Nel cerchio del patriarcato. Quando il «cambiamento» diventa un’ideologia di conservazione

di Collettivo Femminista Desbugo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una riflessione del Collettivo Femminista Desbugo a proposito del documentario di Paola Sangiovanni “Nel cerchio degli uomini”, andato in onda il 13 luglio 2023 su RAI3. Di fronte a un coro pressoché unanime di elogi, ci sembra utile dare spazio a un punto di vista critico nei confronti di un’operazione in cui l’ideologia sovrasta, fino a travolgerla completamente, la volontà di inchiesta.

Il 13 luglio 2023 Rai3 ha mandato in onda, in prima serata, il documentario “Nel cerchio degli uomini” di Paola Sangiovanni, già autrice di lavori sulle donne nella Resistenza (“Staffette”, 2006), sul movimento femminista degli anni Settanta (“Ragazze. La vita trema”, 2009) e sulla violenza delle guerre contemporanee (“La linea sottile”, 2015).

Nello stesso giorno in cui la stampa dava notizia delle motivazioni che hanno indotto i giudici del tribunale di Busto Arsizio a negare l’aggravante di crudeltà al killer di Carol Maltesi («lei era disinibita»), e poi ancora dell’assoluzione a Roma di un molestatore di minorenni («lui l’ha palpata solo per dieci secondi, era in un luogo pubblico, in pieno giorno, alla presenza di altre persone»), il servizio pubblico ci ha messe di fronte a quello che, nella prospettiva abbracciata dal documentario, dovrebbe essere il vero nodo da affrontare per poter immaginare il «cambiamento»: gli uomini subiscono i ruoli imposti dal patriarcato.

La grande speranza «cambiamentista» (ci scusiamo per il termine poco maneggevole, ma dobbiamo sforzarci di dare un nome alla cosa) si basa, in effetti, su una premessa data per assiomaticamente vera: in regime patriarcale, gli uomini sono dominati dal dominio, ignorano i danni che producono, i privilegi di cui godono, insomma vivono a propria insaputa, dissociati da se stessi e da ciò che fanno. Per lo meno fino al momento in cui, grazie al Cerchio degli Uomini o a gruppi affini, non trovano finalmente il coraggio di formulare ipotesi inaudite sul contenuto di esperienze di cui, in precedenza, pare avessero ignorato il significato. Di qui l’attribuzione di un ruolo essenziale degli uomini ai fini di un sommovimento che — anche per effetto della sua esibita indeterminatezza politica: tanto che anche un Ignazio Benito La Russa può farsi conquistare dall’idea di manifestazioni di soli uomini contro la violenza sulle donne — non vuole, non può e non deve essere né riforma né rivoluzione. Bensì, appunto, «cambiamento». E qualunque cosa «cambiamento» voglia dire, a Dio piace che la società civile si schieri compattamente, senza smagliature, dalla sua parte.

Il risveglio di questi uomini dolcemente determinati a smettere di morire dentro di patriarcato è reso possibile, dunque, da un atto decisivo di presa di coscienza: gli uomini violenti non agiscono, sono agiti. Dagli stereotipi di genere, dalla «mascolinità tossica», da solitudini sconfinate, dal fantasma di padri normativi e giudicanti, da inenarrabili frustrazioni. O da incontrollabili impulsi di rabbia che si scatenano in seguito alla rottura di una relazione sentimentale e che, secondo uno degli intervistati, possono trovare sollievo con qualche seduta di sadomaso — acuta osservazione a cui la regia di Sangiovanni dà il giusto rilievo, immaginiamo allo scopo di fugare le false aspettative. In effetti, tutto è allestito in modo da alimentare l’impressione che, nel Cerchio degli Uomini, non si faccia del moralismo stucchevole. Lì si scandagliano niente meno che i chiaroscuri del cuore umano in tutta la loro sinuosa complessità. A forza di crederci, ci crederanno anche gli altri. E le altre.

Soprattutto, siamo state messe di fronte a un’evidenza talmente abbagliante da non aver nemmeno bisogno di essere esplicitata, ancor meno dimostrata: gli uomini non traggono alcun beneficio dalla posizione sociale gerarchica che, come gruppo e come individui, occupano rispetto alle donne. Ne sono, anzi, vittime. L’esercizio della violenza maschile contro le donne non ha nulla a che vedere con il consolidamento di quella posizione e coi vantaggi che gli uomini possono ricavarne sul piano economico, sociale, ideologico. Qualsiasi problema di adattamento può, e soprattutto deve, essere interpretato come l’esemplificazione di un’oppressione patriarcale che colpisce indistintamente donne e uomini. Le indulgenze dispensate ai violenti dal sistema giudiziario non sono un fattore da tenere in considerazione quando ci si interroga sulle condizioni di possibilità della violenza maschile contro le donne. Istituzioni dell’eterosessualità come la famiglia, teatro abituale dello sfruttamento e della violenza patriarcale, non devono entrare nel mirino della critica.

Niente di tutto questo, nessuna determinazione sociale dei fenomeni e dunque nessuna chiara direzione per l’auspicato «cambiamento»: abbiamo semplicemente a che fare con «uomini soli», di «buona volontà», in cerca della propria strada. Questi uomini non vengono mai chiamati per nome e cognome: alcuni nomi (di battesimo) li ricaviamo dalle recensioni al documentario, ma mai dalle scene filmate. Sono pura generalità dal volto umano. Il pubblico è chiamato a identificarsi con la loro delicata condizione, ad appassionarsi al loro tortuoso processo di crescita, a lasciarsi trasportare dal fluire spontaneo delle testimonianze.       

Se sono facilmente comprensibili le ragioni che inducono i componenti del Cerchio degli Uomini a promuovere un’immagine di sé così scopertamente oleografica, meno chiare sono quelle che portano invece diverse donne, femministe incluse, a confermarne il valore indiscusso. La prima a immedesimarsi praticamente senza riserve nel punto di vista degli uomini “di buona volontà” è la stessa Paola Sangiovanni. Sollecitata nel corso di un’intervista a raccontare del proprio interesse per il gruppo torinese del Cerchio degli Uomini, la regista si dichiara anzitutto affascinata dal «metodo non medicalizzante, che non passa attraverso la psichiatria, ma che attraverso la riflessione sulla nostra cultura porta a un cambiamento» (cfr. Alice Facchini, “Storie di uomini che cercano di combattere la mascolinità tossica”, Altreconomia, 27 giugno 2023). La strizzata d’occhio è palesemente rivolta alle femministe: sorelle, non siate prevenute contro questi uomini! Non pensiate che qui si metta in discussione, con intenti revisionisti, il sacrosanto principio per cui «il violento non è malato, ma figlio sano del patriarcato»!

Eppure, è sufficiente consultare il sito dell’associazione per scoprire che, al fine di esplorare il vasto territorio della «mascolinità tossica», il Cerchio degli Uomini non si avvale soltanto di cerchi di condivisione volti alla consapevolezza maschile, ma anche di «specifiche professionalità offerte da psicologi e counselors»: alcuni dei quali, come si evince sempre dal sito dell’associazione, operano nell’ambito della psichiatria, della psicologia clinica, della psicologia giuridica, finanche della conduzione di «gruppi di padri separati con problematiche di alienazione parentale». Perché omettere questa informazione?

Verosimilmente, perché raccontare tutta la verità comprometterebbe la tenuta dell’altro grande pilastro ideologico su cui si regge il documentario. Lasciamo ancora una volta la parola alla regista, che giustifica così la scelta di alternare la narrazione dei protagonisti a immagini storiche di manifestazioni femministe e a riprese di laboratori scolastici sugli stereotipi di genere: «c’è lo sguardo sulla città, questa Torino addormentata, per far capire che quelle storie sono sì personali, ma anche collettive. Proprio come l’assunto femminista del “personale è politico”».

Il messaggio deve arrivare, anche visivamente, dritto al cuore. E il messaggio è questo: non c’è alcuna differenza sostanziale tra il femminismo degli anni Settanta, l’odierna burocrazia psicologica dell’antiviolenza e le iniziative di decostruzione degli stereotipi previste dal progettificio scolastico; non c’è alcuna differenza sostanziale tra il risveglio politico delle oppresse e quello degli oppressori; non c’è alcuna differenza sostanziale tra autocoscienza femminista e confessionali maschili facilitati da professionalità specifiche. Una volta stabilita d’autorità la continuità storica e l’equivalenza funzionale tra pratiche e teorie disparate, è ancora più facile procedere al lavoro di selezione che, dopo averlo svuotato di qualsiasi altra connotazione politica, riduce il femminismo a una pratica di ascolto non giudicante. Perché in fondo è questo il segreto, come rivela uno degli intervistati: i violenti vogliono sentirsi accolti, compresi. Sottratti al giudizio morale e politico, alla sanzione sociale. Possibilmente anche a quella penale. Alla facile indignazione, tanto querula quanto impotente, il «cambiamentismo» oppone la sospensione del giudizio: cambiare si può, rimanendo neutrali nei confronti dei violenti. A Dio non piace che la sorella trascini il fratello in tribunale; e gli piace ancor meno veder contestati i privilegi degli appropriatori.

La sospensione del giudizio è la regola scrupolosamente osservata anche quando, nel documentario, emerge finalmente il dato di realtà che consente di capire le ragioni dell’impennata di interesse per gruppi che, di fatto, esistono già da decenni. Il dato di realtà è che, dal 2019, con l’introduzione del cosiddetto Codice Rosso, la partecipazione ai programmi psico-educativi erogati da associazioni come il Cerchio degli Uomini dà diritto a benefici come la sospensione condizionale della pena. Di qui l’incremento degli accessi ai centri per maltrattanti. I benefici penali accordati ai violenti «di buona volontà» — ricordiamolo di sfuggita a chi pensa che il bene degli uni vada immancabilmente di pari passo con quello delle altre — sono già costati la vita a Juana Cecilia Hazana Loayza, Lidija Miljkovic e Gabriela Serrano.

Come valutare simili «cambiamenti»? Sono conciliabili con la Convenzione di Istanbul, che certo al suo articolo 16 prevede l’istituzione di questi programmi, ma da nessuna parte prescrive di associarli a sconti di pena? Ai posteri l’ardua sentenza — anche perché l’intervistato non si sbilancia più di tanto. Se lo avesse fatto, si sarebbe forse trovato nella difficile situazione di dover spiegare quale fosse la direzione esatta dell’impegno portato avanti dalla sua associazione, molto attiva negli anni passati nella battaglia culturale contro il populismo penale. Battaglia senz’altro nobile, quando evita di amalgamare capziosamente questioni reali di trattamento repressivo della povertà a questioni fittizie di punitivismo dispiegato al di là di ogni garanzia ai danni degli autori di violenza contro le donne.

La missione di chi scrive di storia consiste, solitamente, nel restituire al passato l’incertezza del futuro: nel de-fatalizzare il senso degli avvenimenti, nel mostrare un orizzonte di possibilità non decise a priori ma dall’urto delle forze vive in campo, nell’indebolire l’ipotesi di un corso ineluttabile degli eventi. La missione «cambiamentista» procede in senso esattamente opposto: spogliare il passato dell’incertezza del futuro, disegnare il quadro di un presente che prolunga naturalmente il passato e ne incarna le aspirazioni più profonde, costruire genealogie tutte ideali e, dunque, tutte fittizie. Non c’è alternativa al punto in cui siamo, non c’è mai stata e non ci sarà mai. Tutto è andato come doveva andare, il campo del pensabile, del dicibile e del fattibile ruota intorno a noi e si esaurisce con noi, sottende l’ideologia «cambiamentista». Soltanto grazie alla forzatura che consente di diluire tutto nel calderone indifferenziato della «riflessione culturale» è possibile presentare i gruppi di autoriflessione maschile come un equivalente dell’autocoscienza femminista. Per chi sceglie di praticarla, l’operazione presenta un doppio vantaggio. Da un lato, infatti, si svuota di significato il concetto di «patriarcato», mettendo sullo stesso piano dominanti e dominate: si conserva la parola, gettando nella spazzatura il concetto e contando sul fatto che nessuna se ne accorga. Dall’altro lato, il salvataggio delle apparenze prosegue cercando di dimostrare che il femminismo non ha mai voluto e pensato altro che questo. L’imprimatur femminista sull’antifemminismo, insomma, è il capolavoro ideologico che consente di prestare al «cambiamentismo» dei gruppi maschili l’aureola dell’alternativa in marcia, tasto su cui hanno battuto acriticamente tutti gli articoli dedicati al documentario. Alcuni estratti:

«Quello che emerge è un nuovo modo di essere uomini, più consapevole e più libero ma soprattutto in grado di non reprimere le proprie sofferenze e di non cedere, per questo, alla violenza» (Silvia Farris, Coming Soon, 13 luglio 2023); «La telecamera segue il profondo, e talvolta doloroso, lavoro di auto-indagine di uomini spinti non solo dal desiderio di decostruire il modello di mascolinità tossica, basato su forza e competitività, e di liberarsi dalle più o meno latenti forme di patriarcato che ancora permeano la società, ma legati anche da intenti comuni orientati in senso propositivo e assertivo, volto a costruire un “maschile” differente» (Giorgia Cacciolatti, Repubblica, 13 luglio); «[il documentario] parla di uomini, intesi come maschi contemporanei, di diverse età ma tutti alla ricerca di un nuovo equilibrio esistenziale, di una strada quotidiana alternativa, di una maschilità da (ri)formare: più completa e libera, più soddisfacente e piena, più in dialogo con un mondo emotivo facilmente soggetto a schiacciamento, asfissia e isolamento, per antichi schemi culturali» (Edoardo Zaccagnini, Cittanuova.it, 13 luglio); «Sebbene in misura ridotta, ci sono però anche uomini che seguono le attività dell’associazione perché vogliono incontrarsi e “parlare di noi, tra noi”. Fanno, in sostanza, autocoscienza femminista […] rendendosi finalmente conto che conoscersi, capirsi, confessarsi, esporsi è un diritto ed è un dovere, è etica morale e civica, prima di essere cura o prevenzione, prima che essere educazione o rieducazione» (Simonetta Sciandivasci, La Stampa, 14 luglio 2023).

In altri paesi del mondo, più evoluti del nostro quanto a consapevolezza sociologica e a impregnazione culturale femminista, la costituzione di gruppi maschili il cui discorso vira sistematicamente sulla dimensione psicologica delle relazioni interpersonali a detrimento dell’analisi delle strutture di dominio, viene interpretata dagli studiosi come un’articolazione del backlash antifemminista. Da noi invece le amplificazioni retoriche non sembrano mai eccessive o fuori posto, quando si tratta di consacrare l’immagine di legioni di donne sospese alle decisioni degli uomini di «buona volontà» con il cuore trepidante di emozione. Allo scopo si può addirittura scomodare l’autorità di Carla Lonzi, come fa Simonetta Sciandivasci dalle colonne de La Stampa per rassicurare se stessa e i lettori che «quello che le donne chiedono agli uomini è prima di tutto incontrarsi tra loro, parlare di chi sono, di quello da cui vengono, di quello che vorrebbero, cosa subiscono, quanto sono stanchi di apparire senza essere, di urlare, competere, tremare, temere, e di farlo senza tavoli di mezzo, senza gerarchie, campionati da vincere: di srotolare il cono e mettersi a sedere in cerchio. Tra pari. Con le mani vuote, aperte. Liberi di occuparsi di sé» (Simonetta Sciandivasci, La Stampa, 14 luglio).

«Senza tavoli di mezzo»? «Con le mani vuote»? «Srotolare il cono»? Curioso che queste effusioni liriche riescano a far dimenticare così in fretta che i tavoli di mezzo ci sono eccome, le mani non sono proprio così vuote e i coni non sono esattamente scomparsi se ci sono esponenti dei Centri Ascolto Maltrattanti chiamati a stendere relazioni per la Commissione d’Inchiesta del Senato sul femminicidio. I 9 milioni di euro di stanziamenti pubblici previsti per i Centri di Ascolto Uomini Maltrattanti nel 2022, contro i 5 milioni destinati ai Centri Antiviolenza, forse rovinano la poesia, ma appartengono alla realtà che il documentario omette di menzionare.

Possiamo intuire il brivido di radicalità che il Teatro dell’Oppresso praticato da gruppi di autoriflessione maschile può risvegliare. Diversi spezzoni del documentario sono dedicati appunto a queste esperienze laboratoriali: particolarmente significativa, in ottica «cambiamentista», quella relativa al porno. Mimando fisicamente le tipiche posizioni rispettive di uomini e donne nella pornografia, i partecipanti arrischiano un’ipotesi inaudita e, certo, audace: la pornografia reifica le donne. Che fare di questo sapere? Un’anima in pena racconta della propria dolorosa dissociazione masturbatoria di fronte alle scene del porno (che lui considera virtuali: la violenza subita dalle attrici non è messa in conto), un valoroso suggerisce che si potrebbe campare anche senza pornografia, ma è a quel punto che la saggezza «cambiamentista» interviene a moderare i fermenti rivoluzionari in nome del giusto mezzo: la pornografia è come il cibo spazzatura, assumerlo tutti i giorni fa male, ma centellinarlo in modiche dosi periodiche non ha controindicazioni.

Il complesso industrial-pornografico, insomma, può stare tranquillo: non sarà messo in ginocchio. Anche perché i gruppi «cambiamentisti» sono impegnati in battaglie molto più prosaiche, fatte di competizione per le risorse economiche e di crescente integrazione istituzionale nelle reti antiviolenza. Meno di un anno fa era D.i.Re a denunciare il rischio che il coinvolgimento dei Centri per Maltrattanti compromettesse l’autonomia dei percorsi di fuoriuscita delle donne dalla violenza, introducendo surrettiziamente una forma mascherata di mediazione familiare.

Di questi problemi nel lavoro di Sangiovanni semplicemente non vi è traccia. Del personale degli uomini intervistati possiamo essere informate fin nei dettagli più insignificanti, ma di come gli stessi si collochino politicamente rispetto a questioni che pure li implicano in maniera diretta — anzitutto in quanto soggetti capaci di influire sul sistema dell’antiviolenza e far pesare le proprie prerogative — non siamo tenute a sapere nulla. Forse perché il solo accennarvi metterebbe in crisi lo schema spontaneista di uomini che si incontrano al solo scopo di «guardarsi dentro» su cui il documentario è costruito e con cui il pubblico è chiamato a colludere. Per ritrovarsi anche lui nel cerchio del patriarcato, ma con la gratificante sensazione di essere altrove.

** L’immagine è un dettaglio tratto da Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957)