolico, tuttavia efficace o, se preferite, efficace benché soprattutto simbolico. — Simbolico? Come il franco di risarcimento danni [6]? Ah bene… — Ma c’è l’amore? Ah bene! — Impossibile? Eh beh… tuttavia ne parlano tutti i romanzi… Che si fa oggi pomeriggio?

Se il libro si fosse intitolato «L’oppressione delle donne» (ma era impossibile, si vedrà perché), difficilmente la celebrità dell’autore avrebbe invaso in questo modo le riviste illustrate e i chioschi delle stazioni. E se una femminista avesse scritto «Il dominio maschile», si può dubitare che Télérama le avrebbe fatto una simile pubblicità. Si noterà d’altronde che — nella corsa agli approfondimenti e ai commenti sull’autore da parte dei lettori o di membri dell’intellighenzia che un numero impressionante di giornali e riviste si sono ritenuti (visti) obbligati a pubblicare immediatamente —, si noterà, dicevo, che soltanto un’infima porzione è stata consacrata al libro stesso e dunque alla «questione». Ciò dipende dal fatto che, in ultima analisi, la questione interessa poco, o piuttosto dal fatto che, avendo tutti e tutte un interesse preciso per essa, se la parola è denaro per i media, il silenzio è d’oro per la maggioranza dei protagonisti delle relazioni uomini-donne?

Così, ci si può domandare se l’occultamento massiccio del contenuto del libro dietro alle polemiche che si sono risvegliate intorno all’autore non sia dovuto agli stessi meccanismi mediatici (e accademici) che stendono il silenzio sulle pubblicazioni femministe nel momento stesso in cui pubblicizzano gli uomini che trattano dello stesso (?) soggetto. In breve, per una sorta di effetto boomerang [7], lanciando il libro a partire dal suo credito di dominante (il suo «capitale simbolico di celebrità») [8], Bourdieu, mancando uno dei suoi obiettivi (parlare e far parlare del dominio maschile), ha tuttavia ricapitalizzato (plus-valore) questo credito – di cui fanno parte la critica come la lode; ogni autore sa che è meglio essere attaccati piuttosto che passati sotto silenzio.

Essere passate sotto silenzio dai media e dal proprio ambiente professionale è qualcosa di cui coloro che analizzano e denunciano il potere degli uomini hanno una lunga esperienza. Bisogna ricordare qui la strana invisibilità (trasparenza) delle ricercatrici in generale [9]. Quanto al discredito, agli insulti diretti e indiretti [10], agli ostacoli alla carriera opposti alle ricercatrici apertamente «femministe», essi non hanno nulla a che vedere con una qualche «disposizione» dovuta a un inconscio simbolico degli uomini e delle donne alla maniera di Bourdieu, e invece tutto a che vedere con una resistenza maschile intenzionale e organizzata [11] – e pure tutto a che vedere, tra le donne che hanno qualche frammento di potere, con la paura del discredito che colpisce quelle che sostengono altre donne. Che alcune finiscano per abbandonare l’idea di progredire nella carriera, di candidarsi a posizioni di rilievo, è dovuto all’esperienza del rigetto dei loro tentativi o di quelli delle altre; si tratta certamente di un adattamento alle opportunità oggettive, e non di un «adattamento delle disposizioni alle opportunità oggettive», come direbbe Bourdieu – le «disposizioni» essendo «schemi pratici» (DOM, p. 14; trad. it. p. 17) che implicano un «adattamento inconscio alle probabilità associate a una struttura oggettiva di dominio» (DOM, p. 43, corsivo mio; trad. it. p. 47). Ma prima di affrontare i concetti in questione e la politica a cui sono funzionali, occorre tornare sui silenzi dell’autore.

I. CANDIDATO BOURDIEU [12]: RESPINTO ALL’ESAME DI DIPLOMA DI STUDI AVANZATI (I ANNO DI TESI). PER I SEGUENTI MOTIVI:

1) Mancata citazione di autori importanti che hanno lavorato sull’argomento, compresi quelli i cui lavori avrebbero potuto chiarire le sue tesi, e compresi i colleghi della sua comunità scientifica. Esempi: non si fa più alcuna allusione ai lavori antropologici di Françoise Héritier (citata nell’articolo del 1990), sua collega al Collège de France, lavori che in gran parte si concentrano appunto sui meccanismi simbolici della «valenza differenziale dei sessi» [13], quasi universali, specialmente nei sistemi di appellazione di parentela. Manca pure qualsiasi allusione a sociologhe e antropologhe che hanno detto già da più di venti anni ciò che il Candidato pretende di farci scoprire (per esempio che i sessi/generi sono categorie sociali, storiche, costruite e relazionali), ma che in più non nascondono di essere femministe (e quella è senz’altro la duplice ragione dell’omissione). Pensiamo qui a Christine Delphy [14], Colette Guillaumin [15], Paola Tabet [16], per non citare che alcune fra le più «anziane» (fra cui io stessa) che hanno lavorato negli anni Settanta nel campo della sociologia.

[Ma Bourdieu aveva già risposto. Nell’articolo del 1990 (ACT, p. 30), afferma che il loro «isolazionismo» (e il fatto che si riferiscano alle «donne» e non alla «relazione sociale di dominio»!?) conduce «certe produzioni “militanti” ad accreditare alle fondatrici del movimento femminista “scoperte” che fanno parte delle acquisizioni più antiche e da più lungo tempo ammesse nelle scienze sociali, come il fatto che le differenze sessuali siano differenze sociali naturalizzate (corsivo mio)». Si resta senza parole. Anche il Candidato d’altra parte lo è, visto che non offre alcun riferimento storico, senza dubbio sbalordito dalla sua stessa audacia. Per fortuna che lui stesso ha scritto una volta: «Le scoperte scientifiche hanno spesso l’ambiguo privilegio, in antropologia, di diventare ovvie una volta acquisite» (17)].

Bisognerebbe tuttavia sapere se, e in caso affermativo in che cosa, le problematiche differiscono.

[Ma Bourdieu aveva già risposto! «Sebbene io non ami l’esercizio, tipicamente scolastico, consistente nel passare in rassegna, per distinguersene, tutte le teorie concorrenti dell’analisi proposta – fra le altre cose, perché può far credere di non avere altro principio che la ricerca della differenza […]» (ACT, p. 30). Egli ribadisce ne Il dominio… rammaricandosi, per esempio, di non aver sottolineato a sufficienza ciò che lo differenzia da Claude Lévi-Strauss e da Gayle Rubin, perché ciò gli avrebbe permesso, dice, «di evitare di dare l’impressione di ripetere o di riprendere analisi alle quali mi oppongo (18). Il che comporta trattare ogni questione da solo, tra sé e sé].

D’altra parte, nel suo articolo «Bourdieu: nom propre d’une enterprise collective», François de Singly (1998) ha dissezionato con precisione le abituali e diverse forme di occultamento dei collaboratori più vicini (soprattutto uomini) da parte di questo autore. Si potrebbe allora pensare che l’occultamento delle ricercatrici femministe non abbia nulla di peculiarmente «machista». Ora, questa invisibilizzazione, come denunciava già Françoise Armengaud (1993) a proposito dell’articolo del 1990, è un colpo scientemente assestato alle tendenze più sociologiche della ricerca femminista e a quelle più radicali del movimento delle donne – che già non hanno la parola, mentre i collaboratori in questione in ogni caso ce l’hanno.

2) Riferimento rapido ad alcuni autori importanti, eliminando con un colpo di spugna e deformando una delle loro teorie, mentre si ignorano i loro rimanenti lavori sull’argomento. Esempio: il Candidato si situa contro «la lettura strettamente semiologica [di Claude Lévi-Strauss] che, concependo lo scambio di donne come rapporto di comunicazione, occulta la dimensione politica della transazione matrimoniale, rapporto di forza simbolico volto a conservare o ad aumentare la forza simbolica» (DOM, p. 50, corsivo dell’autore; trad. it. p. 55). Pare di sognare. Lévi-Strauss non avrebbe parlato del rapporto, da riorganizzare incessantemente a seconda dei tipi di cicli di scambio, tra i «donatori» (simbolicamente superiori) e gli «acquirenti» (simbolicamente inferiori) di donne? E Lévi-Strauss non avrebbe visto che le donne sono ridotte allo stato «di strumenti simbolici della politica maschile», come pretende di sottolineare il Candidato contro di lui (DOM, p. 49, corsivo dell’autore; trad. it. p. 54)? E Lévi-Strauss non è andato più lontano dell’analisi «puramente semiologica» che gli viene rimproverata quando, nel suo articolo «La famille» (1956; 1971), ha aggiunto al tabù dell’incesto l’istituzione della famiglia e la divisione tecnica del lavoro tra i sessi come mezzi, ugualmente artificiali, per instaurare lo scambio tra gruppi? Il Candidato dovrà rivedersi i classici [19]. O altrimenti spiegarsi meglio (ma si è già visto, supra nota 20, che teme di farlo).

3) Riferimento a certi autori con allusione falsata alle loro teorizzazioni, o senza allusione teorica e a proposito di un dettaglio. Esempio: Gayle Rubin – che a partire dal 1975 ha analizzato criticamente in che modo l’oppressione delle donne è stata trattata nei lavori di Lévi-Strauss (e di Engels, Marx, Freud, Lacan, etc.) e ha proposto, sulla base di un riesame dei dati etnologici e psicoanalitici a partire dal soggetto/oggetto donna, e dunque sulla base di un rinnovamento delle domande da porre, un vasto programma di ricerca sull’«economia politica» del sesso [20] — è citata (DOM, p. 50, nota 69; trad. it. 55) dal Candidato come esempio degli studi «simbolici» (opposti agli studi «materialisti») — studi simbolici certamente «notevoli», ma sempre troppo «parziali» in rapporto ai suoi che, non dimentichiamolo, pretende di superare tutte queste opposizioni attraverso un’«analisi materialista dei beni simbolici». Limitare l’importante ricerca di Gayle Rubin al simbolico è inammissibile. Ella voleva appunto che si studiasse, nell’articolazione reciproca propria a ciascun «sistema di sesso/genere», ogni aspetto della realtà. E, per limitarsi a citare una soltanto delle sue espressioni sconcertanti, ricordava che — oltre a diversi beni materiali e simbolici — ciò che circola nello scambio matrimoniale è «carne femminile» (female flesh) addomesticata in donna.

Altro esempio (DOM, p. 22; trad. it. p. 25). La frase (per altro eminentemente contestabile): «Con ogni evidenza è perché la vagina continua a essere costituita in feticcio e trattata come sacra, segreta e tabù, che il commercio del sesso resta stigmatizzato tanto nella coscienza comune quanto nella lettera del diritto, concordi nell’escludere che le donne possano scegliere la prostituzione come attività lavorativa» è seguita dalla nota 23, che si riferisce a un articolo di Gail Pheterson unicamente a proposito di una legge degli Stati Uniti. Sarebbe stato necessario che il Candidato, poiché si interessa al simbolico, citasse per esempio l’analisi teorica che l’autrice fa dello «stigma della puttana» (the whore stigma) come stigma di genere, di fatto applicato all’insieme delle donne: «una frusta per mantenere l’umanità femminile in uno stato puro di subordinazione» [21]. Per Rubin non è questione di «vagina sacra», ma di strutture oggettive del controllo sociale che, negando alle donne la libera disposizione di se stesse, favoriscono la prostituzione forzata e contemporaneamente rendono sospetta di prostituzione ogni donna che manifesti un comportamento autonomo (dunque trasgressivo) in rapporto alle norme discriminatorie di sesso/genere, che si tratti di lavoro, di regole matrimoniali, di abbigliamento o di migrazione.

4) Allusioni, senza citazione del loro autore, ad alcune teorie direttamente connesse all’argomento. Esempio: «Occorrerà quindi chiedere a un’analisi materialista dell’economia dei beni simbolici i mezzi per sfuggire all’alternativa rovinosa tra il “materiale” e lo “spirituale” o “l’ideale” […]» (DOM, p. 9, corsivo mio; trad. it. p. 9). Allusione velata ai lavori e al libro L’idéel et le matériel (1984) di Maurice Godelier… che d’altra parte non ha mai presentato questi due concetti come costituenti una «alternativa».

5) Ricorso a riferimenti frammentari (alcuni dei quali ad autrici femministe, ma in quel caso preferibilmente anglosassoni e non francesi), destinati a far credere che il Candidato ha «coperto» l’argomento.

6) Ricorso probabile ad appunti di seconda mano, senza riferimento al testo originale né alle date, o incapacità di prendere appunti. Esempio: alle pagine 46-47 [trad. it. pp. 51-52], il Candidato si riferisce a coloro che parlano della conoscenza del dominio utilizzando «il linguaggio della coscienza». Prima persona citata: Jeanne Favret-Saada, con riferimento al suo articolo intitolato «L’arraisonnement des femmes», pubblicato nel 1987. Vengono citate alcune frasi dell’articolo. È bizzarro, ho l’impressione di averle scritte io… Seconda persona citata: Nicole-Claude Mathieu (ecco) per un articolo che si intitolerebbe «De la conscience dominée» (era in effetti il «titolo corrente»…) e pare essere stato pubblicato in un volume nel 1991. Ordine crono/logico normale, si dice il lettore. Ma ecco che alla fine del paragrafo si rinvia (alla nota 65) a un volume collettivo apparentemente pubblicato nel 1985 e che pure si intitola «L’arraisonnement des femmes». È macramé o cosa?, ci si chiede. E voi lettori mi direte: lei ci lascia così a spaccare il capello in quattro (nel qual caso, non leggete le spiegazioni fornite qui sotto in nota) [22]. Perdonatemi, ma sono preoccupata. Quando si conosce la fatica che molti insegnanti fanno per chiarire e spiegare agli studenti di cosa e di chi e di quando parlano (anche a livello di DEA e di tesi), c’è motivo di essere preoccupati per quelli del professor Bourdieu.

7) Uso di un titolo abusivo e ingannevole per la sua opera. Il titolo estremamente generale «Il dominio maschile» lascia intendere che il Candidato abbia affrontato la totalità dei meccanismi in gioco (e che pertanto farà il punto di lavori precedenti, senza limitarsi a un’allusione paternalista e sdoganante all’«immenso lavoro critico svolto dal movimento femminista» (p. 95; trad. it. p. 104). Ora, l’argomento che di fatto viene trattato è il dominio maschile simbolico o, più esattamente, «la dimensione simbolica del dominio maschile» [23], o perché no «la parte simbolica incorporata nel dominio maschile». (Ma il libro sarebbe stato meno facile da vendere). Di fronte a un tema così vasto, ogni autore ha il diritto, e anche il dovere, di restringere il proprio campo di ricerca; ha anche il diritto di domandarsi se una teoria elaborata per una forma di dominio (nel caso del Candidato, le classi sociali) possa applicarsi a un’altra forma (le classi di sesso, espressione che egli evita di usare) [24]. Ma il rigore intellettuale esige di situare esplicitamente il proprio progetto in rapporto ad altre analisi della questione, e non in rapporto a posizioni fantasticate o deformate.  

8) Conclusione. Benché pieno di annotazioni giuste sui comportamenti pratici e simbolico/inconsci (lo scivolamento tra simbolico e inconscio sarebbe tuttavia da riesaminare) degli uomini e delle donne — annotazioni d’altronde nient’affatto originali, ma sempre utili da ricordare, preferibilmente non limitandosi a citare i propri lavori —, il lavoro del Candidato difetta di rigore tecnico, metodologico e deontologico. Pecca di pensiero, di azione, di omissione e di distorsione. Nel complesso è da interpretare come un rifiuto di lasciare spazio al confronto tra analisi differenti, circostanza che conferisce alla tesi uno statuto assertivo e non dimostrativo. Ci si può chiedere, in compenso, se non si tratti di una dimostrazione particolarmente vistosa di dominio maschile, che raddoppia l’oppressione delle donne attraverso la soppressione o la distorsione delle loro esperienze e delle loro analisi. Come disse, pare, Voltaire a un giovane autore: «Amico mio, nel vostro lavoro ci sono cose buone e cose nuove. Sfortunatamente quel che è buono non è nuovo e quel che è nuovo non è buono». Bisognerebbe aggiungere: quel che c’è di cattivo non è nemmeno nuovo.

Nicole-Claude Mathieu – L’anatomie politique 2, 2014

II. DEL SIMBOLICO E DELLA SUA «RIVOLUZIONE»

Nel 1990 il Candidato informava espressamente i suoi interlocutori della «violenza simbolica, che è una dimensione propria di ogni dominio e che costituisce l’essenziale del dominio maschile» (ACT, p. 11, corsivo mio). Ne rimasi interdetta (interloquée) [25]. Il Candidato forse parlava dei, o dai, salotti del quarto arrondissement parigino, dove la violenza economica, demografica e fisica contro le donne è meno visibile, ma non del 99,9999 % del resto del mondo, e in particolare di quelle numerose società in cui il simbolico è inculcato attraverso la, e contemporaneamente alla, violenza fisica (anche agli uomini, ma in proporzione qualitativa e soprattutto temporale inferiore che alle donne).

In breve, pare proprio che il Candidato consideri il principio del simbolismo gerarchico tra i sessi (la cui permanenza attraverso le variazioni storiche e culturali identifica correttamente come problematica) come il fondamento, o il fondamento principale del dominio maschile. Non posso impedirmi di scorgere qui una tesi non solo parziale, ma idealista, benché egli si difenda dall’idealismo. Non mi è chiaro se il «materialismo» a cui la sua analisi si riferisce riguardi lo studio, che egli invoca, dell’economia oggettiva della circolazione dei beni simbolici o la sua insistenza sull’iscrizione del simbolico nei corpi, tramite «somatizzazione dei rapporti sociali di dominio», «incorporazione del dominio», etc. — termini che fanno parte della sua teoria delle «disposizioni» (inconsce) e che d’altronde non contesto.

Non ho nulla contro l’idea secondo cui saremmo tutti e tutte degli isterici (traduco, evidentemente), ma comincio a preoccuparmi quando leggo ripetutamente che questa incorporazione avviene «come per magia», «come per incanto». A parte il fatto che tutta l’argomentazione di Freud consiste nel dimostrare che non c’è nulla di magico nei meccanismi del sogno o nella somatizzazione isterica, a parte il fatto che continuo a non vedere nulla di fatato e ancor meno di magico nei rapporti di potere uomini/donne, mi chiedo se questi termini siano stati utilizzati dal nostro autore anche quando trattava di «disposizioni» a proposito di altre cose oltre ai sessi: delle classi sociali per esempio (confesso di non avere avuto il tempo di leggere l’insieme della sua opera, anzi del suo lavoro — al maschile, come si deve fare se si evoca il simbolismo sessuato). In ogni caso, non è stupefacente che per suffragare la sua personalissima tesi «isterica» sul ruolo preponderante del simbolico nel dominio maschile, il Candidato sfrondi dalle sue esemplificazioni un’enorme mole di poste reali e di rapporti di forza affatto concreti.

Uno dei pericoli del ricorso esclusivo o quasi esclusivo alle spiegazioni o alle interpretazioni tramite il simbolico è la simmetrizzazione finale delle categorie implicate nel rapporto di oppressione, anche se l’autore se ne difende, come si vede qui:

Una sociologia politica dell’atto sessuale farebbe emergere che, come sempre avviene in un rapporto di dominio, le pratiche e le rappresentazioni dei due sessi non sono affatto simmetriche. […] l’atto sessuale stesso è concepito dagli uomini come una forma di dominio, di appropriazione, di “possesso”. Nasce di qui lo scarto tra le attese probabili degli uomini e delle donne in materia di sessualità — insieme ai malintesi, legati a interpretazioni errate dei “segnali”, a volte volutamente ambigui o ingannevoli, che ne risultano. Contrariamente alle donne — socialmente preparate a vivere la sessualità come un’esperienza intima e fortemente investita di affettività, che non include necessariamente la penetrazione ma può inglobare un ampio ventaglio di attività — parlare, toccare, accarezzare, stringere ecc. —  i maschi sono portati a “compartimentare” la sessualità, concepita come un atto aggressivo e soprattutto fisico teso alla penetrazione e all’orgasmo (DOM, p. 26; trad. it. p. 29).

Abbiamo qui le attese e i malintesi, le interpretazioni e i segnali, di «concezioni» differenti della sessualità: esperienza intima e affettiva per la donna, atto aggressivo e fisico per l’uomo. Notiamo che nulla di tutto questo è completamente falso. Ma bisogna leggere questo passaggio per ciò che non dice. Una parola non viene pronunciata: lo stupro, gli atti sessuali forzati. Una vera «sociologia politica dell’atto sessuale» — come la praticano da anni le femministe, rivelando la frequenza e il significato di potere degli stupri detti coniugali e degli stupri incestuosi [26], così come di altri stupri, crimini di guerra o, come dire, “di pace”?, e ricavandone dei progressi giuridici notevoli — non potrebbe eliminare dal quadro queste «pratiche» che in effetti «non sono affatto simmetriche» per i due sessi. L’aspetto più oltraggiosamente perverso della faccenda è che i due riferimenti citati, in nota, sono i libri di Diana Russell: The Politics of Rape e Sexual Exploitation — riferimenti in lingua originale (l’inglese), come è normale ma qui del tutto funzionale. Poiché la parola stupro non compare in francese nel testo, e il suo equivalente rape si trova a caratteri minuscoli alla nota 32, molti lettori/lettrici non avranno colto l’impostura. Sia che non leggano l’inglese (pur essendo in compenso capaci di chiacchierare in ittita o in aramaico), sia che lo leggano — e ho fatto l’esperimento con persone bilingui inglese/francese — semplicemente saltano le note.

Non avendo fatto la minima allusione nel testo alle pratiche effettive dell’«atto sessuale» maschile, ovvero allo stupro come pratica coerente e logica delle «inclinazioni» predatorie degli uomini [27]; avendo parlato soltanto, per quanto riguarda le donne, della stimolazione dell’orgasmo come «attestazione esemplare del potere maschile di rendere l’interazione tra i sessi conforme alla visione degli uomini, che si aspettano dall’orgasmo femminile una prova della loro virilità» (DOM, p. 27; trad. it. p. 30), cosa non falsa ma parziale, il Candidato può allora concludere la sua «sociologia politica dell’atto sessuale» (!) rimettendo in simmetria le attitudini dei due sessi, non a livello di contenuto simbolico (di cui ha detto che non era il medesimo), ma simmetrizzando il rapporto al simbolico e, per di più, il rapporto all’esperienza stessa:

Se il rapporto sessuale appare [sic, notare l’ambiguità del termine] come un rapporto sociale di dominio, ciò dipende dal fatto che è costruito attraverso il principio di divisione fondamentale tra il maschile, attivo, e il femminile, passivo, e che questo principio crea, organizza, esprime e dirige il desiderio: quello maschile come desiderio di possesso, come dominazione erotizzata, quello femminile come desiderio della dominazione maschile, come subordinazione erotizzata o addirittura, al limite, come riconoscimento erotizzato del dominio (DOM, p. 27; trad. it. p. 30).

Ehi! Esprimiamoci geometricamente. Ecco una figura simmetrica (←│→) in rapporto a una linea di demarcazione. Ora esprimiamoci umanamente. Se alla parte destra si assegna un valore erotico maggiore (perché attiva) rispetto alla parte sinistra (passiva), il risultato sarà (←│→→); la linea verticale rappresenta la demarcazione simbolica tra uomini e donne, il contenuto di ogni categoria è visibilmente differente; ma quale matematico vi dirà che la figura che include il rapporto tra ← e │è simmetrica a quella che include il rapporto tra │e →→? È tuttavia quel che succede quando si passa dal dominio erotizzato alla subordinazione erotizzata. Si ristabilisce una (falsa) simmetria di funzionamento.

Può ben darsi che nelle fantasie erotiche delle donne, particolarmente nella masturbazione solitaria, il pensiero della sottomissione sotto forma di coazione, percosse e stupro induca una soddisfazione erotica (ed è forse una delle gravi mutilazioni mentali inflitte alle donne dalla loro condizione obiettiva e generale di non autonomia in rapporto agli uomini). In compenso è certo, secondo innumerevoli testimonianze, che nei rapporti concreti di coazione sessuale (e dio sa se sono frequenti, in particolare all’interno del matrimonio in tutte le società, ma anche in moltissime prime esperienze sessuali delle ragazze [28]), la simulazione dell’orgasmo — di cui il Candidato parla, riferendosi a Catharine MacKinnon, come di un’«attestazione esemplare del potere maschile di rendere l’interazione tra i sessi conforme alla visione degli uomini» (p. 27) — non è la reazione più diffusa tra le donne (ed è anche una delle ragioni addotte dagli uomini per ricorrere alle prostitute, e uno dei “trucchi” che queste utilizzano con piena cognizione di causa). Si trovano, invece, nelle testimonianze delle donne sui rapporti sessuali, molti «aspetto che finisca», per paura di una separazione se sono sposate o in coppia, e in termini più generali per paura (realistica) di scatenare la violenza fisica, per paura di disturbare i figli, i vicini, etc., per non parlare della paura (realistica anch’essa) della morte in caso di stupro «caratterizzato». Che il dominio aggressivo venga erotizzato dallo stupratore è, invece, un fatto appurato.

A parte il fatto che l’erotismo non attinge soltanto alla simbolica dei sessi, l’incorporazione erotizzata del dominio alla maniera di Bourdieu sembra una variante dello stereotipo sul masochismo femminile. Ma Bourdieu ha già risposto! O ha creduto di rispondere segnalando (p. 46) che per lui non è questione di affermare che le donne siano responsabili della loro oppressione, né che esse «scelgano delle pratiche sottomesse» (corsivo dell’autore), né che esse «‘godano’ dei trattamenti che vengono loro imposti». Ma che, per ogni dominato:

occorre ammettere allo stesso tempo che le disposizioni “sottomesse”, in nome delle quali si ha buon gioco ad “accusare la vittima”, sono il prodotto delle strutture oggettive e che tali strutture NON devono la loro efficacia CHE alle disposizioni che innescano e che contribuiscono alla loro riproduzione. Il potere simbolico non può esercitarsi senza il contributo di coloro che lo subiscono e che NON lo subiscono PER NESSUN ALTRO MOTIVO oltre al fatto che lo costruiscono. […] occorre prendere atto e render conto della costruzione sociale delle strutture cognitive che organizzano gli atti di costruzione del mondo e dei suoi poteri. E percepire così chiaramente che questa COSTRUZIONE PRATICA, lungi dall’essere l’atto intellettuale cosciente, libero e deliberato di un “soggetto” isolato, è, invece, l’effetto di un potere, inscritto durevolmente nel corpo dei dominati sotto forma di schemi di percezione e di disposizioni (ad ammirare, rispettare, amare ecc.) che rendono sensibili a certe manifestazioni simboliche del potere (DOM, p. 46, maiuscoletto di N.-C. M; trad. it. pp. 50-51, leggermente modificata).

Si è visto che le «disposizioni sottomesse» non sono sempre provocate, ma ammettiamo che lo siano in certi contesti, come sul mio luogo di lavoro dove le donne si precipitano a lavare i piatti dopo le mangiate collettive. Ancorché il 99,9999% degli uomini si sia eclissato discretamente o discuta di teoria lì nei paraggi, ma non troppo vicino, non si vede per chi altro vengano lavati i piatti, e che ciò che è «impensabile» non è soltanto, simbolicamente, che i piatti possano essere lavati dagli uomini, ma concretamente, che non vengano affatto lavati. Si tratta di una delle «strutture oggettive» che provocano le disposizioni? Poiché le strutture oggettive a cui si riferisce il Candidato sono soprattutto «strutture cognitive», scorgo in quelle donne una struttura cognitiva che non dipende soltanto dall’inconscio simbolico.

Ma ancora, torniamo alla frase citata sopra. Se si sostituiscono i «non… che» con il loro equivalente più chiaro: «unicamente», si legge dunque che: coloro che subiscono il potere simbolico lo subiscono unicamente perché lo costruiscono come tale. Bisogna intendere che se i dominati non lo costruissero come potere, questo potere simbolico non avrebbe degli effetti, o non esisterebbe nemmeno? È vero che ci viene detto spesso che i dominati non possono non accordare la propria adesione al dominante (DOM, p. 41; trad. it. p. 45), ma tralasciamo questo problema per il momento, per soffermarci qui su una nuova simmetrizzazione. Se l’ordine del mondo (lo scambio di donne, la produzione e la riproduzione, etc.), come dice d’altronde l’autore, è costruito dagli uomini, che egli designa (per esempio a p. 50; trad. it. p. 54) come gli «agenti attivi», mentre le donne sono gli «agenti passivi», come si può sostenere che la dominata costruisce, anche «praticamente» ancorché inconsciamente, le strutture del «potere simbolico» — cognitive o di altro tipo? Voglio dire, come si può usare lo stesso termine per il dominante e per il dominato? Tanto più che (per esempio p. 48; trad. it. p. 52), tra le «strutture di cui queste disposizioni sono il prodotto», l’autore insiste in particolare sulla «struttura di un mercato dei beni simbolici la cui legge fondamentale è che le donne vi siano trattati come degli oggetti […]» (corsivi miei) [29]. Vi vedo ancora l’effetto di una riflessione insufficiente sul rispettivo rapporto al simbolico del dominante e del dominato — una semplice traslazione sul dominato (tramite trasposizione) del punto di vista dominante [30].

Il ricorso esclusivo al simbolismo dei sessi (alto/basso, dritto/curvo, esteriore/interiore, etc.) sembra d’altronde, in generale, particolarmente idoneo a produrre questi effetti di simmetrizzazione. È così per esempio che continuano a ragionare molti etnologi a proposito dell’escissione e della circoncisione in Africa, ratificando la versione di un vecchio saggio dogon: l’escissione e la circoncisione sarebbero simbolicamente comparabili e simmetrici, poiché la prima, con l’ablazione della clitoride, rimuoverebbe la mascolinità dalla ragazza e la seconda, con l’ablazione del prepuzio, leverebbe la femminilità al ragazzo. Ricerche più recenti hanno mostrato che il simbolismo nei due casi ruota intorno al potere maschile: conferma della virilità per i ragazzi e interdizione di innalzarsi al livello degli uomini per le ragazze, mentre il senso principale di questa pratica è di renderle «sposabili», vale a dire di porle sotto l’autorità di un uomo. Non c’è simmetria inversa, ma senso unico [31].

A proposito di senso unico, è anche ciò che afferma Bourdieu della circoncisione in Cabilia, «rito di istituzione della mascolinità per eccellenza», che crea «una separazione sacralizzante […] tra coloro che sono sociamente degni di riceverla e quelle che ne sono per sempre escluse, cioè le donne» (DOM, p. 30, corsivo dell’autore; trad. it. p. 34). Certo, l’escissione non esiste in Cabilia; non per questo è ammissibile non aver fatto la minima allusione alla rimozione non solo simbolica, ma fisica, di tutto o di parte del sesso (e ciò concerne più di cento milioni di donne nel mondo, tra cui la Francia) in un libro che, lo ripeto, si intitola IL dominio maschile e che si interessa di pratiche «mitico-rituali» e della… iscrizione del sociale nel corpo.

Bourdieu fa spesso riferimento al pensiero mitico e ai riti, che certamente dipendono dal simbolico, ma a partire da lì opera uno scivolamento verso l’«inconscio sociale», che egli privilegia tra i meccanismi di dominio. Ma miti e riti non dipendono solo dall’inconscio. Essi comportano spesso discorsi e pratiche chiaramente enunciate sulla necessaria disuguaglianza dei sessi e sull’obbligo di obbedienza per le donne.

Ho notato soltanto due volte la parola «oppressione» nel libro, ed essa non compare nell’indice (mentre una parola citata una volta sola, come agorafobia a p. 45, vi si trova) — mentre l’espressione «condizione femminile» appare almeno sette volte. Ricordiamo che questa espressione è scomparsa volontariamente da lustri nella letteratura femminista, precisamente nella misura in cui non dice nulla del rapporto tra le classi di sesso, esattamente come con il marxismo non si è potuto più parlare, come facevano Villermé o Le Play, di «condizione operaia» [32]. È tuttavia proprio il nostro candidato che rimprovera alle «femministe» (percepite come un insieme indifferenziato) di lasciarsi rinchiudere nella categoria «donne», difendendo in questo modo un «particolarismo» [33] — cosa che è in gran parte falsa, e che all’inizio fu (nell’espressione Women’s Studies) un riequilibrio necessario dell’attenzione su un oggetto/soggetto invisibilizzato, e non una chiusura su una categoria [34]. Infine, sono state create delle espressioni generalizzanti appunto per esprimere l’aspetto relazionale, dialettico, delle categorie in questione: sessismo [35], sistemi di sesso/genere (Rubin, nel 1975), sessaggio (Guillaumin, nel 1978), rapporti sociali di sesso, etc. — ma tutto ciò senza dubbio non è sufficientemente distinto per l’autore di La distinzione. Egli arriva addirittura, esprimendosi «in maniera più relazionale», a parlare di «rapporti tra i generi» (p. 124, corsivo mio) — senza arrivare ai rapporti sociali di genere (gender relations), espressione diventata corrente nella ricerca.

Notiamo ancora, come segno di ignoranza del «femminismo», questa frase: «[…] la rivoluzione simbolica evocata dal movimento femminista non può ridursi a una semplice conversione delle coscienze e delle volontà» (DOM, p. 47, corsivo mio; trad. it. p. 52). Il minimo che si possa dire è che non si tratta della «rivoluzione» principale evocata dai movimenti femministi! Non è sul corpo simbolico o simbolizzato, ma sul corpo fecondato dagli uomini che si è fatta e continua a farsi in tutto il mondo la lotta principale delle donne. Un solo gruppo in Francia [36] si è interessato fin dall’inizio a una rivoluzione «simbolica», e ciò avvenne sulla base di una concezione essenzialista della donna e dell’uomo, concezione che il Candidato ha respinto, dopo di noi [37], nel 1990 (ACT, nota 4), riferendosi a «teoriche femministe che si ispirano alla psicoanalisi, sia pure negativamente» — e dicendo che «il [sic] discorso femminista cade molto spesso nell’essenzialismo», con esempi tratti da Irigaray e da Kristeva a suffragio. Questi riferimenti vengono soppressi nel libro Il dominio maschile (qualcuna deve avergli fatto notare il problema). Ma il riferimento alla «rivoluzione simbolica» è rimasto… Sembra tuttavia che il Candidato non abbia compreso alcunché, perché ecco che, senza dubbio per prendere posizione, usa ora (DOM, p. 70; trad. it. p. 77) l’espressione «alcune fautrici della scrittura femminista» (?) per denunciare l’essenzialismo (la scrittura femminile avendo fatto parte, fra le altre, delle idee del gruppo nominato in precedenza e ora rinnovato dalle premure indifferenti del Candidato). Notiamo ancora la sua scoperta migliore: pare che esista un «femminismo detto universalista [che] ignora l’effetto di dominio, e tutto ciò che l’apparente universalità del dominante deve alla propria relazione con il dominato — qui tutto ciò che ha a che fare con la virilità […]» (DOM, p. 69, corsivo mio; trad. it. p. 76). Di ki ki koz? ha detto Zazie che ci perde il suo latino. Quanto ai mezzi originali che il Candidato vedrebbe per fare la (sua) rivoluzione simbolica degli schemi inconsci, non li ho colti.

Scheda di presentazione del libro L’anatomie politique 1991 (Archives FMSH, fonds Nicole-Claude Mathieu)

III. DEL PESANTE FARDELLO DELL’UOMO

Un altro aspetto insidioso della simmetrizzazione è che, secondo Bourdieu, le due categorie sono, sia pure diversamente, dominate dalla dominazione (secondo l’espressione di Marx, dice lui), poiché essa genera in entrambe, a partire dagli stessi schemi dell’inconscio, delle disposizioni, un habitus, etc. «La struttura impone i suoi vincoli ai due estremi del rapporto di dominio» (p. 82; trad. it. p. 83). Ma il Candidato, si sarà capito, è interessato al dominio maschile, e non allo stesso modo all’oppressione delle donne [38]. Ne segue logicamente che ciò che lo preoccupa è l’uomo, cioè se stesso, sempre e ancora, e dunque i comportamenti femminili che lo confortano, e non l’esperienza contraddittoria delle donne. Come dice Michèle Causse:

L’androletto è in effetti un soliloquio. È la produzione mentale, diciamo la patologia linguistica dell’andros che, vittima di un’incrinatura originaria, si è elevato a locutore unico e non ha altro interlocutore che se stesso. Ancor prima di parlare, una donna nell’androcrazia è “interloquita”, nel doppio senso di interdetta-interrotta [39].

Trattandosi di «vincoli» e di «formidabili esigenze» (l’espressione non sarà mai usata per le donne) imposte ai dominanti stessi dalla dominazione di cui beneficiano, leggiamo: «occorre quindi analizzare, nelle sue contraddizioni, l’esperienza maschile del dominio […]» (DOM, p. 76, corsivo mio; trad. it. p. 83), grazie al personaggio del padre in Al faro di Virginia Woolf: il signor Ramsay, preso tra la sua alta opinione di se stesso, la necessità di realizzare il suo ruolo ideale maschile, intellettuale e paterno, e le sue bambinate. «Il fatto che, tra i giochi costitutivi dell’esistenza sociale, quelli considerati seri siano riservati agli uomini […] contribuisce a far dimenticare che l’uomo è anche un bambino che gioca all’uomo» (DOM, p. 82, corsivo mio; trad. it. p. 90). Gli uomini, essendo «designati molto presto, soprattutto attraverso i riti di istituzione, come dominanti […sorvolo sulla parte in latino], hanno il privilegio a doppio taglio di darsi ai giochi di dominio» (ibid.).

Sia pure! Sebbene… torneremo subito sulle «contraddizioni». Ma sul doppio taglio, ci piacerebbe aggiungere che uno dei tagli (la tirannia maschile che si abbatte sulle donne) è nettamene più remunerativo di quanto l’altro (la difficoltà di essere uomo) sia tagliente. Quanto al rischio di «dimenticare che l’uomo è anche un bambino che gioca all’uomo», o di dimenticare «quella specie di sforzo disperato, e alquanto patetico nella sua incoscienza trionfante, che ogni uomo deve compiere per essere all’altezza della sua idea infantile dell’uomo» (DOM, p. 76; trad. it. p. 83), mi sembra che l’80% delle produzioni letterarie e cinematografiche maschili non abbiano smesso di ripeterci quanto sia difficile diventare ed essere un «uomo». E se si vuole ricorrere a degli specialisti, senza parlare della psicoanalisi, la letteratura etnologica è letteralmente invasa da descrizioni e interpretazioni dei rituali e delle diverse esperienze psico-sociologiche che i giovani uomini devono subire per essere separati dal mondo delle donne e raggiungere l’ideale di virilità. I rituali che obbligano le ragazze a «restare» nel mondo delle donne, certamente meno numerosi e spesso meno elaborati, di solito vengono studiati pochissimo. Quanto all’esperienza psico-sociologica delle donne, nel loro rapporto con se stesse e con la femminilità imposta, essa non ha interessato quasi nessuno, a parte le femministe — tra cui Virginia Woolf, per tornare all’oggetto della nostra discussione.

Virginia Woolf – To the Lighthouse, 1927

Ma attenzione, il Candidato, alias Servizio di informazioni stradali, ci comunica le vie traverse da seguire (le sue) per non ingolfarsi stupidamente in una fiumana di pecore. Ecco una delle sue proposizioni più insultanti:

Occorre quindi analizzare, nelle sue contraddizioni, l’esperienza maschile del dominio, prendendo come guida Virginia Woolf, ma NON TANTO L’AUTRICE DI QUEI CLASSICI DEL FEMMINISMO da tutti citati che sono Una stanza tutta per sé […] o Le tre ghinee […], quanto la scrittrice di Al faro che, grazie probabilmente all’anamnesi favorita dal lavoro di scrittura […], propone un’evocazione delle relazioni tra i sessi LIBERATA DA TUTTI I CLICHES SUL SESSO, IL DENARO E IL POTERE che i suoi testi più teorici ancora comportano (DOM, p. 76; maiuscoletto mio; trad. it. pp. 83-84).

Ci si potrebbe domandare com’è che l’anamnesi dell’infanzia borghese nel lavoro di scrittura di François Mauriac (che per di più è insospettabile di femminismo [40]) non gli abbia impedito di scrivere quel «cliché» sul sesso, il denaro e il potere costituito dal personaggio di Thérèse Desqueyroux, che è una delle più belle evocazioni della reclusione delle donne:

Si alzò, aprì la finestra, sentì il freddo dell’alba. Perché non fuggire? Solo quel davanzale da scavalcare. […] Già Thérèse trascina una poltrona, l’accosta alla finestra. MA NON HA DENARO; POSSIEDE INUTILMENTE MIGLIAIA DI PINI: non può riscuotere un franco senza la mediazione di Bernard [suo marito] (Mauriac [1927] 1989, p. 115; maiuscoletto mio; trad. it. p. 102).

Se, di Al faro [41], Bourdieu ha ben compreso il personaggio del signor Ramsay e il suo egotismo tipicamente maschile, che ne è della signora Ramsay? Aggrappandosi sempre al suo schema maschile/femminile // alto/basso // dritto/curvo, etc., egli ha scelto di ricordare, del personaggio, soltanto ciò che conforta la sua tesi sulle «disposizioni subalterne» (affettive e corporee). Ora, se c’è qualcuno che non sembra aver affatto «incorporato» la passività e la tendenza a curvarsi, è proprio lei. È lei a porre le vere questioni metafisiche, e a questo livello manifesta la sua dirittura. La signora Ramsay non è tutta raccolta nell’attenzione e nella «lucidità inquieta e indulgente» (DOM, p. 76; trad. it. p. 84) verso suo marito, che Bourdieu privilegia. Ella tenta di creare un’armonia di cose e di persone, che è in effetti il compito delle donne e della padrona di casa che è, ricevendo degli invitati, ma spesso lascia la casa per le sue faccende, di cui non informa nessuno, e anche lì parte, ben diritta. Quanto alla «curvatura», l’inclinazione della testa, il silenzio davanti alle idiozie di suo marito, quello che Bourdieu non ha ricordato, tra le altre cose, sono le numerose annotazioni nel romanzo sulla sua stanchezza [42]. Egli non ha nemmeno voluto capire il personaggio di Lily Briscoe, pittrice nubile, ribelle alla presenza greve del signor Ramsay e affascinata dalla signora Ramsay (ancorché seccata dai suoi tentativi di fare sposare tutti quanti e dalla sua debolezza verso il marito) — Lily che è il contrappeso o il contrappunto (e non il contrario) della signora Ramsay, vale a dire che i due personaggi sovrapposti restituiscono l’armonia (o piuttosto la disarmonia) d’insieme dell’esperienza delle donne.

Ricordare delle «donne» unicamente quel che si presta a mostrare che esse «aderiscono» agli schemi degli uomini (o che sono delle puttane, e non è il caso di Bourdieu, ma di altri) è molto classico. Non meno classica, ma a mio parere insufficientemente sottolineata, è l’eliminazione delle ragazze da una quantità di riflessioni sulle «dooonne», quale che sia il campo, «scientifico» o letterario [43]. Ne è una prova ulteriore la rapida presentazione del romanzo, «ridotto a un riassunto scolastico» (ACT, p. 22, soppresso in DOM), fatta dal Candidato. Abbiamo letto, relativamente alla fine del romanzo, che dieci anni dopo la morte della signora Ramsay suo marito infine intraprende la gita al faro, con suo figlio. In realtà, il signor Ramsay è accompagnato da un figlio (James) e da una figlia (Cam). Da un punto di vista «scolastico», il riassunto era già da valutare come «cattivo», dato che aggiungere «e sua figlia» (dodici caratteri spazi inclusi) a «con suo figlio» non avrebbe allungato molto il testo. Ma non è questo il problema principale. Per comprenderlo, occorre sapere che nella sua analisi della resistenza dei bambini in generale all’obbligo di sottomettersi ai diktat paterni, non viene citata che la resistenza interiore di James (DOM, p. 79; trad. it. p. 87). Ora, alla fine del romanzo, sulla barca che li conduce al faro, non solo Cam e James — legati da un patto contro il loro padre: «resistere alla tirannia fino alla morte» (V.W., p. 221, 227 e altrove; trad. it. p. 148) — gli oppongono entrambi un silenzio feroce, ma mentre James teme che lei finisca per capitolare come le donne, perché una volta ha risposto a una domanda di suo padre (V.W., p. 225-227; trad. it. pp. 150-151), Cam, cosciente dell’affetto che nonostante tutto nutre per lui, si dice guardando James: «Tu non sei esposto a questa passione, a questo conflitto di sentimenti, a questa straordinaria tentazione» (V.W., p. 228; trad. it. p. 153). Woolf, attraverso la ragazza, ci fa vedere la coscienza che le donne hanno di essere divise, la coscienza delle contraddizioni. Ma di più: Cam osserva in suo fratello, a cui (naturalmente) è stato affidato il timone, la stessa ricerca maschile di approvazione che Woolf descriveva nel signor Ramsay: «Suo padre l’aveva apprezzato. Dovevano credere che lui era perfettamente indifferente. Ma l’hai ottenuto, pensò Cam» (V.W., p. 274-275; trad. it. p. 183).

Se il Candidato si fosse veramente interessato all’esperienza delle donne, e avesse fatto il confronto tra le due categorie, avrebbe forse rinunciato a parlare di «contraddizioni» trattando della classe degli uomini. Quale che sia la società in questione, se c’è dominio maschile, il problema degli uomini è quello di un adattamento tra capacità socio-individuali e ideale dell’Io virile implicato dall’ideale sociale della virilità, che è anche il modello ideale dell’umano. Il problema delle donne consiste effettivamente nelle contraddizioni tra l’imposizione (e non solo simbolica né inconscia) di una personalità individuale e sociale ridotta e determinata in minore umanità, e il sentimento della propria «umanità» e libertà, della propria indeterminazione [44]. Perché nessun essere umano — fosse pure nelle peggiori condizioni di oppressione o di degradazione imposta — può non pensare se stesso.

Le dominate non fanno che piegarsi allo schema inconscio di se stesse e dei dominanti che il sistema procura loro. E non hanno bisogno di essere intellettuali di alto livello per cogliere, se non teorizzare, che qualcosa non va, non fosse che di fronte al disprezzo, agli insulti, alle percosse e alle limitazioni della loro esistenza [45]. Basta paragonare, all’interno di una stessa area culturale, la lotta contro la loro oppressione di donna e contro le strutture sociali, di Phoolan Devi, piccola contadina analfabeta di bassa casta mallah nell’Uttar Pradesh induista e quella di Taslima Nasreen, borghese istruita del Bangladesh, di famiglia musulmana [46]. Due coscienze all’opera, in condizioni sociali che non potrebbero essere più opposte.

IV. SIMBOLICO, COSCIENZA, RESISTENZA

Tutte le donne hanno coscienza, prima o poi, della loro negazione o della loro umiliazione in quanto persone. La questione non riguarda solo l’inconscio simbolico delle donne, ma il disturbo permanente instaurato dall’oppressione e le condizioni sociali che permettono una resistenza efficace, pensata collettivamente.

Perché se Bourdieu si meraviglia che non ci siano più «trasgressioni, sovversioni, delitti e “follie”», poniamo, sulla piazza della Bastiglia o della Concordia, grazie allo «straordinario accordo di migliaia di disposizioni — o di volontà» che rispettano i simboli (codici di circolazione), bisogna pur sapere che ci sono molti incidenti nonostante il codice di circolazione e di uso delle donne. Le minime resistenze delle donne provocano in effetti degli «incidenti», ma di cui loro sono le uniche vittime e i più frequenti dei quali sono le percosse e le ferite. Dal momento in cui le donne si spostano di un millimetro dal posto (simbolico?) che viene loro concretamente imposto, si deve prevedere la loro uccisione. Bourdieu dice che le condizioni sono cambiate in Cabilia. Lascio agli specialisti la cura di rispondere. Ma è informato della quantità di suicidi di ragazze [47] nell’Algeria «moderna», dove viene mantenuto in maniera del tutto consapevole dall’assemblea degli uomini e contro il parere dei movimenti delle donne un «codice» di famiglia che non ha nulla della violenza simbolica dolce e invisibile che gli interessa? Sa che nell’Afghanistan dei Talebani che applicano alla lettera e con la forza il simbolismo «donna=interno / uomo=esterno», delle donne si suicidano o, secondo testimonianze recenti, escono per la strada urlando, letteralmente colte da «follia» [48]? Follia che è una forma di coscienza.

Bourdieu mi rimprovera [49] (DOM, pp. 46-47; trad. it. p. 52) di non aver saputo abbandonare il «linguaggio della coscienza» nel mio articolo L’Arraisonnement des femmes sulla coscienza dominata delle donne e le interpretazioni che ne vengono date. Diciamo rapidamente che non ho utilizzato la parola «coscienza» né in uno dei numerosi sensi filosofici né in senso psicoanalitico, ma per essere compresa da ciascuna. In effetti, contrariamente alla maggior parte degli scritti del Candidato, che, terribilmente tortuosi, sono accessibili esclusivamente ai suoi pari in «capitale culturale» (e, ancora, alla condizione di non addormentarsi), la maggior parte degli scritti femministi, anche quelli specialistici, hanno avuto dall’inizio dei movimenti femministi e dei Women’s Studies, la volontà di essere condivisi dal numero più grande possibile di donne. E se ci fosse bisogno di rifugiarsi sotto l’ala di un grand’uomo, ci si potrebbe riferire a Freud stesso, che evocava la coscienza come «un fatto senza equivalenti che non si può spiegare né descrivere […]. Tuttavia, quando si parla di coscienza, ciascuno sa benissimo, in base alla propria esperienza più intima, che cosa si intende» [50].

Per un verso, ho parlato anche dell’invasione dell’inconscio delle donne per effetto della loro situazione oggettiva di subordinazione agli uomini, e della strutturazione dell’Io che ne scaturisce — precisamente a partire da uno studio di Sarah LeVine (1982) sui sogni di ragazze Gusii, nel sud-ovest del Kenya —, e anche della strutturazione della personalità dei dominati tramite la paura, che non è per forza cosciente. Per altro verso, questo orientamento sulla coscienza era necessario nella misura in cui il testo voleva rispondere in parte alle affermazioni di Maurice Godelier (1982) sul consenso dei dominati alla dominazione, che sarebbe «più forte» della violenza dei dominanti. Ma lasciamo stare. Bourdieu non vuole «ripetere» gli altri, io non voglio ripetermi.

Di fatto, non parliamo della stessa cosa. Bourdieu si riferisce agli effetti materiali del simbolico (incorporazione) — dove d’altra parte nulla prova che sia soltanto il simbolico in gioco — e io agli effetti, nella coscienza e nell’inconscio, delle costrizioni materiali, fisiche e psicologiche. Non ho spinto, dice lui, «fino in fondo l’analisi delle limitazioni delle possibilità di pensiero e di azione che il dominio impone alle oppresse» (p. 47, corsivo di P. B.; trad. it. p. 52). Non ne dubito. Ma l’enfasi che, all’inverso, egli pone sulle strutture inconsce non permette di comprendere le resistenze, individuali e ancor meno collettive. Le femministe — e con questa parola non intendo soltanto i movimenti che si designano così, ma ogni donna che resiste —, le femministe cadono dal cielo? Mi sembra che il compito più urgente sia quello di approfondire l’analisi delle diverse forme di resistenza al sistema da parte delle donne, e dei meccanismi di resistenza degli uomini a queste resistenze.

È interessante confrontare oggi i rispettivi argomenti dei due autori. In Maurice Godelier trovavamo un’attenzione ai soggetti-donna e un riconoscimento esplicito della violenza concreta che possono subire da parte degli uomini; ma, poiché esse «acconsentono al loro dominio», «condividendo» la visione maschile dei rapporti tra i sessi, gli uomini non devono darsi troppa pena per stabilire il loro potere (a parte una minaccia di violenza che si profila «all’orizzonte»). L’autore riteneva che il dominio maschile fosse preterintenzionale, e si aveva quasi l’impressione di un’accettazione quasi intenzionale da parte delle donne. Ho tentato di mostrare, fra le altre cose, che il suo ragionamento era di fatto basato su una simmetrizzazione delle due categorie, sul modello di un contratto come questo può esistere tra pari, tra uguali, e di cui ciascuno conosce i termini; ma ho mostrato anche che le donne non hanno conoscenze uguali a quelle degli uomini, né sulla società né sulla concezione (specialmente mitica e rituale) dei sessi. In breve, in Maurice Godelier, le donne erano costruite come «troppo-soggetti», troppo coscienti si potrebbe dire.

In Bourdieu, troviamo un’attenzione maggiore al soggetto-uomo, con un grande interesse per le sue sofferenze, che egli attribuisce a torto a una serie di contraddizioni mentre si tratta di un problema di adattamento, trascurando contestualmente l’effetto di disturbo che le contraddizioni reali dell’esperienza comportano per le donne. Anche lui tiene a dire, in forme diverse, che non c’è un complotto maschile intenzionale, cosa facile dal momento che insiste principalmente sull’incorporazione da parte dei due sessi degli schemi inconsci del dominio maschile. Tuttavia, abbiamo visto gli stessi effetti di simmetrizzazione delle due categorie, i quali conducono a insinuare che le donne costruiscono la loro oppressione tanto quanto gli uomini costruiscono il dominio, ma nell’incoscienza.

Per Godelier le donne «acconsentono», per Bourdieu le donne «aderiscono», perché in entrambi i casi si suppone che le conoscenze siano comuni e simili:

La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che il dominato NON PUO’ NON ACCORDARE al dominante (quindi al dominio) quando, per pensarlo e per pensarsi, o meglio, per pensare il suo rapporto con il dominante, DISPONE SOLTANTO di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata del rapporto di dominio, fanno apparire questa relazione come naturale […]. (DOM, p. 41, maiuscoletto mio; trad. it. p. 45).

Le donne sono «troppo-soggetti» in Godelier, mentre sono «extra-soggetti» per Bourdieu. Che esse siano fuori tema (non sanno trattare il loro soggetto di studio e di lotta), è in ogni caso ciò che pensa Bourdieu delle femministe. Mi vedo ancora obbligata a segnalare un’altra maniera che ha il Candidato di deformare e caricaturizzare la riflessione dei movimenti femministi, caricatura di cui si trova un’eco nel suo attacco alla «filosofia della coscienza»:

Se è vero che, anche quando SEMBRA [notare il termine] fondato sulla forza nuda, quella delle armi, o del denaro, il riconoscimento del dominio presuppone sempre un atto di conoscenza, ciò non significa affatto che si abbia ragione di descriverlo nel linguaggio della coscienza, in una prospettiva intellettualistica e scolastica che, come in Marx (e soprattutto coloro che, seguendo Lukács, parlano di “falsa coscienza”) porta ad attendersi l’affrancamento delle donne dall’EFFETTO AUTOMATICO della “presa di coscienza”, ignorando, in mancanza di una teoria disposizionale delle pratiche, l’opacità e l’inerzia che risultano dall’inscrizione sociale nel corpo [51]. (DOM, p. 46, maiuscoletto mio; trad. it. p. 51).

Se c’è qualcuno che sa che la presa di coscienza non ha «effetto automatico», sono proprio le dominate in lotta! Altrove nel libro (DOM), le femministe, nell’incapacità in cui si trovano di condurre la loro lotta senza mentore, vengono attaccate in termini più diretti, specialmente a proposito dei «gruppi di coscienza» all’esordio del movimento, che sono ricondotti dall’autore a una sorta di individualismo inefficace. Il mentore non ha dovuto fare molta militanza, quale che sia, se non sa che il debutto di un movimento collettivo, l’unico che possa dispiegare un’efficacia nel futuro, ha bisogno di individui che si parlano. Pare che, parlando di donne, Bourdieu sia regredito in rapporto alle sue riflessioni precedenti. Così si poteva leggere nel 1980:

Nella lotta ideologica tra gruppi (classi di età o classi sessuali, per esempio) o tra le classi sociali per la definizione della realtà, alla violenza simbolica, come violenza misconosciuta e riconosciuta, dunque legittima, SI OPPONE LA PRESA DI COSCIENZA dell’arbitrio, che spossessa i dominanti di una parte della loro forza simbolica abolendo il misconoscimento (maiuscoletto mio) [52].

Pare anche, parlando di donne nel rapporto uomini/donne, regredire rispetto alle sue posizioni più tarde, cioè l’Appendice attuale a Il dominio…:  «Qualche questione sul movimento gay e lesbico», movimento al quale dà più credito che al movimento femminista, che non cessa di attaccare bassamente nel libro. Sembra che Bourdieu si indirizzi al movimento omosessuale (principalmente maschile) per apportargli i suoi consigli e al movimento femminista per chiudergli la bocca [53]. Niente di stupefacente in questo. I movimenti gay misti dis-locano la questione dell’eterosessualità sociale concentrandosi sulla sessualità; una parte dei movimenti femministi e lesbici non misti colloca il sistema dell’eterosessualità obbligatoria e l’organizzazione della riproduzione al cuore dell’oppressione delle donne, e questo è più minaccioso.

Nicole-Claude Mathieu – Illustrazione di Agnes Ricart

V. DELL’AMORE

Veniamo all’amore. Il Candidato vi si riferisce nel post-scriptum (ancorché giudicandolo quasi impossibile), proprio come Lévi-Strauss equivocava/invocava, malgrado lo scambio di donne tra uomini, la ricchezza eterna e misteriosa delle relazioni affettive tra i sessi (apparentemente credendoci). Si tratta, pare, dell’ultima risorsa/speranza degli uomini che constatano l’esistenza del dominio maschile. Richiamiamo questa frase, «incessantemente citata» come direbbe Bourdieu, di Lévi-Strauss:

Ma la donna non poteva divenire solo ed esclusivamente un segno: in un mondo di uomini essa è in ogni caso una persona e nella misura in cui la si definisce come segno ci si obbliga a riconoscerla come produttrice di segni. Nel dialogo matrimoniale tra gli uomini, la donna non è mai soltanto ciò di cui si parla: se da un punto di vista generale, le donne rappresentano infatti una certa categoria di segni destinati ad un certo tipo di comunicazione, tuttavia ogni donna conserva un suo valore particolare che nasce dalla sua capacità, prima e dopo i matrimonio, di svolgere la sua parte in un duo. Al contrario della parola, che è divenuta integralmente segno, la donna dunque, pur facendosi segno, è restata anche valore. Così si spiega che le relazioni tra i sessi abbiano conservato quella ricchezza affettiva, quel fervore e quel mistero che senza dubbio hanno originariamente impregnato di sé tutto l’universo delle comunicazioni umane [54].

L’amore è misterioso e la donna è valore, sempre per gli uomini, è ben noto [55]. Ma torniamo a Bourdieu:

L’ “amore puro” […] invenzione storica relativamente recente […] è certo assai raro nella sua forma più compiuta […]. Eppure esiste, malgrado tutto, SOPRATTUTTO NELLE DONNE, tanto da essere eretto a norma, o a ideale pratico, degno di essere perseguito in sé e per le esperienze d’eccezione che procura (DOM, p. 118, maiuscoletto mio; trad. it. p. 128).

Seguono degli enunciati lirici sulla «sospensione della lotta per il potere simbolico suscitata dalla ricerca del riconoscimento e dalla tentazione correlativa di dominare» (corsivo mio), etc. Dunque, l’amore “puro” esiste ai nostri giorni quel tanto che basta per essere eretto a norma (il sentimento produce la norma…?), e poiché esiste «soprattutto nelle donne», se ne deve concludere che sono le donne a produrre questa norma? Bizzarro, per delle dominate. È un altro dei misteri della donna, senza dubbio.

Inoltre, poiché questo sentimento esiste soprattutto nelle donne (il che è vero), il Candidato non pone più la questione. Come per il simbolismo, o piuttosto la simbolica dei sessi, esso sembra cadere dal cielo con lo Spirito Santo. Tuttavia (p. 73, nota 13; trad. it. p. 81) egli aveva notato un legame con le «strutture oggettive» del dominio:

Se le donne sono particolarmente interessate all’amore detto romantico, lo si deve al fatto che hanno interesse a esserlo: oltre a promettere di affrancarle dal dominio maschile, l’amore offre loro, sia nella forma più comune, con il matrimonio, in cui, nelle società maschili, circolano dal basso verso l’alto, sia nelle forme straordinarie, una via, spesso l’unica, di ascesa sociale [56].

Il guaio è che l’amore è rapportato soltanto a un interesse… quello delle donne, senza che ci venga detto che avere una moglie con il pretesto dell’amore è soprattutto interesse degli uomini (che pur essendo sposati possono garantirsi un’indipendenza sessuale ed esistenziale).

Il fatto è che sotto il sentimento dell’«amore puro» che è inculcato alle donne, si nasconde un’ingiunzione all’amore che maschera la dipendenza strutturale nei confronti degli uomini. La dipendenza economica delle donne e la loro prestazione a senso unico di servizi domestici e affettivi persiste attualmente nelle società occidentali, malgrado i progressi giuridici in altri campi. (È il motivo per cui Bourdieu ha torto nel dire che la famiglia non è più la sede principale del dominio maschile). La semplice constatazione statistica del lasso di tempo, molto più breve per gli uomini che per le donne, oltre il quale ci si risposa o si allaccia una relazione di coppia dopo un divorzio o una vedovanza [57] indica che nell’esperienza l’amore non era così puro, né per gli uomini, né per le donne. Certi uomini provano di fatto amore per la nuova compagna, ed è un doppio beneficio. Altri dicono schiettamente che serve qualcuna che si occupi di loro. Molte donne divorziate non si risposano, anche se alcune continuano a credere all’Amore coniugale [58]. Altre sono realiste come gli uomini; come diceva una donna in lutto per il marito deceduto: «Un uomo che portava a casa [X franchi] al mese…».

Che cos’è la norma dell’amore eterosessuale per le donne, in situazione di oppressione? Già da molto tempo analisi femministe e lesbiche all’interno del movimento si sono poste la questione, perché la grande differenza tra l’oppressione di classe sociale e l’oppressione di classe di sesso è, nel secondo caso, il corpo a corpo obbligatorio tra l’oppressa e il suo oppressore [59]. Obbligatorio in due sensi: richiesto dalla definizione stessa dei «sessi come complementari» e implicante un dispositivo serrato di controllo sociale. Gayle Rubin (1975) analizzando l’articolo di Lévi-Strauss sulla famiglia (1956) — in cui quest’ultimo, insistendo sul carattere artificiale della famiglia, vede nella divisione del lavoro «un mezzo per creare tra i sessi una mutua dipendenza, sociale ed economica […] conducendoli in quel modo a riprodursi e a fondare una famiglia» —, concludeva (già) che Lévi-Strauss non era lontano dal dire che l’eterosessualità, lungi dall’essere naturale, fosse istituita… Ma questa norma pratica dell’amore nel matrimonio (o bisognerebbe dire dell’amore malgrado il matrimonio) non è soltanto il prodotto di «schemi inconsci». Essa è anche scientemente (e commercialmente) mantenuta. «Soprattutto nelle donne», eh sì. Ed è l’oggetto dell’interrogazione del libro di Pascale Noizet, L’idée moderne d’amour. In questa tesi di sociosemiotica [60], Noizet mostra che a partire dal XVIII secolo il matrimonio non è più trattato nella letteratura come una convenzione sociale più o meno soddisfacente, né l’amore come una sfida alle costrizioni della società (Romeo e Giulietta). Ma che l’amore è ormai considerato come un rapporto tra due individui sessuati in conflitto. Dal romanzo psicologico del XVIII secolo alla letteratura popolare del XIX e del XX secolo, e specialmente i romanzi rosa Harlequin, la risoluzione del conflitto si produrrà attraverso la «malattia d’amore» che infine raggiunge miracolosamente («come per incanto», direbbe Bourdieu) l’eroina (e lei soltanto) malgrado le sue precedenti reticenze, e la conduce a «scegliere» il matrimonio. I romanzi rosa, stampati in milioni di esemplari in tutte le lingue, sono dei romanzi d’amore popolari, scientemente destinati alle donne, e la maggior parte delle autrici sono anch’esse donne. Attualmente integrano addirittura una sorta di problematica «femminista» nell’eroina, ma la risoluzione finale del conflitto psicologico è sempre la stessa per la donna: l’amore [61]. Così le donne possono, nell’amore «romanzesco» in cui vengono trattenute per «risolvere» le contraddizioni che potrebbero avvertire, trovare al tempo stesso un’eco dei loro problemi con gli uomini e la garanzia che l’«amore» li trasformerà.

Non era questo il parere di Lily Briscoe, in pieno conflitto psicologico, anche lei (proprio come Cam nei confronti di suo padre). Lily ha appena pensato all’«umiliazione», all’«indebolimento spirituale» che le sembra provocare il matrimonio, a cui «lei non è obbligata»:

[…] sentimenti violentemente opposti […] battagliavano nella sua testa […] È così bello, così eccitante, l’amore, che al suo orlo io tremo […] nove persone su dieci, se richieste, avrebbero risposto che non volevano altro; MENTRE LE DONNE, a giudicare dalla sua esperienza, da parte loro, SENTIVANO PIUTTOSTO CHE NO, NON E’ QUESTO CHE VOLEVANO, non c’è niente di più noioso, puerile e disumano dell’amore. Eppure è anche meraviglioso e necessario. E allora, e allora? [62]

Ho affrontato, certo, solo alcuni dei numerosi punti criticabili del saggio di Bourdieu. Che dire in fin dei conti de Il dominio maschile? Che è un libretto fitto e soffocante; non graffierà gli uomini, ma confonderà un po’ di più, ce ne fosse bisogno, la coscienza delle donne. Una confusione che assomiglia molto a un imbroglio. Per alleviare la mia collera, avrei dovuto scegliere come titolo: «Bourdieu o la dotta ignoranza» [63].

«L’oppressore non intende ciò che dice il suo oppresso come un linguaggio, ma come un rumore. È nella definizione dell’oppressione».

Christiane Rochefort [64]

Ringrazio per gli scambi di vedute Christine Arnault, Michèle Causse, Danielle Charest, Michèle Gerlier, Liliane Kandel, Anne Le Gall e Annie Le Palec.




NOTE

(*) N. C. Mathieu, Bourdieu ou le pouvoir auto-hypnotique de la domination masculine, in Ead., L’anatomie politique II. Usage, déréliction et résilience des femmes, La Dispute/SNÉDIT, Paris 2014, pp. 53-89. Il testo è una versione leggermente modificata del testo pubblicato su «Les Temps Modernes», n. 604, mai-juin-juillet 1999, pp. 286-324. Il «potere ipnotico del dominio» è un’espressione di Virginia Woolf, citata con ammirazione da Bourdieu.

[1] Si tratta della riedizione, grazie al sostegno dell’Associazione nazionale di studi femministi, di due studi fondamentali dell’antropologa italiana: Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», XIX, 3-4, 1979, pp. 5-61 e Fertilité naturelle, reproduction forcée, in N.-C. Mathieu (dir.), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes, Editions de l’EHESS, Paris 1985, pp. 61-146.

[2] Citiamo a proposito di questo libro il bollettino n. 6 (giugno-luglio-agosto 1998) delle edizioni L’Harmattan: «[…] questo saggio intende rispondere a un duplice interrogativo: come e perché i soggetti minoritari, e le donne in particolare, se talvolta prendono la parola nel campo mediatico creando i propri giornali, non riescono a conservarla? Come e perché i media mainstream non danno conto del punto di vista dei soggetti minoritari, in particolare degli eventi che li riguardano?».

[3] Nel suo libro documentato, aspro e spesso molto divertente, Jeanine Verdès-Leroux nota: «È molto imprudente in una conclusione riferirsi all’ultima produzione di Pierre Bourdieu: poiché egli pubblica tutto ciò che dice, rischio nelle prossime tre o quattro settimane di inciampare su un nuovo piccolo tomo…». Eccolo. (Dispiace d’altronde che l’autrice non abbia ritenuto necessario includere nella sua critica l’articolo del 1990).

[4] «La domination masculine», Actes de la recherche en sciences sociales (citato infra con l’abbreviazione ACT); e La domination masculine (citato infra con l’abbreviazione DOM). [Per la traduzione italiana di DOM il riferimento è Il dominio maschile, trad. it. di Alessandro Serra, Feltrinelli, Milano 2009].

[5] Cinque interviste a Bourdieu su Télérama, dal n. 2532 al 2536 (dal 25 luglio al 22 agosto 1998). Lettere dei lettori e commenti nei numeri dal 2536 al 2538. Queste interviste erano state precedute, a beneficio di un pubblico forzatamente più ristretto, dall’anticipazione del Preambolo del libro su Le Monde diplomatique, n. 533, agosto 1998. I redattori del giornale, suppongo, avevano messo come cappello introduttivo in maiuscolo: «La lotta femminista al cuore delle battaglie politiche». Forse non avevano letto il seguito? 

[6] O come Nos dommages et leur intérêts, titolo dato da Monique Plaza (1978) alla sua analisi della giustificazione dello stupro in Michel Foucault. Cfr. https://manastabalblog.wordpress.com/2018/11/14/i-nostri-danni-e-i-loro-interessi/.

[7] «Arma da getto […] che ritorna al proprio punto di partenza se l’obiettivo è mancato» (Le Robert, corsivo mio). Non so se la definizione sia giusta, ma si applica al caso in esame.

[8] Nella sua analisi del personaggio del signor Ramsay in Virginia Woolf, su cui torneremo, Bourdieu parla dell’«avventura intellettuale» come di qualcosa  che permette di conseguire un capitale simbolico di celebrità (ACT, p. 23). In ogni caso, la dura avventura intellettuale delle femministe non ha né questo risultato, né soprattutto questo scopo.

[9] Cfr. Colette Guillaumin, «De la transparence des femmes. Nous sommes toutes des filles de vitrières» (1978).

[10] Esempio di insulto diretto: uno dei miei colleghi, dopo che avevo fatto una comunicazione sull’oppressione generalizzata delle donne a un colloquio di antropologia: «Allora, hai tirato ancora fuori il tuo marchingegno?». È da notare che l’ambiente «scientifico» francese è uno dei più misogini e antifemministi dei paesi occidentali.

[11] Secondo Bourdieu, «[…] anche se non vogliamo certo attribuire agli uomini strategie organizzate di resistenza, possiamo supporre che la logica spontanea delle operazioni di cooptazione […] affondi le sue radici in un’apprensione confusa, e fortemente pervasa di emozione, del pericolo che la femminilizzazione fa correre alla rarità e quindi al valore della posizione, e anche, in qualche modo, all’identità sessuale dei suoi occupanti» (DOM, p. 103, corsivo mio; trad. it. pp. 112-113). Logica spontanea sì, apprensione confusa no. Non si può dimenticare che nei concorsi nazionali degli organismi di ricerca o universitari, le decisioni sono prese attraverso voti che mettono in atto delle strategie di sostegno o di rifiuto delle candidature, e delle alleanze e delle relazioni di clientelismo tra i votanti, oltre che rifiuti ideologici consapevoli. Prenderò a esempio la mia esperienza, non potendo far correre dei rischi supplementari ad altre donne. Ecco alcune reazioni che mi sono state riferite. Alla commissione di sociologia del CNRS, a cui avevo sottoposto diverse volte intorno al 1970 un progetto epistemologico intitolato «Per una definizione sociologica delle categorie di sesso», un uomo meravigliato del reiterato rifiuto opposto alla mia candidatura chiese: «Ma insomma, che cosa avete da ridire contro questo progetto?» — Silenzio. All’EHESS, più tardi, risate grasse scossero l’assemblea quando il mio referente si permise di annunciare: «In qualche modo, la candidata vuole aprire il sesso…». Una candidata donna, sommata a un argomento di ricerca «femminista» che, in più, criticava direttamente la concezione del «sesso» nelle scienze sociali, era un grande «pericolo» per le commissioni. Anche per i candidati: ho sentito dire che uomini che portano avanti ricerche in senso femminista cominciano ad avere qualche difficoltà con l’università… Si troverà nel libro di Michéle Le Doeuff, L’Étude et le rouet (Seuil, Paris 1989), una quantità di dettagli sulla composizione e sul funzionamento delle commissioni, principalmente maschili, delle grandi istituzioni. Si veda anche il suo articolo Gens de sciences bi: le mauvais genre dans l’éprouvette («Nouvelles Questions Féministes», 15, 2, 1993) per esempi precisi dell’ostracismo del mondo accademico nei confronti delle ricerche femministe. E, di Judith Ezekiel, si veda Pénurie de ressources ou de reconnaissances? Les études féministes en France («Nouvelles Questions Féministes», 15, 4,1994). 

[12] D’ora in avanti spesso designato come «il Candidato», per tentare di attenuare «l’effetto bourdieu» [N.d.T.: in minuscolo nell’originale].

[13] Si veda in particolare la sua raccolta di articoli pubblicati tra il 1978 e il 1993: Masculin/féminin. La pensée de la différance, Odile Jacob, Paris 1996; trad. it. di Barbara Fiore, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari 1997.

[14] Si veda la sua raccolta di articoli dal 1970 al 1978: L’Ennemi principal. I – Économie politique du patriarcat (Syllepse, Paris1998).

[15] Una parte dei cui lavori sul pensiero naturalista sono stati riuniti in Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de Nature (1992), articoli tra il 1977 e il 1990; e in Racism, Sexism, Power and Ideology (1995) [trad. it. di Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli, Valeria Ribeiro Corossacz, Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, ombre corte, Verona 2020]. Nella sua opera del 1972, L’Idéologie raciste. Genèse et language actuel, Colette Guillaumin integrava già i sessi nello studio dei meccanismi di naturalizzazione e di razzizzazione.

[16] La presenza del nome di Tabet nell’indice, proprio come quella di Èchard, Journet, Michard e Ribéry non deve illudere. Non si tratta di un riferimento preciso ai loro articoli, ma del semplice fatto che il riferimento bibliografico più preciso all’opera collettiva L’Arraisonnement des femmes comporta, correttamente, i nomi delle co-autrici. L’apprezzamento (apparentemente favorevole) che Bourdieu manifesta di sfuggita (p. 47, nota 65; trad. it. p. 52) per questo libro è d’altronde singolarmente sfasato in rapporto al suo contenuto e ai suoi apporti teorici. È particolarmente curioso, per qualcuno che si interessa al simbolico, che non venga fatta menzione della brillante dimostrazione dei meccanismi inconsci del linguaggio per quanto concerne le categorie di sesso in testi «scientifici» condotta dalle socio-linguiste Claire Michard e Claudine Ribéry: Énonciation et effet idéologique. Les objets de discours “femmes” et “hommes” en ethnologie, in N.-C. Mathieu (dir.), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes, Editions de l’EHESS, Paris 1985, pp. 147-167.

[17] Pierre Bourdieu, Reproduction interdite. La dimension symbolique de la domination économique, «Etudes rurales», 113-144, 1989, pp. 15-36.

[18] DOM, p. 51, nota 70 [trad. it. p. 56]; corsivo mio per sottolineare lo stile impaurito.

[19] Bourdieu polemizza da molto tempo contro Lévi-Strauss a proposito delle strutture di parentela, si veda per esempio Esquisse d’une théorie de la pratique, preceduto da Trois études d’ethnologie kabyle (1972) [trad. it. di Irene Maffi, Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Raffaello Cortina, Milano 2003], ma non sembra essersi interessato al suo articolo sulla famiglia.

[20] Gayle Rubin, The Traffic in Women. Notes on the “Political Economy” of Sex, in Rayna Reiter (ed.), Toward an Anthropology of Women, Monthly Review Press, New York 1975, pp. 157-210. Questo articolo è stato appena tradotto (1998) con il titolo L’économie politique du sexe: transactions sur les femmes et systèmes de sexe/genre in occasione della Giornata di studio organizzata da Nicole-Claude Mathieu su «Lévi-Strauss e le teorie femministe: convergenze e divergenze», che si è tenuta il 16 gennaio 1999 a Jussieu e inaugurava una serie di Giornate su «Le teorie femministe: critiche, prestiti, rotture».

[21] Si veda Gail Pheterson, The Prostitution Prism, Amsterdam University Press, Amsterdam 1996, p. 89, raccolta di articoli apparsi tra il 1983 e il 1995 (Traduzione francese aumentata 2001).

[22] Cronologia…1 — 1985: Nicole-Claude Mathieu, «Quand céder n’est pas consentir. De la conscience dominée des femmes et de quelques-unes de leurs interprétations en ethnologie», in Nicole-Claude Mathieu (a cura di), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes; 2 — 1987: Recensione di questo libro di Jeanne Favret-Saada: «L’arraisonnement des femmes», Les Temps Modernes; 3 — 1991, ripubblicazione dell’articolo di Nicole-Claude Mathieu nella sua raccolta L’Anatomie politique. Catégorisations et idéologies du sexe, Côté-femmes éditions, «Recherches», Paris.

[23] Uno dei suoi articoli (1989) è ben sottotitolato «La dimension symbolique de la domination économique».

[24] Notiamo che il Candidato, che si considera ormai l’illustratore, per non dire lo scopritore, della «costruzione sociale del sesso» (titolo di un’altra e quasi analoga versione del suo articolo di ACT, anch’essa pubblicata nel 1990 in Reherches sur la philosophie et le langage, tome XII) — idea difesa da trent’anni dalle femministe radicali, fra le altre tramite la nozione di classi di sesso (nel senso marxiano della classe) — utilizzava ancora il termine sociologico-biologico di «classi sessuali» nel 1980 ne Il senso pratico (p. 230, nota 27; trad. it. p. 208), libro a cui non cessa di rinviarci ne Il dominio maschile. Torneremo su questa nota, a fronte della quale certi argomenti de Il dominio…presentano una regressione.

[25] «Interloquire (1450). I. Interrompere (un affare, un processo) attraverso un giudizio interlocutorio». — «interlocutorio (1283). Si dice di giudizi preliminari che deliberano su una misura istruttoria o di grazia pregiudicando lo sfondo della domanda». — «Pregiudicare. II Prendere una decisione provvisoria su (qualcosa), lasciando prevedere il giudizio definitivo» (Le Robert).

[26] A tal proposito, ricordiamo che Virginia Woolf, come tante bambine e ragazze, ebbe a subire gli assalti sessuali dei suoi fratellastri: Gerald quando aveva sei anni (lui ne aveva diciotto), e George, intorno ai vent’anni (lui era molto più grande). Quest’ultimo fu anche un tiranno in famiglia, al pari del padre di Virginia. Vedere fra le altre Phyllis Rose, A Woman of Letters: The Life of Virginia Woolf, Oxford University Press, Oxford 1978 (trad. it. di Cristina Bertea, Virginia Woolf, Editori Riuniti, Roma 1980).

[27] Vedere il volantino «Justice patriarcale et peine de viol» («Giustizia patriarcale e pena di stupro»), riprodotto in Alternatives, n. 1, «Face-à-femmes», 1977.

[28] Vedere Paola Tabet, Fertilité naturelle, reproduction forcée (1985) e, per uno studio in Francia, Hugues Lagrange e Brigitte Lhomond (a cura di), L’Entrée dans la sexualité, La Découverte, «Recherches», Paris 1997.

[29] L’autore aggiunge «che circolano dal basso verso l’alto». Può darsi che pensi alla Cabilia o al Béarn, tuttavia non è inutile segnalare che in alcune società stratificate, le donne «circolano» dall’alto verso il basso nello scambio matrimoniale, e non ne sono meno dominate.

[30] È anche ciò che rimproveravo a Maurice Godelier nel suo impiego della vecchia idea di «consenso dei dominati» a proposito delle donne nel suo libro La Production des grands hommes. Pouvoir et domination masculine chez les Baruya de Nouvelle-Guinée, Fayard, Paris 1982. Vedere Nicole-Claude Mathieu, Quand céder n’est pas consentir… (1985).

[31] Per non parlare dell’assenza di equivalenza tra circoncisione ed escissione sul piano fisico e psicologico, ma anche mitico-rituale. Vedere Nicole-Claude Mathieu, Relativisme culturel, excision et violences contre les femmes, in Sexe et race: Discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle, Revue du CERIC, Paris 1994b.

[32] Vedere Nicole-Claude Mathieu, Études féministes et anthropologie, in P. Bonte, M. Izard (dir.), Dictionnaire de l’ethnologie et de l’anthropologie, PUF, Paris 1991.

[33] Vedere fra le altre la citazione riportata infra, alla nota 60.

[34] Per una storia e una presentazione delle differenti analisi critiche femministe fino al 1985, vedere Nicole-Claude Mathieu, Critiques épistémologiques de la probématique des sexes dans le discours ethno-anthropologique, Rapport pour l’UNESCO, Réunion internationale d’experts: “Réflexion sur la problématique féminine dans la recherche et l’enseignement supérieur”, Lisbonne, 17-20 sept. 1985, ora in Ead., L’anatomie politique. Catégorisations et idéologies du sexe, Éditions iXe, Donnemarie-Dontilly 2013, pp. 69-118 (trad. it. di Susanna Lazzarini, Critiche epistemologiche sulla problematica dei sessi nel discorso etno-antropologico, «DWF», 10-11, 1989, pp. 8-54).

[35] Vedere la rubrica Chroniques du sexisme ordinaire apparsa su Les Temps Modernes dal dicembre 1973 al novembre 1983 (pubblicazione parziale per Seuil, nel 1979).

[36] Il gruppo «Psychannalyse et Politique» e le sue edizioni, Des Femmes. Avendo sufficiente capitale economico per pubblicizzarsi all’estero (specialmente negli Stati Uniti, negli ambienti letterari) dove si è fatto passare con successo per «il» femminismo francese, si dichiarava antifemminista all’interno delle frontiere nazionali e fu in effetti molto rapidamente in rottura politica reciproca con l’insieme del movimento, fino al punto di tentare di cancellarne l’esistenza appropriandosi giuridicamente della sigla MLF. Vedere fra le altre Chroniques d’une imposture. Du Mouvement de libération des femmes à une marque commerciale, edito dall’associazione «Mouvement pour les Luttes Féministes», Voix Off, Paris 1981. Vedere anche Françoise Picq, Libération des femmes. Les Années mouvement, Seuil, Paris 1993.

[37] Mille scuse per usare il noi e non seguire, in questo modo, la lezione che il Candidato «ci» impartisce a p. 123, nota 4 [trad. it. p. 133]: «Rivendicare il monopolio di un oggetto qualsiasi (anche attraverso il semplice uso del “noi” che ha corso in certi scritti femministi)…» (corsivi miei), vedere infra, nota 53.

[38] Sulla differenza di linguaggio, e quindi di costruzione d’oggetto, tra ricercatori uomini e ricercatrici femministe, vedere Claire Michard, Mouvement de libération des femmes et affrontement discursif entre auteurs scientifiques, «Journal des anthropologues», 45,1991, pp. 53-65.

[39] Michèle Causse, L’Interloquée, Les Oubliées de l’oubli, Dé/générée. Essais, Trois guinées, Laval 1991, p. 15.

[40] Lui che, all’uscita del Secondo sesso, aveva detto di sapere tutto ormai sulla vagina della signora de Beauvoir. Vedere Ingrid Galster (ed.), Le ‘Deuxième Sexe’ de Simone de Beauvoir,  Presses de l’Université Paris-Sorbonne, Paris 2004, p. 16, nota 44.

[41] Virginia Woolf, La Promenade au phare (1927), citato infra come V. W. nell’edizione tascabile 1983 [trad. it. di Nadia Fusini, Al faro, Feltrinelli, Milano 2017].

[42] Ciò che, senza talento letterario, avevo definito la fatica mentale e fisica delle donne. A tal proposito, diverse pagine, magnifiche, di Al faro sono consacrate a descrivere il lavoro e la fatica estrema di due governanti che devono pulire e riaprire la grande casa in riva al mare, abbandonata per dieci anni, dopo la morte della signora Ramsay. È un caso? Certo, tutto ciò permette a Woolf, così attaccata alle cose, di parlare dei mobili, degli armadi, della biancheria, delle imposte, della ruggine, etc., ma niente le imponeva di farlo in questo modo. «Era piegata dalla stanchezza», dice anche Virginia Woolf della signora MacNab (V.W, 1983, p. 178). [Nella traduzione italiana, p. 125: «Scricchiolava, gemeva»].

[43] Le ragazze non sono (molto) presenti in quest’ultimo campo, se non per la soddisfazione erotica maschile.

[44] Altrove (Quand céder…, 1985) ho trattato a lungo delle numerose contraddizioni che mettono le donne in posizione schizofrenica. Per esempio, tra cedere alle pressioni sessuali maschili ritenendosi libera per poi farsi trattare da puttana e non cedere a quelle pressioni per poi farsi trattare da, indovinate cosa. Della mia giovinezza, accanto alla donna rasata, nuda e messa alla gogna del villaggio «liberato» durante la Liberazione, ricorderò la Costa Brava e quel campeggio misto di studenti alla fine degli anni Cinquanta. Una delle ragazze era rinomata per la sua disponibilità sessuale. Alla fine della vacanza, fu incoronata (indovinate da chi) regina del campeggio. Pregata di salire sul podio, sorrideva tutta felice. Poi la vidi barcollare fisicamente, quando (indovinate chi) intonarono: «Oh la puttana / vai a lavarti il culo / sudiciona…». Riprese subito l’equilibrio e rimase dignitosamente dritta.

[45] Mia nonna, operaia dall’età di 13 anni, nel 1900, nelle fabbriche tessili del Nord (nel momento della distruzione dei piccoli contadini e della loro spaventosa incorporazione nell’industria), diceva, al tempo stesso, che «erano necessari» dei padroni per «dare» lavoro agli operai e parlava delle umiliazioni subite ad opera dei borghesi e dei preti e rivendicava la fierezza di ciò che secondo lei era la sua famiglia, «persone perbene, tanto quanto le altre».

[46] Vedere Moi, Phoolan Devi, reine des bandits, Fixot, Paris 1996; precisiamo che, fatta con la registrazione al magnetofono e letta a Phoolan Devi dopo la trascrizione, è l’unica biografia da lei approvata). E Taslima Nasreen, Enfance, au féminin, Stock, Paris 1998.

[47] Statistiche dell’ospedale di Algeri nel 1991, su 889 tentativi di suicidio: 20,4% di giovani uomini e 79,6% di giovani donne, in Rapporto nazionale della rete FEHLA, Conferenza preparatoria per l’Africa (Dakar, 1994) in vista della Conferenza mondiale delle donne di Pechino, 1995; citato da WLMUL (1996, p. 54).

[48] Vedere anche WLMUL (1998).

[49] Prima sotto copertura di qualcun’altra, poi facendo il mio nome (vedere supra I e nota 29).

[50] Citato in Jean Laplanche e Jean-Baptiste Pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, «Conscience (psychologique)». 3e édition, 1971; trad. it. di Luciano Mecacci e Cynthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, tomo I, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 113.

[51] Occorre ricordare che ci sono femministe che non hanno trovato imbarazzante riflettere contemporaneamente sulla coscienza e la resistenza e sull’iscrizione sociale nel corpo? Vedere per esempio Sande Zeig, The actor as activator: deconstructing gender through gesture», o Colette Guillaumin, Le corps construit.

[52] Le Sense pratique, chapitre VIII: «Les modes de domination», p. 230, n. 27; trad. it di Mauro Piras, Il senso pratico, Armando, Roma 2005, pp. 208-209.

[53] Tralascio, ma non completamente, i suoi piagnistei e il digrignare i denti per il «monopolio» che le femministe si arrogano, perché, figuratevi, «si investono dell’autorità assoluta costituita dall’ “esperienza della femminilità”» e gli impediscono (?), a lui, di esprimersi democraticamente: «Rivendicare il monopolio di un oggetto qualsiasi (anche attraverso il semplice uso del “noi” che ha corso in certi scritti femministi) in nome del privilegio cognitivo che si suppone sia concesso dal semplice fatto di essere al contempo soggetto e oggetto, e più precisamente, dal fatto di avere vissuto in prima persona la forma specifica della condizione umana che si tratta di analizzare scientificamente, significa introdurre nel campo scientifico una difesa politica dei particolarismi che autorizza il sospetto a priori, e mettere in discussione l’universalismo che, soprattutto attraverso il diritto di accesso a tutti gli oggetti, è uno dei fondamenti della Repubblica delle scienze». (DOM, p. 123, nota 4; corsivo mio, evidentemente; trad. it. p. 133).

[54] Claude Lévi-Strauss, Les Structures élémentaires de la parenté (première édition, 1949), 1967, p. 569; trad. it. di Alberto Mario Cirese e Liliana Serafini, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 635-636.

[55] Notiamo tuttavia di passaggio che il vantaggio dell’opinione di Lévi-Strauss su quella di Bourdieu è che il primo ci riconosce la qualità di «produttrici di segni». Forse saremmo allora capaci di produrre del simbolico e non solo di incorporarlo in quanto «agenti passivi».

[56] Occorrerebbe non dimenticare neppure la considerevole discesa sociale delle donne divorziate, anche quando si sono sposate all’interno della stessa classe.

[57] Se si considera non già ciascun individuo/a che ritrova un partner, ma l’insieme disponibile dei partner di sesso opposto, la differenza temporale è oggettivamente legata allo scarto di età tra partner maschili e femminili, gli uomini unendosi a compagne più giovani. Il meccanismo è lo stesso che nella poliginia.

[58] Un donna sposata in regime di comunità dei beni e totalmente derubata dal marito truffatore mi ha confidato, dopo il divorzio, che in caso di nuovo matrimonio avrebbe ripreso quel regime perché «è una questione d’amore». Non l’ho vista risposarsi.

[59] Se nei meccanismi di sfruttamento delle classi povere da parte delle classi ricche o della classe schiava da parte della classe dei padroni si realizza anche, è ben noto, lo sfruttamento sessuale delle donne, questo non costituisce una parte integrante della definizione funzionale di queste classi. 

[60] Pascale Noizet, L’Idée moderne de l’amour. Entre sexe et guerre: vers une théorie du sexologème, Editions Kimé, Paris 1996. Vedere anche la recensione di questo libro di Danielle Charest nella rivista Mots/Les langages du politique, 1996.

[61] Certe riviste dette femminili fanno la stessa cosa, mi sembra, mescolando una dose di femminismo con una dose (più forte) di orientamenti «tradizionali».

[62] La Promenade au phare, p. 139-140, maiuscoletto mio; trad. it. p. 94.

[63] La «dotta ignoranza», formula di Pierre Bourdieu, si riferisce alla verità del sapere pratico dissimulata sotto il discorso esplicativo che un agente può darne; «…questa dotta ignoranza non può che dar luogo a un discorso dell’ingannatore ingannato […]» (Esquisse d’une théorie de la pratique, p. 202).

[64] Christiane Rochefort, «Définition de l’opprimé», presentazione della traduzione francese (1971) di Manifesto SCUM di Valerie Solanas, trad. it. di Deborah Ardilli, Definizione dell’oppresso, in Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), a cura di D. Ardilli, VandA-Morellini, Milano 2018, pp. 287-288.