Monique Wittig: la fuga che fa dimenticare tutte le altre

Note a margine di Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 77, euro 10.

di Deborah Ardilli

Viviamo, per generale ammissione, in un’epoca in cui i tempi e gli spazi di ascolto concessi alla parola letteraria tendono a comprimersi. O a ridisegnarsi in funzione dell’ascendente esercitato da altri, più remunerativi, codici di comunicazione. Messo a confronto con i suoi fasti novecenteschi, l’accanimento nella ricerca di forme nuove, specie se animato da una tensione utopica e anti-conciliativa, oggi appare fortemente ridimensionato. Un’analoga sorte incombe sulla nostra memoria letteraria, cioè sull’unica riserva simbolica in grado di assicurare le condizioni di un uso rigenerante dei testi del passato. Date queste premesse, un écrivain — questo il nudo appellativo inciso sulla lapide del Père-Lachaise di Parigi — come Monique Wittig (1935-2003) sembrerebbe il candidato ideale a una ben gracile forma di sopravvivenza culturale, affidata per intero alle premure di una cerchia esclusiva di professionisti della parola in possesso delle chiavi per accedere ai suoi libri.

Se così non è, se l’opera di Wittig non è condannata a vegetare come una pianta da serra, insomma se la vita postuma di un’intellettuale di capitale importanza per la storia femminista e lesbica del Novecento può in qualche modo proseguire e confidare di raggiungerci nell’aperto, lo dobbiamo anzitutto al dinamismo di quel che ancora si muove alla periferia dell’accademia e del mercato editoriale. Appartengono a questa piccola schiera di engagées Eva Feole, specialista di letteratura francese, e la sociologa femminista Sara Garbagnoli, entrambe già autrici di diversi lavori su Wittig e su altre esponenti del femminismo materialista francofono, ai quali oggi si aggiunge Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, da poco pubblicato per la collana essentials di DeriveApprodi.

Con la sua perlustrazione limpida, concisa e solidamente informata delle coordinate entro cui gravita l’opera di Wittig, il volume si presenta nella veste di un’agile introduzione per principianti. Già questo basterebbe a raccomandarlo come esempio di divulgazione di qualità, a maggior ragione in una fase in cui torna di moda riavvicinare le parole “femminismo” e “materialismo”, sebbene resti per lo più eluso il confronto con le autrici (Christine Delphy, Monique Wittig, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet) che per prime si sono poste il problema di estendere all’analisi dell’oppressione patriarcale la strumentazione concettuale del materialismo storico. Ma a favore del libretto depone anche un’altra ragione, meno esteriore e più direttamente legata alle iniziative promosse dalle autrici per restituire centralità al contatto diretto con i testi wittighiani: da ultimo, la conduzione del ciclo di letture Nel cantiere letterario di Monique Wittig, organizzato insieme a Lesbiche Bologna e Some Prefer Cake tra gennaio e maggio 2023.

Non è un merito da poco, per chi si adopera a costruire occasioni di questo tipo, riuscire a riaccendere il piacere del testo senza soccombere all’alternativa rovinosa tra “fruire” e “capire”, all’ombra della quale cova la tentazione di scindere la Wittig poeta dalla Wittig politica, e di salvare l’una a spese dell’altra. Dunque, se leggere Wittig «non è altro che un’esortazione a reinventare il mondo» (MW, p. 12), la fatica che Feole e Garbagnoli le consacrano richiede a propria volta di essere recepita non già come un bignami autosufficiente, ma come un vero e proprio invito al viaggio. Nella consapevolezza che la sollecitazione a prendere il largo, anche da collaudati schemi percettivi e interpretativi, potrà essere effettivamente raccolta a patto di non bruciare in un generico conato decostruttivo le tappe che separano il punto di partenza, ossia la comprensione del funzionamento politico e ideologico del regime eterosessuale, dalla destinazione finale, ossia il superamento delle classi/categorie di sesso prodotte e riprodotte da quel regime.

Ai fraintendimenti ancora sussistenti a questo riguardo, Feole e Garbagnoli dedicano alcune battute introduttive, rimarcando da un lato il paradosso costituito dalle interpretazioni differenzialiste di Wittig (a lungo in voga in area anglofona alla voce French Feminism, ma presenti anche nel contesto italiano) e, dall’altro, l’inadeguatezza delle letture inclini a fare della scrittrice una «prodomica manifestazione delle teorie queer» (MW, p. 10): letture per altro parzialmente condivise, sia pure con giudizio di valore negativo, dalla capostipite francese del pensiero della differenza sessuale, Antoinette Fouque [1]. L’ostilità e l’estraneità di entrambe le correnti, differenzialista e queer, al paradigma materialista entro cui Wittig si inscrive (ed entro cui continuerà a inscriversi anche dopo la tempestosa dissoluzione del collettivo editoriale di Questions féministes) è la principale ragione della difficoltà a cogliere i contorni teorici del suo percorso intellettuale. Wittig non risponde al richiamo delle proliferazioni di genere, perché le sa impotenti a scalfire la tenuta del sistema eterosessuale. Analogamente, non si lascia incantare dalle sirene di una differenza più “originaria” di quella posta dal patriarcato, perché riconosce l’inganno delle ontologie fondamentali che proiettano nell’essere le divisioni gerarchiche create dall’organizzazione sociale.  

Chiariti tali aspetti, le direzioni da seguire vengono individuate da Feole e Garbagnoli attraverso cinque lemmi-chiave illustrati, con gli opportuni riferimenti bibliografici, in altrettanti capitoli. Ultimo in ordine di apparizione — preceduto da «Femminismo materialista», «Pensiero straight», «Cantiere letterario», «Corpo lesbico» — «Cavallo di Troia» è il capitolo da cui suggerirei di cominciare. Avere preliminarmente chiaro cosa voglia dire «ridefinire l’universale, sottraendolo alla confisca fattane dai dominanti» (MW, p. 68) è, in effetti, il modo più spedito per rendersi conto di quale sia la sfida lanciata da Wittig a un tempo — il nostro, più ancora di quello della sua vita — talmente ripiegato su rivendicazioni di “parità nella differenza” da non avvertire nemmeno la contraddizione in termini custodita dallo slogan in questione.

Cavallo di Troia, dunque. Tratta dal secondo libro dell’Eneide, (ri)letta da Wittig nella straniante traduzione francese di Pierre Klossowski, la figura della macchina da guerra ideata dai greci per spiazzare le difese nemiche è l’immagine che, con frequenza crescente a partire dalla fine degli anni Settanta, la scrittrice elegge a metafora privilegiata del proprio fare poetico. Potremmo dire, in forzosa sintesi, che quella del cavallo di Troia è l’immagine deputata a descrivere il movimento dialettico che consente al fare poetico di liberare la propria riserva di energia senza disperderla nell’informe e nell’indeterminazione. Da un lato, si tratta infatti di mettere in crisi le convenzioni letterarie ereditate, a partire dai presupposti che fondano la classificazione canonica dei generi letterari; dall’altro, si tratta di procedere al «rimontaggio dei materiali precedentemente smontati e rilavorati che conduce alla costruzione di un senso nuovo» (MW, p. 67). Sotto questo profilo, l’opera letteraria può agire come una macchina da guerra solo sulla base di un alto grado di intertestualità e di un’esplicita intenzione anti-mimetica nei riguardi dell’ipotesto ripreso nella nuova scrittura. Il modello parodiato, ovvero riplasmato dal punto di vista minoritario, perde così il proprio statuto canonico per diventare materiale da lavoro, sottoposto a nuovi fini. Il «cantiere letterario», lo spazio «al contempo concreto e astratto che coincide con la pagina ancora da scrivere», pur contenendo «tutto ciò che è stato già scritto dagli altri scrittori e scrittrici» (MW, p. 39), altro non che è il luogo adibito alla fabbricazione di quegli avatar del cavallo del Troia che i testi wittighiani ambiscono a essere.

L’enfasi sulla scrittura come lavoro applicato al materiale linguistico e la valorizzazione della metafora militare sono i tratti che, con maggiore evidenza, permettono di distinguere la poetica wittighiana da quell’idea di écriture féminine che, a partire dagli anni Settanta, ha largamente influenzato la percezione del rapporto tra femminismo e letteratura, trasformando il primo in un elogio a oltranza della differenza (cioè in un anti-femminismo che si esplicita come tale a fasi alterne, a seconda delle geografie e delle opportunità politiche) e facendo della seconda una sorta di calco simbolico del corpo sessuato. Diversamente, come sottolineano Feole e Garbagnoli, stanno le cose per Wittig. Da questo punto di vista, la figura del cavallo di Troia si impone, in sede di riflessione meta-letteraria, come un morceau choisi sfilato dal fornitissimo arsenale di strumenti offensivi e difensivi, ordigni e marchingegni bellici che appaiono a cadenza regolare nella fiction wittighiana: ausili indispensabili allo scatenamento di quel «furore così perfetto» messo in scena per significare la violenza necessaria a condurre a buon fine l’«ultima guerra possibile della storia» (G, p. 184/ p. 115).

Difficile, in questo senso, non accorgersi di come la presenza massiccia, nei romanzi wittighiani, di archi, frecce, scudi, carabine, specchi capaci di proiettare raggi micidiali, lancia-razzi, mitragliette e pistole laser richiami, per antitesi, un aspetto costante dei rapporti di dominio patriarcali, vale a dire il sottoequipaggiamento tecnologico che priva le dominate di una capacità di intervento sul mondo estesa al di là delle possibilità e dei limiti del corpo fisico. «Non sarà questa», si chiede l’antropologa Paola Tabet, «una delle condizioni necessarie perché le donne stesse siano materialmente utilizzabili nel lavoro, nella riproduzione, nella sessualità?» [2].

Ecco allora che, per annullare le condizioni della reificazione delle donne e della feticizzazione della differenza sessuale, la pagina di Wittig si popola di armi, in modo tale da suggerire un’associazione stretta fra lotta antipatriarcale, apprendistato letterario ed emersione di quella «nuova dimensione dell’umano» costituita, per la scrittrice francese, dal lesbismo. Ne L’opoponax, per limitarsi a un esempio precoce, il desiderio tra Catherine Legrand e Valerie Borge si nutre senz’altro del dono reciproco di versi inventati o prelevati da poeti come Malherbe, Louise Labé, Leopardi e Baudelaire; ma anche delle tre pallottole di carabina che l’una, già avviata all’attività di tiro, mette in mano all’altra pregandola di conservarle (O, p. 267/p.208).

Il momento dello scambio amoroso delle pallottole si colloca, letteralmente, a un passo dal ciclo epico de Le guerrigliere, dal quale apprendiamo che «quelle che vogliono trasformare il mondo» devono «prima di tutto impadronirsi dei fucili» (G, pp. 120-21/p. 74). Se ci fermassimo al versante più agevolmente riconoscibile della frase, forse non coglieremmo altro che un’eco della retorica maoista dilagante nella Francia post-68. Senonché, in mano a Wittig, i problemi della guerra e della strategia assumono una dimensione di portata decisamente più ampia, definita sempre da una relazione fortissima e, non di pura derivazione, con l’insieme della tradizione letteraria.         

«Alla guerra penseranno gli uomini» è, come si ricorderà, la battuta perentoria che Ettore rivolge ad Andromaca nel sesto libro dell’Iliade, uno degli ipotesti alla base de Le guerrigliere. Con un ribaltamento apparentemente clamoroso, la guerra verrà poi qualificata come «un affare di donne» nella Lisistrata di Aristofane, un altro dei testi a cui Wittig fa esplicitamente allusione. Veicolata dal motivo dello sciopero del sesso, la competenza politica delle donne trova la propria fonte di legittimazione, nella commedia aristofanea, nel contributo da queste offerto alla polis in veste di madri: ragion per cui, spetta alle donne escogitare una soluzione per mettere fine a un conflitto ventennale, quello fra Ateniesi e Spartani, che minaccia la tenuta dell’ordine mandando in rovina le famiglie. Per effetto di un altro rovesciamento, sotto la penna di Wittig la stessa frase, «la guerra è un affare di donne» (G, p. 180/p. 112), assume un significato completamente nuovo che, salvo errori, non ha precedenti nella vicenda delle riscritture della Lisistrata — nemmeno nelle versioni a intonazione femminista [3]. A ridosso dell’esplosione del Movimento di liberazione delle donne in Francia, di cui la scrittrice sarà una delle principali istigatrici, si tratta infatti di legittimare il diritto di elles, l’eroe collettivo della moderna epopea guerrigliera, di partecipare non a una guerra qualsiasi, ma di fare la guerra contro ils per liberarsi dalle condizioni della propria soggezione, porsi come soggetti universali di enunciazione di sé e del mondo e affrancarsi dalla necessità di identificarsi con i simboli che esaltano il corpo frammentato e la specificità femminile, ovvero con l’ultimo legame che le stringe a una cultura morta.  

È, questo, solo uno dei molti campioni che si potrebbero prelevare in vivo per verificare cosa intendono Feole e Garbagnoli quando osservano che, per Wittig, si tratta «di far violenza a una lingua e a una letteratura che strutturalmente fanno violenza ai gruppi minoritari negando loro piena soggettività, di far dire al linguaggio e alla letteratura ciò che non sono fatti per dire: la piena umanità e universalità dei soggetti minoritari» (MW, p. 68). Ma è anche un esempio particolarmente idoneo a illuminare, per contrasto, gli ostacoli che si frappongono non solo alla legittimazione, ma alla stessa concepibilità, del conflitto prefigurato da Le Guerrigliere.

«Pensiero straight» è, nel lessico critico messo a punto da Wittig, l’espressione riassuntiva di tali ostacoli. Solo un’interpretazione superficiale della realtà del dominio, e di quello eteropatriarcale in particolare, potrebbe equipararli alla somma delle opinioni sessiste e dei giudizi svalorizzanti che circolano all’interno della società in un dato momento. Ciò che conta, nella definizione del pensiero straight, non sono i contenuti particolari, ma la forma ideologica di un’interpretazione del mondo rintracciabile tanto nella doxa corrente quanto nel discorso delle scienze umane (strutturalismo e psicoanalisi in primis, ma non solo). E questa interpretazione del mondo, condotta dal punto di vista del dominante, non ha altra funzione fuorché quella di agire come schema di occultamento del conflitto: di nascondere e congelare, a ogni livello, gli antagonismi che innervano la struttura sociale. Se quello fra uomini e donne è il più vulnerabile alla presa mistificante dell’ideologia straight, ciò non dipende solo dall’anteriorità storica del patriarcato rispetto a forme moderne di dominazione, ma dal fatto che i meccanismi concreti di appropriazione delle donne da parte degli uomini offrono un terreno propizio alla credenza nella necessità di un rapporto intimo e permanente fra “diversi” e “complementari”. Si radica qui la resistenza tenace a concepire donne e uomini come classi di sesso, anziché come gruppi naturali.

Nell’universo mitico forgiato dall’ideologia straight, in effetti, non esistono dominanti e dominati, appropriate e appropriatori, maggioritari e minoritari, così come non c’è spazio per la dialettica intesa come coscienza pensante della contraddizione reale. Esistono solo i titolari legittimi dell’universale, da un lato, e, dall’altro, differenze e alterità elevate a qualità intrinseche delle classi oppresse per meglio mascherare i rapporti sociali di dominio. La pacificazione garantita dal pensiero straight è sinonimo di riconciliazione con la disuguaglianza e consacrazione delle gerarchie. Come sottolinea “Wittig” (il personaggio messo in scena in Virgile, non) commentando una scena di prostituzione, la denuncia dell’inferno dell’oppressione, e della devastazione umana che ne scaturisce, sarà sempre, dal punto di vista straight, un’esagerazione imputabile al «flagello lesbico». E, in quanto tale, meritevole di censura (VN, p. 42/p. 42.).   

L’accostamento proposto da Feole e Garbagnoli tra la nozione di «pensiero straight» e quella di «ideologia razzista» elaborata da Colette Guillaumin [4] non è importante solo ai fini dell’individuazione di una delle fonti, del resto dichiarate, del pensiero di Wittig. La sovrapponibilità fra «pensiero straight» e «ideologia razzista» rimanda a un sistema globale di percezione basato su un’idea di natura in virtù della quale ai soggetti oppressi viene imputata una «forma di “determinismo endogeno” operante come causa insita del loro essere» (MW, p. 33). Che cos’è questa, se non la forma tipicamente moderna di legittimazione della pratica sociale della subordinazione, dotata di sufficiente plasticità da applicarsi a diverse possibili espressioni del dominio? Se non ci fossero principi moderni da negare nella prassi, se le deroghe agli universali presentati non necessitassero di una giustificazione compatibile con la salvaguardia formale dei criteri di uguaglianza, che senso avrebbe la scomposizione dell’umanità in un catalogo di alterità inemendabili, differenze essenziali, eterogeneità incommensurabili?

Se il femminismo materialista, nel suo insieme, scopre e mette a tema l’ubiquità di questo dispositivo di giustificazione del dominio, correlandolo di volta in volta agli assetti materiali che lo fondano, e in particolare al persistente regime di appropriazione delle donne da parte degli uomini, Wittig è colei che più di tutte punta a riqualificare il lesbismo come «posizione sociale a partire dalla quale è più facilmente possibile muovere una critica radicale al patriarcato» (MW, p. 51), circostanza che le è valsa il duro ostracismo — l’altra faccia dell’inferno — rappresentato nelle pagine di Virgile, non, del Voyage sans fin e di Paris-la-politique. Resta il fatto che nemmeno l’avversione più caparbia all’utopia perseguita da Wittig può negare il contributo offerto dalla scrittrice al riscatto del lesbismo dalla penombra del folklore sessuale: «Dai corpi delle guerrigliere a quelli delle amanti, passando per il corpo delle protagoniste lesbiche di Virgile, non, il “corpo lesbico” è un corpo scritto e immaginato per costringere chi legge a mettere in discussione la rappresentazione univoca, reificata, passiva, appropriata e straight delle donne e dei loro corpi. Alludendo, come la stessa Wittig fa spesso, alla tradizione evangelica, potremmo dire che il “corpo lesbico” non ha la facoltà di redimere e non libera dai peccati, ma apre a chi legge, e alle donne in particolare, un mondo al di là delle categorie di sesso» (MW, p. 60).

Negli Appunti per un dizionario delle amanti, il libro pubblicato da Wittig insieme a Sande Zeig nel 1976, si legge: «Esistono delle fughe simili alle perdite d’acqua nella coscienza di ogni persona. Le fughe o vuoti di memoria sono l’esempio più frequente. Quante amanti davanti a questa emorragia dei loro ricordi, delle loro informazioni e delle loro conoscenze si sono messe a digiunare. […] Esistono anche fughe di interesse, fughe di sentimenti, fughe di energia, fughe di immaginazione. Esiste anche un’altra sorta di fuga detta “fuga in avanti” che ha il vantaggio di far dimenticare tutte le altre» (B, p. 91/pp. 69-70). Meglio di così non si saprebbe descrivere il viaggio a cui Garbagnoli e Feole ci invitano. Che è tutto, fuorché d’evasione.       

SIGLE

B = Monique Wittig, Sande Zeig, Brouillon pour un dictionnaire des amantes, Grasset, Paris 1976; trad. it. di Onna Pas, Appunti per un dizionario delle amanti, Meltemi, Milano 2020.

G = Monique Wittig, Les Guérillères, Minuit, Paris 1969; trad. it. di Ana Cuenca, Le guerrigliere, Lesbacce Incolte, Bologna 1996 (nuova ed. La Porta Terra di donne, Bologna 2019). 

MW = Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023.

O = Monique Wittig, L’Opoponax, Minuit, Paris 1964; trad. it. di Clara Lusignoli, L’opoponax,Einaudi, Torino 1966.

VN = Monique Wittig, Virgile, non, Minuit, Paris 1985; trad. it. di Rosanna Fiocchetto, Virgilɘ, non, Il Dito e La Luna, Milano 2005.

NOTE

[1] Cfr. Qui êtes-vous, Antoinette Fouque? Entretien avec Christophe Bourseiller, des femmes-Anoinette Fouque, Paris 2009, p. 48: «Ciò che interessava a Monique Wittig era dissotterrare una cultura dell’omosessualità femminile, liberare la lesbica dalla donna. Ma è stato necessario attendere due anni [dal 1968 al 1970] perché si risolvesse a farlo. Ciò l’ha condotta a porre una non-mixité assoluta, una sorta di separatismo, per arrivare a un movimento marcato dal femminismo e dal lesbismo che, in fondo, vuole la scomparsa della parola “donna”, la cancellazione delle donne. Alla fine, emigrerà negli Stati Uniti per teorizzare il suo pensiero e inventare il queer».

[2] Paola Tabet, Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», 19, 3-4, 1979, p. 12; trad. it. «Mani, strumenti, armi», in Ead., Le dita tagliate, Ediesse, Roma 2014, p. 190.

[3] Per una rassegna, cfr. Simone Beta, La donna che sconfigge la guerra. Lisistrata racconta la sua storia, Carocci, Roma 2022.

[4] Colette Guillaumin, L’idéologie raciste. Genèse et language actuel, Mouton & Co, Paris 1972 [Gallimard, Paris 2002]; trad. it. di Sara Garbagnoli, L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, il nuovo melangolo, Genova 2023. 

Nel cerchio del patriarcato. Quando il «cambiamento» diventa un’ideologia di conservazione

di Collettivo Femminista Desbugo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una riflessione del Collettivo Femminista Desbugo a proposito del documentario di Paola Sangiovanni “Nel cerchio degli uomini”, andato in onda il 13 luglio 2023 su RAI3. Di fronte a un coro pressoché unanime di elogi, ci sembra utile dare spazio a un punto di vista critico nei confronti di un’operazione in cui l’ideologia sovrasta, fino a travolgerla completamente, la volontà di inchiesta.

Il 13 luglio 2023 Rai3 ha mandato in onda, in prima serata, il documentario “Nel cerchio degli uomini” di Paola Sangiovanni, già autrice di lavori sulle donne nella Resistenza (“Staffette”, 2006), sul movimento femminista degli anni Settanta (“Ragazze. La vita trema”, 2009) e sulla violenza delle guerre contemporanee (“La linea sottile”, 2015).

Nello stesso giorno in cui la stampa dava notizia delle motivazioni che hanno indotto i giudici del tribunale di Busto Arsizio a negare l’aggravante di crudeltà al killer di Carol Maltesi («lei era disinibita»), e poi ancora dell’assoluzione a Roma di un molestatore di minorenni («lui l’ha palpata solo per dieci secondi, era in un luogo pubblico, in pieno giorno, alla presenza di altre persone»), il servizio pubblico ci ha messe di fronte a quello che, nella prospettiva abbracciata dal documentario, dovrebbe essere il vero nodo da affrontare per poter immaginare il «cambiamento»: gli uomini subiscono i ruoli imposti dal patriarcato.

La grande speranza «cambiamentista» (ci scusiamo per il termine poco maneggevole, ma dobbiamo sforzarci di dare un nome alla cosa) si basa, in effetti, su una premessa data per assiomaticamente vera: in regime patriarcale, gli uomini sono dominati dal dominio, ignorano i danni che producono, i privilegi di cui godono, insomma vivono a propria insaputa, dissociati da se stessi e da ciò che fanno. Per lo meno fino al momento in cui, grazie al Cerchio degli Uomini o a gruppi affini, non trovano finalmente il coraggio di formulare ipotesi inaudite sul contenuto di esperienze di cui, in precedenza, pare avessero ignorato il significato. Di qui l’attribuzione di un ruolo essenziale degli uomini ai fini di un sommovimento che — anche per effetto della sua esibita indeterminatezza politica: tanto che anche un Ignazio Benito La Russa può farsi conquistare dall’idea di manifestazioni di soli uomini contro la violenza sulle donne — non vuole, non può e non deve essere né riforma né rivoluzione. Bensì, appunto, «cambiamento». E qualunque cosa «cambiamento» voglia dire, a Dio piace che la società civile si schieri compattamente, senza smagliature, dalla sua parte.

Il risveglio di questi uomini dolcemente determinati a smettere di morire dentro di patriarcato è reso possibile, dunque, da un atto decisivo di presa di coscienza: gli uomini violenti non agiscono, sono agiti. Dagli stereotipi di genere, dalla «mascolinità tossica», da solitudini sconfinate, dal fantasma di padri normativi e giudicanti, da inenarrabili frustrazioni. O da incontrollabili impulsi di rabbia che si scatenano in seguito alla rottura di una relazione sentimentale e che, secondo uno degli intervistati, possono trovare sollievo con qualche seduta di sadomaso — acuta osservazione a cui la regia di Sangiovanni dà il giusto rilievo, immaginiamo allo scopo di fugare le false aspettative. In effetti, tutto è allestito in modo da alimentare l’impressione che, nel Cerchio degli Uomini, non si faccia del moralismo stucchevole. Lì si scandagliano niente meno che i chiaroscuri del cuore umano in tutta la loro sinuosa complessità. A forza di crederci, ci crederanno anche gli altri. E le altre.

Soprattutto, siamo state messe di fronte a un’evidenza talmente abbagliante da non aver nemmeno bisogno di essere esplicitata, ancor meno dimostrata: gli uomini non traggono alcun beneficio dalla posizione sociale gerarchica che, come gruppo e come individui, occupano rispetto alle donne. Ne sono, anzi, vittime. L’esercizio della violenza maschile contro le donne non ha nulla a che vedere con il consolidamento di quella posizione e coi vantaggi che gli uomini possono ricavarne sul piano economico, sociale, ideologico. Qualsiasi problema di adattamento può, e soprattutto deve, essere interpretato come l’esemplificazione di un’oppressione patriarcale che colpisce indistintamente donne e uomini. Le indulgenze dispensate ai violenti dal sistema giudiziario non sono un fattore da tenere in considerazione quando ci si interroga sulle condizioni di possibilità della violenza maschile contro le donne. Istituzioni dell’eterosessualità come la famiglia, teatro abituale dello sfruttamento e della violenza patriarcale, non devono entrare nel mirino della critica.

Niente di tutto questo, nessuna determinazione sociale dei fenomeni e dunque nessuna chiara direzione per l’auspicato «cambiamento»: abbiamo semplicemente a che fare con «uomini soli», di «buona volontà», in cerca della propria strada. Questi uomini non vengono mai chiamati per nome e cognome: alcuni nomi (di battesimo) li ricaviamo dalle recensioni al documentario, ma mai dalle scene filmate. Sono pura generalità dal volto umano. Il pubblico è chiamato a identificarsi con la loro delicata condizione, ad appassionarsi al loro tortuoso processo di crescita, a lasciarsi trasportare dal fluire spontaneo delle testimonianze.       

Se sono facilmente comprensibili le ragioni che inducono i componenti del Cerchio degli Uomini a promuovere un’immagine di sé così scopertamente oleografica, meno chiare sono quelle che portano invece diverse donne, femministe incluse, a confermarne il valore indiscusso. La prima a immedesimarsi praticamente senza riserve nel punto di vista degli uomini “di buona volontà” è la stessa Paola Sangiovanni. Sollecitata nel corso di un’intervista a raccontare del proprio interesse per il gruppo torinese del Cerchio degli Uomini, la regista si dichiara anzitutto affascinata dal «metodo non medicalizzante, che non passa attraverso la psichiatria, ma che attraverso la riflessione sulla nostra cultura porta a un cambiamento» (cfr. Alice Facchini, “Storie di uomini che cercano di combattere la mascolinità tossica”, Altreconomia, 27 giugno 2023). La strizzata d’occhio è palesemente rivolta alle femministe: sorelle, non siate prevenute contro questi uomini! Non pensiate che qui si metta in discussione, con intenti revisionisti, il sacrosanto principio per cui «il violento non è malato, ma figlio sano del patriarcato»!

Eppure, è sufficiente consultare il sito dell’associazione per scoprire che, al fine di esplorare il vasto territorio della «mascolinità tossica», il Cerchio degli Uomini non si avvale soltanto di cerchi di condivisione volti alla consapevolezza maschile, ma anche di «specifiche professionalità offerte da psicologi e counselors»: alcuni dei quali, come si evince sempre dal sito dell’associazione, operano nell’ambito della psichiatria, della psicologia clinica, della psicologia giuridica, finanche della conduzione di «gruppi di padri separati con problematiche di alienazione parentale». Perché omettere questa informazione?

Verosimilmente, perché raccontare tutta la verità comprometterebbe la tenuta dell’altro grande pilastro ideologico su cui si regge il documentario. Lasciamo ancora una volta la parola alla regista, che giustifica così la scelta di alternare la narrazione dei protagonisti a immagini storiche di manifestazioni femministe e a riprese di laboratori scolastici sugli stereotipi di genere: «c’è lo sguardo sulla città, questa Torino addormentata, per far capire che quelle storie sono sì personali, ma anche collettive. Proprio come l’assunto femminista del “personale è politico”».

Il messaggio deve arrivare, anche visivamente, dritto al cuore. E il messaggio è questo: non c’è alcuna differenza sostanziale tra il femminismo degli anni Settanta, l’odierna burocrazia psicologica dell’antiviolenza e le iniziative di decostruzione degli stereotipi previste dal progettificio scolastico; non c’è alcuna differenza sostanziale tra il risveglio politico delle oppresse e quello degli oppressori; non c’è alcuna differenza sostanziale tra autocoscienza femminista e confessionali maschili facilitati da professionalità specifiche. Una volta stabilita d’autorità la continuità storica e l’equivalenza funzionale tra pratiche e teorie disparate, è ancora più facile procedere al lavoro di selezione che, dopo averlo svuotato di qualsiasi altra connotazione politica, riduce il femminismo a una pratica di ascolto non giudicante. Perché in fondo è questo il segreto, come rivela uno degli intervistati: i violenti vogliono sentirsi accolti, compresi. Sottratti al giudizio morale e politico, alla sanzione sociale. Possibilmente anche a quella penale. Alla facile indignazione, tanto querula quanto impotente, il «cambiamentismo» oppone la sospensione del giudizio: cambiare si può, rimanendo neutrali nei confronti dei violenti. A Dio non piace che la sorella trascini il fratello in tribunale; e gli piace ancor meno veder contestati i privilegi degli appropriatori.

La sospensione del giudizio è la regola scrupolosamente osservata anche quando, nel documentario, emerge finalmente il dato di realtà che consente di capire le ragioni dell’impennata di interesse per gruppi che, di fatto, esistono già da decenni. Il dato di realtà è che, dal 2019, con l’introduzione del cosiddetto Codice Rosso, la partecipazione ai programmi psico-educativi erogati da associazioni come il Cerchio degli Uomini dà diritto a benefici come la sospensione condizionale della pena. Di qui l’incremento degli accessi ai centri per maltrattanti. I benefici penali accordati ai violenti «di buona volontà» — ricordiamolo di sfuggita a chi pensa che il bene degli uni vada immancabilmente di pari passo con quello delle altre — sono già costati la vita a Juana Cecilia Hazana Loayza, Lidija Miljkovic e Gabriela Serrano.

Come valutare simili «cambiamenti»? Sono conciliabili con la Convenzione di Istanbul, che certo al suo articolo 16 prevede l’istituzione di questi programmi, ma da nessuna parte prescrive di associarli a sconti di pena? Ai posteri l’ardua sentenza — anche perché l’intervistato non si sbilancia più di tanto. Se lo avesse fatto, si sarebbe forse trovato nella difficile situazione di dover spiegare quale fosse la direzione esatta dell’impegno portato avanti dalla sua associazione, molto attiva negli anni passati nella battaglia culturale contro il populismo penale. Battaglia senz’altro nobile, quando evita di amalgamare capziosamente questioni reali di trattamento repressivo della povertà a questioni fittizie di punitivismo dispiegato al di là di ogni garanzia ai danni degli autori di violenza contro le donne.

La missione di chi scrive di storia consiste, solitamente, nel restituire al passato l’incertezza del futuro: nel de-fatalizzare il senso degli avvenimenti, nel mostrare un orizzonte di possibilità non decise a priori ma dall’urto delle forze vive in campo, nell’indebolire l’ipotesi di un corso ineluttabile degli eventi. La missione «cambiamentista» procede in senso esattamente opposto: spogliare il passato dell’incertezza del futuro, disegnare il quadro di un presente che prolunga naturalmente il passato e ne incarna le aspirazioni più profonde, costruire genealogie tutte ideali e, dunque, tutte fittizie. Non c’è alternativa al punto in cui siamo, non c’è mai stata e non ci sarà mai. Tutto è andato come doveva andare, il campo del pensabile, del dicibile e del fattibile ruota intorno a noi e si esaurisce con noi, sottende l’ideologia «cambiamentista». Soltanto grazie alla forzatura che consente di diluire tutto nel calderone indifferenziato della «riflessione culturale» è possibile presentare i gruppi di autoriflessione maschile come un equivalente dell’autocoscienza femminista. Per chi sceglie di praticarla, l’operazione presenta un doppio vantaggio. Da un lato, infatti, si svuota di significato il concetto di «patriarcato», mettendo sullo stesso piano dominanti e dominate: si conserva la parola, gettando nella spazzatura il concetto e contando sul fatto che nessuna se ne accorga. Dall’altro lato, il salvataggio delle apparenze prosegue cercando di dimostrare che il femminismo non ha mai voluto e pensato altro che questo. L’imprimatur femminista sull’antifemminismo, insomma, è il capolavoro ideologico che consente di prestare al «cambiamentismo» dei gruppi maschili l’aureola dell’alternativa in marcia, tasto su cui hanno battuto acriticamente tutti gli articoli dedicati al documentario. Alcuni estratti:

«Quello che emerge è un nuovo modo di essere uomini, più consapevole e più libero ma soprattutto in grado di non reprimere le proprie sofferenze e di non cedere, per questo, alla violenza» (Silvia Farris, Coming Soon, 13 luglio 2023); «La telecamera segue il profondo, e talvolta doloroso, lavoro di auto-indagine di uomini spinti non solo dal desiderio di decostruire il modello di mascolinità tossica, basato su forza e competitività, e di liberarsi dalle più o meno latenti forme di patriarcato che ancora permeano la società, ma legati anche da intenti comuni orientati in senso propositivo e assertivo, volto a costruire un “maschile” differente» (Giorgia Cacciolatti, Repubblica, 13 luglio); «[il documentario] parla di uomini, intesi come maschi contemporanei, di diverse età ma tutti alla ricerca di un nuovo equilibrio esistenziale, di una strada quotidiana alternativa, di una maschilità da (ri)formare: più completa e libera, più soddisfacente e piena, più in dialogo con un mondo emotivo facilmente soggetto a schiacciamento, asfissia e isolamento, per antichi schemi culturali» (Edoardo Zaccagnini, Cittanuova.it, 13 luglio); «Sebbene in misura ridotta, ci sono però anche uomini che seguono le attività dell’associazione perché vogliono incontrarsi e “parlare di noi, tra noi”. Fanno, in sostanza, autocoscienza femminista […] rendendosi finalmente conto che conoscersi, capirsi, confessarsi, esporsi è un diritto ed è un dovere, è etica morale e civica, prima di essere cura o prevenzione, prima che essere educazione o rieducazione» (Simonetta Sciandivasci, La Stampa, 14 luglio 2023).

In altri paesi del mondo, più evoluti del nostro quanto a consapevolezza sociologica e a impregnazione culturale femminista, la costituzione di gruppi maschili il cui discorso vira sistematicamente sulla dimensione psicologica delle relazioni interpersonali a detrimento dell’analisi delle strutture di dominio, viene interpretata dagli studiosi come un’articolazione del backlash antifemminista. Da noi invece le amplificazioni retoriche non sembrano mai eccessive o fuori posto, quando si tratta di consacrare l’immagine di legioni di donne sospese alle decisioni degli uomini di «buona volontà» con il cuore trepidante di emozione. Allo scopo si può addirittura scomodare l’autorità di Carla Lonzi, come fa Simonetta Sciandivasci dalle colonne de La Stampa per rassicurare se stessa e i lettori che «quello che le donne chiedono agli uomini è prima di tutto incontrarsi tra loro, parlare di chi sono, di quello da cui vengono, di quello che vorrebbero, cosa subiscono, quanto sono stanchi di apparire senza essere, di urlare, competere, tremare, temere, e di farlo senza tavoli di mezzo, senza gerarchie, campionati da vincere: di srotolare il cono e mettersi a sedere in cerchio. Tra pari. Con le mani vuote, aperte. Liberi di occuparsi di sé» (Simonetta Sciandivasci, La Stampa, 14 luglio).

«Senza tavoli di mezzo»? «Con le mani vuote»? «Srotolare il cono»? Curioso che queste effusioni liriche riescano a far dimenticare così in fretta che i tavoli di mezzo ci sono eccome, le mani non sono proprio così vuote e i coni non sono esattamente scomparsi se ci sono esponenti dei Centri Ascolto Maltrattanti chiamati a stendere relazioni per la Commissione d’Inchiesta del Senato sul femminicidio. I 9 milioni di euro di stanziamenti pubblici previsti per i Centri di Ascolto Uomini Maltrattanti nel 2022, contro i 5 milioni destinati ai Centri Antiviolenza, forse rovinano la poesia, ma appartengono alla realtà che il documentario omette di menzionare.

Possiamo intuire il brivido di radicalità che il Teatro dell’Oppresso praticato da gruppi di autoriflessione maschile può risvegliare. Diversi spezzoni del documentario sono dedicati appunto a queste esperienze laboratoriali: particolarmente significativa, in ottica «cambiamentista», quella relativa al porno. Mimando fisicamente le tipiche posizioni rispettive di uomini e donne nella pornografia, i partecipanti arrischiano un’ipotesi inaudita e, certo, audace: la pornografia reifica le donne. Che fare di questo sapere? Un’anima in pena racconta della propria dolorosa dissociazione masturbatoria di fronte alle scene del porno (che lui considera virtuali: la violenza subita dalle attrici non è messa in conto), un valoroso suggerisce che si potrebbe campare anche senza pornografia, ma è a quel punto che la saggezza «cambiamentista» interviene a moderare i fermenti rivoluzionari in nome del giusto mezzo: la pornografia è come il cibo spazzatura, assumerlo tutti i giorni fa male, ma centellinarlo in modiche dosi periodiche non ha controindicazioni.

Il complesso industrial-pornografico, insomma, può stare tranquillo: non sarà messo in ginocchio. Anche perché i gruppi «cambiamentisti» sono impegnati in battaglie molto più prosaiche, fatte di competizione per le risorse economiche e di crescente integrazione istituzionale nelle reti antiviolenza. Meno di un anno fa era D.i.Re a denunciare il rischio che il coinvolgimento dei Centri per Maltrattanti compromettesse l’autonomia dei percorsi di fuoriuscita delle donne dalla violenza, introducendo surrettiziamente una forma mascherata di mediazione familiare.

Di questi problemi nel lavoro di Sangiovanni semplicemente non vi è traccia. Del personale degli uomini intervistati possiamo essere informate fin nei dettagli più insignificanti, ma di come gli stessi si collochino politicamente rispetto a questioni che pure li implicano in maniera diretta — anzitutto in quanto soggetti capaci di influire sul sistema dell’antiviolenza e far pesare le proprie prerogative — non siamo tenute a sapere nulla. Forse perché il solo accennarvi metterebbe in crisi lo schema spontaneista di uomini che si incontrano al solo scopo di «guardarsi dentro» su cui il documentario è costruito e con cui il pubblico è chiamato a colludere. Per ritrovarsi anche lui nel cerchio del patriarcato, ma con la gratificante sensazione di essere altrove.

** L’immagine è un dettaglio tratto da Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957)

Colette Guillaumin: pensare le categorie di razza e di sesso, ieri e oggi


di Maira Abreu, Jules Falquet, Dominique Fougeyrollas-Schwebel, Camille Noûs [1]

Traduzione di Sara Garbagnoli

In occasione dell’uscita dell’edizione italiana de L’idèologie raciste. Genèse et langage actuel (1972), curato e tradotto da Sara Garbagnoli per la collana Xenos de “il nuovo melangolo” (L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, Genova, 2023), pubblichiamo la traduzione di questo ricchissimo testo sulla figura di Colette Guillaumin, a firma di Maira Abreu, Jules Falquet, Dominique Fougeyrollas-Schwebel e Camille Noûs. Augurandoci che l’ “effetto Guillaumin” si faccia sentire forte anche in Italia.

L’opera di Colette Guillaumin (1934-2017) è stata un’incessante ricerca cha ha avuto per oggetto l’identificazione, la teorizzazione e la destabilizzazione delle relazioni di potere [2]. In un contesto in cui il prisma di una lettura biologica del mondo sociale non smette di avanzare (Lemerle 2014), in cui i movimenti “anti-gender” che fanno uso di un discorso essenzialista continuano ad attrarre seguaci in numerosi paesi del mondo (Kuhar e Paternotte 2018; Garbagnoli 2020), la pionieristica critica mossa da Guillaumin alle forme di legittimazione naturalistica delle relazioni di razza e di sesso non costituisce solo un fondamentale contributo alle scienze sociali, ma si tratta di un’analisi di grande attualità. Se oggi l’idea che il “naturale” sia costruito dalla cultura si è fatta strada in alcuni campi delle scienze sociali, un tale approccio ha preso forma in un contesto e una lotta nei quali il percorso di Guillaumin è esemplare. La teorica femminista, infatti, non si contentava di partire da “realtà anatomico-fisiologiche su cui innestare addobbi quali ‘ruoli’ o ‘riti’” (2016 [1978], p. 73). Il suo obiettivo era, invece, quello di pensare ai gruppi di sesso e ai gruppi di razza come costituiti da dati rapporti di potere. Il pensiero di Guillaumin è andato elaborandosi in un contesto di fermento politico e teorico in cui molti gruppi minoritari stavano diventando soggetti visibili nella storia oltre che oggetti nella teoria (2016 [1981], 229). Come sostiene Guillaumin, mettere in discussione l’evidenza del naturalismo per pensare le relazioni di sesso è stato il prodotto di una “sintesi tra rivolta, attivismo, analisi e coscienza” (2016 [1981], p. 232). Insieme a Monique Wittig, Nicole-Claude Mathieu, Christine Delphy e Colette Capitan Peter, Guillaumin ha partecipato alla scrittura collettiva della rivista Questions féministes (1977-1980) e all’elaborazione di una teoria femminista radicale/materialista che ha lasciato un segno duraturo nel pensiero femminista francese.[3] Guillaumin ha sempre sottolineato la natura collettiva delle produzioni teoriche e l’importanza per il lavoro intellettuale di una “discussione prolungata e basata su preoccupazioni comuni e su un vocabolario condiviso” (2016 [1992], p. 6). Guillaumin ha partecipato a diversi gruppi informali e a comitati di riviste come Feminist Issues [4] o Le genre humain [5] in cui, come scrive, ha potuto “analizzare la stessa questione” che tanto le teneva a cuore.

I concetti si forgiano in specifici contesti storici, politici e teorici. Collocare le idee nel loro contesto di elaborazione permette di rompere l’illusione del senno di poi e di mostrare che esse sono state la risposta a sfide determinate, oggi sovente ignorate. I testi classici, come sono oggi quelli di Guillaumin, non rispondono alle questioni che dibattiamo nel nostro presente e sarebbe riduttivo analizzarli esclusivamente attraverso il prisma delle nostre attuali preoccupazioni. Tuttavia, se continuiamo a leggere e a pensare con e grazie a Guillaumin, è perché il suo pensiero ci fornisce strumenti per riflettere sul presente, come i buoni classici fanno. Il nostro obiettivo è proprio quello di rendere omaggio ad un pensiero vivo e attuale.

In principio era la razza

Dopo aver studiato psicologia e etnografia alla Sorbona negli anni Cinquanta [6], Colette Guillaumin entra a far parte del Groupe d’Ethnologie sociale [7]. Negli anni Sessanta, vi incontra Nicole-Claude Mathieu e Noëlle Bisseret con le quali collabora alla pubblicazione de La femme dans la société. Son image dans différents milieux sociaux (Chombart de Lauwe et al. 1963). Alla fine degli anni Sessanta inizia a pubblicare sul tema di razza e razzismo. Nel 1969 discute la sua tesi di dottorato [8] intitolata Un aspetto dell’alterità sociale: il razzismo. Genesi dell’ideologia razzista e linguaggio attuale pubblicato nel 1972 (e ripubblicato nel 2002) con il titolo Ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale.

A quell’epoca, gli studi sulla razza e sul razzismo non erano molto sviluppati in Francia. Léon Poliakov scriveva allora che “tutto era ancora da fare nel campo della storia del razzismo” (1961, p. 594). In sociologia, la situazione non era molto diversa: Andrée Michel si era principalmente basata su una bibliografia in lingua inglese per redigere il suo articolo “Tendances nouvelles de la sociologie des relations raciales” (1962). A parte i lavori di Andrée Michel, Georges Balandier, Roger Bastide e Albert Memmi, la questione del razzismo non era affrontata nel campo delle scienze sociali francesi. La situazione ha subito un grosso mutamento alla fine degli anni Sessanta con la creazione del Centre d’études des relations interethniques (Centro di studi sulle relazioni interetniche IDERIC) a Nizza [9], di gruppi informali come il Groupe d’étude d’histoire du racisme (Gruppo di studio sulla storia del razzismo) attorno a Poliakov presso la MSH (Maison des Sciences de l’Homme) e di pubblicazioni come quelle della rivista “Ethnies”. Al di là di quanto prodotto dal mondo della ricerca francese, nel suo lavoro di tesi, Guillaumin ha utilizzato la letteratura anglofona, da Franz Boas a Ruth Benedict, nonché autori anticolonialisti e antirazzisti come Frantz Fanon, Aimé Césaire, Cheikh Anta Diop, James Baldwin e Malcolm X.

Due dei principali contributi de L’ideologia razzista sono stati quelli di mostrare la storicità della categoria “razza” e di “dare una prospettiva sociologica a ciò che solitamente viene affrontato come se fosse un fenomeno biologico” (p.11). La razza era allora per lo più considerata come un “oggetto concreto che interviene come fattore scatenante l’atto razzista” (p. 10). Si pensava, pertanto, che il razzismo fosse causato dall’esistenza delle razze. Alla fine degli anni Trenta, alcuni ricercatori e ricercatrici avevano iniziato ad abbandonare l’evidenza di tale nozione e ad interrogarla. Tuttavia, tale processo non è sfociato nella messa in discussione della categoria “razza”, ma nell’apparizione di una “problematica bipolare cultura/razza” che avrebbe a lungo influenzato il campo della ricerca sulle relazioni razziali. Il lavoro di Guillaumin si inserisce in un altro filone analitico che emerge alla fine della Seconda guerra mondiale e che sposta il focus della questione sulle relazioni tra gruppi. Ciò consente un riesame della categoria di razza e “il riconoscimento del suo carattere di categoria storica e di creazione sociale transitoria” (1977, 11).

Attraverso una disamina storica, Guillaumin comprende, da un lato, che l’“alterità” che caratterizza certi gruppi è solo il riflesso di una distribuzione ineguale di potere e, dall’altro, che la particolarità del razzismo è una “biologizzazione del pensiero sociale che [tenta] con questo mezzo di rendere assoluta ogni differenza osservata o supposta” (Guillaumin 2002 [1972], p. 14). Storicamente recente, l’idea di categorizzare l’umanità in “entità anatomico-fisiologiche chiuse” si è affermata nel corso del XIX secolo in un contesto di profonde trasformazioni sociali: colonizzazione, rivoluzioni borghesi e regime schiavista. Fin dalle sue prime pubblicazioni, Guillaumin sottolinea a più riprese l’importanza di opporsi all’idea di definire il razzismo attraverso l’ostilità o la “negatività”. Il razzismo, infatti, può anche esprimersi attraverso giudizi percepiti come “positivi” (vigore sessuale, senso della famiglia, ecc.). Per Guillaumin, la base del razzismo va cercata altrove: nella naturalizzazione di dati gruppi. Guillaumin dimostra, poi, come l’invenzione dell’“idea di Natura” debba essere intesa come l’aspetto mentale di date relazioni di potere. (Non si tratta ancora del concetto di “appropriazione” che emergerà nel suo lavoro qualche anno più tardi).

Ne L’ideologia razzista, Guillaumin mette in evidenza che uno stesso trattamento è riservato alle diverse “categorie di gruppi alienati e oppressi” in nome di un marchio biologico irreversibile. Tali gruppi sono, pertanto, sono “razzizzati” (Guillaumin 2002 [1972], 17). Per lei, il marchio biologico è il criterio fondamentale della nozione di razza, anche se le categorie investite da questo marchio (ad esempio donne, persone omosessuali, persone operaie) lo sono “secondo schemi diversi” (ibid., p. 12). Pur avendo iniziato la sua analisi con le cosiddette categorie “razziali”, Guillaumin ha gradualmente riconosciuto l’esistenza di “una certa identità di trattamento verbale tra categorie il cui denominatore comune era quello di essere ‘alterizzate’”. Ciò l’ha condotta ad andare oltre le “razze nel senso ordinario del termine” e la percezione del razzismo come insieme di “relazioni ostili tra gruppi rigorosamente definiti come razziali” per includerne altre, come per esempio, le relazioni tra colonizzatori e colonizzati, tra persone straniere e nazionali, ma anche tra donne e uomini (Guillaumin, 2002 [1972], 99). Guillaumin include nel suo studio anche le persone omosessuali in un contesto storico in cui una prospettiva che oggi chiameremmo decostruttivista stava appena emergendo [10].

Estendere il concetto di razza non cancella per Guillaumin le distinzioni tra i diversi tipi di razzismo, ma si concentra piuttosto sui meccanismi comuni di naturalizzazione delle persone razzizzate. Infatti, anche se “ogni gruppo razzizzato ha le sue specificità concrete”, la teorica ritiene che “concentrarsi sulla generalità dei razzismi in una data società – e non sulla specificità di un dato razzismo – ci dia la possibilità di individuare la fonte dell’atto razzista e di definire la specificità di chi razzizza” (Guillaumin 2002 [1972], 18).

Questo approccio estensivo al razzismo non più in vigore nel campo degli studi del razzismo, costituisce un’originalità del pensiero di Guillaumin che meriterebbe maggiore attenzione. Affermare, alla fine degli anni Sessanta che i gruppi che si suppone siano naturali (donne, persone nere, persone musulmane, persone ebree, persone omosessuali) sono, in realtà, il prodotto di relazioni di dominio costituisce una vera e propria rottura epistemologica da diversi punti di vista. Una rottura con il naturalismo dominante negli studi su donne, persone nere, persone musulmane, persone ebree, persone omosessuali. L’idea che le categorizzazioni non siano il prodotto di un’esistenza biologica, ma che siano una costruzione sociale e storica e che la loro presunta evidenza serva solo a nascondere relazioni di dominio, stravolge le certezze delle teorie certamente anti-essenzialiste, ma che non spingono la loro critica fino a una rottura radicale con la concezione naturalista di questi “gruppi”. In secondo luogo, si tratta, poi, di una rottura con gli approcci che riconducono tutte le forme di dominio alle relazioni di classe, a una “sovrastruttura” o a un problema di “mentalità”. Sin dai suoi primi scritti, Guillaumin, si oppone a questo tipo di analisi. Se la razza e il sesso sono intesi come prodotti di dati rapporti sociali, questi ultimi non si riducono ai rapporti sociali di produzione. Pensare a una separazione, a livello analitico, tra relazioni di classe e relazioni razziali apre la possibilità di concepire altre forme di dominio in modo diverso, come suggerito da una recensione all’epoca della prima edizione de L’ideologia razzista:

I concetti di “classe sociale”, “lotta di classe” e “imperialismo” perdono forse qui un po’ della loro troppo spesso mantenuta opacità. E il concetto di “potere” sembra assumere un nuovo significato. Potrebbe essere il preludio di un canto diverso da quello funebre di una certa dominazione? (Moreau de Bellaing 1973, p. 206).

Insieme a Guillaumin, Moreau de Bellaing faceva parte di un gruppo si studio informale, il “Laboratoire de sociologie de la dominance” (LSD), che comprendeva anche Colette Capitan-Peter e Nicole-Claude Mathieu. Questo gruppo, esistito per circa dieci anni, focalizzava le ricerche su una problematica “interamente centrata sull’analisi dei sistemi gerarchici e di dominazione” ed era un “luogo di discussione appassionata e inventiva” (Guillaumin 1992, p. 5).

Questi nuovi approcci proposti da Guillaumin implicano nuovi concetti. Il pensiero antirazzista e femminista aveva bisogno di creare nuove parole, nuove categorie per nominare ciò che non poteva essere nominato dal linguaggio dominante. Le recensioni de L’ideologia razzista accolgono con favore questo sforzo: Poliakov associa “l’elaborazione di una tesi radicalmente nuova” a questa necessità di forgiare nuovi concetti (1973, 94). Moreau de Bellaing osserva che l’autrice ha dovuto “forgiare nuovi concetti o rinnovare quelli vecchi che rendono possibile la spiegazione: razzizzante/razzizzato, categorizzante/categorizzato, maggioritario/minoritario. Concetti che non hanno nulla di oscuro poiché il loro significato è espresso dalla dimostrazione che li mette in atto” (1973, 205). Alcuni di questi concetti, che non esistevano o erano stati precedentemente definiti in altri modi, sono poi entrati a far parte del vocabolario quotidiano delle scienze sociali. L’ideologia razzista ha avuto un impatto duraturo sulla riflessione sul razzismo. All’inizio degli anni ‘90, Véronique de Rudder ha affermato che “tutte le analisi contemporanee del razzismo fanno riferimento al lavoro di Guillaumin, e nessuna ricerca seria può farne astrazione” (1991, 78). Da allora, le ricerche sul razzismo si sono sviluppate in modo considerevole e l’opera di Guillaumin ha contribuito certamente a questo ampliamento della ricerca.

La creazione della teoria del sessaggio

Natura-l-mente [11]

Negli anni Cinquanta e Sessanta, sulla scia di Simone de Beauvoir, una generazione di intellettuali e teoriche scrive sulla “questione” o sulla “condizione” delle donne (Chaperon 2001). Un po’ più giovane delle donne di questa generazione, Guillaumin discute la sua tesi di dottorato prima dell’emergere della cosiddetta “seconda ondata” del femminismo. Ne L’ideologia razzista, i suoi riferimenti femministi erano Andrée Michel, Simone de Beauvoir, Evelyne Sullerot, Betty Friedan e Ruth Benedict. Si trattava di un periodo storico caratterizzato dall’emergere di approcci antinaturalisti alle categorie di sesso e razza. Si cercava, infatti, di dissociare biologia e cultura, di allontanarsi da un nesso obbligato tra sesso biologico e “femminilità”. Tuttavia, come ha scritto Nicole-Claude Mathieu all’inizio degli anni Settanta, rispetto alla categoria di sesso nelle ricerche sociologiche permaneva un’ambiguità, dato che sociologia e biologia non venivano disgiunte completamente: “i sessi come prodotto sociale di dati rapporti sociali non erano – cioè – oggetto di riflessione” (Mathieu 1973, p. 101). Sebbene molti lavori pubblicati nel corso degli anni Sessanta si basassero sull’idea che “non si nasceva donna, lo si diventava”, e che non esisteva una corrispondenza obbligatoria tra sesso biologico e “sesso sociale” o genere, il sesso continuava a essere inteso come un dato di natura. La rivista Questions féministes rompe con questo approccio. Estendendo la critica del femminismo rivoluzionario, l’approccio difeso dal collettivo considerava “uomini” e “donne” come delle categorie storicamente costruite, la cui eliminazione sarebbe stata possibile distruggendo il sistema che le costituiva:

donne = classe sociologicamente definita in (da) un rapporto materiale e storico di oppressione, ma la cui oppressione è a sua volta ideologicamente legata dal gruppo dominante a una cosiddetta determinazione biologica della classe oppressa (determinazione biologica che riguarda solo quest’ultima) (QF 1977, p.16).

Delphy, Mathieu, Capitan Peter, Plaza, Lesseps, Hennequin e Wittig hanno elaborato questa critica pionieristica al concetto di sesso, che costituisce una svolta nel pensiero femminista. Guillaumin vi ha dato un contributo importante, basandosi sul suo lavoro sulle persone razzizzate e sull’idea di natura applicata ai gruppi sfruttati.

Tra il   1975 e il 1976, Guillaumin partecipa al gruppo “Categorie di sesso e categorie di classe/Economic Relations in Domestic Groups” [12], che riunisce alcune teoriche che costituiranno la base di Questions féministes e varie femministe inglesi (alcune delle quali partecipano al dibattito sul “lavoro domestico”). Guillaumin vi presenta una prima versione del suo testo “Pratica del potere e idea di natura”.

Questo gruppo è stato creato nel 1975 ed è collegato, da parte francese, alla Maison des Sciences de l’Homme e, da parte inglese, al Social Science Research Council (Londra). È composto da ricercatrici inglesi e francesi come Diana Barker [Leonard], Leonore Davidoff, Jalna Hanmer, Jean Gardiner, Hilary Land, Maxine Molyneux, Jane Shaw e Anne Whitehead per la parte inglese; Noëlle Bisseret, Colette Capitan-Peter, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Emmanuelle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e Ursula Streckeisen per la parte francese.

La creazione della rivista Questions féministes, nel 1977, è stata una risposta a un contesto particolare. La stampa femminista viveva, soprattutto a partire dal 1974, una fase di grande effervescenza. Tuttavia, i giornali femministi avevano la tendenza a pubblicare testi brevi [13]: “spesso rifiutati, i testi più lunghi erano accettati solo da alcune riviste come Les temps modernes” (Delphy s.d., p. 1). Questions féministes nasce, così, per rispondere a questa necessità di uno spazio di discussione teorica. Ma non uno spazio qualsiasi: in quanto “rivista teorica femminista radicale”, QF è ancorata a una prospettiva che si oppone tanto agli approcci femministi essenzialisti/differenzialisti che alla corrente femminista cosiddetta “lotta di classe”.

Il concetto di sessaggio

Uno degli elementi chiave dell’analisi femminista degli anni ‘60 e ’70, tanto negli scritti militanti che nella ricerca teorica, era l’affermazione che i rapporti tra i sessi sono politici. Il primo atto del paradigma teorico delle femministe radicali è la definizione delle donne come una casta, come una classe. Non è il sesso biologico o la maternità – come invece sosteneva Shulamith Firestone (1972 [1970]) – a fondare le classi di sesso, né la sessualità – come riteneva Kate Millet (1971 [1970]) -, ma una relazione di appropriazione che Guillaumin aveva definito “sessaggio” (2016 [1978]). Guillaumin estende la proposta femminista dominante dell’epoca secondo la quale il lavoro gratuito delle donne in seno alla famiglia costituisce la base dell’oppressione e dello sfruttamento delle donne (Dupont [Delphy] 1970; Collettivo italiano 1976). Guillaumin dimostra, infatti, che “il matrimonio è solo la superficie istituzionale (contrattuale) di una relazione generalizzata: l’appropriazione di una classe sessuale da parte dell’altra. Una relazione che riguarda entrambe le classi nel loro insieme e non una parte di ciascuna di esse come potrebbe suggerire la considerazione del solo contratto matrimoniale”. Ma il matrimonio, in quanto forma privata di appropriazione, contraddice l’appropriazione collettiva. “Se [il matrimonio] esprime e limita il sessaggio, restringendo l’uso collettivo di una donna e passando questo uso a un solo individuo, esso priva allo stesso tempo gli altri individui della sua classe dell’uso di questa determinata donna.” (Guillaumin 2016 [1978], pp. 38-43).

Il rapporto di sessaggio si riferisce all’appropriazione delle donne, del loro corpo, del loro lavoro e dei frutti del loro lavoro, un rapporto sociale che implica il mantenimento fisico, emotivo e intellettuale degli esseri umani. Tale mantenimento è effettuato al di fuori dell’economia salariale, in famiglia e/o in altre istituzioni. Diversi mezzi assicurano il mantenimento dell’appropriazione di classe delle donne da parte degli uomini: il mercato del lavoro, dove il salario delle donne rimane inferiore a quello degli uomini, il confinamento spaziale, la dimostrazione di forza da parte degli uomini (percosse), la coercizione sessuale, l’arsenale giuridico e il diritto consuetudinario (Guillaumin 2016 [1978]: 38-43).

Nella teoria del sessaggio, non è solo la forza lavoro delle donne a essere accaparrata, ma la sua origine, il corpo delle donne come serbatoio di forza lavoro (2016 [1978], p.19). Guillaumin è particolarmente attenta alla dimensione ideologica dell’oppressione delle donne: il rapporto materiale di appropriazione e l’effetto ideologico sono pensati come due facce dello stesso fenomeno, l’effetto ideologico (o “lato ideologico-discorsivo” o “discorso della natura”) ne costituisce la sua “forma mentale” (2016 [1978], Parte II: Il discorso della natura). L’autrice mostra così “che i concetti non sono distinguibili dalle relazioni sociali: sono essi stessi una relazione sociale. Non che concetti, idee e teorie siano ‘riflessi’ – considerarli in questo modo non significherebbe altro che lasciare irrisolto il problema dell’origine dei fenomeni mentali dell’“ideologiaˮ. Piuttosto, sono la dimensione mentale di relazioni concrete” (2016 [1981], pp. 216-217, corsivo nel testo) [14]. In questa prospettiva, le analisi di Guillaumin pongono un forte accento, sia empirico che teorico, sulla dimensione corporea che riguarda le pratiche sociali. In numerosi passaggi Guillaumin descrive e analizza approfonditamente il modo di muoversi delle donne nello spazio, sottolineando il ruolo del linguaggio e delle modalità di apprendimento differenziate tra uomini e donne (giochi, atteggiamenti, abbigliamento, ecc.) (Guillaumin, 2016 [1978 e 1992]).

Inoltre, lavorando molto precisamente sul significato del linguaggio, Guillaumin mette in guardia dall’utilizzare il termine “patriarcato” in un senso molto generale, facendone un equivalente di qualsiasi forma di dominio maschile e insiste sul suo contenuto storico ed etnologico (1979). Così, la definizione delle classi di sesso come classi antagoniste non è coestensiva a quella di patriarcato: “la nozione di patriarcato designa una modalità particolare, una variante storicamente e geograficamente delimitata del dominio maschile.” (2017 [1998]). Questa distinzione tra l’identificazione di un rapporto sociale di dominio tra i sessi e le varie modalità che questa relazione assume, è ben lungi dall’essere presa in considerazione dalle critiche più comuni alla teoria del sessaggio tacciata di essere un approccio non storico alle relazioni tra i sessi.

Ricezione della teoria del sessaggio

Tra le prime ad aver criticato la nozione di sessaggio figura la sociologa Irène Théry che in un articolo pubblicato sulla Revue d’en face (1981) [15]. si oppone alla concettualizzazione in termini di “classe di sesso”. L’uso per i rapporti tra i sessi della categoria marxiana di classe viene denunciato come “riduzionismo economicistico”. Per Théry, la teoria femminista materialista non sarebbe in grado di rendere conto delle varie contraddizioni nelle relazioni tra uomini e donne e ridurrebbe l’analisi della sessualità e della procreazione a meri rapporti di produzione. La confutazione dell’antagonismo tra i sessi è uno dei nodi centrali della controversia. Théry rifiuta, poi, di tracciare un parallelismo tra donne sposate e prostituzione come, invece, fa un’analisi della sessualità come uso fisico del corpo delle donne da parte degli uomini. Appaiono già da allora in filigrana le fratture, più o meno profonde, che dividono i diversi movimenti femministi rispetto all’analisi della prostituzione.

Negli anni Settanta e Ottanta, emerge all’interno delle teorie femministe un’altra critica, riguardante ora la natura dei legami tra produzione domestica e produzione capitalistica, l’articolazione del sistema patriarcale e del sistema capitalistico. Questi dibattiti, con toni più o meno accademici, sono stati cruciali per definire strategie o alleanze in seno ai movimenti femministi e hanno all’epoca dato origine a diverse pubblicazioni [16]. Nell’ambito degli studi femministi, gli anni ‘80 hanno visto le prime forme di istituzionalizzazione della ricerca femminista e sulle donne. La creazione in Francia della rete APRE (Atelier/Produzione/Riproduzione) presso il CNRS rispondeva a un desiderio di scambio, di confronto teorico e metodologico [17]. Tuttavia, l’emergere di uno sforzo collettivo mirante a consolidare una concettualizzazione dei rapporti tra i sessi non cancella la grande diversità di approcci presenti. Tra questi, una serie di analisi cerca di prendere le distanze da approcci che privilegiano la relazione di classe tra i sessi rispetto ad altre relazioni sociali, in particolare quelle di classe socio-economica. In tale ottica, le relazioni di sesso non sono un sistema, non sono autonome, ma sono sempre articolate con altre relazioni sociali – di classe, di generazione. Si esprimono nell’intero spazio sociale, nel lavoro, nell’occupazione, nella scuola, nella famiglia, nello Stato e nelle politiche sociali. La promozione del termine “rapporti sociali di sesso” si impone progressivamente in Francia al fine di prendere le distanze dalle analisi in termini di “classi di sesso” (Battagliola et al. 1986; Tahon 2004; Haicault 2000).

In Québec, tuttavia, due sociologhe, Danielle Juteau e Nicole Laurin, hanno usato le analisi di Colette Guillaumin per portare alla luce le trasformazioni in corso del sistema salariale. Secondo loro, non si tratta tanto di vedere una contraddizione tra sessaggio e rapporto salariale, quanto di cogliere una trasformazione del sistema di sessaggio attraverso una generalizzazione delle forme di appropriazione collettiva da parte delle istituzioni statali e capitalistiche. Basandosi sull’ipotesi che l’appropriazione collettiva avvenga nel contesto di particolari relazioni interindividuali tra uomini e donne oltre che nel contesto di relazioni istituzionali generali, le due sociologhe leggono le differenziazioni e le discriminazioni che si manifestano nell’occupazione femminile come espressione della relazione di classe del sesso nell’ambito del lavoro salariato. Le trasformazioni contemporanee del lavoro salariato sarebbero proprio un’espressione dell’appropriazione collettiva, sottolineando, così, l’importanza delle forze patriarcali che si esercitano in seno al mercato del lavoro (Juteau e Laurin 1988). Questo lavoro, nato da un testo discusso al convegno internazionale APRE (appena citato in nota), stabilisce i legami tra l’analisi di Guillaumin e le ricerche sull’articolazione tra relazioni sociali di sesso, classe, generazione ed etnia.

Possiamo, così, affermare che, salvo rare eccezioni, il concetto di sessaggio è poco discusso dagli studi femministi in questo momento: parlare di classe di sesso e designare tanto fortemente la dipendenza delle donne dagli uomini pensandola sotto forma di appropriazione e di riduzione allo stato di cose resta senza alcun dubbio un tabù (Guillaumin 1979) [18]. L’articolo “Donne e teorie della società: osservazioni sugli effetti teorici della collera delle oppresse” (2016 [1981]), pubblicato da Guillaumin sulla rivista quebecchese Sociologie et sociétés, è stato letto e studiato in Francia solo nella seconda metà degli anni Novanta. Negli anni ‘80 e ‘90, Colette Guillaumin ha pubblicato regolarmente su alcune riviste: Le genre humain, Pluriel, L’homme et la société, Sexe et race, Discours et formes d’exclusion au XIXe et XXe siècle [19]. È stato soprattutto il suo lavoro sul razzismo ad essere studiato nelle università francesi nell’ambito degli studi delle relazioni interetniche (in particolare nel laboratorio URMIS – Unità di ricerca sulle migrazioni – dell’Università di Nizza e dell’Università di Parigi Diderot) [20].

Ripubblicazione e riscoperta

A partire dagli anni ‘90, si è diffuso in Francia l’uso del concetto di genere attraverso soprattutto saggi in lingua inglese e, in particolare, a seguito della pubblicazione, da un lato, dell’articolo di Joan Scott “Il genere come utile categoria di analisi storica” che ha toccato un vasto pubblico (Scott, 1988 [1986]) e, dall’altro, del lavoro di Judith Butler (2005 [1990]). Il movimento femminista francese conosce in quel momento un momento di nuovo vigore che trova la sua espressione nella grande manifestazione del 25 novembre 1995 organizzata sfruttando lo slancio politico che veniva da un massiccio sciopero e a seguito dell’effetto prodotto dalla Conferenza mondiale sulle donne organizzata quell’anno dalle Nazioni Unite a Pechino che ha spinto il femminismo verso prospettive più istituzionali, prime fra tutte quelle di una “parità” definita in termini essenzialisti e quella di una concezione della nozione di genere dettata da canoni onussiani [21]. La pubblicazione nel 1991 di una raccolta di saggi e articoli di Nicole-Claude Mathieu (2013 [1991]) e poi, nel 1992, di testi di Guillaumin (2016 [1992]) con il sostegno dell’ANEF (Associazione Nazionale di Studi Femministi, appena creata nel 1989) si sono rivelate fondamentali per rendere questi testi femministi accessibili alle nuove generazioni, in un momento in cui gli insegnamenti su donne, sesso e genere erano in fase di grande rinnovamento [22]. Nel 1995, una selezione di articoli di Guillaumin preceduti da un’importante prefazione di Danielle Juteau è stata pubblicata in inglese dalla celebre casa editrice Routledge, mostrando l’ampiezza del lavoro della teorica e la sua trasversalità rispetto agli ambiti femministi e a quelli delle relazioni interetniche. Se dagli anni Ottanta gli articoli pubblicati in Questions féministes sono stati pubblicati anche in inglese sulla rivista Feminist Issues, la loro riedizione per un pubblico più ampio è stata importante: proprio in quest’ottica, Danièlle Juteau scrive il suo rilevante saggio introduttivo che ricostituisce con grande rigore i diversi contesti storici e politici in cui i testi di Guillaumin sono stati scritti.

È stato soprattutto all’inizio degli anni 2000, quando i virulenti dibattiti sulla questione dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche stavano attraversando la società francese e il movimento femminista dell’epoca, che il lavoro di Guillaumin ha ricevuto una nuova attenzione da parte degli studi femministi in Francia. In università, le analisi che usano il concetto di genere si sono andate progressivamente sviluppando toccando uno spettro disciplinare più ampio e beneficiando di un sostegno istituzionale rafforzato (Fougeyrollas-Schwebel et al. 2003). In un tale contesto, una nuova generazione di ricercatrici e ricercatori comincia ad occuparsi di oggetti di ricerca riguardanti le questioni di genere. Si dibatte, conseguentemente, dell’esistenza di una nuova e “terza ondata” di femminismo (Lamoureux 2006). In concomitanza, si moltiplicano le analisi sull’articolazione tra dominazioni sessiste e razziste che suscitano la traduzione in francese di testi del black feminism [23]. Allo stesso tempo, l’associazione studentesca femminista EFIGIES, creata nel 2003, organizza nel maggio del 2005 le sue prime giornate di studio dedicare al tema “Il genere all’intersezione di altre relazioni di potere”. Questa iniziativa, che si iscrive in continuità col lavoro di Colette Guillaumin e vuole esserne un omaggio, rappresenta per molte studiose, ricercatrici e studentesse, il primo incontro con le sue pubblicazioni.

Letture contemporanee di Guillaumin

Oggi, quindici anni dopo, la società francese è cambiata dal 2005. La presenza e la visibilità delle persone provenienti da migrazioni post-coloniali sono aumentate e il razzismo e l’islamofobia sono diventati sempre più virulenti. Gli studi sul genere e sulla sessualità hanno progressivamente guadagnato molta legittimità, ma sono ormai parte di un’università neoliberalizzata in cui la competizione e la pressione a distinguersi attraverso la produzione accademica sono sempre più esacerbate. Il paradigma dell’intersezionalità si è notevolmente sviluppato sia in ambito accademico che in ambito militante (Dorlin 2005; Palomares e Testenoire 2010; Davis, 2015). L’intersezionalità è diventata una nozione aperta e flessibile nei suoi significati e nei suoi usi al punto che il suo senso può essere vago e essere ormai impiegata da un considerevole numero di attori sociali. Questo fenomeno è stato definito e studiato da alcune ricercatrici femministe come una sua forma di “sbiancamento” (Bilge 2015) e i suoi usi possono esorbitare il campo delle stesse persone razzizzate (Aït Ben Lmadani e Moujoud 2012). Oggi l’intersezionalità è diventata lo strumento e il sinonimo della volontà di articolare razza e sesso, strumento usato per de-invisibilizzare razzismo, persone razzizzate e, soprattutto, donne razzizzate. Per questo motivo, anche quando lascia in ombra le questioni di classe (e in particolare l’analisi del modo di produzione capitalista) [24], il paradigma intersezionale appare comunque utile, dal momento che il femminismo francese soffre di un notevole ritardo nell’ambito delle questioni di razza e razzismo. Contemporaneamente, le prospettive queer e più recentemente trans*, nella loro grande varietà (comprese le analisi queer e trans di colore) hanno acquisito un peso di rilievo nell’attivismo e nell’università. Esse mirano a mettere in discussione il binarismo quanto mai riduttivo “dei generi” e la naturalità del sesso. Infine, le prospettive decoloniali latinoamericane e caraibiche, tradotte in francese ancora più recentemente, affermano che il genere stesso sarebbe un’imposizione coloniale che ha dicotomizzato – su un modello occidentale – società molto più complesse (Lugones 2019 [2008]). Le tante novità di questo contesto ci portano, ora, a fornire elementi per chiarire ciò che, leggendo Guillaumin, può oggi apparire talvolta problematico. Cercheremo, così, di dissipare aspettative anacronistiche e alcune forme di fraintendimento storico [25], per meglio evidenziare le specificità della sua opera e il suo interesse attuale.

Sulla “classe delle donne” e l’“analogia” tra sesso e razza

In passato criticato per riaffermare la preminenza delle classi sociali, il concetto guillauminiano di “classi di sesso” è ora criticato perché sarebbe omogeneizzante e binario. La prima critica (l’omogeneizzazione) è riferita alle differenze o, meglio, agli antagonismi legati alla razza. Eppure, nelle sue analisi Guillaumin non omogeneizza mai le donne, né ignora la diversità delle loro situazioni che derivano, in particolare, dall’appartenenza a vari gruppi razziali, come ha ben analizzato Juteau (2010; 2015). Un testo del 1977 mostra che Guillaumin coglie finemente gli “effetti incrociati” del sesso e delle diverse posizioni di razza in relazione all’attività-lavoro. Analizziamo il seguente estratto:

Nel 1977 in Francia, ad esempio, se ci si trova di fronte a una donna, ci si trova sicuramente di fronte a una persona che svolge un lavoro domestico gratuito, e probabilmente anche a una persona non retribuita, o talvolta retribuita, che pulisce fisicamente i bambini e le persone anziane, in famiglia o in strutture pubbliche e private, ed è molto probabile che ci si trovi di fronte a una di quelle persone che lavorano pagate al salario minimo (se non meno), che sono donne (Guillaumin 2016 [1977], pp. 180-181).

Aggiunge:

Nel 1977, in Francia, se vi trovate di fronte a un uomo “di origine mediterranea” – e non uso volutamente un termine nazionale, perché la nazionalità non c’entra, mentre la regione del mondo è determinata… – è probabile che vi troviate di fronte a uno di questi lavoratori con un tipo di contratto specifico o addirittura a un lavoratore che può non averne affatto e, forse, nemmeno un permesso di soggiorno, qualcuno che lavora più ore degli altri lavoratori, e questo nell’edilizia, nelle miniere o nell’industria pesante. Nel 1977, se ci si trova di fronte a un uomo o a una donna afroamericani, è probabile che ci si trovi di fronte a qualcuno impiegato nel settore terziario, soprattutto nell’ambito dei servizi: ospedali, trasporti, comunicazioni, a qualcuno impiegato nel servizio pubblico (Guillaumin 2016 [1977], pp. 181-182).

E a seguire:

Nel 1977 in Francia, se ci si trova di fronte a una donna “di origine mediterranea”, è probabile che ci si trovi di fronte a una persona che lavora anch’essa nei servizi, ma non nel settore pubblico, nel settore privato questa volta, individualizzato (un datore di lavoro individuale) o collettivo (un’azienda): donna delle pulizie, badante, sguattera, etc.Che ci si trovi di fronte a una persona che svolge lavoro domestico extra-familiare (come donna “di origine mediterranea”) per un salario subalterno e lavoro domestico familiare (come donna) gratuitamente, etc. (Guillaumin 2016 [1977], pp. 181-182).

Questa citazione, molto densa, ricorda la successiva, e molto approfondita, analisi di Evelyn Nakano Glenn (1992) sulla distribuzione delle posizioni occupazionali per razza e sesso negli Stati Uniti. Guillaumin, certamente, non affronta direttamente la conflittualità intracategoriale all’interno delle classi di sesso. Ne è ben consapevole, ma la colloca principalmente nel contesto delle “opposizioni politiche” (torneremo sulla questione). Notiamo già che, a livello politico, Guillaumin ha partecipato attivamente a diversi conflitti all’interno del movimento femminista, posizionandosi in particolare contro l’essenzialismo espresso dal gruppo “Psicoanalisi e politica”. Sul piano teorico, ricordiamo che le canoniche analisi marxiste di classe non impediscono in alcun modo di cogliere il conflitto che attraversa le diverse frazioni di classe. Altrimenti Gramsci non avrebbe mai potuto teorizzare l’egemonia. Pertanto, pensare con Guillaumin che esista una classe di donne non obbliga a omogeneizzarla, né a negare le opposizioni di interessi al suo interno come hanno sostenuto Moujoud e Falquet (2010) in una loro ricerca sulle lavoratrici domestiche e sui loro datori di lavoro.

La seconda critica contemporanea mossa al pensiero di Guillaumin riguarda l’eventualità che pensare in termini di classi di sesso produca un problematico “binarismo” che rischierebbe di avallare l’idea naturalista secondo cui le disuguaglianze di sesso siano in ultima analisi il risultato di un dimorfismo sessuale, ignorando, così, o condannando la molteplicità dei corpi e le diverse espressioni di genere. Una simile critica nasce, tuttavia, da un fraintendimento rispetto alla definizione di “rapporti sociali” che si collocano a un livello di analisi diverso dalle relazioni sociali, confondendone gli effetti e la logica. Il binarismo è, infatti, il “risultato” dell’antagonismo (che implica la creazione di “differenti-altri-inferiori”), antagonismo a sua volta creato dal rapporto sociale di appropriazione (causa). Per questo, la lotta deve mirare all’abolizione dei rapporti sociali di potere (che sono problematici in sé e tendono effettivamente a omogeneizzare il gruppo minoritario) e non a produrre o coltivare la molteplicità all’interno delle diverse classi di sesso, una molteplicità empirica che è molto reale, ma che di per sé non pone fine al sistema. Lo spiega bene Wittig (2001 [1980]) che, in questo, si rifà esplicitamente a Guillaumin per dire che l’esistenza del lesbismo (e non dell’omosessualità femminile) come “luogo terzo” (al di là del maschile e del femminile, al di là degli uomini e alle donne) dimostra la falsità dell’ideologia binaria dominante. Tuttavia, per Wittig, come per Guillaumin, non si tratta di riferirsi al costituirsi delle lesbiche come gruppo identitario con l’unico scopo di condurre una vita separata o di sovvertire le mere (etero)norme, ma piuttosto del loro attaccare con tutte le loro forze e “collettivamente” l’ideologia della differenza sessuale (il “pensiero straight”), aspetto mentale di una “formazione sociale” basata sui rapporti di sessaggio.

Un terzo tema che interroga il lavoro di Guillaumin è quello dell’analogia tra sesso e razza. Analogia è un termine che pone una vera e propria difficoltà semantica poiché può significare “parentela, somiglianza” e consentire paragoni pedagogici ed euristici, ma anche essere connotato in senso peggiorativo se si riferisce a correlazioni affrettate o inoperanti, quando non false. Nell’ambito delle relazioni di razza, la questione è scottante viste le analogie così spesso fatte negli Stati Uniti, prima nel XIX secolo, tra schiavitù e matrimonio e poi, una volta ottenuta l’abolizione, tra razzismo e sessismo, e considerate le potenti critiche delle donne e femministe nere americane contro queste analogie. In particolare, tali militanti hanno sottolineato l’ingenuità di tali analogie di fronte alle terribili realtà vissute dalle persone schiave e si sono rammaricate del fatto che esse abbiano portato all’usurpazione della legittimità delle lotte abolizioniste e antirazziste a favore delle lotte di donne maggioritariamente bianche, impedendo di pensare in modo accurato una di queste realtà, quando non entrambe. Soprattutto, a partire dalla famosa frase attribuita a Sojourner Truth (1851), le femministe nere americane hanno sottolineato la difficoltà di pensare attraverso il prisma dell’analogia alla situazione di persone che sono razzializzate e femminilizzate come ci ricordano Bentouhami e Guénif (2018). Il malessere permane da allora, anche se non possiamo applicare meccanicamente le critiche delle femministe nere americane ai movimenti sociali francesi e alle tradizioni teoriche antirazziste e femministe che derivano da differenti storie schiavistiche, coloniali e migratorie [26]. La duplice influenza del marxismo e dello strutturalismo francese contribuisce, infatti, a collocare Guillaumin “altrove”. Questo vale soprattutto perché, come abbiamo visto, Guillaumin propone un’analisi approfondita del razzismo basata non solo su diversi sistemi di schiavitù coloniale che vanno oltre al caso degli Stati Uniti e includono i Caraibi, ma anche sull’antisemitismo e sulle migrazioni dall’area mediterranea. In questo senso Guillaumin non mette in relazione il sesso (che sarebbe la variabile centrale) con un razzismo superficialmente inteso e confuso con la schiavitù di piantagione americana, ma trae dall’analisi del razzismo riflessioni globali sull’alterizzazione.

Ecco perché l’affermazione di Delphine Naudier e di Eric Soriano (2010) secondo cui Guillaumin avrebbe praticato un’analogia “virtuosa” perché pedagogica si presta a un fraintendimento, visto Guillaumin non formula il tipo di analogia denunciato dalle femministe afroamericane. Notiamo innanzitutto che Guillaumin utilizza i termini “parentela”, di “avvicinamento” possibile tra sessaggio e schiavitù e non quello di “analogia”, essendo molto critica nei confronti della “modalità di approccio che sottende costantemente il ‘pensiero d’ordine’ nel suo rifiuto di analizzare i processi di cambiamento” (Guillaumin 2016 [1978], p. 161). Il pensiero di Guillaumin è anche lontano da una visione antistorica e lacrimevole che farebbe della schiavitù “il senso comune dell’orrore”: si basa invece sull’analisi sociologica e politica di fatti storici. Soprattutto, invece di collocare “classe” e “razza” secondo un’immagine speculare, Guillaumin riflette su un insieme di regimi sociali che comprendono la servitù della gleba, il sistema delle caste e un insieme circostanziato di diverse logiche di schiavitù [27]. Il suo obiettivo è infatti quello di individuare, a monte di questi sistemi variegati e correlati, una logica globale che chiama “la pratica del potere e l’idea di Natura, o i rapporti di appropriazione”.

Pensare le donne razzizzate, pensare l’articolazione dei rapporti sociali di sesso e di razza

Passiamo ora alla questione del “punto cieco” della teoria del sessaggio, ovvero all’idea che tale teorizzazione sia stata pensata principalmente dal punto di vista delle donne bianche (occidentali, di classe privilegiata) e che, di fatto, descriva solo la loro situazione. Esaminiamo una per una le espressioni di appropriazione formulate da Guillaumin: le donne razzizzate non sarebbero appropriate nel loro tempo, nei loro corpi, nei prodotti dei loro corpi, non sopporterebbero il peso della violenza fisica e sessuale della classe sessuale antagonista, non si farebbero carico del peso fisico dei membri invalidi e validi della società? Se guardiamo, ora, ai mezzi della loro appropriazione: non sono forse spinte ai margini del mercato del lavoro, confinate nello spazio, mantenute ai bordi della società da una serie di violenze fisiche e sessuali, vincolate dal diritto consuetudinario e positivo? Non possiamo che concludere affermando che il concetto di sessaggio è assolutamente applicabile alle donne razzizzate. Inoltre, è sufficientemente aperto da consentire l’analisi di una serie di trasformazioni avvenute dopo la sua prima formulazione. Per esempio, la nozione di “confino nello spazio” può essere utilizzata per pensare le restrizioni statali alla mobilità delle donne attraverso le politiche migratorie come suggerito da Jules Falquet rispetto all’eterocircolazione delle donne (2011) o come propone Estelle Miramond analizzando le logiche della “lotta alla tratta” di giovani donne del Laos.

Certamente, le donne razzizzate, nella loro grande diversità, sono appropriate in modo diverso dalle donne razzizzanti, così come dagli uomini razzizzati, è evidente. Ma perché, invece di vedere le donne razzizzate come “doppiamente marginalizzate” attraverso il prisma delle teorie dell’appropriazione di razza e quella di sesso, non capovolgere il punto di vista e considerarle come soggetti centrali dell’appropriazione? E allo stesso tempo perché non concepire gli uomini razzizzati e le donne bianche come gruppi “marginali” rispetto all’appropriazione. Non è l’analisi di Guillaumin a impedirci di farlo, ma, forse, piuttosto il fatto che per molte donne bianche e per molti uomini razzizzati apparire come “casi particolari” di rapporti di potere minerebbe la loro egemonia sulle lotte e sulla teoria.

Appartenere a certi gruppi permette o impedisce di essere lesbiche (non dico omosessuali). Appartenere a certi gruppi ti mette direttamente a confronto con gli uomini a cui appartieni, ma non con tutti gli uomini. Appartenere a certi gruppi significa essere uccise/i per essere nate/i in quel gruppo e uccise/i con il gruppo nel suo insieme. Appartenere a certi gruppi significa essere segregate/i o imprigionate/i o cacciate/i o discriminate/i per il fatto di appartenere a quel gruppo, con il gruppo nel suo insieme. Appartenere a certi gruppi significa confrontarsi direttamente con gli uomini a cui si appartiene e confrontarsi, inoltre e spesso, con gli uomini che dominano gli uomini a cui si appartiene. Appartenere a certi gruppi fa di voi il premio, l’ostaggio o il mezzo nella guerra che questi gruppi fanno ad altri gruppi oppure nella guerra che questi gruppi sono costretti a subire (Guillaumin 2017 [1998]).

Detto questo, ciò che interessa a Guillaumin sono “le scelte politiche” che ciascuna donna compie in un universo di possibilità influenzato, ma non sovradeterminato, dall’appartenere ad un dato gruppo: “non sono le donne a essere diverse (anche se naturalmente sono diverse nella loro esistenza quotidiana), sono le loro scelte politiche a essere diverse” (Guillaumin 2017 [1998]). Nello stesso intervento, Guillaumin distingue tre tendenze profondamente diverse, persino antagoniste, nei movimenti delle donne. Non borghesi contro proletarie, né donne razzizzate contro donne razzizzanti. Queste divisioni possono, certamente, costituire linee di opposizione, ma sono ben lontane dall’esaurirle o dal sovrapporvisi strettamente proprio per il fatto che le relazioni di potere sono tra di loro intrecciate. Guillaumin distingue tra corrente “corporativista”, corrente “sindacale” e corrente “politica”. Quest’ultima rimanda per Guillaumin al fatto di possedere, a partire da una posizione sociale di donna, un progetto globale di società che includa una critica dei rapporti di potere nella loro molteplicità. È con quest’ultima tendenza che Guillaumin si identifica, alla ricerca di un’unità politica strategica della classe delle donne che non esclude in alcun modo tattiche di lotta autonome (per classe, religione, nazione, cultura, “razza” o anche come lesbiche), ma che rifiuta la reificazione identitaria-naturalistica prodotta, appunto, da analisi “tubolari” o monotematiche. In altre parole, Guillaumin sviluppa a partire dalla propria posizione situata nel tempo, nello spazio e nelle diverse relazioni sociali, strumenti che tengono conto della simultaneità di molteplici rapporti sociali e lo fa nel quadro di un progetto di lotta “per la giustizia sociale”. Quest’ultimo, al di là delle dispute concettuali che hanno circondato l’espansione del paradigma intersezionale, costituisce l’obiettivo originario e centrale delle femministe nere (Patricia Hill Collins 2017). Ciò induce a ritenere che pensare alla molteplicità e all’intreccio dei rapporti sociali potrebbe essere più il risultato di diverse “correnti” femministe che la specificità di date “ondate” del femminismo.

Su alcuni “femmages” e usi attuali dell’opera di Guillaumin

Dopo la scomparsa di Guillaumin, diverse pubblicazioni e vari eventi scientifici tenutisi in Francia e in Québec le hanno reso omaggio [28]: nell’ottobre del 2018 una giornata di studio organizzata dalla rete “Genere, classe, razza. Relazioni sociali e costruzione dell’alterità” dell’Associazione francese di Sociologia con la partecipazione di Danielle Juteau, nel giugno del 2019 un convegno internazionale “Penser la (dé)naturalisation de la race et du sexe: actualité de Colette Guillaumin” presso l’Università di Ottawa [29] nell’ottobre del 2019 una giornata organizzata dall’Association Nationale d’Études Féministes (ANEF) nella quale a Guillaumin era associata Nicole-Claude Mathieu (morta nel 2014). Si è, così, potuto constatare l’interesse per l’opera di Guillaumin di un gran numero di ricercatori e ricercatrici provenienti da diverse parti del mondo e attivi/e in diverse discipline.

In Francia, sono in special modo i/le sociologi/sociologhe e gli/le antropologi/antropologhe che hanno ripreso il suo lavoro. All’interno della rete “Genre, classe et race” dell’Associazione francese di sociologia, diversi/e ricercatori/ricercatrici utilizzano il lavoro di Guillaumin per analizzare le migrazioni, le relazioni interetniche e le interazioni negli ambienti militanti (cfr. il lavoro del gruppo di ricerca vicino all’URMIS, Ryzlène Dahhan, Pauline Picot, Damien Trawalé, Claire Cossée e Aude Rabaud); per studiare il lavoro domestico transnazionalizzato delle donne haitiane (Rose-Myrlie Joseph 2015) o per riflettere sulle traiettorie di lesbiche magrebine migranti in Francia o francesi nate da genitori magrebini (Salima Amari, 2018). Nel campo dell’antropologia, Nehara Feldman (2018) utilizza le analisi di Guillaumin per studiare la migrazione delle donne maliane, mentre la sociologa haitiana Sabine Lamour (2017) rivisita con lei il concetto di Poto-mitan [30].

Guillaumin è molto utilizzata anche in Québec, dove ha soggiornato in diverse occasioni. Come è noto, ha profondamente influenzato il campo della ricerca sulle questioni interetniche, di cui Juteau è stata una delle principali specialiste. A partire dall’articolo di Guillaumin sui femminicidi al Politecnico di Montréal [31], si è sviluppato il campo di studio sull’antifemminismo, in particolare con Diane Lamoureux e Anne-Marie Devreux (2012), e poi sul mascolinismo con Mélissa Blais (2018). Guillaumin costituisce un importanre riferimento anche in altre discipline: basti pensare alla ricerca della politologa Linda Pietrantonio sul concetto di “maggioritario” (2005) o a quella di Dominique Bourque sulla presa di parola minoritaria nel campo letterario (2015). La sociologa francese Elsa Galerand (2015), quebecchese d’adozione, si basa sui concetti guillauminiani per studiare la globalizzazione e il lavoro delle donne migranti in Canada. Al colloquio di Ottawa sono intervenuti ricercatori e ricercatrici che utilizzano il lavoro di Guillaumin per affrontare altri temi ancora: l’abilismo, l’appropriazione dei bambini e delle bambine, l’economia politica e la riproduzione sociale, il movimento lesbico, la lingua, i diritti abitativi, il lavoro sessuale, i racconti delle popolazioni indigene del Québec e l’arte delle donne aborigene australiane (Bronwyn Winter 2016). In Italia, la recente pubblicazione della traduzione di Sesso, razza e pratica del potere è la prova dell’esistenza di un gruppo di ricercatrici femministe che si interessano alle sue analisi sul razzismo e sul sessaggio (Garbagnoli et al. 2020).

Infine, la traduzione in spagnolo nel 2005 del suo articolo del 1978 “Pratique du pouvoir et idée de nature” da parte del collettivo transnazionale “Brecha Lésbica” (Curiel e Falquet 2005), e la successiva pubblicazione in portoghese da parte di una delle più antiche associazioni femministe del Nordeste brasiliano, SOS Corpo (Ferreira et al, 2014), hanno alimentato il crescente interesse di ricercatrici e attiviste latinoamericane e caraibiche per le analisi materialiste francofone che entrano in risonanza con diverse tradizioni femministe marxiste e con il lavoro di alcune femministe decoloniali del continente. Ricercatrici che lavorano in Colombia, Brasile, Argentina e Messico utilizzano Guillaumin, insieme ad altre teoriche femministe materialiste per affrontare un’ampia gamma di campi di indagine: Ochy Curiel (2013) la utilizza per teorizzare il carattere fondamentalmente eterosessuale della Costituzione colombiana del 1991; July Angeli Loaiza Zapata (2017) per riflettere sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini armati durante il conflitto colombiano; Mirla Cisne (2014) per affrontare l’intreccio di discriminazioni nel campo del lavoro sociale in Brasile; mentre le filosofe argentine María Luisa Femenías (2019) e Luisina Bolla (2019) la fanno dialogare con la teoria decoloniale. Luisina Bolla è all’origine della formazione di un gruppo di studio femminista materialista all’Università di La Plata [32]. Negli anni ’80, la scrittrice argentina di fantascienza Angélica Gorodischer si era già interessata a Guillaumin. Negli anni ‘80, la scrittrice argentina di fantascienza Angélica Gorodischer si era già interessata a Guillaumin.

NOTE

[1] Il saggio è stato pubblicato come introduzione al numero speciale dei Cahiers du genre dedicato a Colette Guillaumin. n° 68, 2020/1, pp.15 à 53, https://www.cairn.info/revue-cahiers-du-genre-2020-1-page-15.htm. Camille Noûs è il nome di una ricercatrice fittizia, creata nel 2020 su iniziativa del gruppo di difesa della ricerca RogueESR come metafora per protestare contro le politiche di fragilizzazione della ricerca da parte del governo francese. L’associazione di questa co-autrice agli articoli scientifici rimanda al riconoscimento pubblico dei valori della ricerca pubblica.

[2] Juteau Danielle, “La sociologa Colette Guillaumin è morta”, Le Monde, 18 maggio 2017.

[3] Il femminismo materialista è come una corrente femminista formata da teoriche quali Nicole-Claude Mathieu, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Monique Wittig e Paola Tabet, nonché dal collettivo della rivista Questions féministes (1977-1980). L’idea di un “femminismo materialista” come corrente di pensiero strutturata con i contorni che conosciamo oggi è in larga misura una “costruzione retrospettiva” in reazione all’emergere, a partire dagli anni ‘90, di un femminismo cosiddetto “postmoderno”. La rivista Questions féministes si definiva “femminista radicale”. Per una storicizzazione di questa corrente, cfr. Abreu, 2017.

[4] Feminist Issues è una rivista femminista statunitense pubblicata dal marzo 1980. Inizialmente, le direttrici della pubblicazione, Mary Jo Lakeland e Susan Ellis Wolf, intendevano tradurre in inglese e pubblicare i testi usciti in Francia su Questions féministes. Dopo il conflitto che ha posto fine all’esperienza di QF, l’iniziativa è proseguita con parte della precedente redazione. Nel primo numero di FI Wittig figurava come “Editor Advisory”, mentre nel secondo Capitan Peter, Guillaumin, Mathieu e Plaza erano indicati come “corrispondenti”.

[5] Le Genre humain è una rivista creata nel 1981 su iniziativa di Guillaumin, Léon Poliakov e Albert Jacquard dedicata all’analisi del razzismo. Il primo numero era intitolato “La scienza di fronte al razzismo” (Fresco, Olender 2017).

[6] Per ulteriori informazioni biografiche, si vedano Juteau (2017), Lhomond (2017), Naudier e Soriano (2010).

[7] Questo centro, fondato nel 1950 e inizialmente collegato al Centro di studi sociologici, è diretto da Paul-Henry Chombart de Lauwe. Le sue aree di ricerca comprendono: “La famiglia, le donne e gli uomini” e “Le segregazioni di classe e di gruppo etnico”.

[8] Sotto la direzione di Roger Bastide, presso l’École Pratique des Hautes Études.

[9] Il CERIN è stato fondato nel 1966 su iniziativa di Henri Laugier. Questo centro è poi diventato l’Istituto di studi e ricerche interetnici e interculturali (IDERIC).

[10] Mary McIntosh pubblica The Homosexual Role nel 1968. Sull’importanza di questo testo e per una panoramica delle ricerche dell’epoca, si veda, ad esempio, Jeffrey Weeks ([1998] 2011).

[11] Nature-elle-ment (la-natura-mente) è il titolo del numero 3 (maggio 1978) della rivista Questions féministes, in cui Guillaumin pubblica la seconda parte del suo saggio “Pratique du pouvoir et idée de nature”.

[12] Questo gruppo è stato creato nel 1975 ed è collegato, da parte francese, alla Maison des Sciences de l’Homme e, da parte inglese, al Social Science Research Council (Londra). È composto da ricercatrici inglesi e francesi come Diana Barker [Leonard], Leonore Davidoff, Jalna Hanmer, Jean Gardiner, Hilary Land, Maxine Molyneux, Jane Shaw e Anne Whitehead per la parte inglese; Noëlle Bisseret, Colette Capitan-Peter, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Emmanuelle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e Ursula Streckeisen per la parte francese.

[13] Sulla stampa femminista dell’epoca: Kandel 1979; Laroche e Larrouy 2011.

[14] Questa analisi dell’ideologia può essere confrontata con quella di Maurice Godelier (1984), che definisce l’ideale e il materiale come componenti di ogni relazione sociale (Daune-Richard e Haicault 1985).

[15] La Revue d’en face è una rivista politica femminista creata nel maggio 1977 e pubblicata inizialmente da Savelli. Nel novembre 1978, entra a far parte della casa editrice Tierce. Si tratta di una pubblicazione che proponeva un’alternativa analitica sia alla corrente differenzialista di Psychanalyse et Politique sia a quella delle femministe radicali di Questions féministes.

[16] Dalla Costa e James 1973; Delphy e Léger 1998 [1976]; Collectif l’Insoumise 1977; Guillaumin 1979; Bourgeois et al. 1978.

[17] Questo gruppo è stato finanziato dal programma PIRTTEM (Programma di ricerca interdisciplinare sulla tecnologia, il lavoro, l’occupazione e gli stili di vita) del CNRS dal 1985 al 1987 (più di trenta partecipanti); tutti i seminari hanno dato luogo a pubblicazioni (Marie-Agnès Barrère-Maurisson e Annette Langevin erano le responsabili delle pubblicazioni). Un colloquio internazionale, tenutosi nel novembre 1987, ha registrato un’ottima partecipazione. L’APRE, istituito in seguito al gruppo ad hoc di Città del Messico e alla pubblicazione di Sexe du travail, ha riunito la maggior parte delle équipe del CNRS e delle università che lavoravano in quel periodo nel settore (CSU-Paris, LEST-Aix en Provence, GEDISSTt-Paris, Groupe d’étude des rôles de sexes, de la famille et du développement, CEDREF Université Paris VII, Université de Nantes, ecc.).

[18] Dibattito organizzato tra Colette Guillaumin e “amiche militanti passate all’estrema sinistra”.

[19] Rivista creata nel 1985 da Rita Thalmann e pubblicata fino al 1999 dal CERIC (Centre d’études et de recherches inter-européennes contemporaines), Université Paris VII.

[20] L’Università di Parigi VII è stata pioniera nel collegare gli studi di genere o sui rapporti sociali di sesso con quelli sulle minoranze etniche migranti (v. la rete “Donne in migrazione” avviata dal CEDREF e dall’URMIS a partire dal 1997).

[21] Dagli anni Settanta a oggi si delinea così un percorso in qualche modo paradossale della ricerca femminista, a lungo lasciata ai margini della ricerca accademica e descritta come ideologica e militante: il contesto internazionale favorisce ora l’emergere di “esperte” e accademiche (Fougeyrollas-Schwebel 2000; si veda anche Collin 1995).

[22] Pubblicati da “Côté femmes” che continuerà ad esistere attraverso la collana “Bibliothèque du féminisme” edita da L’Harmattan, (1996-2009).

[23] Ricordiamo la pubblicazione in francese di Sister Outsider di Aude Lorde (2003); alcuni numeri speciali di riviste (Cahiers du Genre, 2005 e HS 2006); Cahiers du Cedref, 2006); Dorlin e Rouch (a cura di) Black feminism: anthologie du féminisme africain-américain, 1975-2000 (2008). Nel 2007 è ristampato, Femmes, race et classe di Angela Davis, già pubblicato in francese nel 1983.

[24] Non abbiamo qui lo spazio necessario per trattare a sufficienza la questione della classe: la lasceremo quindi da parte. Notiamo però che Guillaumin sottolinea l’importanza della contraddizione tra rapporti di appropriazione e rapporti di sfruttamento. Jules Falquet segue questa linea analitica, sviluppandola in una prospettiva storica e strutturale, per analizzare la globalizzazione neoliberale attraverso i concetti di “vasi comunicanti” (2015) e di “combinatoria straight” (2016).

[25] Rafforzato dalla sistematica e ricorrente cancellazione della storia femminista che porta alla perpetua illusione dell’anno zero che aveva colpito anche le attiviste e le teoriche del 1970.

[26] Per un’analisi dettagliata del libro pionieristico del 1978 La parole aux Négresses dell’autrice senegalese allora residente in Francia, Awa Thiam, si veda Bruneel e Gomes Silva (2017).

[27] Ad esempio, nel testo del 1978, distingue, da un lato, tra la Roma antica (familia), il XVIII e il XIX secolo nel Nord America e nelle Indie Occidentali e, dall’altro, situazioni di schiavitù con limiti temporali specificati in anni (la società ebraica, la polis ateniese, gli Stati Uniti d’America nel XVII secolo) o, ancora, situazioni di servitù della gleba con limiti temporali di durata pari a giorni della settimana.

[28] Un dossier intitolato “Racisme et sexisme, hommage à Véronique de Rudder, Nicole-Claude Mathieu et Colette Guillaumin” è stato pubblicato nel Journal des anthropologues n° 150-151 del 2016, a cura di Annie Benveniste, Catherine Quiminal e Jules Falquet; Hamel (2018); diversi articoli nella rivista Sociologie et Sociétés (49 (1), 2017) nonché un dossier nella rivista Cahiers de Recherche Sociologique, (67, 2020), sotto la direzione di Elsa Galerand, Danielle Juteau e Linda Pietrantonio.

[29] Ha riunito una trentina di relatori e relatrici dal 21 al 23 giugno 2019 presso l’Università di Ottawa. Gli atti filmati sono disponibili su https://leseditionssansfin.wixsite.com/colloqueguillaumin/videos.

[30] Potomitan è un’espressione creola antillano-guyanese. Si riferisce al palo centrale del tempio vudù, l’oufo. L’espressione può anche essere usata per indicare il “sostegno familiare”, di solito la madre. Il termine si riferisce alla persona al centro della famiglia, l’individuo attorno al quale tutto è organizzato e sostenuto.

[31] Il massacro dell’École Polytechnique è avvenuto il 6 dicembre 1989 all’École Polytechnique di Montreal, in Quebec (Canada). Marc Lépine, 25 anni all’epoca, ha aperto il fuoco su ventotto persone, uccidendone quattordici e ferendone altre tredici (9 donne e 4 uomini) prima di suicidarsi. È stato il massacro più letale nella storia del Canada compiuto in ambito scolastico.

[32] Primera Jornada sobre Feminismo Materialista: debates y relecturas desde el Sur, Università di La Plata, Argentina, 14 novembre 2019.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

  • Abreu Maira (2017). « De quelle histoire le ‟féminisme matérialisteˮ (français) est-il le nom ? », Comment s’en sortir ?, 4 : 55-79.
  •  En ligneAit Ben Lmadani Fatima, Moujoud Nasima, (2012). « Peut-on faire de l’intersectionnalité sans les ex-colonisé-e-s ? », Mouvements, 72 (4) : 11-21.
  • Amari Salima (2018). Construction de soi et relations familiales chez les lesbiennes maghrébines – Des équilibres instables. Paris, Editions Du Croquant.
  • Battagliola Françoise, Combes Danièle, Daune-Richard Anne-Marie, Devreux Anne-Marie, Ferrand Michèle, Langevin Annette (1986). À propos des rapports sociaux de sexe, parcours épistémologique. Paris, CSU.
  •  En ligneBentouhami-Molino Hourya, Guénif-Souilamas Nacira (2017). « Avec Colette Guillaumin : penser les rapports de sexe, race, classe. Les paradoxes de l’analogie », Cahiers du Genre, 63 : 205-219. https://www.cairn.info/revue-cahiers-du-genre-2017-2-page-205.htm
  • Benviste Annie, Quiminal Catherine, Falquet Jules (2017) (org.). Racisme et sexisme, hommage à Véronique de Rudder, Nicole-Claude Mathieu et Colette Guillaumin. Journal des anthro-pologues, 150-151.
  • Bilge Sirma, (2015). « De l’analogie à l’articulation : théoriser la différenciation sociale et l’inégalité complexe ». In Palomares Elise et Testenoire Armelle, Prismes féministes. Qu’est-ce que l’intersectionnalité ? Paris, L’Harmattan : 43-64.
  • Blais Mélissa (2018). Masculinisme et violences contre les femmes : une analyse des effets du contremouvement antiféministe sur le mouvement féministe québécois. Thèse de doctorat, Montréal, Université du Québec à Montréal.
  • En ligneBolla Luisina (2019). « Genre, sexe et théorie décoloniale : débats autour du patriarcat et défis contemporains ». Les cahiers du CEDREF, 23 : 136-169.
  • Bourgeois Françoise, Brener Jacqueline, Chabaud Danielle, Cot Annie, Fougeyrollas Dominique, Haicault Monique, Kartchevsky-Bulport Andrée (1978). « Travail domestique et famille du capitalisme ». Critiques de l’économie politique, 3, nouvelle série, avril-juin : 3-23.
  • Bourque Dominique et Maillé Chantal (dir.) (2015). Recherches féministes, Intersectionnalités, 28 (2).
  •  En ligneBruneel Emmanuelle, Gomes Silva Tauana Olivia (2017). « Paroles de femmes noires. Circulations médiatiques et enjeux politiques », Réseaux, 201 : 59-85. https://www.cairn.info/revue-reseaux-2017-1-page-59.htm
  • Butler Judith (2005 [1990]). Trouble dans le genre. Pour un féminisme de la subversion. Paris, La Découverte.
  • Cahiers du CEDREF (2006). (Ré)articulation des rapports sociaux de sexe, classe et « race ». Repères historiques et contemporains.
  • Cahiers du Genre (2005). « Féminisme(s). Penser la pluralité ».
  • Cahiers du Genre, hors-série (2006). « Féminisme(s). Recompositions et mutations ».
  • Chaperon Sylvie (2001). « Une génération d’intellectuelles dans le sillage de Simone de Beauvoir ». Clio – Histoire‚ femmes et sociétés, 13 : 99-116.
  • Chombart de Lauwe Paul-Henry (1963). « Groupe d’ethnologie sociale ». Revue française de sociologie, 4 (4) : 445-453.
  • Chombart de Lauwe Marie-José, Chombart de Lauwe Paul-Henry, Huget Michèle, Perroy Elia, Bisseret Noëlle (1963). La femme dans la société. Son image dans différents milieux sociaux. Paris, CNRS Éditions.
  • Cisne Mirla (2014). « Relações sociais de sexo, “raça”/etnia e classe: Uma análise feminista-materialista ». Revista Temporalis, 14 (28) : 133-149.
  • Collectif L’Insoumise (1977). Le foyer de l’insurrection. Textes sur le salaire pour le travail ménager. Genève, Collectif L’Insoumise.
  • Collin Françoise (1995). « L’apport des ‟gender studiesˮ. La singularité française ». Revue française des affaires sociales, 49, hors-série « Du côté des femmes. Conférences, institutions, recherches », août : 159-169.
  • Curiel Ochy (2013). La nación heterosexual. Análisis del discurso jurídico y el régimen heterosexual desde la antropología de la dominación. Bogotá, Brecha Lésbica.
  • Curiel Ochy, Falquet Jules (dir.) (2005). El patriarcado al desnudo. Tres feministas materialistas. Bogotá, Brecha lésbica.
  • Dalla Costa Mariarosa et James Selma (1973). Le pouvoir des femmes et la subversion sociale. Genève, Librairie Adversaire.
  • Daune-Richard Anne-Marie et Haicault Monique (1985). « Le poids de ‟l’idéelˮ dans les rapports sociaux de sexes ». Cahiers de l’APRE, 3 : 49-93.
  • Davis Angela (2007 [1983]). Femmes, race et classe. Paris, éditions Des femmes.
  •  En ligneDevreux Anne-Marie, Lamoureux Diane (2012). « Les antiféminismes : une nébuleuse aux manifestations tangibles ». Cahiers du genre, 52 (1) : 7-22.
  • Delphy Christine (s.d.). « La revue Nouvelles Questions féministes » (ronéotypé). Dossier par auteur, Archives Recherches Cultures lesbiennes.
  • Delphy Christine et Léger Danièle (1998 [1976]). « Débat : capitalisme, patriarcat et luttes des femmes ». Premier mai, Revue de critique et d’action communiste, 2, juin-juillet. In L’ennemi principal. 1/ Economie politique du patriarcat. Paris, Syllepse, coll. « Nouvelles questions féministes » : 255-269.
  • Dorlin Elsa, Rouch Hélène (dir.) (2008). Black feminism : anthologie du féminisme africain-américain, 1975-2000. Paris, L’Harmattan, coll. « Bibliothèque du féminisme ».
  • Dupont [Delphy] Christine (1998 [1970]. « L’ennemi principal ». In L’ennemi principal. 1/ Economie politique du patriarcat. Paris, Syllepse, coll. « Nouvelles questions féministes »  : 31-56.
  • Falquet Jules (2011) « Lesbiennes migrantes, entre hétéro-circulation et recompositions néolibérales du nationalisme », Recueil Alexandries, Collections Esquisses, http://www.reseau-terra.eu/article1092.html
  • En ligneFalquet Jules (2015) « Le capitalisme néolibéral, allié des femmes ? Perspectives féministes matérialistes et imbricationnistes ». In Verschuur Christine, Guétat Hélène et Guérin Isabelle (dir.), Sous le développement, le genre, Paris : IRD : 365-387.
  • Falquet Jules (2016). « La combinatoire straight. Race, classe, sexe et économie politique : analyses matérialistes et décoloniales ». Les Cahiers du genre, hors-série coordonné par Annie Bidet-Mordrel, Elsa Galerand et Danièle Kergoat) : 73-96.
  • Feldman Nehara (2018). Migrantes : du bassin du fleuve Sénégal aux rives de la Seine. Paris, La Dispute, coll. « Le genre du monde ».
  • Femenías María Luisa (2019). « Épistémologies du Sud : lectures critiques du féminisme décolonial », Les cahiers du CEDREF [En ligne], 23 | 2019, http://journals.openedition.org/cedref/1268
  • Ferreira Verónica, Avila Maria Betânia, Falquet Jules, Abreu Maira (dir.) (2014). O patriarcado desvendado. Teorias de três feministas materialistas. Recife, SOS Corpo.
  • Firestone Shulamith (1972 [1970]). La dialectique du sexe. Le dossier de la révolution féministe. Paris, Stock.
  • Fougeyrollas-Schwebel Dominique (2000). « Le mouvement féministe français : quelle force de changement ». Regards sur l’actualité, 258 : 39-47.
  • Fougeyrollas-Schwebel Dominique, Planté Christine, Riot-Sarcey Michèle, Zaidman Claude (2003). Le genre comme catégorie d’analyse. Sociologie, histoire, littérature. Paris, L’Harmattan.
  •  En ligneFresco Nadine, Olender Maurice (2017). « Colette Guillaumin 1934-2017 ». Le genre humain, 58 : 7.
  • En ligneGalerand Elsa (2015). « Quelle conceptualisation de l’exploitation pour quelle critique intersectionnelle ? ». Recherches féministes, 28 (2) : 179-197.
  • Garbagnoli Sara, Perilli Vicenza, Ribeiro Corrosacz Valeria (2020). Sesso, razza e pratica del potereL’idea di natura. Verona, Ombre Corte.
  • Glenn Evelyn Nakano (1992). « From Servitude to Service: Historical Continuities in the Racial Division of Paid Reproductive Labor ». Signs: Journal of women in culture and society, 18: 1-43.
  • Guillaumin Colette (1967a). « Aspects latents du racisme chez Gobineau ». Cahiers internationaux de sociologie, 42 : 145-178.
  • Guillaumin Colette (1967b). « A propos d’une enquête », Droit et Liberté, 259, 19-21.
  • Guillaumin Colette (1969). « Grande Presse ». In Duchet Claude et Comarmond Patrice, Racisme et société. Paris, Maspero.
  • Guillaumin Colette (1973). « ‟Races”, monde ‟industriel” et ‟tiers”-monde ». Droit et Liberté, 319, 24-26.
  • Guillaumin colette (1977) « Sciences sociales et définitions du terme ‟race” ». Guiral Pierre, Temime Emile (dir.) L’idée de race dans la pensée politique contemporaine. Paris, CNRS éditions.
  • Guillaumin Colette (1995). Racism, Sexism, Power and Ideology (introduction de Robert Miles, préface de Danielle Juteau). Londres, Routledge.
  • Guillaumin Colette (2002 [1972]). L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel. Paris, Gallimard.
  • Guillaumin Colette (2016 [1992]). Sexe, Race et Pratique du pouvoir. L’idée de nature. Donnemarie-Dontilly, Éditions iXe (première publication : Paris, Côté-Femmes Éditions).
  • Guillaumin Colette (2016 [1978]). « Pratique du pouvoir et idée de nature. (1), L’appropriation des femmes. (2), Le discours de la nature. » Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de nature. Donnemarie-Dontilly, Éditions iXe.
  • Guillaumin Colette (2016 [1978]). « Les harengs et les tigres. Remarques sur l’éthologie ». Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de nature. Donnemarie-Dontilly, Éditions iXe.
  • Guillaumin Colette (2016 [1981]). « Femmes et théories de la société : remarques sur les effets théoriques de la colère des opprimées ». Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de nature. Donnemarie-Dontilly, Éditions iXe.
  • Guillaumin Colette (2016 [2002] [1977]). « Race et nature : système de marques, idée de groupe naturel et rapports sociaux ». L’idéologie raciste, Paris, Gallimard, 2002 réédité in Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de nature. Donnemarie-Dontilly, Éditions iXe.
  • Guillaumin Colette (2016 [1990]). « Folie et norme sociale. A propos de l’attentat du 6 décembre 1989 ». Sexe, Race et Pratique du pouvoir. L’idée de nature. Donnemarie-Dontilly, Éditions iXe.
  • Guillaumin Colette (2016 [1992]). « Le corps construit ». Sexe, Race et Pratique du pouvoir. L’idée de nature. Donnemarie-Dontilly, Éditions iXe.
  • Guillaumin Colette (2017 [1998]). « La confrontation des féministes en particulier au racisme en général. Remarques sur les relations du féminisme à ses sociétés ». Supplément du Bulletin de l’Association Nationale des Études Féministes, 26 : 7-14 (republié dans Sociologie et sociétés, 49 (1) : 155-162.)
  •  En ligneHamel Christelle (2018). « Colette Guillaumin (1934-2017) : une pensée constructiviste et matérialiste sur le sexisme et le racisme ». Nouvelles questions féministes, 37 : 186-192.
  • Haicault Monique (2000). L’expérience sociale du quotidien. Corps, espace, temps. Ottawa, Presses de l’université d’Ottawa, coll. « Sciences sociales ».
  • Hill Collins Patricia (2017). « Où allons-nous, maintenant ? », Les cahiers du CEDREF [En ligne], 21 | 2017, http://journals.openedition.org/cedref/1064
  • Joseph Rose-Myrlie (2015). L’articulation des rapports sociaux de sexe, de classe et de race dans la migration et le travail des femmes haïtiennes. Thèse de doctorat en sociologie clinique, université Paris Diderot et université de Lausanne.
  •  En ligneJuteau Danielle (2010). « Nous » les femmes : sur l’indissociable homogénéité et hétérogénéité de la catégorie. L’Homme et la société, 176-177 : 65-81.
  • Juteau Danielle (2015). L’ethnicité et ses frontières. Montréal, Presses de l’université de Montréal.
  • Juteau Danielle (2017). « Sur la pensée de Colette Guillaumin – Entretien avec Danielle Juteau, réalisé par Valérie Amiraux et Nicolas Sallée ». Sociologie et sociétés, 49 (1) : 163-175.
  • Juteau Danielle, Laurin Nicole (1988). « L’évolution des formes de l’appropriation des femmes. Des religieuses aux “mères porteuses” ». Revue canadienne de sociologie et l’anthropologie, 25 (2) : 183-207.
  • Kandel Liliane (1979). « Des journaux et des femmes ». Pénélope, 1 : 44-71.
  • Kuhar Roman, Paternotte David (2018). Campagnes anti-genre en Europe. Des mobilisations contre l’égalité. Lyon, Presses universitaires de Lyon.
  • Lamour Sabine (2017). Entre imaginaire et histoire : une approche matérialiste du poto-mitan en Haïti, Thèse de doctorat en sociologie, Université de Paris 8.
  •  En ligneLamoureux Diane (2006). « Y a-t-il une troisième vague féministe ? ». Cahiers du genre, hors-série : 57-74.
  • Laroche Martine, Larrouy Michèle. Le collectif des Archives Recherches cultures lesbiennes (2011). Mouvement de presse des années 1970 à nos jours, luttes féministes et lesbiennes, Paris, éditions ARCL.
  • Lemerle Sébastien (2014). Le singe, le gène et le neurone. Du retour du biologisme en France. Paris, PUF, coll. « Science, histoire et société ».
  • Lhomond Brigitte (2017). « In memoriam. Colette Guillaumin ». Bulletin de l’ANEF, 67 : 43-44.
  • Loaiza Zapata July Angeli (2017). « Régimen heterosexual y conflicto armado: análisis de la apropiación material de las mujeres en Aracataca, Magdalena ». Tesis de Maestría en Estudios de Género, Universidad Nacional de Colombia, Bogotá.
  • Lorde Aude (2003). Sister outsider. Propos sur la poésie, l’érotisme, le racisme, le sexisme. Editions Mamamélis.
  • Lugones María (2019 [2008]). « La colonialité du genre ». Les cahiers du CEDREF [En ligne], 23 | 2019, http://journals.openedition.org/cedref/1196
  • Mathieu Nicole-Claude (2013 [1973]). « Homme-culture et femme-nature ? ». L’anatomie politique. Paris, La Dispute.
  • Mathieu Nicole-Claude (2013 [1991]). L’anatomie politique. Paris, La Dispute.
  • En ligneMcIntosch Mary (1968). « The Homosexual Role ». Social Problems, 16 (2) : 182-192.
  • En ligneMichel Andrée (1962). « Tendances nouvelles de la sociologie des relations raciales ». Revue française de sociologie, 3 (2) : 181-190.
  • Millett Kate (1971 [1970]). La politique du mâle. Paris, Stock.
  • Moujoud Nasima, Falquet Jules (2010) « Cent ans de sollicitude en France. Domesticité, reproduction sociale, migration et histoire coloniale ». Agone, 43, Comment le genre trouble la classe : 169-195.
  • Moreau de Bellaing Louis (1973). Colette Guillaumin, L’Idéologie raciste : genèse et langage actuel, La Haye, Mouton, [compte rendu]. L’homme et la société, 27 : 205-206.
  •  En ligneNaudier Delphine, Soriano Éric (2010). « Colette Guillaumin. La race, le sexe et les vertus de l’analogie ». Cahiers du genre, 48 : 193-214.
  • Palomares Elise, Testenoire Armelle (2010). Prismes féministes. Qu’est-ce que l’intersectionnalité ? Paris, L’Harmattan.
  •  En ligneParis Myriam (2017). « Un féminisme anticolonial : l’Union des femmes de La Réunion (1946-1981) ». Mouvements, 91 (3) : 141-149.
  • Pietrantonio Linda (2005). « Égalité et norme. Pour une analyse du majoritaire social ». Mots. Les langages du politique, 78, http://journals.openedition.org/mots/431
  • En lignePoliakov Léon (1961). « Racisme et sciences de l’homme ». Annales, 16 (3) : 589-597.
  • En lignePoliakov Léon (1973). « L’image des hommes du Tiers Monde : le passé et le présent ». Revue française d’Histoire d’Outre-Mer, 60 (218) : 86-97.
  • En ligneRudder Véronique de (1991). « Le racisme dans les relations interethniques ». L’Homme et la société, 102 : 75-92.
  • Scott Joan (1988 [1986]). « Le genre comme catégorie d’analyse ». Les Cahiers du Grif, Le genre de l’histoire37-38 : 125-153
  • Tahon Marie-Blanche (2004). Sociologie des rapports de sexe. Ottawa, Presses de l’université d’Ottawa, Rennes, Presses universitaires de Rennes.
  • Théry Irène (1981). « Sexage : une théorie au-dessus de tout soupçon ». La revue d’en face, 9-10 : 15-26.
  • Thiam Awa (1978). La parole aux Négresses. Paris, Denoël.
  • Un collectif italien (1976). Etre exploitées. Paris, éditions Des femmes.
  • Weeks Jeffrey ([1998] 2011). « Le ‟rôle homosexuelˮ trente ans plus tard : retour sur le travail de Mary McIntosh ». Genre, sexualité & société, hors-série 1 | 2011, consulté le 07 juin 2020. URL : http://journals.openedition.org/gss/1839
  • Winter Bronwyn (2016). « ‟Feminisms; Frenchˮ, ‘‟Feminisms; Radicalˮ, ‟Feminisms; Materialistˮ, ‟Radical lesbianismˮ, and ‟Women’s Movement: Modern International Movementˮ ». In Naples Nancy et al. (eds.): The Wiley-Blackwell Encyclopedia of Gender and Sexuality Studies. Milton QLD: Wiley Blackwell.
  • Wittig Monique (2001 [1980]). La pensée straight. Paris, Balland.

Il bacio di Sally. Erotismo, lesbismo e femminismo in Mrs Dalloway di Virginia Woolf

di Stefania Arcara
[estratto da un articolo originariamente pubblicato su Critica del testo, XXV / 3, 2022, pp. 1-21]

Occorre assumere insieme un punto di vista particolare e un punto di vista universale, almeno per essere parte della letteratura. Ovvero, si deve lavorare per raggiungere il generale, anche se si inizia da un punto di vista individuale o specifico.
(Monique Wittig)

Prima edizione di Mrs Dalloway, 1925 – copertina di Vanessa Bell

«La critica non ha mai messo a tema il fatto che per mezzo secolo Sally ha baciato un fiore, anziché l’amica Clarissa»: così la traduttrice Anna Nadotti, nel 2012, accennava alla censura dell’erotismo lesbico imposta al romanzo woolfiano Mrs Dalloway nell’unica traduzione disponibile al pubblico italiano tra il 1946 e il 1989.[1] Il bacio sulle labbra tra due giovani donne innamorate, Sally Seton e la protagonista, evocato in una scena cruciale del romanzo, è stato sostituito nella traduzione italiana conosciuta da generazioni di lettori e lettrici da un casto, quanto insensato, bacio sui petali di un fiore. Il testo originale recita: «Sally stopped; picked a flower; kissed her on the lips»; «Sally si fermò; colse un fiore; la baciò sulle labbra» (La signora Dalloway, a cura di M. Sestito, Venezia, Marsilio, 2012, p. 115). La traduzione del 1946 riportava invece: «Sally si fermò, spiccò un fiore, lo portò alle labbra e lo baciò» (La signora Dalloway, a cura di S. Perosa, trad. A. Scalero, Milano, Mondadori, 19882, p. 41). Oltre all’intensità erotica della narrazione, tale rimozione ha anche cancellato, nel testo italiano, la centralità diegetica di quello che Clarissa ricorda come «il momento più bello di tutta la sua vita», «infinitamente prezioso» – un episodio senza il quale la lettura del romanzo risulterà evidentemente distorta.

La traduzione censurata del ’46 è stata riedita negli anni Ottanta a cura di Sergio Perosa, che nel suo saggio introduttivo tace tanto sul lesbismo quanto sulla censura operata sul testo.[2] Il bacio tra Clarissa e Sally è stato restituito al pubblico italiano per la prima volta nel 1989 nella traduzione di Nadia Fusini, che mantiene il massimo riserbo sulla questione, e nelle numerose traduzioni successive, l’ultima del 2012.[3] È interessante notare come la disponibilità della traduzione corretta nei decenni scorsi non abbia scalfito la lettura del romanzo in chiave strettamente eterosessuale ancora oggi predominante in Italia, che prevede un tradizionale triangolo amoroso lei-lui-lui e si concentra sulla scelta della protagonista di sposare il più pacato e rassicurante Richard Dalloway piuttosto che il suo primo pretendente, Peter Walsh, del quale, secondo questa interpretazione, sarebbe stata «innamorata».[4] Tale lettura minimizza, o persino sopprime del tutto (com’è accaduto anche di recente), il rilievo del tema lesbico nel romanzo.[5]

Molto diversa è la lettura dell’opera in ambito anglofono, non solo accademico: in un programma culturale rivolto al grande pubblico quale In Our Time della BBC Radio 4, nella puntata dedicata a Mrs Dalloway, il conduttore Melvyn Bragg discute a lungo con Jane Goldman, Hermione Lee e Kathryn Simpson – tra le maggiori studiose woolfiane – dell’importanza del lesbismo, della scena del bacio saffico e del personaggio di Sally Seton.[6] Un confronto tra la ricezione italiana del romanzo da una parte, e le letture femministe offerte dalla critica anglofona dall’altra, spinge a chiedersi se il lesbismo, in Mrs Dalloway come nel resto dell’opera woolfiana, non abbia costituito un argomento tabù presso le studiose italiane, il cui approccio si fonda sul pensiero della differenza sessuale. Se già nel 1976 Judith McDaniel poneva la domanda «Why not Sally?»,[7] in Italia il lesbismo nella scrittura (e nella vita) di Woolf, quando non ignorato, appare talvolta banalizzato – ridotto ad aspetto marginale, a personale eccentricità: nella recente pubblicazione del carteggio tra Woolf e Sackville-West, Nadia Fusini, pur riconoscendo l’amore e «l’energia erotica» che scorre in quelle lettere, le presenta rivolgendosi al «lettore» che abbia «un certo gusto del pettegolezzo piccante».[8] Il lesbismo è stato cioè artatamente disgiunto dalla visione femminista dell’autrice, arrivando a essere liquidato come fastidiosa questione «politically correct» e come mera etichetta limitante.[9]

Non è questa la sede per offrire una lettura dell’opera woolfiana attraverso la lente della critica femminista e lesbofemminista (per quest’ultima rimando al prestigioso volume Virginia Woolf. Lesbian Readings, uscito nel 1997, culmine di almeno vent’anni di studi precedenti).[10] Mi concentrerò qui sulla rappresentazione dell’eros in Mrs Dalloway, proponendomi un duplice obiettivo: da una parte, esaminare le strategie narrative con le quali l’autrice, partendo da un punto di vista particolare (l’amore lesbico) ma creando letteratura universale, evoca in questo romanzo la qualità dell’esperienza erotica; dall’altra, iniziare a restituire al pubblico italiano l’intreccio tra femminismo e lesbismo nella scrittura di Virginia Woolf, ovvero, come già auspicava Karyn Sproles, a integrare la sessualità nella lettura della sua opera come accade per Proust o Gertrude Stein.[11] Non si tratta, s’intende, di affibbiare un’etichetta a Woolf e costringerla nella camicia di forza di una “categoria”, come temono alcune; ma, al contrario, di aprire la possibilità di una lettura dell’opera libera da qualsiasi censura (non solo traduttiva), che ne colga tutta la ricchezza.

Nelle letture italiane di Mrs Dalloway che fin qui hanno cancellato il lesbismo sparisce infatti, con un colpo di spugna, anche uno degli elementi tematici e formali del romanzo, la critica al patriarcato, all’istituzione del matrimonio e all’eterosessualità obbligatoria che, come nota una studiosa del calibro di Jane Goldman,[12] è intrecciato agli altri aspetti di critica sociale che informano la narrazione, quali la denuncia della guerra, dell’imperialismo britannico e dell’establishment medico-psichiatrico.

Solo tenendo insieme desiderio erotico, lesbismo e femminismo è possibile cogliere il significato dell’amore tra donne nella scrittura di Woolf: «women alone stir my imagination», scriveva l’autrice nel 1930 a Ethel Smyth a proposito della propria arte.[13] Ricorrono infatti, nell’opera di Woolf, figure positive di donne che si sottraggono all’eterosessualità e si oppongono alle norme patriarcali: Mary Datchet in Night and Day, Lily Briscoe in To the Lighthouse, Eleanor e Sarah Pargiter in The Years, Miss La Trobe in Between the Acts, e la lista potrebbe continuare.[14]

Come ci ricorda Terry Castle a proposito della dimensione fantasmatica della figura della donna non eterosessuale nella cultura moderna, «when it comes to lesbians (…) many people have trouble seeing what’s in front of them».[15] Se è vero, come fa notare Patricia Cramer, che le norme culturali dominanti e la formazione accademica tradizionale ci predispongono a riconoscere in un’opera temi eterosessuali ma non omosessuali,[16] una lettura attenta ci confermerà che parlare di eros nella scrittura woolfiana significa parlare di lesbismo: «we must remember that when she did express desire, it was more commonly lesbian».[17] Come vedremo, è proprio questo il caso di Mrs Dalloway: il desiderio, la passione, l’erotismo riguardano, in questo romanzo, esclusivamente il rapporto tra donne. Come suggerisce Pamela J. Olano, in quanto lettrici, noi tutte, indipendentemente dall’“orientamento” sessuale, possiamo adoperarci per abbandonare l’aspettativa automaticamente eterocentrata a proposito della narrazione erotico-amorosa e immergerci nello spazio narrativo lesbico creato dall’autrice.[18]

Illustrazione di Maria Giovanna De Fino, 2019

Una Woolf verginale? Una «frigida dama?»

Prima di occupare un posto di rilievo nel canone letterario, la narrativa woolfiana non è stata esente da critiche: una delle debolezze riscontrate riguardava la presunta assenza di elementi relativi alla sessualità presenti invece in autori quali Proust e Joyce.[19] L’accusa di “asessualità” rivolta all’opera di Woolf poggiava anche su considerazioni extra-letterarie, basate sulla biografia pubblicata dal nipote Quentin Bell nel 1972. Prendendo per buona l’opinione del biografo, secondo il quale nella personalità di Woolf «the erotic element (…) was faint and tenuous»,[20] fu facile trarre la conclusione che l’autrice fosse una donna “frigida” e che di questa caratteristica risentisse anche la sua narrativa. Bell minimizzava l’importanza sia del lesbismo che della sessualità nella vita di Woolf, descrivendola ripetutamente come «verginale». Pur menzionando le relazioni di Woolf con le donne, il biografo non le presentava come rilevanti per la sua scrittura o per la sua analisi sociale.[21] Bell e altri individuavano nei romanzi woolfiani una qualità eterea e priva di sostanza, limite che veniva addirittura spiegato dal biografo come riflesso della “nevrosi” sessuale dell’autrice, da lui definita una «sexless Sappho».[22] Persino una studiosa come Elaine Showalter, in un saggio del 1977, ha visto in Woolf una scrittrice vittima della repressione sessuale vittoriana, arrivando ad associare l’immagine di «una stanza tutta per sé» all’idea di un isolamento sepolcrale, simbolo della «femminilità» mortifera e disincarnata dell’autrice e del suo disimpegno sociale e sessuale.[23]

La figura di Virginia Woolf ha sempre generato «custody battles over who gets to define her meaning».[24] È quanto accade a partire dagli anni Settanta, con la pubblicazione delle lettere e dei diari dell’autrice, che ha permesso a lettrici e studiose di ascoltare la voce di Woolf «unfiltered through husband or nephew or academic critics».[25] Sono stati denunciati così i limiti delle versioni ufficiali fornite dal marito Leonard e da quei «sons of Bloomsbury» – il nipote Quentin Bell e Nigel Nicolson, figlio di Vita Sackville-West – che avevano dato risalto alla malattia mentale della scrittrice, descrivendola come donna sessualmente frigida e classificandola come autrice elitaria.[26]

Se negli studi critici e nelle biografie è stata a lungo pratica comune ignorare o ridimensionare la relazione lesbica tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West per affermare il primato dei legami eterosessuali delle due donne[27] (pratica invalsa anche in Italia con la rituale celebrazione della figura salvifica di Leonard), negli ultimi decenni è stata evidenziata, al contrario, la centralità della relazione d’amore e amicizia tra le due scrittrici, efficacemente definita una «partnership», durata quasi due decenni: un «collaborative project» la cui influenza fu reciproca e profonda.[28]

Virginia Woolf inizia a scrivere Mrs Dalloway nel 1922 e lo pubblica nel 1925: sono gli anni della «Sapphic modernity», la graduale diffusione di una «visible modern English lesbian subculture» che caratterizzerà la cultura britannica tra le due guerre.[29] Nel 1921 il Parlamento discute una legge per criminalizzare l’omosessualità femminile e nel 1928 il romanzo di Radclyffe Hall, The Well of Loneliness, è al centro di un processo per oscenità il cui esito sarà la censura (malgrado non apprezzi il romanzo, Virginia Woolf, insieme ad altre personalità di Bloomsbury, si schiera in difesa della scrittrice in nome della libertà d’espressione).[30] Negli stessi anni in cui le istituzioni si impegnano a patologizzare e criminalizzare il lesbismo, si registra una fioritura senza precedenti di relazioni e comunità intellettuali “saffiche” (questo il termine in voga), di cui Woolf era a conoscenza attraverso figure di spicco di quelle comunità, quali Vita Sackville-West e più tardi Ethel Smyth.[31]

Le crescente intimità tra le due scrittrici, che si conobbero nel dicembre del 1922, incoraggerà Virginia Woolf a mettere a tema l’omoerotismo nel romanzo a cui stava lavorando.[32] Nel 1924, mentre è impegnata nella stesura dell’opera, annota nel suo diario: «Here I am peering across Vita at my blessed Mrs Dalloway».[33] Nel 1928 Woolf racconterà a Sackville-West del suo primo innamoramento per una donna, l’amica di famiglia Madge Symonds Vaughan, sulla quale, come lei stessa rivela, ha modellato il personaggio di Sally Seton in Mrs Dalloway.[34]

Hermione Lee invita giustamente alla cautela rispetto a una lettura in chiave biografica del romanzo, poiché Woolf, come tutte le grandi menti creative, «splits herself in the book into all different characters» (per esempio, l’esperienza personale della malattia mentale è incarnata nel romanzo dal personaggio di Septimus).[35] La signora Dalloway è molto lontana dalla sua autrice in termini di classe sociale o vedute politiche, tuttavia le parole di Clarissa per descrivere la propria passione amorosa per Sally («holding the hot-water can in her hands and saying aloud, “She is beneath this roof… She is beneath this roof!”»)[36] coincidono quasi verbatim con quelle della giovane Virginia innamorata di Madge Symonds, riportate da Quentin Bell: «her hand gripping the handle of the water-jug in the top room at Hyde Park Gate, she exclaimed to herself: “Madge is here; at this moment she is actually under this roof”».[37] Come afferma lo stesso biografo, la passione della giovane Virginia fu intensa: «Virginia once declared that she had never felt a more poignant emotion over anyone than she did at that moment for Madge»,[38] un’intensità espressa iperbolicamente come quella che, nel romanzo, Clarissa prova per Sally.

È pur vero che nell’economia del romanzo la relazione saffica di Clarissa Dalloway è a prima vista una presenza poco cospicua. Come si vedrà, Woolf adotta sottili strategie di svelamento e nascondimento per trattare il tema del lesbismo nella sua scrittura, e lo fa con estrema consapevolezza: lo testimonia, tra l’altro, la soddisfazione divertita che esprime nel 1927 quando il lesbismo passa inosservato nella sua «little Sapphist story», Slater’s Pins Have No Points, che riesce a pubblicare senza censure: «the editor has not seen the point», si vanta con Vita, «though he’s been looking for it in the Adirondacks».[39]

D’altra parte, la signora Dalloway, proprio come Virginia Woolf e Vita Sackville-West, vive una vita apparentemente “normale”: per queste donne, infatti, il lesbismo non è un’identità, ma la tessitura di legami emotivi ed erotici che potevano prosperare felicemente negli interstizi di un’esistenza eterosessuale, nelle pieghe dell’istituzione matrimoniale.[40] Sicuramente Woolf era lontana dal concepire il lesbismo sulla base delle categorie del discorso medico-sessuologico e antifemminista rappresentato, tra Otto e Novecento, da Havelock Ellis, Edward Carpenter e Stella Browne, che in parte influenzarono Sackville-West.[41] Si può dire piuttosto, con Suzanne Raitt, che Woolf e Sackville-West «both were and were not lesbian».[42] Un’indicazione importante in questo senso ce la fornisce il personaggio di Clarissa, la quale, nel discorso indiretto libero che esprime i suoi pensieri mentre passeggia per le strade di Londra, evita di dare definizioni di sé stessa e delle persone che ha intorno: «she would not say of anyone in the world now that they were this or were that. (…) She would not say of herself, I am this, I am that».

Il titolo dell’opera definisce però la protagonista attraverso un’identità ben precisa, quella di moglie. Come nota Kathryn Simpson, il titolo che sembra preannunciare la storia di un matrimonio felice si rivelerà fuorviante: Clarissa Dalloway è infatti «un’eroina ambigua».[43] Il ricordo del bacio della sua amata Sally l’accompagna per l’intera narrazione: in tal modo Clarissa continua a sottrarsi, in una certa misura, alla dimensione di compromesso eterosessuale in cui vive nel presente. La scelta di una protagonista non più giovane, dai capelli bianchi, che ha già adempiuto ai propri doveri di moglie e madre («there being no more marrying, no more having children now») è una delle novità dello sperimentalismo modernista woolfiano, che insieme alle convenzioni del romanzo realista, abbandona matrimonio e maternità come uniche narrazioni previste per i personaggi femminili e crea invece «subversive subplots», spesso incentrati sull’omoerotismo: è quanto avviene in Mrs Dalloway, che è stato considerato dalla critica «Woolf’s most overt celebration of lesbian sexuality» e «the most lesbian specific piece of writing Woolf ever published».[44]

Com’è noto, la narrazione si dipana in un continuo intreccio di passato e presente, la vita che scorre nella Londra postbellica in un giorno di giugno del 1923 e i ricordi di un’estate trascorsa a Bourton quando Clarissa Parry aveva diciotto anni. Con la sua tecnica del tunnelling process, Woolf scava cunicoli nella mente della protagonista: lì, nella memoria della signora Dalloway, riaffiora a distanza di più di trent’anni l’innamoramento per l’amica Sally Seton, un’emozione talmente intensa da essere espressa con un verso dell’Othello shakespeariano («if it were now to die ’twere now to be most happy») che racchiude l’idea di massima felicità, quella giovanile, innocente e autentica – un’esperienza che formerà parte della sua coscienza per il resto della sua esistenza.

Malgrado sia moglie e madre, la Clarissa del presente, che dorme da sola in un attico, è presentata più volte con attributi verginali, associata a spazi claustrali e paragonata per due volte a una monaca («like a nun withdrawing»): tuttavia, le letture che insistono sulla “frigidità” di Clarissa (Fusini la chiama «la frigida dama», il cui vero e unico «emozionante coito nuziale» è la sintonia ideale con il suicida Septimus; Showalter associa la camera da letto solitaria alla morte)[45] scelgono di ignorare sia il discorso omoerotico che pervade la narrazione che la sexual politics sottesa a queste connotazioni di “castità” del personaggio. Non è un caso, infatti, che la freddezza di Clarissa sia la «coldness» che le viene attribuita da Peter Walsh, il pretendente rifiutato, insieme ai termini «woodenness» e, significativamente, «impenetrability»; è quella freddezza per la quale lei stessa ritiene di essere stata “manchevole” nei confronti del marito («she had failed him»). La freddezza di Clarissa, la sua castità monacale, non sono altro che il suo sottrarsi all’eterosessualità, e non un’impassibilità connaturata al personaggio: il “verginale” autocontrollo e la mancanza di trasporto nei confronti del marito e di Peter Walsh non impediscono infatti a Clarissa di provare piacere, passione, attrazione erotica per le donne, emozioni rintracciabili, a ben guardare, nelle pagine del romanzo. Clarissa è attratta dalle donne, «this falling in love with women», «yielding to the charm of a woman», come lei stessa afferma inequivocabilmente quando è assorta nei suoi pensieri nell’intimità della propria «stanza tutta per sé», in cui dorme lontana dal letto matrimoniale.

«Il momento più bello di tutta la sua vita»

Una delle più lunghe sequenze narrative del romanzo rievoca gli anni della giovinezza della protagonista: la vita di una giovane donna dell’alta borghesia nella fase di passaggio dalla libertà dell’amicizia tra donne al destino sociale del matrimonio.La passione amorosa tra Clarissa e Sally è attrazione intellettuale e insieme erotica: Clarissa è sedotta tanto dalla sensualità di Sally («all that evening she could not take her eyes off Sally»), quanto dalle sue opinioni politiche. Con le sue vedute radicali e la sua condotta ribelle, Sally rappresenta la possibilità di una piena realizzazione personale, un’alternativa al destino patriarcale riservato alle donne.[46] A Bourton le due ragazze leggono William Morris, Shelley, Platone, e conversano fino a tarda notte nella camera da letto «at the top of the house», uno spazio separato, come l’attico in cui dorme la Clarissa del presente. Il loro è un innamoramento fatto di complicità: «a sense of being in league together», un sentimento associato all’idea di integrità, poiché, a differenza di quello per un uomo, è «completely disinterested», una qualità «which could only exist between women».

Entrambe le ragazze pensano al matrimonio come a una «catastrofe». Com’è stato notato, la critica all’istituzione del matrimonio percorre sottilmente tutto il romanzo:[47] da Evelyn Whitbread, che soffre di «some internal ailment», a Lady Bradshaw, che a un certo punto «had gone under», all’infelice Lucrezia, le donne sposate sembrano pagare il tributo della perdita di indipendenza. Per Clarissa il matrimonio con il parlamentare Richard Dalloway, basato su rispetto reciproco, amicizia e affetto, ma privo di passione erotica, costituisce parte integrante della propria identità sociale. Richard, che regge «like a weapon» il mazzo di fiori da regalare alla moglie, è considerato lucidamente da Clarissa «the foundation» della propria esistenza agiata, ma mai oggetto di attrazione erotica. Questo matrimonio, che le ha evitato il coinvolgimento che il possessivo Peter Walsh le avrebbe richiesto (e che lei non era disposta a garantire), le consente di mantenere le apparenze e al tempo stesso di coltivare la propria attrazione per le donne. Clarissa tuttavia è consapevole dell’incompatibilità tra i propri desideri e l’identità pubblica della “signora Dalloway”: significativamente, il bacio di Sally è per lei un tesoro segreto, custodito per tutta la vita nel privato dell’anima, «a diamond, something precious, wrapped up».

Anche la Sally del presente, come scopriremo verso la fine del romanzo, ha ceduto alla pressione sociale e abbandonato ogni proposito di ribellione, tanto da essere divenuta la ricca Lady Rosseter, orgogliosa madre di cinque figli maschi. Tuttavia, in un importante passaggio nelle ultime pagine del testo, si dice convinta, insieme a Peter Walsh, che si ami davvero una sola volta nella vita: «and she had loved her», Sally dichiarava a quel punto in una prima stesura del romanzo, mentre nella versione definitiva l’oggetto del vero, unico amore di Sally resta implicito, eppure inequivocabile.[48] Anche il matrimonio di Sally, come quello di Clarissa, non è associato all’attrazione erotica: Lady Rosseter è la moglie di un uomo calvo, un ricco industriale del cotone, e sebbene si dica felice, ha perso ogni fiducia nei rapporti umani – «Are we not all prisoners?», si chiede – trovando consolazione solo nelle sue serre di fiori esotici.

Mentre il matrimonio è rappresentato come sessualmente insoddisfacente, in Mrs Dalloway il piacere e la passione sono associati alla relazione tra donne. La qualità erotica di questa relazione affiora attraverso lo stile lirico e allusivo della scrittura woolfiana. Virginia Woolf è consapevole della difficoltà, per una romanziera, non solo di scrivere di passioni e di corpi, ma di scriverne dicendo la verità su di essi da un punto di vista femminile. Nel 1932 dichiarerà che uno dei problemi che, come ogni scrittrice, ha dovuto affrontare, insieme a quello di uccidere «the Angel in the House», è quello di «telling the truth about my own experiences as a body», mentre gli uomini si permettono «great freedoms» a questo proposito.[49] Come ci ricorda la stessa autrice in A Room of One’s Own, alle donne, in letteratura, raramente è stato permesso di piacersi l’un l’altra: le figure femminili sono state quasi sempre rappresentate in relazione agli uomini. Ciò che Woolf riesce a realizzare, in alcuni passaggi di Mrs Dalloway, è qualcosa di inedito e audace: parlare di eros da una prospettiva femminile e non eterosessuale, cogliendo la vita delle donne in relazione tra loro, non più viste attraverso lo sguardo maschile.

Mantenendo un delicato equilibrio tra rivelazione e occultamento, Woolf elabora un «seductive and allusive style» che al tempo stesso sollecita e ostacola l’operazione di svelamento da parte di chi legge: con raffinate «coding techniques» l’autrice offre infatti una rappresentazione “cifrata” dell’omoerotismo.[50] Le immagini floreali sono uno degli esempi di tale codificazione del lesbismo: i fiori sono spesso associati, nella narrativa woolfiana, alla condivisione di sentimenti ed emozioni, anche sessuali, tra donne,[51] così come le immagini legate a flora e fauna sono cariche di intensità erotica negli scritti privati dell’autrice la quale, nel 1926, così scriveva dell’imminente incontro con l’amante: «Vita is now arriving to spend 2 nights alone with me (…) the June nights are long and warm; the roses flowering; and the garden full of lust and bees».[52] E ancora, in una lettera a Vita dello stesso anno, i fiori sono termine di paragone per alludere alla sensualità dell’amante: «The flowers have come, and are adorable, dusky, tortured, passionate like you», mentre in una lettera in cui rimprovera scherzosamente alla sorella Vanessa il disinteresse per il fascino femminile compare la metafora del giardino: «You will never succumb to the charms of any of your sex – What an arid garden the world must be for you!»; [53] gli esempi potrebbero continuare.

Graffiti, 2007 – foto di Brocco

L’uso che Woolf fa delle immagini floreali si colloca in una tradizione di scrittura lesbica che, come osserva Patricia Cramer, si contrappone alla convenzione letteraria maschile che associa fiori e “femminilità” per idealizzare quest’ultima in termini di delicatezza e vulnerabilità; Woolf rielabora questa associazione tra donne e fiori per esprimere l’intensità del desiderio omoerotico, nella tradizione di Emily Dickinson e delle poetesse tardovittoriane conosciute come “Michael Field”, da lei apprezzate.[54]

La scena del bacio sulle labbra tra Sally e Clarissa è ambientata in giardino, accanto a una «stone urn with flowers in it», ed è evocata con un’audace mescolanza di carnalità e spiritualità, al tempo stesso sensazione fisica di vertigine e attimo di trascendenza:

Sally stopped; picked a flower; kissed her on the lips. The whole world might have turned upside down! The others disappeared; there she was alone with Sally. And she felt that she had been given a present, wrapped up, and told just to keep it, not to look at it—a diamond, something infinitely precious, wrapped up, which, as they walked (up and down, up and down), she uncovered, or the radiance burnt through, the revelation, the religious feeling!

Il piacere erotico, per Clarissa, ha la forza di una «rivelazione» che per essere verbalizzata richiede un linguaggio lirico.[55] È una felicità definita in termini trascendenti, ma provata inequivocabilmente attraverso i sensi, nell’attimo del contatto con le labbra di Sally, un attimo in cui tutto il resto scompare e il mondo si capovolge.

Il momento termina bruscamente con l’arrivo di Peter Walsh e del vecchio Joseph. Di fronte a questa intrusione di due uomini che interrompono la sua estasi erotica, Clarissa prova una sensazione fisica paragonata a un urto violento: «It was like running one’s face against a granite wall in the darkness! It was shocking; it was horrible!». Nella poetica woolfiana l’immagine del granito rimanda, come nota Fusini, alla solidità e all’opacità del reale, facendo da contrappunto a quella dell’arcobaleno, «le illuminazioni soggettive»:[56] non a caso, il bacio è vissuto da Clarissa proprio come tale, un’epifania sensuale – interrotta dall’imporsi della realtà sociale che spegne all’improvviso lo splendore dell’attimo erotico-amoroso. È un punto cruciale della narrazione, in cui la sensazione di orribile shock contrasta con la felicità estatica del momento precedente: Clarissa aveva sempre saputo che «something would interrupt, would embitter her moment of happiness». Le norme sociali prevedono che quel bacio debba essere interrotto, e così avviene. D’ora in poi Clarissa dovrà dedicarsi a svolgere il proprio ruolo sociale nel rituale del corteggiamento e poi del matrimonio.

Com’è stato notato, dal punto di vista diegetico il momento del bacio è fuori sincrono rispetto allo sviluppo convenzionale della narrazione incentrata sul legame eterosessuale: quest’attimo di felicità estatica costituisce una «erotic pause» rispetto al futuro eterosessuale che seguirà.[57] È uno di quei momenti, ricorrenti nella narrazione woolfiana, in cui il tempo funziona in modo diverso, dilatandosi. L’evento non ha conseguenze sulla “trama” del romanzo, poiché conosciamo sin dall’inizio, addirittura dal titolo, la direzione che ha preso la vita della protagonista, diventata «Mrs Richard Dalloway»: esso ritorna nel testo senza alcuna logica narrativa di causa ed effetto: l’amore e l’attrazione per Sally non sono infatti relegati nel passato come se questo fosse un’epoca conclusa, nettamente distinta dal presente. L’interruzione della scena da parte degli uomini non diminuisce, ma al contrario, sottolinea la centralità del bacio nella narrazione: il bacio ha infatti un’«afterlife», è un attimo che dura, che torna ad agire sul presente di Clarissa.[58] In questo senso, il bacio di Sally esemplifica la capacità della scrittura woolfiana di smantellare la forma narrativa basata sulla linearità temporale e contemporaneamente di reinventare la trama romanzesca tradizionale (eterosessuale).

È significativo che l’unico altro bacio che compare nelle pagine di Mrs Dalloway sia quello eterosessuale, e non consensuale, imposto alla giovane Sally dall’amico Hugh Whitbread: non solo questo bacio non ha nulla di erotico, ma è un modo, da parte dell’uomo, per rimettere al suo posto la giovane ribelle che in una discussione aveva difeso il suffragio femminile («to punish her for saying that women should have votes»); è equiparato a un insulto («he had insulted her – kissed her») che fa infuriare Sally, e come tale viene ancora ricordato da lei trent’anni dopo, alla festa di Clarissa. Non è un caso che nella narrativa woolfiana vi sia un altro bacio eterosessuale, anch’esso non voluto, ma al contrario subìto, da una giovane donna: quello che Rachel Vinrace, la protagonista di A Voyage Out, riceve da uno dei passeggeri della nave, di nome Richard Dalloway – una molestia che le procurerà profondo turbamento e incubi notturni.

In netta contrapposizione a queste espressioni di sessualità maschile, tra cui spiccano anche l’atteggiamento predatorio e la «masturbatory fantasy»[59] di Peter Walsh che segue una giovane donna per strada, in Mrs Dalloway Woolf sperimenta forme inedite, persino audaci, di rappresentazione dell’omoerotismo. In un passo spesso citato dalla critica compare l’immagine vivida di un «fiammifero che brucia in un croco», una metafora floreale che esprime l’intensità emotiva e la sorpresa di un erotismo non concepito in termini fallici. Lo stile allusivo e le figure suggestive rendono possibile leggere il brano su diversi livelli: preceduta da un chiaro riferimento all’attrazione di Clarissa per le donne («she did … feel what men felt»), l’immagine floreale-clitoridea del croco è una rappresentazione lirica dell’omoerotismo, pervasa da una tensione che si accumula e si scioglie in una liberazione orgasmica.[60] Essa è anche un esempio di alta poesia, di quella letteratura capace di assumere, come auspicava Monique Wittig, un punto di vista universale, pur partendo da uno particolare.[61] Al tempo stesso, infatti, in questo passo Woolf evoca un moment of being, uno di quegli attimi conoscitivi, un’esperienza di illuminazione, sorta di epifania laica che per l’autrice costituisce la qualità più importante della vita, nonché la materia della propria arte:[62]

It was a sudden revelation, a tinge like a blush which one tried to check and then, as it spread, one yielded to its expansion, and rushed to the farthest verge and there quivered and felt the world come closer, swollen with some astonishing significance, some pressure of rapture, which split its thin skin and gushed and poured with an extraordinary alleviation over the cracks and sores! Then, for that moment, she had seen an illumination; a match burning in a crocus; an inner meaning almost expressed. But the close withdrew; the hard softened. It was over—the moment.

Il linguaggio lirico e lo stile evocativo, le raffinate cifre, allusioni e suggestioni, celebrano il lesbismo in Mrs Dalloway in modo tale da non destare scalpore: esso assume la qualità di un’apparizione “fantasmatica” – per dirla con Terry Castle[63] – poco percettibile sia dal censore che dal grande pubblico. Proprio in quanto «highly dressed up in metaphor», come nota Hermione Lee, l’erotismo saffico può passare inosservato ai più in occasione della pubblicazione del romanzo nella Gran Bretagna degli anni Venti,[64] quando E.M. Forster tiene chiuso nel cassetto il manoscritto di Maurice e le copie di The Well of Loneliness vengono distrutte per ordine della magistratura. Sperimentando con metafore e allusioni, Woolf inventa un linguaggio in grado di rappresentare quell’“amore che non osa dire il proprio nome” e, tuttavia, sufficientemente vago da non creare scandalo e sfuggire alla censura: un’abilità, quella di stare in bilico tra il dire e il non dire, perfezionata da generazioni di scrittori e scrittrici non eterosessuali.[65]

Un ulteriore motivo che rese Mrs Dalloway un romanzo pubblicabile, a differenza del già citato The Well of Loneliness, è la scelta di Woolf di associare il personaggio di Clarissa al lesbismo senza legittimare in alcun modo le teorie sessuologiche allora predominanti dell’“inversione”: l’autrice non ricorre, cioè, alla mascolinizzazione della donna saffica per ristabilire la complementarietà eterosessuale. Clarissa, moglie e madre, nulla ha della mascolinità di Stephen Gordon, protagonista di The Well of Loneliness, un testo pesantemente influenzato dalla sessuologia. Al contrario, attraverso Clarissa, Woolf tenta di esprimere in una prospettiva femminista una sessualità lesbica che sia libera dalle distorsioni dei sessuologi.[66] In realtà, la scrittrice sembra proiettare le connotazioni negative della mannish lesbian, la lesbica mascolina della tassonomia sessuologica, sulla figura di Doris Kilman: attraverso questo personaggio poco amabile, il romanzo illustra le conseguenze devastanti della repressione sociale del lesbismo sulla psiche di una donna (l’odio di sé, il rifugio nel fanatismo religioso) e sulla sua condizione sociale (stigma, isolamento, povertà). Clarissa ha nei suoi confronti un atteggiamento ambivalente: prova avversione nei confronti di Miss Kilman, eppure è profondamente consapevole dell’ingiustizia e dell’odio sociale di cui questa è vittima. In un passo significativo, che proietta in una dimensione altra, in un mondo alternativo, la possibilità dell’amore tra donne, Clarissa riflette sul fatto che «with another roll of the dice (…) she could have loved Miss Kilman!» (corsivo mio).

Sebbene Clarissa rifiuti la concezione dell’amore omosessuale come quel «crime against nature», a cui alluderà la coscienza psicotica di Septimus, per lei lesbismo ed erotismo resteranno per tutta la vita associati alla dimensione privata e profondamente intima dell’anima, al riparo dallo sguardo pubblico.[67] D’altra parte, a differenza di quanto avviene in The Well of Loneliness e in Maurice, in Mrs Dalloway la relazione omosessuale viene interrotta sul nascere, come viene interrotto bruscamente il bacio di Sally, quella possibile via di fuga dalle costrizioni patriarcali.

La configurazione del desiderio lesbico e la visione femminista che informa il romanzo sono state spesso minimizzate attraverso una lettura eterocentrata che derubrica l’innamoramento di Clarissa per Sally a una mera fase giovanile, superata dalla raggiunta maturità eterosessuale realizzata nel matrimonio. È questa la soluzione fornita, tra le altre, da Elaine Showalter nel 1994 per accennare al lesbismo nel romanzo, descritto come «girlhood fascination»,[68] non dissimile da quella offerta, sul piano biografico, da Nadia Fusini nel 2017 a proposito di alcune lettere giovanili di Virginia Stephen cariche di omoerotismo, che la studiosa riduce enfaticamente, secondo i dettami della psicoanalisi, a immatura fissazione materna risolta dall’arrivo di Leonard: una tendenza della critica, questa, che Ruth Vanita deplorava già un trentennio fa.[69]

Eppure, la narrazione woolfiana è chiara nel presentare la traiettoria di Clarissa e Sally, che va dall’amore «disinteressato» tra donne, carico di erotismo, alla «catastrofe» del matrimonio privo di passione, non già come un’evoluzione desiderabile, bensì come un passaggio socialmente inevitabile. La Clarissa del presente ha imparato a vivere nel compromesso: è moglie, madre, «Mrs Richard Dalloway», ma è anche custode di quel «diamond, something infinitely precious» donatole da Sally.

In un’iniziale concezione dell’opera, Clarissa si sarebbe tolta la vita.[70] Il progetto narrativo matura però con il personaggio di Septimus, coprotagonista e alter ego di Clarissa, e in quella «sinfonia urbana»[71] che è Mrs Dalloway, Woolf offre tanto una meditazione lirica sulla morte, quanto una celebrazione della vita. Nelle ultime pagine del romanzo, com’è stato notato, l’identificazione di Clarissa con Septimus avviene a vari livelli, tra i quali anche quello della dissidenza sessuale.[72] La protagonista “sente” che il giovane suicida custodiva nell’animo, proprio come lei, qualcosa di prezioso, un «tesoro» – immagine che fa riaffiorare ancora una volta nella mente di Clarissa il verso di Othello e il ricordo vivido del suo innamoramento per Sally: «But this young man who had killed himself — had he plunged holding his treasure? “If it were now to die, ‘twere now to be most happy,” she had said to herself once, coming down in white». In questo momento nodale del romanzo – la meditazione di Clarissa sulla notizia del suicidio di Septimus – Woolf sonda «le zone più segrete dell’anima»,[73] tenendo insieme la gioia di vivere e l’immagine della morte. Clarissa sceglie la vita, la resistenza, ma la sua sensibilità è affine a quella del giovane suicida che sfugge al doloroso compromesso del vivere, a una società che lo annienta.

L’idea di felicità autentica qui evocata nella coscienza di Clarissa, che fa da contrappunto alla morte di un giovane, prende la forma dell’innamoramento per una donna (il verso di Othello e il ricordo del vestito bianco che lei indossava in quell’attimo irripetibile della sua gioventù). Ma questa forma particolare di felicità perduta, che illumina il presente e fronteggia il buio della disperazione, assume al tempo stesso un significato universale, è una nota elegiaca che rimanda alla consapevolezza che la vita – per tutti e tutte – è compromesso, è perdita, ma è anche rivelazione ed estasi.

Erotismo, lesbismo e femminismo sono dunque elementi che contribuiscono alla polisemia di quell’opera straordinaria che è Mrs Dalloway, una sinfonia il cui senso non può essere riducibile ai singoli strumenti che la compongono. Sarebbe limitante fare di Mrs Dalloway un romanzo sul lesbismo come lo sarebbe farne un romanzo sulla malattia mentale o sulla guerra. Il 13 giugno 1923 Woolf annotava nel suo diario: «I want to give life & death, sanity & insanity; I want to criticize the social system, and to show it at work at its most intense».[74] È riuscita nel suo intento, creando in Mrs Dalloway «una sorta di essay filosofico sulla saggezza e la follia, di meditazione metafisica sulla vita e la morte, di spaccato, anche, di una ben definita realtà sociale».[75] Soprattutto, come auspicava Monique Wittig a proposito del rapporto tra testo letterario e tema omosessuale,[76] l’arte di Virginia Woolf è capace di tenere insieme particolare e universale: riesce a universalizzare partendo da un punto di vista particolare.

PER CITARE QUESTO ARTICOLO:
Stefania Arcara, “Il bacio di Sally. Erotismo, lesbismo e femminismo in Mrs Dalloway di Virginia Woolf”, Critica del testo XXV / 3, 2022, pp. 1-21.


[1] S. Basso, Intervista ad Anna Nadotti, in «Tradurre», 3 (2012), https://rivistatradurre.it/tu-dai-voce-a-me-io-do-voce-a-te/

[2] L’unico riferimento, indiretto, al lesbismo in questa edizione si trova in una nota biografica su Woolf, in cui Perosa scrive di «certi suoi strani rapporti con personaggi come Vita Sackville-West» (corsivo mio). S. Perosa, Appendice, in ibid., pp. xxv- xlii, a p. xxx.

[3] Dopo la prima traduzione di Alessandra Scalero (Mondadori, 1946) sono apparse le traduzioni di Nadia Fusini (Mondadori, 1989), Laura Ricci Doni (SE, 1992), Pier Francesco Paolini (Newton Compton, 1992), Anna Nadotti (Einaudi, 2012) e Marisa Sestito (Marsilio, 2012). Nel suo ampio saggio introduttivo, Nadia Fusini non nomina mai il lesbismo: solo una volta, afferrando il concetto quasi con pinze sterilizzate, accenna en passant a non meglio specificate «passioni profonde e desideri potenti» nella giovinezza di Clarissa. N. Fusini, Virgo, la stella, in V. Woolf, Romanzi, a cura di N. Fusini, Milano, Mondadori, 1998, pp. xi-lxx, a p. xxiv. Nel 2005 Liliana Rampello, in una nota a piè di pagina, a proposito della traduzione del 1946 si chiede: «errore o censura?». Tuttavia, è facile constatare che il testo inglese non presenta alcuna difficoltà traduttiva che possa indurre in errore. Cfr. L. Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 206, nota 39.

[4] Si veda ad esempio Rampello, Il canto del mondo reale cit., p. 79: «Trent’anni prima Clarissa si era innamorata, ricambiata, di Peter Walsh».

[5] Nel 2020 Sara Sullam arriva a espungere il lesbismo dalla trama del romanzo, anche quando accenna al superamento del tradizionale marriage plot. S. Sullam, Leggere Woolf, Roma, Carocci, 2020, pp. 61-71. Un’eccezione è costituita da Marisa Sestito che evidenzia l’omosessualità come tratto comune di Clarissa e Septimus. M. Sestito Introduzione, in V. Woolf, La signora Dalloway, a cura di M. Sestito, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 9-35, a p. 17.

[6] M. Bragg, In Our Time: “Mrs Dalloway”, with J. Goldman, H. Lee, K. Simpson, podcast BBC Radio 4, 2014. https://www.bbc.co.uk/programmes/b048033q

[7] J. McDaniel et al., Lesbians and Literature, in «Sinister Wisdom», 1 (1976), 2, pp. 20-33, a p. 20.

[8] N. Fusini, Due donne in amore, in V. Woolf, V. Sackville-West, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a c. di E. Munafò, Roma, Donzelli, 2019, pp. 7-22, p. 7. Nello stesso saggio Fusini definisce il lesbismo di Vita Sackville-West «la passione travolgente che prova per la femmina d’uomo» (ibid., corsivo mio).

[9] Fusini afferma di non voler «riaccendere la polemica stanca e inutile di un impeto politically correct volto a costringerla in categorie – lesbica, saffica o frigida»: pone così su un piano di equivalenza il lesbismo e il concetto di frigidità elaborato in ambito sessuologico e psicoanalitico. Cfr. N. Fusini, Da Virginia Stephen a Virginia Woolf: ritratto della scrittrice da giovane, in V. Woolf, Ritratto della scrittrice da giovane. Lettere 1896-1912, trad. A. Cane, Torino, Utet, 2017, pp. 7-22, a p. 13.

[10] Virginia Woolf: Lesbian Readings, ed. by E. Barrett and P. Cramer, New York & London, New York University Press, 1997. Si veda anche D.L. Swanson, Lesbian Approaches in Palgrave Advances in Virginia Woolf Studies, ed. by A. Snaith, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2007, pp. 184-208.

[11] K. Sproles, Desiring Women. The Partnership of Virginia Woolf and Vita Sackville-West, Toronto, University of Toronto Press, 2006, p. 11.

[12] Goldman in Bragg, In Our Time cit.

[13] Lettera a Ethel Smyth del 19 agosto 1930. The Letters of Virginia Woolf, ed. by N. Nicolson and J. Trautmann, London, Hogarth Press, 1978, IV, p. 203.

[14] Si veda P. Cramer, Notes from the Underground: Lesbian Ritual in the Writings of Virginia Woolf, in Virginia Woolf Miscellanies. Proceedings of the First Annual Conference on Virginia Woolf, ed. by M. Hussey and V. Neverow-Turk, New York, Pace University Press, 1992, pp. 177-188, a p. 178.

[15] T. Castle, The Apparitional Lesbian, New York, Columbia University Press, 1993, p. 2.

[16] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., pp.117-127, p. 122.

[17] K. Kaivola, Virginia Woolf, Vita Sackville-West, and the Question of Sexual Identity, in «Woolf Studies Annual», 4 (1998), pp. 18-40, a p. 35, corsivo mio.

[18] P. J. Olano, “Women Alone Stir My Imagination”: Reading Virginia Woolf as a Lesbian, in Virginia Woolf: Themes and Variations, ed. by V. Neverow-Turk and M. Hussey, New York, Pace University, 1993, pp. 158-171, a p. 158.

[19] H. Fromm, Virginia Woolf: Art and Sexuality, in «The Virginia Quarterly Review», 5 (1979), 3, pp. 441-459, a p. 443.

[20] Q. Bell, Virginia Woolf. A Biography, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1972, II, p. 6. Bell fa riferimento più volte alla «frigidità» della scrittrice.

[21] Swanson, Lesbian Approaches cit., p. 185.

[22] Cfr. E. Hawkes Rogat, The Virgin in the Bell Biography, in «Twentieth-Century Literature», 20 (1974), pp. 96-113; Bell, Virginia Woolf cit., II, p. 185.

[23] E. Showalter, A Literature of Their Own, Princeton, Princeton University Press, 1977, p. 34 e p. 297.

[24] B.R. Silver, Virginia Woolf Icon, Chicago & London, University of Chicago Press, 1999, p. 4.

[25] T.A.H. McNaron, A Lesbian Reading Virginia Woolf, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., pp. 10-20, a p. 16.

[26] B.W. Cook,“Women Alone Stir My Imagination”: Lesbianism and the Cultural Tradition’, in «Signs», 4 (1979), 4, pp. 718–39, a p. 725.

[27] Kaivola, Virginia Woolf cit., p. 18. R. Vanita, Sappho and the Virgin Mary, New York, Columbia University Press, 1996, p. 190.

[28] Sproles, Desiring Women cit., p. 5.

[29] L. Doan, Fashioning Sapphism: The Origins of a Modern English Lesbian Culture, New York, Columbia University Press, 2001, pp. xii-xiii; Sapphic Modernities, ed. by L. Doan and J. Garrity, New York, Palgrave MacMillan, 2006.

[30] Jane Marcus ha sottolineato la presenza di riferimenti al processo a Hall nel testo di A Room of One’s Own e la necessità di tenerne conto per decifrare il sottotesto lesbico del saggio. J. Marcus, Sapphistry: Narration as Lesbian Seduction in A Room of One’s Own, in Virginia Woolf and the Languages of Patriarchy, Bloomington, IN, Indiana University Press, 1987, pp. 163–87.

[31] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 119.

[32] Sproles, Desiring Women cit., p. 52.

[33] V. Woolf, The Diary of Virginia Woolf, ed. by A. Olivier Bell and A. McNeille, London, Hogarth, II, 1977, p. 313.

[34] Bell, Virginia Woolf cit., 1, pp. 60-61; Sproles, Desiring Women cit., p. 52.

[35] Lee in Bragg, In Our Time cit.

[36] Questa e le successive citazioni sono tratte dall’edizione bilingue a cura di M. Sestito, La signora Dalloway, cit.

[37] Bell, Virginia Woolf cit., 1, pp. 60-61. Cfr. ancheE. Barrett, Unmasking Lesbian Passion: The Inverted World of Mrs Dalloway, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., pp. 146-164, a p. 151 e Sproles, Desiring Women cit., p. 52.

[38] Bell, Virginia Woolf cit., 1, pp. 60-61.

[39] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 122.

[40] L. Brimstone, Towards a New Cartography: Radclyffe Hall, Virginia Woolf and the Working of Common Land in What Lesbians Do in Books, ed. by E. Hobby and C. White, London, The Women’s Press, 1991, pp. 86-108, a p. 94. S. Raitt, Vita & Virginia. The Work and Friendship of V. Sackville-West and Virginia Woolf, Oxford, Clarendon, 1993, p. 7.

[41] Si veda lo scritto autobiografico di Sackville-West, pubblicato postumo in N. Nicolson, Portrait of a Marriage, London, Weidenfeld & Nicolson, 1973.

[42] Raitt, Vita & Virginia cit., p. 167.

[43] Simpson, in Bragg, In Our Time cit.; E. Showalter, Introduction, in V. Woolf, Mrs Dalloway, ed. S. McNichol, with an introduction and notes by E. Showalter, London, Penguin, 1992, pp. xxi-li, a p. xxii

[44] Cramer, Underground cit., p. 178; Brimstone, New Cartography cit., p. 103.

[45] Fusini, Virgo, la stella cit., p. vx; Showalter, Introduction cit., p. xxxix.

[46] C.E. Bond, Remapping Female Subjectivity in Mrs Dalloway, in «Woolf Studies Annual», 23, 2017, pp. 63-82, a p. 70.

[47] Barrett, Unmasking Lesbian Passion cit., p. 152.

[48] Mrs Dalloway fragments, 7 Jan. 1924, in the Berg Collection of the New York Public Library, p. 159, cit. in S. Henke, Mrs Dalloway: The Communion of Saints, in New Feminist Essays on Virginia Woolf, ed. by J. Marcus, Lincoln, University of Nebraska Press, 1981, pp. 125–47, a p. 136.

[49] V. Woolf, Professions for Women, in Women and Writing, introduced by M. Barrett, London, The Women’s Press, 1979, pp. 57-63, a p. 62.

[50] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 123.

[51] Ibid. p. 122.

[52] Lettera a Vanessa Bell, 13 giugno 1926, in The Letters cit., 3, p. 275.

[53] Lettera del 19 novembre 1926, in ibid., p. 303; lettera del 22 maggio 1927, in ibid., p. 381.

[54] Cramer, Underground cit., p. 184. B. Lounsberry, Virginia Woolf, the War Without, the War Within, Gainesville, University Press of Florida, 2018, pp. 87-100. Su “Michael Field” cfr. S. Arcara, I classici ‘proibiti’ nell’età vittoriana tra pornografia e poesia saffica, in «Enthymema», 24, 2019, pp. 286-298.

[55] Cfr. Henke, Mrs Dalloway cit., p. 135.

[56] N. Fusini, Virginia Woolf, o del tremore in Nomi, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 80. L’immagine della coppia granito-arcobaleno compare nel saggio di Woolf The New Biography del 1927, ripubblicato nella raccolta postuma Granite and Rainbow. Essays, New York, Harcourt Brace, 1958.

[57] K. Haffey, Exquisite Moments and the Temporality of the Kiss in ‘Mrs Dalloway’ and ‘The Hours’, in «Narrative», 18 (2010), 2, pp. 137-162, a p. 137.

[58] Simpson, in Bragg, In Our Time cit.

[59] S.M. Squier, Virginia Woolf and London, Chapel Hill & London, The University of North Carolina Press, 1985, p. 107.

[60] Cramer, Underground cit., p. 185. Goldman, Lee, Simpson in Bragg, In Our Time cit.

[61] Wittig, The Point of View cit., p. 67.

[62] Il momento dell’essere come esperienza personale e come oggetto della scrittura è illustrato da Woolf nel saggio autobiografico A Sketch of the Past, pubblicato postumo. V. Woolf, A Sketch of the Past, in Moments of Being, ed. by J. Schulkind, New York, Harcourt Brace, 1978, pp. 64-159.

[63] Castle, The Apparitional Lesbian cit.

[64] Lee, in Bragg, In Our Time cit.

[65] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 125.

[66] Ibid., p. 124.

[67] Barrett, Unmasking Lesbian Passion cit. p. 148.

[68] E. Showalter, “Mrs Dalloway”, in Virginia Woolf: Introductions to the Major Works, ed. Julia Briggs, London, Virago, 1994, pp. 125-156, a p. 144.

[69] Fusini, Da Virginia Stephen a Virginia Woolf cit., p. 15. Vanita, Sappho and the Virgin Mary, cit., p. 273.

[70] Lo afferma la stessa Woolf nell’introduzione all’edizione americana del romanzo; Mrs Dalloway, New York, Modern Library, 1928, p. vi.

[71] L. Marcus, The Tenth Muse, Oxford, Oxford University Press, 2007, p. 141.

[72] E. Jensen, Clarissa Dalloway’s Respectable Suicide, in Virginia Woolf: A Feminist Slant, ed. by J. Marcus, Lincoln, University of Nebraska Press, 1984, pp. 162–79.

[73] V. Amoruso, Virginia Woolf, Bari, Adriatica, 1968, p. 112.

[74] Woolf, Diary cit., II, p. 248.

[75] Amoruso, Virginia Woolf cit., p. 113.

[76] Wittig, The Point of View cit.

Monique Wittig e le lesbiche barbute

Intervista a Monique Wittig di Catherine Deudon, Actuel, novembre 1974, p. 12-14.

Traduzione di Sara Garbagnoli

Monique Wittig ritratta in una foto di Catherine Deudon

Con il suo cappello nero e i suoi blue-jeans blu, assomiglia un po’ a una giusitiziera del Far West. Monique Wittig è una guerrigliera che lotta per la liberazione delle donne e per il riconoscimento dei diritti delle lesbiche. Militante di lunga data, nel 1969 è stata una delle donne che hanno lasciato i gruppi di sinistra (troppo sessisti per i loro gusti) per fondare il MLF (Movimento di Liberazione delle Donne). Oggi che il MLF si sta dividendo in tendenze politiche, Wittig si è unita alle femministe rivoluzionarie. “Poter vivere in una società di donne” è il suo desiderio più caro, un’esclusività lesbica che fa trasalire gli uomini, ma che noi dobbiamo cominciare ad ascoltare e che è un suo sacrosanto diritto volere.
Lo afferma con orgoglio. Perché il personaggio ha talento. Tre libri, tre periodi: L’Opoponax o l’infanzia di una bambina, Le guerrigliere, romanzo del MLF, e infine Il corpo lesbico, il libro più ambizioso perché cerca, molto semplicemente, di inventare un linguaggio femminista, di eliminare l’io inteso come soggetto maschile, un linguaggio che – dice Wittig – diventerebbe persino incomprensibile agli uomini. Una delle sue amiche, Catherine Deudon, ha allegato per la rivista il suo manifesto dedicato a una lesbica barbuta.
Attualmente, il movimento di liberazione delle donne sta attuando concretamente la parola d’ordine di decentramento che viene dalle femministe radicali. In particolare, le femministe, le femministe radicali, le Gouine rouges, le ragazze che hanno animato la fiera delle donne, donne anglofone, donne latinoamericane hanno oggi uno spazio indipendente dalle altre tendenze del movimento che sono Psychanalyse et Politique e il Circolo Dimitrieff. Questo spazio si trova a Parigi (24, cité Trévise, al primo piano a sinistra). Ogni lunedì dalle 19.00 alle 22.00 si tiene l’assemblea generale e l’accoglienza delle “nuove” tel: TAI.-71-50, aperto tutti i giorni dalle 18.00 alle 20.00. Ogni venerdì dalle 19 alle 22 il gruppo lesbico delle Gouines rouges tiene una riunione intitolata “Lesbismo e femminismo”. Stanno ora preparando un raduno di lesbiche che si ritroveranno a Parigi per otto giorni a Pasqua in un luogo ancora da decidere. Tutte le donne sono invitate a partecipare. È perché crediamo che le donne omosessuali abbiano una cultura e una lotta specifica da portare avanti all’interno del movimento che ci separiamo da Psychanalyse et Politique, che, tra l’altro, nega questa cultura e vuole ignorare la specificità dei problemi e della lotta delle donne omosessuali.

Actuel: Qual è il legame tra il movimento di liberazione delle donne e Il corpo lesbico?

Monique: Il movimento delle donne è un cambiamento radicale nella mia vita. Per me c’è un prima e un dopo. Il dopo è ciò che ci sta accadendo oggi. Molte di noi stanno già vivendo in un altro mondo, un mondo di cui non avevano idea prima. Il corpo lesbico è uno dei prodotti diretti di questo cambiamento. Non riesco a cogliere esattamente quanto sia importante il movimento delle donne per la società. A volte mi sembra che siamo solo una piccola spina nella sua carne, e ci vedo come delle pure schizofreniche, completamente scollegate dalla realtà. Questo è il significato del pronome “j/e” che uso nel libro. A volte, invece, mi sembra che, pur essendo così poche, tutte insieme rappresentiamo l’unica forma di protesta veramente radicale all’interno del sistema. In questi momenti, mi sembra che qualcosa inizi a muoversi. Ovunque si parla di donne. Ma soprattutto le donne stesse cominciano a parlare, a parlare tra loro. Non c’è città, nemmeno la più piccola o remota, in cui oggi non si sappia che esiste un movimento di liberazione delle donne. E anche se non si sa esattamente cosa significhi, si sa d’istinto che è molto importante. Quando penso a questo, sento che siamo davvero forti e che esistiamo in questo nuovo mondo che comincia a essere nostro, e grazie all’euforia che provo, scrivo “j/e”, soggetta altra di un altro universo.

Actuel: Un altro mondo, cosa vuoi dire? Intendi dire che le donne insieme creano un nuovo mondo?

Monique: È la cosa più difficile da definire. Non voglio illudermi. Per la maggior parte del tempo viviamo tra donne, e questo non significa che le polemiche, i dissensi o le divergenze siano miracolosamente aboliti. Ma si può immaginare dall’esterno cosa significhi essere una donna e stare in mezzo a donne che lottano insieme? La novità è che le donne sono finalmente insieme: per quanto mi ricordo, questa è l’unica cosa che non mi è mai stata raccontata quando ero bambina. Niente sarà più come prima, questa è la convulsione definitiva che scuoterà la società da cima a fondo. E so che la gente ha paura, compresa la maggior parte delle donne, purtroppo. Ma per quanto riguarda noi che siamo coinvolte in questo processo, sappiamo che è irresistibile. A volte penso che tra dieci anni il movimento delle donne sarà morto e sepolto per mancanza di combattenti, di determinazione, di obiettivi a lungo termine: so con assoluta certezza che se il movimento delle donne muore, io muoio. La mia persona perde ogni realtà, ogni significato, non potrò sopravvivere nel vecchio ordine. Ma so anche che siamo in molte a reagire così. Il movimento è la cosa più vitale per noi, è la nostra sopravvivenza in questa società.

Actuel: Quindi, sei femminista prima di essere scrittrice…

Monique: Sono una donna che scrive di donne e per le donne. È lo stesso atto; non posso separare i due termini “femminista” e “scrittrice”. Si tratta del mio corpo, del mio desiderio, dei miei sogni e della mia speranza.

Actuel: Il lesbismo è un fenomeno a parte, oltre al movimento? Come lo collochi rispetto all’intero movimento?

Monique: Far parte di un movimento che esclude gli uomini è già un atto omosessuale, almeno ideologicamente. Il lesbismo non è solo una pratica sessuale, è anche un comportamento culturale: vivere da sé e per sé, essere in una totale indipendenza dallo sguardo degli uomini, dal modello del mondo che essi hanno costruito. Non sento alcuna differenza culturale con certe amiche “omosessuali” il cui interesse è nettamente focalizzato sulle donne e per le quali la pratica sessuale non è altro che un dettaglio. Inoltre, ultimamente abbiamo visto che questo è un falso problema. La cosiddetta “liberazione sessuale”, la cosiddetta “rivoluzione sessuale” è solo un inganno quando si tratta delle donne, perché con sessualità si intende un’eterosessualità riadattata. Intendo dire che la “sessualità” non è altro che un grande baccano intorno all’eterosessualità. E l’eterosessualità è la sessualità degli uomini. Non so nemmeno se si possa definire “eterosessuale” una donna. Penso che le categorie eterosessuale-omosessuale funzionino come un modo per dividere e distogliere da un problema che è comune a tutte noi: cos’è la nostra sessualità?

Actuel: Insomma, pensi che per le donne come non esiste l’eterosessualità non esista l’omosessualità?

Monique: Aspetta, vai troppo in fretta. Quando il movimento ha iniziato a mettere in discussione la sessualità conosciuta e riconosciuta – l’eterosessualità – le lesbiche radicali (le Gouines rouges) hanno avuto un ruolo determinante. A partire dalla loro pratica omosessuale (negata, non riconosciuta, considerata deviante) hanno messo in discussione la sessualità e l’eterosessualità che, contrariamente a quanto sembra, non hanno nulla di evidente. Alla domanda: “Cosa fa sì che una donna sia attratta da una donna?” rispondono: “Cosa fa sì che una donna desideri un uomo?”. A chi chiede: “Nel rapporto tra donne, tenerezza, sessualità, parola, quale differenza c’è con quelle tra una donna e un uomo?”, rispondono: “Cosa c’è nel lesbismo che ci fa pensare subito alla tenerezza, come se a noi lesbiche mancasse qualcosa, per esempio le palle, per essere violente?”.

Actuel: Per te il lesbismo è solo un passo verso una sessualità liberata?

Monique: Aspetta, no, non sono d’accordo. Il lesbismo non è nato con il movimento di liberazione delle donne. Le lesbiche ci sono sempre state. E non si può ignorare il desiderio e il piacere in nome di principi politici. Quando una donna è attratta dalle donne, quando vive il suo piacere con le donne perché dovrebbe fermarsi e pensare “quando tutto sarà a posto nel migliore dei mondi, desidererò anche gli uomini”? Che cosa ne sappiamo? E perché è scontato pensare che gli uomini, un giorno o l’altro, entreranno nel campo del nostro desiderio? Non si tratta forse di una norma? Non si diventa lesbiche per obbligo o per scelta politica.

Actuel: Le lesbiche sono più fortunate degli uomini omosessuali perché il lesbismo non è soggetto a repressione.

Monique: Assolutamente no. Il peggior tipo di repressione consiste nel negare completamente l’esistenza del lesbismo. Non se ne parla. Recentemente sulla rivista “Elle” in un articolo dedicato all’omosessualità, c’era scritto: “Quali sono i problemi delle madri che hanno figli omosessuali?”. Il lesbismo non viene nemmeno menzionato. Idem per quanto riguarda il programma televisivo di qualche giorno fa, intitolato “Omosessualità”. Il lesbismo: questo sconosciuto. Nei libri di eminenti psichiatri sull’omosessualità, il lesbismo è sempre una piccola aggiunta, un corollario che parla della questione in questi termini: il lesbismo negli harem, i dildi. Oppure si dice: le lesbiche sono donne disgustate dall’autoritarismo degli uomini. Siamo lesbiche contro qualcosa o qualcuno, non per. Desiderio lesbico: questo sconosciuto. Assolutamente inedito, una tenerezza sdolcinata tra donnine che passano il tempo a baciarsi sul collo e a tenersi per mano. Ripugnante: non c’è cultura lesbica, non ci sono luoghi di incontro per lesbiche. Non esistiamo. E quando, nonostante tutte queste barriere, si trovano due ragazze abbastanza ostinate da essere lesbiche, le si interna in ospedali psichiatrici. Esempio recente: i genitori di una ragazza adulta la fanno internare perché è lesbica. In questo modo, la ragazza è privata della sua capacità giuridica, diventa minorenne. E la sua compagna (maggiorenne) viene messa dentro per aver “traviato una minorenne”! O ancora: una ragazza scopre di essere lesbica. Fino ad allora aveva avuto un amante. L’amante in questione le dice: “Ma tu non sei lesbica perché sei venuta a letto con me”. Beh, non è vero. Non verrebbe mai in mente a nessuno di dubitare dell’omosessualità di un uomo che è andato a letto con una donna per sbaglio. Ma, ovviamente, una donna è “segnata” a vita da un uomo, è definitivamente annessa al gruppo degli uomini, non può essere lesbica, tanto il lesbismo è dell’ordine dell’inconsistente. Non è repressione questa? Un altro esempio: per strada, rispondiamo verbalmente all’aggressione di un tipo mandandolo a quel paese. Il ragazzo attonito risponde: “Lesbiche!”. Noi controbattiamo: “Ti disturba?”. Conclusione: ci spacca la faccia. E lo stesso vale per la solita solfa: “Ma cosa potranno mai fare due donne insieme?”. Reinquadramento, aggressioni fisiche, reclusione, derisione, negazione assoluta sono tutte manifestazioni di una repressione che è tanto più riuscita quanto più è strisciante. Ed è vero che ci sono poche lesbiche e molti più uomini omosessuali.

Actuel: Puoi dirmi in che modo il lesbismo si è manifestato per la prima volta nel movimento delle donne? Qualche fatto.

Monique: Nei primi gruppuscoli che si sono formati all’interno dell’MLF abbiamo iniziato a concentrarci sugli aspetti più evidenti dell’oppressione delle donne: l’aborto, la non disposizione dei nostri corpi, lo stupro, il lavoro domestico, il rapporto tra uomini e donne. In questi gruppi c’erano anche donne omosessuali. Ma non ci sentivamo di parlare della nostra omosessualità. Una sorta di imbarazzo. Una paura di spaventare le “donne”, un senso di colpa, la sensazione di non essere al nostro posto. Non eravamo “vere donne” con problemi delle “vere donne”. Avevamo paura che il movimento stesso venisse percepito come un manipolo di lesbiche incazzate. Alla fine, però, è successo: una casuale conversazione sull’omosessualità in una delle case in cui ci riunivamo. Una domanda di pura curiosità: “Come fate tra di voi? Che cos’è il piacere lesbico? Il desiderio lesbico?”. Commenti come: “La cosa disturbante dell’essere lesbica è che non si possono avere figli” o, ancora, “Non se ne può più dell’omosessualità”. Così, alcune di noi si sono sentite aggredite perché questo era l’unico aspetto della nostra oppressione che non veniva affrontato politicamente, era come la “sezione folcloristica” del movimento, la sezione delle attrazioni da vedere. Così, abbiamo pensato che fosse necessario iniziare a parlarne tra di noi, come era stato fatto per tutti gli altri temi. Le Gouines rouges sono nate così. Allo stesso tempo, le ragazze di Arcadie e del movimento hanno creato il FHAR (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire). (All’inizio c’erano solo uno o due uomini).

Actuel: Ha senso, visto che gli omosessuali sono gli unici uomini che non negano il lesbismo.

Monique: È quello che pensavamo. Che avevamo problemi comuni. Gli uomini pensavano che senza le donne il FHAR non sarebbe mai stato radicale perché solo da loro si poteva attaccare lo sciovinismo maschio, compreso quello degli omosessuali. Ma in realtà la nostra storia era molto diversa. Loro avevano per cosi dire la fortuna di dover fronteggiare la repressione poliziesca. Gli uomini omosessuali almeno esistevano, avevano tutta una cultura onorabile dietro di loro, dai greci a Proust, a Genet. Esisteva un ghetto enorme dove almeno potevano incontrarsi, riconoscersi, trovarsi per avere incontri sessuali. Potevano essere in molti, molto rapidamente, grazie ad una sorta di passaparola. Ed è vero, sono venuti numerosissimi alle riunioni del FHAR alle Beaux-Arts. Poi son cominciati gli antagonismi tra gli uomini e le donne presenti. Noi donne non potevamo nemmeno prendere la parola alle assemblee generali senza dover urlare in modo isterico. Gli uomini erano focalizzati sulla loro omosessualità. Erano molto infastiditi dalle lesbiche. Si chiedevano anche loro, come tutti gli uomini, cosa potessero mai fare due donne insieme.

Actuel: Che dire della coppia omosessuale? Non riproduce tutto ciò che rifiutiamo: dipendenza, rapporti di potere, ruoli?

Monique: È un po’ sbrigativo metterla così. Vivere in coppia per due donne è già una vittoria in questo mondo in cui una donna senza un uomo non è considerata una vera donna. Uscire per strada con una donna e non con un uomo, andare al ristorante con una donna, farsi vedere con una donna, giocare a flipper con una donna, condividere gli oneri sociali con una donna, ecco, questa è già una vittoria. Per non parlare della situazione di miseria, dolore e penuria in cui vive la maggior parte di noi. Avere un’amante non è cosa facile e non si ha voglia di perderla. Inoltre, l’analogia tra una coppia lesbica e una coppia etero è molto vaga: in una coppia lesbica i ruoli maschili e femminili sono intercambiabili, se proprio si vuole introdurli a tutti i costi. Quando vedi una “Jules” e una “minette” – una “butch” e una “fem” – insieme, sai che si tratta di una forma di teatro. È più spesso un gioco di quanto si pensi: due donne che interpretano insieme la coppia etero. E poi dietro la coppia lesbica non c’è una base economica e sociale di oppressione come nel caso degli etero.

Actuel: Ma in realtà stai facendo un panegirico della coppia più classica.

Monique: Mi rendo conto che quello che dico può sembrare equivoco. Parlo a nome di tutte le lesbiche isolate o di provincia che potrebbero sentirsi in colpa per la “liberazione” che non sono ancora riuscite a introdurre nel loro stile di vita. Quello che vivono è il risultato di una lunga storia di oppressione. Tuttavia, non voglio negare che esistano anche nel caso delle lesbiche coppie alienate costituite secondo lo schema eterosessuale, con dipendenza reciproca e obbedienza dell’una all’altra. Nel movimento le coppie non durano a lungo. Ci sono poche coppie durature tra noi. Vedrei piuttosto il movimento come una costellazione di individui con qua e là forme di associazioni per affinità. E in ogni caso, non siamo più “tipizzate”, almeno così ci vediamo noi.

Actuel: Ma si incontrano ancora delle “Jules”, anche nel movimento.

Monique: Per fortuna. Non vorrai mica che sembrassimo donne-donne solo perché siamo donne in un movimento liberazione? Inoltre, a volte è necessario prendere in prestito dall’altro sesso, i suoi abiti, i suoi comportamenti, per trovare l’Amazzone che sonnecchhia in noi. Prendere cioè in prestito i segni di ciò che di positivo c’è in loro e in noi: forza, coraggio, non passività, violenza. In realtà, non “prendiamo in prestito” da nessuno dei due sessi perché non sappiamo di cosa siamo fatte fondamentalmente. Ciò che prendiamo in prestito sono i segni di ciò che ci è precluso quando nasciamo in una categoria o nell’altra. Come le “folles”, le checche, e i travestiti siamo alla ricerca di un concetto umano di cui né la mascolinità né la femminilità possono dar conto. Per noi l’idea dell’Amazzone è la più vicina a questa idea di umano. Sebbene ci sia stato insegnato che le Amazzoni siano personaggi mitologici, la loro esistenza ha un significato per noi, qui e ora. Ciò che ci parla di loro è la loro società di donne, il fatto che vivevano in una cultura che poteva appartenere solo a loro. In questa cultura non c’erano i modelli di identificazione che conosciamo, forse non c’erano affatto modelli. In ogni caso, che fossero madri o meno, le Amazzoni erano donne per le quali la maternità era solo un incidente e non un fatto culturale determinante. Un’Amazzone non si preoccupa di essere maschio o femmina e ama i suoi simili. Provarci non è facile perché richiede una metamorfosi delle proprie strutture mentali e soprattutto la fine della paura del ridicolo cioè dello sguardo degli uomini. Vorrei aggiungere, e voglio farlo, che mi è capitato di scrivere IIl corpo lesbico, che mi dà la possibilità di parlare di lesbismo. Ma lo faccio in modo molto abusivo. Non sono una “specialista” dell’argomento. Sono sicura che molte altre donne avrebbero potuto parlarne meglio di me. Mi dispiace che non ne abbiano avuto l’opportunità e chiedo loro di perdonarmi per il diritto che mi sono arrogata, spero di non dire troppe sciocchezze. Lunga vita a tutte noi!

«Una sorta di paradosso, ma non proprio»: il corpo lesbico di Monique Wittig, cinquant’anni dopo

A cinquant’anni dall’uscita di Le corps lesbien, e in vista dell’imminente pubblicazione della nuova versione italiana (a cura di Deborah Ardilli) per VandA Edizioni, proponiamo — nella bella traduzione di Sara Garbagnoli — due testi di Monique Wittig finora inediti in italiano: la Author’s Note che accompagna l’edizione inglese dell’opera (The Lesbian Body, Owen, London 1975) e Some Remarks on The Lesbian Body (1997-2001), scritto su richiesta di Namascar Shaktini e pubblicato nella silloge da lei curata, On Monique Wittig: Theoretical, Political and Literary Essays, per i tipi della University of Illinois Press. Quest’ultimo testo è stato ripreso nella ristampa francese di Le corps lesbien uscita nel gennaio 2023 per le Éditions de Minuit.

***

Molte scrittrici hanno fatto sapere (o hanno lasciato che si sapesse) di essere «omosessuali», ma Wittig è stata la prima — e, ad oggi, l’ultima — ad avere collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro del lavoro di scrittura.

Christine Delphy (1985)

Copertina della prima edizione di Le Corps lesbien, Éditions de Minuit, Paris 1973

Nota dell’autore

di Monique Wittig (trad. it. di Sara Garbagnoli)

Il corpo lesbico ha per tema il lesbismo ovvero un tema che non si può nemmeno definire tabù perché non esiste nella storia della letteratura. La letteratura omosessuale maschile ha un passato, ha un presente. Le lesbiche, da parte loro, sono silenziose, come lo sono a tutti i livelli tutte le donne in quanto donne. Quando si sono lette le poesie di Saffo, Il pozzo della solitudine di Radclyffe Hall, le poesie di Sylvia Plath e di Anais Nin, La Bastarda di Violette Leduc, si è letto tutto. Solo il movimento delle donne si è dimostrato capace di produrre testi lesbici in un contesto di totale rottura con la cultura maschile, testi scritti da donne esclusivamente per donne, incuranti dell’approvazione maschile. Il corpo lesbico rientra in questa categoria.

Nel libro, le descrizioni delle isole alludono alle Amazzoni, alle isole delle donne, ai domini delle donne che esistevano in passato e che avevano una cultura propria. Ma alludono anche alle Amazzoni del presente e del futuro. Già abbiamo i nostri isolotti, le nostre isole, siamo già in procinto di vivere in una cultura che ci favorisce. Le Amazzoni sono donne che vivono tra di loro, da sole e per se stesse a tutti i livelli: immaginario, simbolico, reale. Poiché siamo illusorie per la cultura maschile tradizionale, non facciamo distinzione tra i tre livelli. La nostra realtà è la realtà immaginaria accettata socialmente, i nostri simboli negano i simboli tradizionali e sono immaginari per la cultura maschile tradizionale, e noi possediamo un’intera dimensione immaginaria in cui proiettiamo noi stesse e che è già una possibile realtà. È la nostra dimensione immaginaria che ci convalida.

Il corpo del testo sussume tutte le parole del corpo femminile. Il corpo lesbico cerca di affermare la propria realtà. Gli elenchi di nomi contribuiscono a questa attività. Recitare il proprio corpo, recitare il corpo dell’altra, è recitare le parole di cui si compone il libro. La fascinazione per lo scrivere il mai scritto prima e la fascinazione per l’inarrivabile corpo procedono dallo stesso desiderio. Il desiderio di portare il corpo reale violentemente in vita nelle parole del libro (tutto ciò che è scritto esiste), il desiderio di fare violenza, scrivendo, al linguaggio in cui I/o [J/e] può entrare solo di forza. ‘Io’ [Je] come soggetto femminile generico può entrare solo con la forza in un linguaggio che gli è estraneo, perché tutto ciò che è umano (maschile) gli è estraneo, non essendo l’umano femminile, dal punto di vista grammaticale, umano riguarda i pronomi ‘egli’ [il] e ‘essi’ [ils, in francese]. ‘Io’ [Je] nasconde le differenze sessuali delle persone verbali, mentre le specifica nell’interscambio verbale. ‘Io’ [Je] cancella il fatto che ‘essa’ [elle] o ‘esse’ [elles] sono sommerse in ‘esso’ o ‘essi’, cioè che tutte le persone femminili sono complementari a quelle maschili. L’‘Io’ femminile [Je] che parla può fortunatamente dimenticare questa differenza e assumere indifferentemente il linguaggio maschile. Ma l’‘Io’ femminile [Je] che scrive è ricondotto alla sua esperienza specifica di soggetto femminile. L’‘Io’ [Je] che scrive è estraneo alla sua stessa scrittura in ogni parola che scrive perché questo ‘Io’ [Je] usa un linguaggio estraneo all’‘Io’ femminile. Questo ‘Io’ [Je] sperimenta ciò che le è estraneo, poiché questo ‘Io’ [Je] non può essere “uno scrittore”. Se, scrivendo je, adotto il suo linguaggio, questo je non può farlo. J/e è il simbolo dell’esperienza vissuta e lacerante che è la m/ia scrittura, di questo taglio in due che in tutta la letteratura è l’esercizio di un linguaggio che non m/i costituisce come soggetto. J/e pone la questione ideologica e storica dei soggetti femminili. (Alcuni gruppi di donne hanno proposto di scrivere ‘ioo’, jee, o ‘ia’, jeue). Se I/o [J/e] esamina la m/ia situazione specifica di soggetto nella lingua, I/o [J/e] sono fisicamente incapace di scrivere ‘Io’ [Je], I/o [J/e] non ho alcun desiderio di farlo.

***

Un moie est apparu… testo di Monique Wittig apparso nel 1972 sul numero 5 di Le torchon brûle, il giornale pubblicato dal Mouvement de Libération des Femmes dal 1970 al 1973.

***

Alcune osservazioni su Il corpo lesbico

di Monique Wittig (trad. it. di Sara Garbagnoli)

Per Il corpo lesbico mi sono trovata di fronte alla necessità di scrivere un libro interamente lesbico nella sua tematica, nel suo vocabolario e nella sua struttura, un libro lesbico dall’inizio alla fine, dalla prima alla quarta di copertina. Mi trovavo quindi di fronte a un doppio vuoto: quello della pagina bianca, che tutti gli scrittori devono affrontare quando iniziano un libro, e un altro di natura diversa: la non esistenza di un tale libro fino ad allora. Non mi ero mai trovata di fronte ad una sfida così radicale. Potevo tentare? Ne ero capace? E cosa sarebbe stato questo libro? Ho tenuto il manoscritto in un cassetto per sei mesi prima di consegnarlo al mio editore.

Non c’erano libri lesbici, a parte Saffo; almeno così la vedevo io all’epoca (non conoscevo ancora Djuna Barnes). Saffo era, insieme a Pindaro, uno dei più grandi poeti lirici del V secolo a.C.

Così, ho iniziato a scrivere frammenti in questo territorio vergine, con Saffo come unico orizzonte. Ho perso quei frammenti. Non funzionavano. Ricordo che a quel punto una delle possibilità formali che avevo in mente era quella di utilizzare l’intera opera di Saffo e di comporre intorno ad essa, di mettere l’intera opera di Saffo al centro e di scrivervi attorno, ai suoi margini. Poi, ho visto un’altra possibilità, che sarebbe stata quella di incorporare il testo di Saffo nel mio lavoro, di intertestualizzarlo nel mio lavoro. Ma nemmeno questo ha funzionato, perché i poemi di Saffo venivano da troppo lontano e si riferivano a un luogo, a un’epoca e a personaggi di cui non sapevo nulla.

Di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi sopravvivono pochissimi versi. Il più lungo
frammento sopravvissuto è stato spesso imitato come modello di lirica, in particolare da
Louise Labé nel XVI secolo, o da Boileau, autore de L’Art poétique, nel XVII secolo. Saffo
era in grado di esprimere la passione con grande economia di mezzi, ma con estrema potenza.


Quando scrive «quando ti vedo, divento più verde dell’erba», evocando il ruolo degli organi
come il fegato e cistifellea nella passione carnale, o meglio il tormento degli organi fino al
punto estremo in cui ci si sente vicini a soccombere tale è la violenza della passione.
La maggior parte dei frammenti saffici è composta da uno o due versi, a volte solo da due
parole. E in questi frammenti la violenza non è espressa o percepibile. Al contrario, si può
supporre che i personaggi vivessero in un mondo privo di violenza. E in nessun punto le
poesie suggeriscono che ci sia un’oppressione delle donne da parte degli uomini. Gli storici
hanno poi paragonato Saffo a Platone, la sua scuola di Lesbo a quella socratica. Per noi è
rimasta un mistero totale. È un enigma.

Se mi soffermo tanto sull’opera di Saffo, è perché questa idea di prendere lei come il TESTO, la Bibbia, le livre, il libro, e di scrivere intorno ad essa, è un’idea ricorrente per me. Ma non funziona mai. Mi trovo sempre davanti allo spazio bianco della pagina, questo spazio che io chiamo il cantiere letterario. Non insisterò mai abbastanza su questo spazio che, per ogni scrittore, può in ogni momento diventare un abisso, un abisso da cui c’è sempre il rischio di non poter uscire.

Cercare una nuova forma, provare a scrivere di ciò che non osa dire il suo nome, provare a scriverne con forza, questo era il dilemma con cui mi confrontavo. Le cose erano tali che la violenza era al centro e al cuore di questa impresa. È necessario parlare di una violenza della scrittura perché è sempre così per le forme innovative: minacciano le altre forme, fanno loro violenza. Lo si fa con le parole, parole che devono essere investite di una nuova forma e di conseguenza di un nuovo significato. Lo si fa con parole che devono provocare uno shock sui lettori. Se i lettori non sentono lo shock delle parole, non hai fatto il tuo lavoro. Questo vale per qualsiasi opera letteraria. C’è, quindi, fin dall’inizio una violenza fatta al lettore. Un buon lettore può essere colpito da questo processo come da un’esplosione. (È quello che ho provato per strada quando ho letto per la prima volta Tropismi di Nathalie Sarraute. Dopo di allora, la scrittura e la lettura non sono più state le stesse per me).

Il secondo tipo di violenza che ho sentito di dover esprimere in questo libro che non era ancora mai esistito era la violenza della passione. La passione che non osa dire il suo nome – la passione lesbica. Devo qui dire, per spiegare perché il mio libro Il corpo lesbico dovesse essere così criptico e allo stesso tempo realistico nella sua espressione, che l’amore lesbico in letteratura esisteva solo come la forma più evanescente d’amore – ne è il miglior esempio l’opera di Colette – come legame di due esseri vittimizzati dagli uomini che cercavano di trovare insieme una forma di associazione che li univa. Nel contesto letterario in cui mi trovavo, Colette era la scrittrice più famosa. E in un tale contesto, le due povere donne si aiutavano a vicenda – per compassione – a superare l’acme della passione – l’orgasmo –come una suora che aiuta un moribondo.

Le lesbiche sono entrate nella letteratura moderna con Baudelaire, che ha inventato il termine; una prima versione de I fiori del male era intitolata Le lesbiche. Poi Verlaine ha scritto Parallelamente. Erano tempi di abbondanza per il lesbismo come paradigma letterario, con gli stessi uomini gay che nascondevano la loro omosessualità dietro personaggi lesbici. Non che voglia biasimarli. Dove sarei senza di loro? A quindici anni mi hanno detto tutto quello che dovevo sapere.

Ma torniamo al mio cantiere letterario, dove stavo con il fuoco tra i denti e nient’altro che una pagina bianca. Improvvisamente mi si pararono davanti due parole il cui accostamento mi fece scoppiare in una grande risata (si può ridere anche quando si è angosciati): corpo lesbico. Potete rendervi conto di quanto fosse ilare per me? È così che il libro ha cominciato a esistere: con ironia. “Corpo”, parola maschile in francese, era qualificato dalla parola “lesbico”. In altre parole, mi sembrava che “lesbico”, per la sua vicinanza a “corpo”, destabilizzasse la nozione stessa di corpo. Questo è un buon modo per farvi capire che uno scrittore scrive parola per parola, e ogni parola è un’entità sia materiale che concettuale. Da queste due parole si è dipanato l’intero libro Il corpo lesbico. Non tutto in una volta, ma a poco a poco, come si descrive un’armatura. Prima l’elmo, poi il pezzo per le spalle, poi il pezzo per il petto, e così via. Questo era il mio “corpo lesbico”, una sorta di paradosso, ma non proprio, una specie di scherzo, ma non proprio, una specie di impossibilità, ma non proprio.

In ogni caso, grazie a queste prime due parole, tutto ciò che avrei detto, sarebbe stato trasformato. Davanti alla necessità di dover usare il vocabolario anatomico per descrivere il corpo umano, ebbene, lo avrei ripreso per il mio scopo. L’intero lessico di quest’opera di finzione, Il corpo lesbico, è quindi tratto da un rigido vocabolario anatomico. In questo modo, ho acquisito un preciso insieme di parole per parlare del corpo senza metafore, rimanendo concreta e pragmatica, senza sentimentalismi o romanticismi.

Questo corrispondeva anche ad una mia vecchia idea, secondo la quale il vocabolario usato dallo scrittore doveva essere conosciuto in anticipo dal lettore. Ora potevo cominciare a costruire sulla mia pagina bianca. Il lessico anatomico è stato il primo strato dell’edificio. Ho fatto in modo che perforasse il libro da un capo all’altro, rivelando così la sua strumentalità. A partire da questo vocabolario rigoroso, ero in grado di lesbicizzare l’intera mappa dell’amore così come lo conosciamo. (Il mio modello è Alla ricerca del tempo perduto di Proust). Poi, strato dopo strato, ho potuto introdurre molteplici riferimenti all’amore carnale in grado di fondersi insieme per creare quella che ho chiamato passione lesbica.

Questo vocabolario anatomico è freddo e distante. Mi è servito come strumento per incidere la massa di testi dedicati all’amore. All’altro estremo, c’era per me la necessità di usare la violenza testuale come metafora della passione carnale.

Gli scritti da cui ho preso a prestito e ho intertestualizzato, gettato insieme, sono tratti da Ovidio (Le metamorfosi), da Du Bellay, Genet, Baudelaire, Lautréamont, Raymond Roussel, Nathalie Sarraute, dal Nuovo Testamento, dal Cantico dei Cantici, dai poemi omerici, e altro ancora. Mi sono permessa di attingere da questi scritti solo a condizione che la mente del lettore potesse associarli alla violenza. Dovevo rendere questi testi compatibili con l’idea che avevo di una tensione tra il “tu” e l’“io” che sono i protagonisti de Il corpo lesbico. L’intero progetto è una descrizione impassibile della passione lesbica; ho cercato di lasciarmi alle spalle Baudelaire, Lautréamont e Verlaine.

Perché cos’è l’estasi totale tra due amanti se non una morte squisita? Un atto violento (qui attraverso le parole) che può essere riscattato solo da una resurrezione immediata. I grandi amanti della cultura eterosessuale (Don Giovanni, Otello e persino il dolce Orfeo) sono, il primo, uno stupratore, il secondo, un assassino e il terzo un senza cervello. Invece, le amanti de Il corpo lesbico quando uccidono, risorgono, illustrando, così, la frase poetica della Bibbia secondo cui l’amore è più forte della morte. In un certo senso, non lasciamo l’ambito dell’ironia.

Volevo anche parlare dell’amore lesbico da un punto di vista carnale, in modo che sentimenti, abbandono, lacrime, tutti questi segni sociali dell’amore potessero essere annessi dal solo punto di vista carnale, un punto di vista momentaneo. Non ci sono coppie eterne, non c’è un amore rassicurante che porti il lettore all’idea di “felicità eterna”. Sto solo descrivendo un momento, uno stato dell’esistere che può capitare a chiunque e che non può durare. Non è il fondamento di uno stile di vita. Non ha nulla a che fare con la vita sociale. Perché i poemi non sono una rappresentazione della vita reale. E quando le due cose coincidono, il testo della vita e il testo del libro, può essere solo sotto forma di inspiegabili flash come in quei versi di Rimbaud che mi ossessionano e ancora provocano in me uno shock:

Au bois il y a un oiseau

Son chant vous arrête et vous fait rougir.

Nel bosco c’è un uccello,

Il suo canto vi ferma e vi fa arrossire.

Come ho scritto nel mio libro Il pensiero straight, i pronomi personali sono parte integrante di tutta la questione. A volte, penso a Il corpo lesbico come ad una fantasticheria basata sulla bella analisi del linguista Émile Benveniste sui pronomi io e tu. La barra nel mio I/o è un segno di eccesso. Un segno che ci permette di immaginare un eccesso di “Io”, un “Io” esaltato nella sua passione lesbica, un “Io” così potente da poter attaccare l’ordine dell’eterosessualità nei testi e lesbicizzare gli eroi dell’amore, lesbicizzare i simboli, lesbicizzare gli dei e le dee, lesbicizzare Cristo, lesbicizzare uomini e donne. Questo “io” e questo “tu” sono intercambiabili, non c’è una gerarchia tra “io” e “tu”, che è il suo simile. Inoltre, l’“io” e il “tu” sono molteplici. Possono essere visti come protagonisti diversi in ogni frammento.

Come ne Le guerrigliere, anche ne Il corpo lesbico, ho utilizzato una tecnica di montaggio (di composizione) come per un film. Tutti i frammenti erano stesi sul pavimento al fine di essere organizzati. Il libro è stato costruito su questo principio. L’organizzazione finale produce una simmetria asimmetrica. Con ciò intendo dire che ogni frammento è stato duplicato in una forma e in un significato leggermente diversi.

Il libro si compone, quindi, di due parti. Si apre e si chiude su se stesso. La sua forma può essere paragonata a un anacardo, a una mandorla, a una vulva.

Si chiamava Norma

di Yasmin Nair

Norma McCorvey nel 1989 – foto di Lorie Shaull

Chi era Jane Roe, ovvero Norma McCorvey, la querelante nel caso Roe v. Wade? La storica sentenza con cui nel 1973 la Corte suprema degli Stati Uniti aveva riconosciuto il diritto all’aborto è stata clamorosamente annullata nel giugno del 2022. Yasmin Nair ripercorre la vicenda di Norma McCorvey/Jane Roe, evidenziando i limiti dell’interpretazione liberale della pratica dell’autodeterminazione e le sue disastrose ricadute politiche.

***

Ho scritto questo articolo nel 2020, due anni prima del recente annullamento della sentenza sull’aborto Roe v. Wade. Non mi interessava recuperare la figura di Norma McCorvey come quella di un’eroina senza macchia: il mio scopo era dimostrare che le nostre battaglie politiche più incisive sono radicate in vite e storie complicate che dobbiamo mettere in evidenza, non oscurare. McCorvey è stata usata da una comunità di attiviste per il diritto all’aborto che l’ha nascosta alla vista del pubblico, temendo che una persona così imperfetta (cioè, reale) potesse diminuire la simpatia verso la causa. Ma a cosa serve una causa che ignora la realtà delle vite che pretende di rappresentare? Oggi i liberal-democratici di tutto il mondo si torcono le mani per il recente annullamento di Roe, dichiarandosi scioccati dalla piega che hanno preso gli eventi. Ma Roe è stata praticamente inutile fin dall’inizio per le donne come McCorvey, perché è stata basata su concetti come “privacy” e “autonomia corporea”, che sono tutti fondati su un’economia di privilegi. La vita di Norma McCorvey ci ricorda che non dobbiamo ripristinare e ritornare a una Roe imperfetta e inefficace. Invece, in tutto il mondo, dobbiamo costruire un accesso all’aborto infinitamente migliore e più sostenibile, che veda l’aborto come una questione economica. (Y. N.)

***

“Con lei, tutti i nostri passati – quello queer, quello femminista e quello apertamente etero – diventano infintamente più complicati e infinitamente più ricchi”.

Norma McCorvey è morta il 18 febbraio del 2017. Tre anni dopo, un documentario su di lei ha provocato sconcerto, costernazione e un profondo senso di tradimento da entrambe le parti del dibattito sull’aborto.

Norma McCorvey era Jane Roe, la querelante nella storica sentenza Roe v. Wade del 1973, alla quale viene ampiamente attribuito il merito di aver dato alle donne americane il diritto di “scegliere” l’aborto. Il film è AKA Jane Roe. In realtà, come sappiamo, le attuali leggi sull’aborto sono ancora enormemente restrittive, quasi quanto lo erano il giorno in cui McCorvey, allora ventenne, nel 1969, cercò di abortire in Texas, dove le donne non potevano legalmente interrompere la gravidanza senza uscire dallo Stato. Trovandosi incinta e senza alcuna speranza di ricevere assistenza da parte dei medici, anche se dichiarò di avere subito uno stupro, McCorvey finì in un posto in cui si praticavano aborti clandestini, un luogo infestato da scarafaggi e coperto di sporcizia: diede un’occhiata ed ebbe paura di non uscirne viva. Se ne tornò a casa e partorì un bambino che diede subito in adozione.

Negli anni successivi, qualcuno la mise in contatto con due avvocate che stavano cercando una donna attorno alla quale potessero imbastire una causa sul diritto all’aborto fino al terzo trimestre: doveva essere abbastanza povera da non poter uscire dallo Stato per abortire. In McCorvey trovarono la candidata perfetta. Quando vinsero la causa, la chiamarono per congratularsi e le chiesero: Non sei contenta? Lei rispose: Perché dovrei essere contenta? Il bambino l’ho avuto.

Nel 1989 a Washington ci fu una manifestazione di donne provenienti da tutto il paese per il diritto all’aborto. Tra le celebrità intervenute, cariche di privilegi e frementi di rabbia, c’erano donne che vibravano di virtuosa indignazione come Whoopi Goldberg e Cybil Shepherd. Nel frattempo, McCorvey era stata intervistata a proposito del suo aborto e aveva rivelato che in realtà, no, la gravidanza che aveva cercato di interrompere e che aveva portato alla causa legale non era mai stata il risultato di uno stupro. Come disse senza mezzi termini, mentire era quello che bisognava fare, a quei tempi, per ottenere un aborto. Questo, insieme al suo carattere brusco da proletaria (lavorava come donna delle pulizie) e al suo pronunciato accento nasale della Louisiana/Texas, l’aveva resa un’oratrice inadatta agli occhi delle organizzatrici della manifestazione, e non fu invitata a parlare. L’ironia è che Roe v. Wade avrebbe potuto avere successo solo con una donna come McCorvey e che nessuna delle donne a cui era stata data l’opportunità di tuonare contro la perdita del diritto all’aborto avrebbe mai dovuto combattere per ottenerlo come dovette fare lei.

Con il passare degli anni, la salute e la situazione economica di McCorvey divennero sempre più precarie: alla fine rinnegò il proprio aborto, divenne una born-again Christian e trovò accoglienza tra le braccia del movimento antiabortista, che si rallegrò di trovare in lei un’icona perfetta da esibire. Come dichiara l’evangelico Robert Schenck nel documentario: “con lei abbiamo avuto il nostro Oscar”. McCorvey continuò a fare campagna elettorale per candidati antiabortisti e parlò spesso della propria fede in televisione. Il movimento per il diritto all’aborto, lo stesso che si era rifiutato di darle voce a dispetto del suo ruolo fondamentale per la causa, a quel punto si sentì profondamente tradito. Come ha potuto? si chiedevano. Ecco, sapevamo di non poterci fidare di lei.

Poi, tre anni dopo la sua morte, McCorvey ha di nuovo inorridito tutti, su entrambi i fronti. Il documentario mostra un filmato in cui la donna rivela di avere assunto una posizione antiabortista solo in cambio di denaro, che le era stato versato attraverso vari canali dalle forze anti-choice, in particolare dall’organizzazione Operation Rescue di Randall Terry: l’importo totale era di circa 450.000 dollari nell’arco di diversi anni. Nel video McCorvey afferma chiaramente di essere, in realtà, a favore del diritto dell’aborto, poi ride e si fa beffe dell’ipocrisia di coloro che pensavano di aver comprato le sue opinioni: Sono una brava attrice, dice ridendo e facendo spallucce.

Tutto ciò potrebbe non essere completamente vero, anche se le parole di Robert Schenck, l’unico evangelico di tutta la baracca che abbia qualcosa di simile a una coscienza, sembrano le più appropriate: Mi sono sempre chiesto: Ci sta prendendo in giro? Perché so per certo che noi stiamo prendendo in giro lei… Ora la farsa è finita.

La maggior parte delle persone, me compresa, non ha mai saputo che la donna il cui cognome fittizio è diventato simbolo del diritto all’aborto in realtà non ha mai ottenuto l’aborto che voleva. Il suo nome e il suo volto apparivano qua e là soprattutto come curiosità: Oh, guardate, eccola, la querelante nella causa Roe v. Wade, o Avete sentito che la donna di Roe v. Wade ora è antiabortista?

E la maggior parte delle persone, me compresa, non sapeva che McCorvey ha avuto diverse relazioni lesbiche, tra cui quella con Connie Gonzalez, con cui ha vissuto per trentacinque anni. Commentando il film, The Advocate (USA) e Pink News (UK) hanno usato parole identiche per descriverla: McCorvey, che si identificava come lesbica ma ebbe relazioni sia con uomini che con donne…

Il “ma” è indicativo del profondo sospetto della comunità gay mainstream nei confronti di tutte le persone che non possono essere identificate con precisione da una sessualità facilmente riconoscibile; il “ma” indica una persona di cui non ci si può fidare. Avrebbero potuto scrivere tranquillamente: “McCorvey, che si identificava come lesbica E aveva relazioni sia con uomini che con donne”, ma sarebbe stato troppo: tutta la gay-lesbicità sarebbe crollata, incapace di sopportare il peso dell’indeterminatezza e dell’illeggibilità.

A tutt’oggi, sebbene in occasione di ogni Pride a tante figure venga attribuito uno status eroico, non si è parlato neanche della possibilità di collocare Norma McCorvey in una sorta di firmamento che riconosca il suo posto straordinariamente importante, anche se conflittuale e talvolta confuso, nella storia americana. Senza di lei, non ci sarebbe stata la sentenza Roe v. Wade, per quanto imperfetta e inadeguata. Con lei, tutti i nostri passati – quello queer, quello femminista e quello ostentatamente etero – diventano infinitamente più complicati e infinitamente più ricchi.

La parola “menzogna” ricorre spesso nel modo in cui viene narrata McCorvey, i cui racconti autobiografici sono costellati di quelle che potremmo definire omissioni di ogni tipo. Ma se dovessimo guardare alle storie delle donne e alle storie queer in modo più onesto, dovremmo riconoscere che non riescono a integrare le vite delle persone come lei: fu odiata e abbandonata dalla madre, che lei stessa chiamerà Una stronza, falsa e stronza! Alla tenera età di dieci anni McCorvey è scappata con un’amichetta e, in qualche modo, le due sono riuscite a prendere una stanza d’albergo dove sono state trovate a baciarsi. Per questo fu messa in un’istituzione per ragazze (che, dirà in seguito, amava perché, come dichiarò, Non avevo mai visto così tante tette in un posto solo). Una volta uscita da lì, fu affidata a un parente che la stuprò ripetutamente, quindi sposò un uomo che – racconta – la picchiò quando rimase incinta, fu emarginata da un movimento letteralmente costruito sul suo nome, e così via. La storia dei gay e delle lesbiche,  e un certo filone della storia femminista, si basano sulla verità ineccepibile, o su una qualche versione di essa: ci piace che le nostre figure eroiche siano incontaminate, preferibilmente belle e colte. McCorvey non era una “figura imperfetta”: era una figura umana, che a malapena riusciva a sopravvivere sotto la pressione del capitalismo e che, alla fine, raccolse tutte le sue riserve e rivolse un gigantesco dito medio al movimento antiabortista che pensava di essere riuscito a comprare il suo silenzio.

Norma McCorvey era una lesbica, Norma McCorvey non era una lesbica, Norma McCorvey non era in grado di essere fedele alla verità, Norma McCorvey diceva la verità come nessun’altra.

Si chiamava Norma McCorvey e dobbiamo fare tutto il possibile per ricordarla.

*** Testo originale sul blog di Yasmin Nair.
Ringraziamo l’autrice per la nota introduttiva scritta per Manastabal.

IL TRATTAMENTO

Backlash patriarcale e ascesa del paradigma psicoterapeutico nella filiera istituzionale dell’antiviolenza

Con l’approvazione della legge 69/2019 — il cosiddetto Codice Rosso — si è registrato un salto di qualità nel lungo percorso che, in Italia, ha portato a ristrutturare la filiera istituzionale dell’antiviolenza intorno a una serie di principi tanto semplici quanto insidiosi, a maggior ragione perché reclamizzati all’insegna delle suggestioni retoriche legate all’evocazione di una modellistica modernizzante («finalmente l’Italia rimonta il ritardo rispetto ai più evoluti modelli internazionali!») e sistematicamente esonerati da qualsiasi esame di realtà condotto dal punto di vista delle dominate. Ridotti all’essenziale, tali principi possono enunciarsi come segue: 1) l’idea che la lotta al patriarcato e alle sue istituzioni debba stemperarsi in un più prudente e spiritualizzato «cambiamento culturale»; 2) l’idea che il «cambiamento culturale» possa aver luogo senza intaccare in maniera sostanziale il potere economico, sociale, politico e ideologico che gli uomini esercitano sulle donne, ma anzi consolidando rapporti di cooperazione che provvederanno a generare un’equa ripartizione di benefici tra dominanti e dominate; 3) l’idea che la via maestra del «cambiamento culturale» e della prevenzione della violenza maschile contro le donne passi attraverso il finanziamento pubblico di programmi psicoterapeutici e rieducativi adibiti al recupero degli «autori di violenza nelle relazioni affettive e di genere» — così li definisce la Relazione della Commissione femminicidio approvata all’unanimità dal Senato il 25 maggio 2022, evitando di proposito termini come «maltrattanti», «aggressori» o «violenti», ritenuti troppo stigmatizzanti e contrari allo spirito di «cambiamento» che anima il progetto.

«Certamente non tutti gli uomini autori di violenza cambiano» ammettono gli estensori della Relazione (tre uomini: il presidente dell’ex CAM di Roma, ora Centro Prima, Andrea Bernetti; il professore di diritto penale Emanuele Corn; lo psicoterapeuta Arturo Sica, presidente dell’associazione White Dove Progetto Educazione), «ma ogni progresso che si evidenzia in quegli uomini rappresenta comunque un passo avanti nel contrasto alla violenza sulle donne. Il cambiamento di ogni singolo soggetto è un nuovo tassello nel cambiamento culturale del paese». Nessun rapporto di forza tra gruppi sociali da modificare, nessun torto storico nei confronti della classe delle donne da riparare. Nella più vieta tradizione dell’individualismo metodologico liberale, la società viene rappresentata come un aggregato aleatorio di individui e l’idea di prosciugare l’oceano con il cucchiaino può accreditarsi come bella utopia pragmatica, libera da astrattezze ideologiche, vicina alla concretezza dell’esperienza. Poste tali premesse, va da sé che il «cambiamento» che conta è quello che avviene in interiore homine, una volta sgombrato il terreno dall’impressione che sfruttamento, controllo e violenza degli uomini sulle donne afferiscano alle gerarchie materiali che strutturano i rapporti sociali di sesso.

Nel caso esista ancora qualche anima novecentesca attardata sull’osservazione (o peggio: direttamente implicata nell’esperienza) dell’appropriazione maschile dei corpi, del lavoro, del tempo e della mente delle donne, la Relazione provvede infatti a correggere quella che ci assicura essere una pura distorsione ottica: «”Possedere” l’altro è una fantasia che ha una grande capacità di presa emotiva, diventa facilmente un obiettivo totalizzante e nell’uomo ben si aggancia con gli stereotipi della cultura patriarcale. Ma nessuno si possiede fino in fondo, in quanto l’altro è per definizione altro da sé e in quanto tale non è riducibile a ciò che si desidera. Questa impotenza comporta quasi inevitabilmente la trasformazione della fantasia di possesso con la fantasia di distruzione di ciò che si vorrebbe possedere. In sostanza il possesso è sempre impotente, disperato, distruttivo e violento» (corsivi nostri).

Per la saggezza psicologica che informa la Relazione della Commissione femminicidio, quindi, non viviamo in una società in cui l’esercizio effettivo del potere si regge su rapporti sociali di appropriazione (patriarcale e capitalistica). No: il possesso ha una consistenza puramente fantasmatica, “violenza” fa sempre rima con “impotenza”, la tautologia «l’altro è per definizione l’altro da sé» sarebbe l’inoppugnabile dimostrazione del teorema. Alla luce di queste premesse, è facile capire come la realtà dei rapporti di forza tra un gruppo dominante (gli uomini) e un gruppo dominato (donne) possa essere distillata in una sequenza di «vissuti» maschili completamente arbitrari, gratuiti, correlati forse a traumi pregressi, ma privi di agganci contestuali alla realtà extra-psichica in cui il soggetto è implicato. Il controllo, la pretesa, l’obbligo, la provocazione, la diffidenza, la lamentazione, la preoccupazione non possono essere decifrati altrimenti che come «vissuti emotivi che si trasformano in pretesti per comportamenti che inevitabilmente si manifestano nelle relazioni in cui, anziché la condivisione dei desideri, si vive il tentativo disperato del possesso dell’altra» (corsivi nostri). La violenza maschile contro le donne, quindi, come alibi del fantasma.

Scomparsa dalla scena la domanda sulle possibilità strumentali che mettono gli «autori» nelle condizioni di compiere il passo fra il sentire e l’agire, fra il proprio «vissuto» e l’inflitto alla vita altrui, restano in campo i fantasmi maschili come terreno privilegiato di intervento/«cambiamento» — ammesso e non concesso che il «cambiamento» dipenda effettivamente e unicamente da una ristrutturazione della scena infra-psichica. In fondo, nemmeno il più idealista degli psicologi potrebbe orientarsi e soprattutto puntare al risultato (sovvenzioni pubbliche ai CAM e accreditamento del paradigma psicoterapeutico) restando fedele alla purezza dei propri assunti. In effetti, è la stessa Relazione a individuare al di fuori della psiche degli «autori» l’incentivo determinante ai fini del «cambiamento», osservando candidamente che «subordinare alla partecipazione a specifici corsi di recupero la sospensione condizionale della pena», come previsto appunto dalla legge 69/2019 per i condannati a una pena relativamente bassa, «costituisce una novità importante, che certamente stimolerà un maggior ricorso e una maggiore diffusione su tutto il territorio nazionale di percorsi per uomini autori di violenza».

La ragionevole previsione di una crescita della domanda di accesso ai servizi rieducativi, indotta dalla possibilità garantita agli «autori» di fruire di benefici di legge, ha pertanto imposto un’accelerazione al percorso finalizzato a integrare i CAM (Centri di ascolto uomini maltrattanti) nelle reti istituzionali antiviolenza e a destinare al potenziamento di queste strutture ingenti risorse pubbliche: 9 milioni di euro per il 2022, contro i 5 milioni previsti per i centri antiviolenza e altri 5 milioni destinati a quella misura propagandistica di carità derisoriamente definita «reddito di libertà».

Siamo, dunque, al punto di approdo di un processo che, secondo le ricostruzioni fornite dai promotori e dalle promotrici dei CAM (cfr. A.A. V.V., Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento, Ediesse, Roma 2017), può essere fatto risalire agli anni Novanta, quando la nascita dei primi gruppi di autocoscienza maschile stimola una ridefinizione del problema della violenza contro le donne sempre più sbilanciata sul versante psicologico. Interpretata ora come incapacità di «accettare la differenza», ora come risposta a «un’autonomia e una libertà già entrate nella vita di molte donne», la violenza patriarcale diventa oggetto di un discorso psicologico che la colloca nel segno dell’impotenza simbolica e della frustrazione reattiva, facendole perdere qualsiasi connotato strumentale di potere esercitato — impunemente e remunerativamente — per conseguire degli scopi, ricavare dei vantaggi, assicurarsi il controllo, puntellare una gerarchia sociale.

Gettate alle ortiche le coordinate di analisi della violenza patriarcale elaborate dal femminismo negli anni Settanta (pensiamo, per esempio, al contributo pionieristico di Jalna Hanmer) e messa in mora ogni indagine sulla riorganizzazione della violenza patriarcale nel contesto neoliberale (per una sintesi, cfr. Jules Falquet, Pax neoliberalia. Perspectives féministes sur la (réorganisation de) la violence, iXe, Donnemarie-Dontilly 2016), comincia a prepararsi un terreno favorevole all’accoglienza di quel mito tenace che va sotto il nome di «crisi della mascolinità»: espressione certamente volatile nei suoi contenuti — in un mondo in cui gli uomini continuano a monopolizzare la maggior parte delle posizioni di potere nel campo politico, economico, culturale — ma particolarmente idonea, proprio a causa della sua vacuità, a creare l’impressione che «anche i potenti piangono», o comunque farebbero scorrere volentieri le lacrime, se solo il più terribile degli interdetti non impedisse loro di abbandonarsi a un’autocommiserazione ristoratrice.

In maniera solo apparentemente paradossale, la retorica del trattamento come processo di auto-responsabilizzazione degli uomini rispetto alla violenza compiuta non può evitare di porli e presupporli come vittime del modello culturale patriarcale, come dominati dal dominio, come oppressi dal patriarcato allo stesso titolo delle donne, e dunque allo stesso titolo candidati a essere destinatari di prestazioni sociali. La psicologizzazione del discorso, insomma, non può fare altro che ristabilire simmetrie immaginarie tra oppresse e oppressori, magari denegate a parole da chi non smette di predicare «priorità alle vittime», ma di fatto continuamente riattivate perché ideologicamente e operativamente funzionali a scongiurare il conflitto e a rappresentare come «bene comune» il consolidamento di vantaggi patriarcali. Il senso comune presuntivamente più «illuminato» e sensibile alle «questioni di genere» non cessa di sussurrare all’orecchio degli uomini che essi acquisiscono la propria identità di genere individualmente e dolorosamente e che la loro violenza si spiega come reazione individuale ai traumi subiti. Senso comune che si vuole «illuminato» e impegnato in una lotta meritoria contro gli «stereotipi di genere», ma che resta singolarmente cieco al fatto che questa violenza «reattiva» non esplode casualmente, in qualsiasi circostanza, contro qualsiasi bersaglio, ma nel perimetro della relazione tra un socialmente superiore e un socialmente inferiore. Del resto: come mai i vissuti femminili, i traumi femminili, le frustrazioni femminili, i fantasmi femminili, le dolorose acquisizioni dell’identità di genere femminile non danno luogo agli stessi esiti in fatto di violenza domestica e sessuale?

Va per altro detto che questo tipo di attenzione al disagio maschile difficilmente avrebbe oltrepassato le cerchie ristrette dei diretti interessati se non avesse trovato sponde favorevoli presso settori femministi sensibili al richiamo della psicologizzazione del discorso. Per altro verso, il percorso di legittimazione della funzione sociale dei CAM avrebbe forse incontrato maggiori diffidenze se, a promuoverlo nel nostro paese, non fossero state forze provenienti dal mondo dei centri antiviolenza e decise a rompere con un modello di intervento giudicato insensibile alle esigenze delle donne indisponibili a far coincidere il percorso di fuoriuscita dalla violenza con un percorso di fuoriuscita dalla relazione con l’«autore». Fiumi di retorica sulla necessaria complementarietà tra centri antiviolenza e CAM tendono in effetti a seppellire la memoria e il peso di una polemica apertamente verbalizzata da una delle pioniere dei CAM in Italia: «se non onoriamo le scelte affettive delle donne che ci consultano» ha scritto Alessandra Pauncz, fondatrice nel 2009 del primo CAM italiano a Firenze, «come possiamo pensare di riconnetterle a quei valori relazionali che sono spesso alla base delle loro scelte di vita? Molte operatrici sarebbero pronte ad argomentare che un rapporto maltrattante non è un rapporto di amore. Del resto alcune campagne contro la violenza si sono basate proprio su questa idea, se ti picchia non ti può amare. Ben si capisce l’origine di questa idea. Se voglio il bene di qualcuno non metto in atto comportamenti che lo fanno stare male, o lo danneggiano fisicamente. Ma quanto moralismo conformista e normativo c’è in questa idea? E quanto sono rispettosa e in grado di valorizzare le scelte affettive delle donne in momentanea difficoltà?» (A. Pauncz, Verso il luogo delle origini: riflessioni di un’operatrice eretica, in A.A. V.V., Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento, Ediesse, Roma 2017, p. 351).

Se queste sono le premesse, se la necessità di comprendere si tramuta addirittura nel dovere di «onorare», se l’analisi del rapporto di potere e il pur minimo accenno a che cosa comporta la coppia eterosessuale per le donne si lasciano liquidare così in fretta come deprecabile «moralismo normativo», è proprio così infondata l’ipotesi che l’accreditamento dei CAM agisca come una forma mascherata di mediazione familiare?

Un altro fattore che certamente ha influito sulla legittimazione dei CAM è stata l’abile strumentalizzazione della tematica anti-carceraria e anti-punitivista. A partire da un assunto condiviso e condivisibile, cioè che il patriarcato non si smantella a colpi di diritto penale, si è consolidata una tenace catena di non sequitur finalizzati a preservare gli uomini dai rigori della sanzione, a distogliere lo sguardo dal modo in cui le falle (per le donne) e le complicità (per gli uomini) della giustizia possono diventare una risorsa operativa nelle mani violenti, a rinunciare a fare anche della giustizia un campo di battaglia. E così, mentre settori di femminismo accademico e filoni libertari di movimento gareggiano tra loro nella denuncia rituale del «femminismo punitivo», capita di imbattersi in corporazioni di penalisti che mettono a disposizione dei propri clienti servizi di questo tipo: «Maltrattamenti e stalking, il percorso giusto per evitare il carcere. Evitare il carcere per i reati di maltrattamenti, violenza sessuale e atti persecutori è possibile con una strategia difensiva che si avvalga di esperti psicologi».

Dicevamo all’inizio di una sistematica resistenza all’esame di realtà da parte dei fautori e delle fautrici dell’ideologia corrente. In effetti, né le circostanze in cui è maturato il femminicidio di Juana Cecilia Hazana Loayza a Reggio Emilia nel novembre 2021, né quelle che, nel giugno del 2022, hanno agevolato i propositi stragisti di Zatlan Vasiljevic a Vicenza, sembrano aver sollevato dei dubbi sulla bontà del processo in corso, alimentato proteste significative contro il Codice Rosso o sollecitato un dibattito critico di più ampio respiro sul paradigma psicoterapeutico che si sta imponendo come norma del contrasto alla violenza maschile contro le donne. Al contrario, a ogni crepa che si apre nell’edificio costruito sulle basi del «trattamento», la reazione ricorrente è che servono più CAM, serve più trattamento, serve più fiducia nella sua imprescindibile necessità, serve mettere al centro delle premure pubbliche l’«autore» — mentre ci si proibisce anche solo di pensare a misure immediate di sicurezza per prevenire morti annunciate e, più in generale, si stenta addirittura a domandarsi se le vittime di violenza abbiano di che pagarsi un affitto per uscire dal tetto coniugale, in un paese in cui, per la prima volta dal 2013, l’occupazione femminile è crollata al di sotto della soglia, non solo psicologica, del 50% .

Curiosamente, nemmeno le più accese sostenitrici della Convenzione di Istanbul si sono sentite in dovere di alzare la voce per segnalare almeno che, se l’art. 16 della Convenzione raccomanda l’istituzione di programmi di recupero per gli «autori di atti di violenza domestica», non prescrive la fruizione di benefici di legge da parte dei maltrattanti in cambio della partecipazione ai percorsi trattamentali. Ma ancor più curiosa, a ben guardare, è la riconciliazione con il paradigma psicoterapeutico da parte di tante che, a partire dal 2016, hanno riempito le piazze al grido «il violento non è un malato, è figlio sano del patriarcato». Valeva allora e non vale più adesso? Vale in piazza, ma non vale più nel lavoro quotidiano?

A ogni buon conto, non ci troviamo di fronte a problemi totalmente inediti, mai discussi in precedenza. Si tratta però di rilanciare la discussione sulle ragioni di questa assuefazione paralizzante a un modo di concepire la lotta alla violenza patriarcale che ci riporta a una visione riparativa dell’intervento centrata sulla necessità di restaurare il buon funzionamento della coppia eterosessuale e del nucleo domestico — uno dei principali luoghi di sfruttamento delle donne.

Vent’anni fa la rivista femminista francofona «Nouvelles Questions Féministes» pubblicava un’intervista di Martin Dufresne allo psicologo quebbechese Rudolf Rausch, a proposito dei programmi di recupero destinati ai maltrattanti. Ne riportiamo in traduzione alcuni stralci, tanto più interessanti in quanto il punto di vista è quello di un insider, e ancora utili a mettere in evidenza il tratto politicamente regressivo del passaggio al paradigma psicoterapeutico dell’antiviolenza.

RR: Chi lavora con i maltrattanti — psicologi e altri operatori — tende tradizionalmente a vedere la violenza come un sintomo o un indicatore di qualche altro problema di fondo, che troppo spesso è visto come intrapsichico o come una difficoltà sistemica, una difficoltà di comunicazione o di interazione tra i coniugi.

MD: Con quale effetto?

RR: L’effetto è duplice. Da un lato, si banalizza questa violenza, nel senso che viene percepita come non necessariamente così importante, e dall’altro, viene interpretata più come una reazione a qualcosa che come un’azione, un mezzo per ottenere qualcosa. Questa è la prima tappa: molti operatori oscilleranno enormemente nello sforzo di confrontarsi con l’uomo, di fargli nominare o meno il proprio repertorio di violenza.

La seconda tappa del modello tradizionale è che, a prescindere dalla scuola di pensiero, esiste un quadro comune nella strategia degli operatori, il che significa che, in genere, la fase successiva sarà quella di cercare di andare sull’emozione, sull’affetto, presumendo che si tratti di un problema emotivo. Quindi lavoreranno molto con l’uomo affinché aumenti il contatto con la sua vita interiore, affinché arrivi a riconoscere le emozioni che sta vivendo. Ora, si può immaginare che, quando lavoriamo con persone già molto egocentriche, il fatto di portarle a essere ancora più “ombelicali”, ancora più centrate sulla loro vita interiore, abbia l’effetto di alimentare, fondamentalmente, quello che stanno già facendo, o almeno questo è il rischio. D’altra parte, è comune che questi operatori incoraggino – tacitamente o più direttamente, più formalmente – gli uomini a dare un nome ai loro affetti. Si cerca di dotarli di tecniche di comunicazione per far valere meglio le loro emozioni. Si può quindi facilmente capire che, quando una persona è già molto concentrata sulla propria vita e tiene poco conto della vita e dei diritti delle persone che le sono vicine, dotarla di un maggior numero di queste tecniche ha l’effetto fondamentale di aiutarla a diventare più raffinata nell’abuso di potere, nei suoi mezzi per esercitare il controllo sulla partner.

Infine, molto spesso, gli operatori convalideranno l’emozione. Qui bisogna fare attenzione: questo può essere rischioso perché, anche se di solito non invalidiamo gli affetti di qualcuno, questi vengono recuperati dagli aggressori come giustificazione per la loro violenza.

MD: Ricevono un sostegno sociale?

RR: Sì, in un certo senso. E succede che molto presto gli uomini, prima ancora di assumersi le proprie responsabilità, rischiano di sviluppare un discorso del tipo «Anch’io ho dei diritti!» Così si mettono nella posizione di rivendicare ancora prima di essersi resi imputabili. Ciò significa che la violenza verbale e psicologica non solo non diminuirà, ma potrebbe addirittura aumentare con questo tipo di approccio.

MD: Non è forse dovuto al fatto che, in pratica, il «trattamento» fa parte di un processo sociale alternativo alla giudiziarizzazione, alle sanzioni, alla rottura, insomma a qualsiasi conseguenza negativa dell’aggressione per il suo autore?

RR: A volte, e spesso, è proprio quello che accade. Infatti, gli uomini, soprattutto quelli violenti, di solito si rivolgono a un aiutante (psicologo o altro), non per cambiare se stessi, ma essenzialmente per creare una coalizione con qualcuno che ha uno status di potere, e quindi per rimanere gli stessi. Se qualcuno deve affrontare un’accusa penale, userà la relazione di aiuto per cercare di ridurre la portata della criminalizzazione. E nel caso in cui la situazione non sia stata giudizializzata, in cui non siano state formulate accuse, e vediamo che l’uomo chiede aiuto perché la moglie lo ha lasciato o minaccia di farlo, a quel punto è sicuro che il suo obiettivo non è cambiare se stesso, ma stabilire una coalizione che gli permetta di riavere la moglie.

MD: Come reagisci alla situazione in cui ti mette?

RR: Dobbiamo tenerne conto, così come degli effetti secondari e persino primari del nostro intervento, vale a dire che, inizialmente, abbiamo un cliente che vuole affidarci un mandato di non cambiamento, un mandato di ripristino dell’influenza al fine, fondamentalmente, di evitare le conseguenze delle sue azioni e anche di riavere la sua coniuge. Ciò significa che, in quanto operatori, abbiamo la pesante responsabilità di non stringere un patto del genere in modo innocente, senza tenere conto di questo problema e degli effetti perversi che la nostra offerta di aiuto a quest’uomo può avere, cioè prolungare il periodo in cui una donna è esposta a un uomo che può essere pericoloso per lei.

MD: Nel senso che lei resterà con lui perché lui sta parlando con un «terapeuta»?

RR: Proprio così. In effetti, Edward Gondolf ha dimostrato in modo abbastanza conclusivo molti anni fa che l’effetto principale dell’offerta di servizi a un partner violento è quello di incoraggiare le donne maltrattate, nella stragrande maggioranza dei casi, a tornare a vivere con lui.

MD: Nel tuo articolo riferisci del tentativo in Quebec, subito incoraggiato dallo Stato, di creare una rete di sostegno maschilista per i coniugi maltrattanti, ribattezzata «uomini in crisi», un modo per ridefinire i maltrattanti sulla base delle loro cosiddette difficoltà personali. Gli erogatori di programmi tradizionali hanno sfruttato gli omicidi sessisti sostenendo che, se gli assassini avessero avuto accesso alle risorse maschili, i crimini non sarebbero stati commessi. Qual è lo stato di avanzamento di questo approccio?

RR: Beh, continua. Quasi ogni volta che una donna viene uccisa, di solito nel giro di pochi giorni, vediamo alcuni dei protagonisti deplorare ancora una volta l’assenza di un numero verde per i partner violenti, l’assenza di centri «rifugio» per gli aggressori, il sottofinanziamento delle risorse per gli uomini e anche il presunto sessismo delle risorse pubbliche che non accolgono adeguatamente gli uomini, cioè secondo un’interpretazione maschilista di ciò che significa essere un uomo. Questi discorsi hanno un capitale sempre maggiore nei media e l’attività di lobbying continua in questa direzione.

MD: Non c’è forse una collusione tra lo Stato e il movimento maschilista per emarginare ciò che è inquietante nel confronto femminista con la violenza e il potere maschile?

RR: Forse. È certo che al momento manca la volontà politica di garantire che gli operatori siano responsabilizzati. Chiediamo agli abusanti di diventare responsabili, ma se vogliamo raggiungere questo obiettivo, i programmi per uomini dovrebbero essere responsabili, così come i loro operatori. Ma c’è poca responsabilità in questi programmi, quindi cosa significa? Vedo che in molti casi si ignora la documentazione esistente, in particolare la letteratura statunitense sull’argomento, che è molto più avanti rispetto a quella prodotta in Quebec. Che cosa significa? Si potrebbe pensare che da qualche parte le autorità stiano beneficiando di questa negligenza.

MD: Un cambiamento che osserviamo in Nord America è quello di una «patologizzazione» delle donne abusate, nel senso che alcuni giudici che mandano un abusante «in terapia» mandano anche la sua vittima! Com’è la situazione in Quebec?

RR: Sì, purtroppo questo deriva anche dalla mancanza di comprensione del problema da parte di molti giudici. Si tratta di una lettura sistemica o transazionale del problema che «compra» l’idea che quando c’è violenza domestica, è 50-50, il che è completamente depotenziante e inefficace come prospettiva. Parlare di 50-50 implica essenzialmente una simmetria nella coppia: è adottare una lettura sistemica che pretende che ogni membro del sistema sia intercambiabile nell’analisi, il che è palesemente falso.

MD: Mi sembra che negli ultimi trent’anni si sia aperta una finestra di opportunità sul tema della violenza domestica. Questo tema è stato messo in piazza, come uno scandalo. Ma da allora si è assistito a un processo di banalizzazione e persino a una risacca che ha reso il fenomeno sempre meno scandaloso. Pensi che ci sia un modo per contrastare questo processo?

RR: Claire Renzetti ha scritto che quando si inizia a guardare alla violenza domestica, è come ballare con un orso. Di solito, quando si balla, si balla per un po’ e quando ci si stanca ci si siede. Ma quando si inizia a interessarsi all’uguaglianza di genere e al fenomeno della violenza domestica, è un po’ come ballare con un orso, nel senso che quando si inizia a essere stanchi, non ci si può più sedere. Bisogna continuare a ballare finché l’orso non si stanca. Per tornare alla sua domanda: sì, c’è stata questa finestra di opportunità, sono state poste delle pietre miliari, sono stati fatti dei progressi sociali, ma allo stesso tempo non è sorprendente che ci sia stato un intero processo di recupero che ci porta a un punto in cui, nella mentalità di molte persone e in quello che possono desiderare, «abbiamo cambiato abbastanza, abbiamo fatto abbastanza».

Il patriarcato, il femminismo e le loro intellettuali

di Christine Delphy (*)

“Quanto a noi, femministe radicali che rivendicano un’impostazione materialista, siamo arrivate alla conclusione provvisoria, dopo anni di riflessione, che per comprendere il patriarcato occorre rimettere in questione l’ideologia patriarcale in modo radicale: rigettarne tutti i presupposti, inclusi quelli che non sembrano tali ma si presentano come categorie fornite direttamente dal reale, per esempio le categorie di «donne» e «uomini»”: così Christine Delphy nell’ormai lontano 1981. Che cosa voglia dire mettere in questione fino in fondo i presupposti dell’ideologia patriarcale — anche polemizzando, se necessario, con correnti femministe che si sono fermate a metà del guado — è quanto la sociologa francese chiarisce nel saggio Le patriarcat, le féminisme et leurs intellectuelles, originariamente apparso su «Nouvelles Questions féministes», e qui presentato per la prima volta in traduzione italiana.

***

Il termine «patriarcato» era poco utilizzato fino all’inizio degli anni Settanta, vale a dire fino alla rinascita del femminismo nei paesi occidentali. Il termine faceva comunque parte del linguaggio corrente, ma soprattutto nella forma aggettivale: «patriarcale». D’altra parte è soprattutto la letteratura, e in particolare la letteratura del XIX secolo, che ne ha fatto una parola familiare. Le scienze umane invece la ignoravano e, per lo più, la ignorano ancora.

Curiosamente, nemmeno coloro che, come Bachofen, Morgan e Engels, hanno difeso una visione evoluzionista della storia delle società umane fondata sul postulato — assai problematico — di un matriarcato originario, che poi sarebbe stato «rovesciato», hanno ritenuto utile definire «patriarcali» le tappe successive a questo «rovesciamento». E quando si trova «patriarcale» sotto la penna di Marx, ciò avviene con la stessa connotazione a-temporale e, a dirla tutta, poetica, che il termine ha in Victor Hugo. Per loro, come per tutti gli autori che lo usano, questo aggettivo ha una connotazione eminentemente positiva; il più delle volte è preceduto dalla parola «virtù», la più grande delle quali è la «semplicità di costumi patriarcale». In che cosa consistono questi costumi «semplici»? Passandoli in rassegna, i poeti che parlano delle «virtù» patriarcali evocano lo stesso tipo di società a cui si riferiscono i sociologi che, come Tönnies e Durkheim all’inizio del secolo, esaltano la Gemeinschaft (antica società comunitaria) e la «solidarietà meccanica» a spese della Gesellschaft (società moderna e atomizzata) e della «solidarietà organica», e gli antropologi contemporanei, in genere marxisti, che oppongono le società primitive senza classi e senza sfruttamento — dicono loro — alle società moderne, stratificate e basate sullo sfruttamento. Queste opposizioni, più o meno chiaramente mitiche, esprimono tutte la stessa cosa: la nostalgia di un’«età dell’oro» dell’umanità fondata sul consenso e non sul conflitto. Ora, questa utopia per loro è strettamente associata all’immagine di un gruppo umano in cui l’organizzazione familiare è, al tempo stesso, la principale base concreta e il modello di tutti i rapporti sociali. Questi miti — siano essi riconosciuti come tali, o accreditati da una parvenza scientifica — dipendono tutti, dunque, dalla stessa credenza: che la pace, la coesione sociale e l’assenza di gerarchie fra «classi» (intendete: fra uomini) esigono che la gerarchia familiare, in se stessa buona e naturale — buona perché naturale, di fatto definita naturale perché ritenuta buona — sia invece in vigore e accettata.

L’introduzione del sostantivo «patriarcato» si deve però al movimento femminista. E non è sulla scena letteraria o accademica che i movimenti femministi negli anni Settanta introducono questo termine, ma esattamente là dove questi movimenti si situano: sulla scena politica. Prima del neo-femminismo il termine «patriarcato» non aveva un senso esplicito e, soprattutto, non un senso esplicitamente politico. Non è il caso di stupirsene: fa parte della natura del patriarcato — come di ogni sistema di oppressione — negarsi in quanto tale. Le femministe, dunque, in un certo senso hanno inventato questo termine, nell’accezione e soprattutto nella funzione che gli attribuiscono. E certamente, per le femministe, la sua connotazione non è più positiva, bensì negativa. Tuttavia non è un caso se le femministe — se noi — abbiamo scelto questo termine per nominare il responsabile della nostra oppressione. Un’analisi di contenuto sistematica rivelerebbe senza dubbio che tutti i significati espliciti che le femministe attribuiscono al termine «patriarcato» sono in germe, come ho cercato di mostrare brevemente, nell’uso letterario e inconsapevole, ovvero patriarcale, dell’aggettivo «patriarcale». Si potrebbe caratterizzare la rinascita del femminismo alla fine degli anni Sessanta in molti modi. Il neo-femminismo ha operato una rottura molto netta sia nei riguardi di quello che restava — logoro, imbastardito e riformista — dei movimenti femministi precedenti, sia nei riguardi degli altri movimenti politici contemporanei. Ha introdotto un modo nuovo di interpretare la situazione delle donne e, con questo, la situazione di tutti i gruppi sociali; contemporaneamente, ha creato un modo nuovo di fare politica. Di conseguenza il femminismo ha creato molti nuovi concetti necessari per esprimere queste visioni differenti. E sotto questi due riguardi, quello della concezione della condizione femminile e della società da una parte, quello della concezione del politico e della rivoluzione dall’altra parte, quello di «patriarcato» è senza dubbio uno dei concetti più importanti, se non il più importante. Tuttavia la sua utilità non è oggetto di un consenso unanime tra femministe; il ruolo che gli viene assegnato nelle diverse analisi è rivelatore delle fratture più importanti che esistono in seno al movimento femminista.

In Francia la linea di demarcazione è chiara: l’impiego del termine «patriarcato» differenzia nettamente le femministe radicali dalle femministe socialiste (chiamate in Francia «tendenza lotta di classe»). Notiamo che, se l’opposizione fra queste due correnti è stata una costante del neo-femminismo in tutti i paesi, da dieci anni a questa parte si sono prodotti degli spostamenti. Il movimento femminista è cambiato e, in Francia come altrove, si è — nel complesso — radicalizzato. Questa radicalizzazione è attestata dall’impiego sempre più frequente del termine «patriarcato» da parte delle femministe socialiste. Non al punto che il termine cessi di essere problematico, tuttavia, né al punto di smettere di essere la parola d’ordine della tendenza radicale. A Parigi, l’8 marzo 1980, le femministe radicali sfilavano dietro a uno striscione che diceva: «Qui si lotta contro il patriarcato», il che dimostra che non erano sicure che questo fosse vero per l’insieme delle manifestanti. Do per scontata una familiarità con la situazione dei movimenti femministi e con il contenuto del disaccordo tra queste due correnti sufficiente a rendere inutile una lunga digressione sulle ragioni per cui quella di patriarcato è una nozione controversa. Per le femministe socialiste, l’oppressione delle donne è dovuta in ultima analisi al capitalismo, e i suoi beneficiari principali sono i capitalisti, mentre per le femministe radicali l’oppressione delle donne è principalmente dovuta a un sistema differente, originale, che, sebbene strettamente intrecciato nella società concreta con il sistema capitalista, tuttavia non può essere confuso con questo. Gli uomini sono i beneficiari di questo sistema e questo sistema è il patriarcato. Viceversa, la ragione profonda della trasformazione di questo termine in concetto fondamentale di una teoria della condizione delle donne, è la percezione del fatto che l’oppressione delle donne è sistemica. Questa percezione deriva dal postulato principale e comune che fonda il neo-femminismo: l’oppressione delle donne non è un fenomeno individuale, né naturale, bensì un fenomeno politico. Questa percezione, tuttavia, ha implicazioni differenti a seconda delle diverse analisi: così le femministe socialiste non negano che l’oppressione delle donne sia sistemica, ma pensano che le determinanti di tale sistema possano essere rintracciate nel capitalismo, vale a dire che questo sistema oppressivo sia fondamentalmente identico a quello subito dai lavoratori.

Questa posizione presenta numerosi punti deboli, rivelati dal fatto che le femministe socialiste non sono mai state in grado di produrre un’analisi di qualche aspetto dell’oppressione delle donne che faccia appello esclusivamente e fino in fondo soltanto al capitalismo. Ed è senza dubbio per questo motivo, oltre che in ragione di un’autentica radicalizzazione che per altro non può essere negata, che esse sono sempre più spesso obbligate a ricorrere al termine «patriarcato» e all’aggettivo «patriarcale». Se questo ricorso testimonia la debolezza della loro posizione, secondo la quale esisterebbe soltanto un sistema di oppressione, in compenso esso mette anche in luce che il termine «patriarcato» non è sinonimo del concetto «patriarcato». In effetti, le femministe socialiste utilizzano il termine in un modo che mostra bene come continuino a rifiutare di considerare il patriarcato un sistema. L’impiego del termine «patriarcato» non è, dunque, una panacea teorica: non è garanzia di un’analisi femminista radicale.

È così che alcuni usi del termine «patriarcato» da parte delle femministe socialiste appaiono come un modo per consolidare distinzioni che il femminismo radicale rimette violentemente in questione: quella fra l’ambito del «privato» e l’ambito del «politico», quella fra il naturale e il sociale. Nei primi testi femministi socialisti in cui appare il patriarcato, esso appare anche come un guazzabuglio, per di più senza statuto teorico. Non si sa se si tratta di un sistema globale di relazioni sociali, come nell’analisi femminista radicale, o di una parte di un sistema, o ancora di un’ideologia, o persino di un tratto psicologico. Si tratta di un deus ex machina che esce da non si sa dove per rendere conto di ciò che i concetti marxisti ortodossi non sono riusciti a spiegare. Deus ex machina, ma anche pattumiera in cui si ritrovano pezzi eterocliti, scarti che non rientrano nella teoria marxista ortodossa.

E soprattutto, il patriarcato si trova rigettato sul versante delle mentalità. Ma non sul versante delle mentalità collegate a un sistema sociale: no, sul versante delle mentalità fondamentali e a-storiche, insomma sul versante di una «natura umana». Si ritrovano nel testo di Bland, Brundson, Hobson e Winship [1], le connotazioni associate all’uso classico, cioè pre-femminista, dell’aggettivo «patriarcale», connotazioni psicologizzanti e biologizzanti. Il patriarcato è, in quest’uso, una specie di nucleo al tempo stesso inesplicabile e irriducibile della «natura umana». Juliet Mitchell, in Psicoanalisi e femminismo [2], ha offerto la formulazione più esplicita di questo recupero del termine «patriarcato» da parte di coloro che ne rigettano la definizione femminista e dunque l’utilità teorica — che negano la sua natura di sistema sociale. La sua definizione di patriarcato è stata criticata nel dettaglio da McDonough e Harrison e da Beechey [3], pertanto non ripeterò questa critica. Mi limiterò a segnalare che tutte le incoerenze analitiche e teoriche, così come tutte le implicazioni reazionarie di questo impiego del termine «patriarcato», sono, in Mitchell, caricaturali. Il patriarcato viene rigettato, questa volta in maniera esplicita, nel sovrastrutturale: viene definito non solo come un’ideologia, ma come l’Ideologia. Per Mitchell non solo un’oppressione materiale — quella delle donne — è causata semplicemente da un’ideologia, ma questa ideologia è, curiosamente, quella del capitalismo; ma non solo del capitalismo. In effetti, secondo Mitchell, il patriarcato è al tempo stesso l’ideologia del capitalismo e quella delle società precapitalistiche fino alla preistoria e addirittura fino alle «origini» ignote e inconoscibili. Se da un lato il patriarcato sembra rientrare nella storia, dato che viene definito «ideologia», cosa che suppone un sistema sociale preciso, con lo stesso movimento viene anche destoricizzato: il patriarcato è visto come una struttura mentale a-storica, prodotta non da una o diverse società concrete, ma dalla Società. In effetti, viene presentato come la base stessa della costituzione di ogni società. Le implicazioni politiche sono chiare: se il patriarcato è il corollario, o meglio la condizione, del passaggio dalla natura alla cultura, non solo è inevitabile, ma desiderabile; è imposto dalla natura del sociale, e questa natura del sociale è a propria volta imposta dalla natura fisica. In effetti, se il passaggio dalla natura alla cultura implica necessariamente l’oppressione delle donne, ciò è dovuto, in questa visione, alla rispettiva anatomia delle donne e degli uomini, o più esattamente, delle femmine e dei maschi. In questo modo l’avvento del patriarcato e la sua conservazione appaiono doppiamente inesorabili e giustificati: da una parte, dalla natura animale della specie, dalla sua biologia; dall’altra parte, dalla sua natura propriamente umana, dal suo carattere sociale.

Il concetto di patriarcato può essere deviato e svuotato del suo senso di sistema sociale in altre maniere. Si possono re-iniettare in questo concetto elementi della stessa ideologia patriarcale e, in particolare, la distinzione così nebulosa e così tipicamente ideologica tra «produzione» e «riproduzione». Il dibattito femminista nei paesi anglosassoni, come alcune ricerche sul lavoro domestico in Francia [4], si orienta sempre più verso questa direzione che noi, femministe radicali materialiste, consideriamo pericolosa. Tuttavia, e non è uno dei paradossi minori della storia delle idee femministe, e della storia delle idee tout court, è giocoforza constatare che tra coloro che pretendono di reinventare come una trovata meravigliosa ciò che di fatto ereditano dall’ideologia patriarcale, ci sono delle femministe radicali. E persino la teoria che negli Stati Uniti, come in Inghilterra, è considerata fondatrice del femminismo radicale, quella di Shulamith Firestone [5], è scandalosamente biologizzante, dal momento che fa dipendere l’oppressione delle donne dall’«handicap naturale» delle gravidanze.

Le femministe socialiste hanno combattuto a lungo questa teoria con buoni argomenti, ma per le ragioni sbagliate: denunciando il suo biologismo, rifiutano il primato che Firestone assegna alla lotta di sesso, ma per ribadire il principio altrettanto dubbio del primato della lotta di classe. Tuttavia, non essendo riuscite a spiegare totalmente l’oppressione delle donne con il capitalismo, adesso rinnegano questi argomenti. In effetti oggi le femministe socialiste parlano di «patriarcato», ma lo assimilano a un nuovo concetto, quello di «sistema di riproduzione». Non si sa a che cosa si riferisca questo termine, se non che da una parte è legato alle funzioni fisiche dei sessi nella procreazione, e dall’altra parte esplicitamente opposto al concetto di «sistema di produzione». Così facendo, esse rendono esplicito il biologismo implicito da cui le loro analisi sono sempre state infettate. In effetti, se prima di oggi si sono preoccupate soltanto dell’oppressione «capitalista» delle donne, è precisamente perché pensavano che soltanto quella sia sociale, tutto il resto essendo, per implicazione, naturale. Inoltre, identificando un «sistema di riproduzione» quando, nel loro pensiero, il sistema di produzione resta il motore della storia, le femministe socialiste non fanno altro che rinnovare, con altre parole, la dottrina secondo la quale la lotta delle donne è secondaria in rapporto alla lotta anticapitalista. Più curiosamente, è in sostanza la stessa analisi che propongono alcune femministe radicali, come le inglesi Revolutionary Feminists, ma per arrivare a conclusioni politiche del tutto opposte. Della divisione produzione/riproduzione, infatti, le Revolutionary Feminists adottano soltanto l’irriducibilità di un sistema all’altro e dunque la priorità, per le donne, della lotta antipatriarcale. Bisogna pure riconoscere che non esiste un adeguamento perfetto fra le analisi e le strategie politiche che dovrebbero «derivarne». Di modo che il biologismo che noi, femministe radicali, vediamo come una linea di divisione essenziale nell’analisi, non lo è dal punto di vista delle strategie: su questo piano, non è il punto di vista sulla biologia che divide le femministe radicali, per le quali il nemico è il patriarcato, dalle femministe socialiste, per le quali il nemico è il capitale. Tuttavia sarebbe opportuno esaminare se il biologismo delle une e delle altre ha esattamente lo stesso contenuto. Resta il fatto che le femministe radicali devono convivere con questo paradosso: la strada verso conclusioni politiche affini, se non del tutto simili, lungi dall’essere la stessa per tutte, può imboccare vie divergenti e addirittura opposte. Il che pone il problema di osservare più da vicino il rapporto tra analisi teorica e strategia politica.

Quanto a noi, femministe radicali che rivendicano un’impostazione materialista, siamo arrivate alla conclusione provvisoria, dopo anni di riflessione, che per comprendere il patriarcato occorre rimettere in questione l’ideologia patriarcale in modo radicale: rigettarne tutti i presupposti, inclusi quelli che non sembrano tali ma si presentano come categorie fornite direttamente dal reale, per esempio le categorie di «donne» e «uomini». Per ricapitolare in maniera molto schematica il nostro lavoro, noi pensiamo che il genere — le rispettive posizioni sociali delle donne e degli uomini — non sia costruito sulla categoria (apparentemente) naturale del sesso, ma che, al contrario, il sesso sia diventato un fatto pertinente, e quindi una categoria della percezione, a partire dalla creazione della categoria di genere, cioè dalla divisione dell’umanità in due gruppi antagonistici uno dei quali opprime l’altro, gli uomini e le donne.

Per la maggior parte delle persone, incluse alcune femministe, il sesso anatomico (e le sue implicazioni fisiche) crea o almeno permette il genere — la divisione tecnica del lavoro — che, a propria volta, crea o almeno permette il dominio di un gruppo sull’altro. Noi pensiamo al contrario che sia l’oppressione a creare il genere, che la gerarchia della divisione del lavoro sia anteriore, da un punto di vista logico, alla divisione tecnica del lavoro e la crei: crei i ruoli sessuali, quello che viene chiamato il genere; e che il genere, a propria volta, crei il sesso anatomico nel senso che questa divisione gerarchica dell’umanità in due trasforma in distinzione pertinente per la pratica sociale una differenza anatomica in se stessa priva di implicazioni sociali; che la pratica sociale, e questa soltanto, trasformi in categoria di pensiero un fatto fisico in se stesso privo di senso, come tutti i tratti fisici.

Questa evidentemente è un’ipotesi e ci vorranno anni prima di poterla dimostrare, dato che urta contro ciò che oggi ci sembra un’evidenza inaggirabile: che le differenti funzioni ricoperte dalle femmine e dai maschi nella procreazione non possono non avere un’importanza intrinseca per tutta la società, indipendentemente da ciò che essa costruisce su questa differenza. Mostrare che il processo in realtà è inverso, che questa differenza — ovvero il significato che le viene attribuito — è il risultato finale della pratica sociale e non la sua base, è una sfida, e tuttavia è la nostra scommessa.

Questa impostazione per noi è la conseguenza logica della visione di partenza comune all’insieme del movimento femminista, cioè l’interpretazione del dominio maschile come un fenomeno politico. Questo punto di partenza ci ha portate a mettere l’accento sul rapporto che costituisce donne e uomini in due gruppi non solo differenti, ma soprattutto e in primo luogo gerarchizzati, cioè ad adottare una problematica di classe. All’interno di questa problematica non è il contenuto di ciascun ruolo a essere essenziale, ma il rapporto fra i ruoli, fra i due gruppi. Ora, questo rapporto è caratterizzato dalla gerarchia ed è questa quindi a spiegare il contenuto di ciascun ruolo, e non l’inverso. All’interno di questa problematica pertanto, come si vede, il concetto chiave è quello di oppressione, che è o dovrebbe essere il concetto chiave di ogni problematica di classe. Ciò ha delle conseguenze non solo per il contenuto dell’analisi della situazione delle oppresse e per le strategie destinate a mettere fine a questa situazione, ma anche per il modo di pensare l’oppressione: per il ruolo della teoria stessa, e delle teoriche, nella lotta.

Ecco perché altrettanto importante del fatto di discutere di patriarcato è il fatto di discuterne qui, all’università. Non è un caso se non ho mai parlato né della mia specializzazione professionale, né dell’università, a proposito di patriarcato. È che l’università non ha giocato alcun ruolo nella creazione di questo concetto, o di altri concetti politici, così come non ha giocato alcun ruolo nella comparsa di un movimento sociale, il femminismo, che ha elaborato le analisi e i concetti di cui parliamo. Tuttavia ne gioca uno, in tutta evidenza, ospitando questo dibattito, e quale? Una delle tante cose che distingueva le femministe in origine, dieci anni fa, dall’estrema sinistra che resta il suo nemico e il suo interlocutore privilegiato, è il rapporto tra soggetto e oggetto del discorso e della pratica «rivoluzionaria». I gruppi di estrema sinistra lottano per la liberazione e l’arrivo al potere di un proletariato di cui non fanno parte, per persone che non sono loro. Le contraddizioni che scaturiscono da questa situazione sono, a priori, estranee alle femministe: noi non lottiamo per altri, ma per noi; noi, non altri, siamo le vittime dell’oppressione che denunciamo e combattiamo. E quando noi parliamo, non è a nome, né al posto di altri, ma a nostro nome e al nostro posto. L’identità della vittima e della combattente, del soggetto e dell’oggetto della lotta, ci conferisce una legittimità rivoluzionaria che fa crudelmente difetto ai piccolo-borghesi che costituiscono l’estrema sinistra. Che le donne, a partire dal momento in cui lottano per se stesse, abbiano immediatamente questa legittimità, sembra un’evidenza. Ma è un’evidenza o un’apparenza o, più esattamente, si tratta di una realtà immediata o di una semplice potenzialità? Le donne, noi, al pari di tutti gli oppressi, provano ripugnanza a sentirsi donne perché provano ripugnanza, al pari di tutti gli esseri umani, a sentirsi oppresse. Questo è uno dei grandi ostacoli al coinvolgimento delle donne nella lotta femminista: perché lottare significa riconoscere di essere oppressa, e riconoscere di essere oppressa è doloroso.

Per molte donne l’unica attenuazione possibile dell’oppressione che subiscono, poiché nella realtà non possono sfuggirvi, consiste in una denegazione immaginaria di questa oppressione, che sfocia in un diniego della pertinenza per sé della lotta femminista. Ma esiste anche un’altra forma di denegazione: è quella che consiste nel dire o nel significare, con le parole o con le azioni, che le donne sono oppresse, certo, ma solo le altre o soprattutto le altre. Penso alla pratica osservata per tanto tempo da tutta una parte delle femministe socialiste francesi: la lotta femminista consisteva per queste donne nel battersi precisamente ed esclusivamente contro lo sfruttamento delle operaie, che loro non erano. Questo evidentemente corrispondeva, a un primo livello, alle consegne della loro organizzazione mista, e rifletteva l’operaismo che imperversava in questo tipo di gruppi di estrema sinistra. Ma credo che queste consegne incontrassero un desiderio in queste donne: quello di non essere messe di fronte al fatto che anche loro erano donne e, paradossalmente, il fatto di fare quello che loro chiamavano un «lavoro sulle donne» le distanziava radicalmente da questa coscienza femminista invece di agevolarla. D’altronde la pratica della «presa di coscienza», elemento fondamentale del neo-femminismo, veniva condannata, all’interno di questi gruppi, come «piccolo-borghese» ed esplicitamente proibita. Penso anche a quelle accademiche jugoslave che, convocando un convegno nel 1978 sulla condizione delle donne, parlavano in continuazione di «loro». Dire «loro», quando diventa impossibile tacere del tutto, è l’ultima difesa di fronte alle temibili prospettive aperte dal «noi». Questi due esempi evocano momenti dell’evoluzione di queste donne, che hanno superato o supereranno. Ma non esiste la possibilità di un regresso, soprattutto se ci si colloca questa volta a livello collettivo? Un movimento avanza sempre?

Il femminismo è entrato all’università, negli Stati Uniti più che in Europa, in Inghilterra più che nell’Europa del sud, in Spagna più che in Francia. Che gli studi femministi o Women’s Studies siano una buona cosa, nessuno lo nega. Questo dipende anche dal modo in cui vengono condotti, più precisamente dal rapporto che intrattengono con il movimento politico che li suscita e li alimenta. Lo sviluppo dei Women’s Studies negli Stati Uniti è un argomento talmente vasto che non rientra nei miei propositi, né nelle mie competenze parlarne qui, se non per segnalare che alcuni aspetti di questo sviluppo preoccupano, pare a giusto titolo, più di una femminista americana. In effetti il problema che si pone, stante il fatto che l’università non è un luogo neutro e che la rivoluzione per quanto ne so non è ancora stata fatta, è questo (che per altro non riguarda solo l’università e le femministe, ma gli intellettuali in generale e anche le lotte politiche in generale): che ruolo devono avere, nella lotta, le femministe che sono intellettuali, o le intellettuali che sono anche femministe? In realtà ci sono diversi ordini di problemi. Comincerò dal più evidente, quello che si pone per tutti i rivoluzionari e per l’insieme della classe intellettuale (intendo classe, qui, in un senso poco rigoroso, questo per prevenire le critiche). Alcune pensano che, essendo donne, noi siamo soltanto donne, e dunque assolte dalla nostra qualità di vittime dai nostri privilegi. Ma noi femministe materialiste, che affermiamo l’esistenza di diversi — almeno due — sistemi di classe, e dunque la possibilità che un individuo abbia più appartenenze di classe, che oltretutto possono essere contraddittorie; noi che pensiamo che gli operai non siano, in quanto vittime del capitalismo, perciò stesso assolti dal peccato di essere beneficiari del patriarcato, noi rifiutiamo questa via di uscita, troppo facile per essere onesta. In che modo quelle fra di noi che hanno un legame istituzionale alla classe intellettuale possono fare in modo che l’università serva al femminismo e non il femminismo all’università? Questa seconda ipotesi sembra del tutto improbabile a prima vista. Tuttavia, non lo è. Prenderò come esempio il ruolo giocato dai marxisti nell’università francese e nella classe intellettuale francese in generale. Se negli Stati Uniti gli intellettuali marxisti si contano sulle dita di una mano e corrono dei rischi, non è questo il caso in Francia. Il marxismo è largamente accettato nell’università francese. Non dubito un istante della buona fede e della buona volontà dei nostri pensatori marxisti. Si votano sinceramente alla rivoluzione e operano per essa nelle loro discipline.

Ma qual è il risultato dei loro sforzi e dei loro studi? La rivoluzione progredisce maggiormente in Francia che negli Stati Uniti o in Spagna, dove il marxismo fino a poco tempo fa odorava di zolfo e non era compatibile con una carriera universitaria? Le analisi della nostra intellettualità marxista sono straordinariamente rivoluzionarie. L’unico problema è che sono scritte in un linguaggio che può essere compreso da una proporzione ridicolmente piccola della popolazione. Certamente essi denunciano i postulati reazionari e l’ideologia capitalistica ovunque le vedano; ma preferiscono snidarla anzitutto in altri lavori scientifici, anziché nella produzione ideologica destinata al grande pubblico. Dopodiché le loro denunce sono estremamente convincenti… quando si riesce a comprenderle. E, in generale, solo i loro colleghi sono in grado di comprenderle. Di qui il paradosso per cui vengono compresi e apprezzati da coloro che considerano avversari politici, cioè i loro colleghi reazionari, mentre coloro che pretendono di difendere nel migliore dei casi li ignorano, nel peggiore li vedono come dei mistificatori, dunque dei nemici. Indipendentemente dalle loro intenzioni, qual è il risultato del loro lavoro? Nella misura in cui si rivolge agli intellettuali di destra ed esclude i non-intellettuali di sinistra, questo lavoro rafforza oggettivamente la coesione della classe intellettuale nel suo insieme, di tutte le posizioni politiche, di fronte agli strati non-intellettuali della popolazione. E questo non è dovuto unicamente alla contraddizione a cui le donne sfuggono: al fatto di non appartenere, in realtà, alla classe che difendono.  

Molti intellettuali credono che sia l’analisi marxista a fondare la realtà dell’oppressione dei proletari, credenza assurda sia dal punto di vista logico che storico. Qui non posso descrivere in lungo e in largo in che modo Marx, in realtà, abbia preso le mosse dalla constatazione preliminare dell’oppressione dei lavoratori, non potendo fare altrimenti; in che modo, lungi dal tentare di dimostrarne l’esistenza, la certezza di tale esistenza sia stata per lui un dato di base; in che modo, senza questo a priori, non avrebbe avuto alcuna ragione, né soggettiva, né oggettiva, per provare a distruggere i meccanismi che la provocano; in che modo, in breve, non si possa studiare qualcosa che non esiste. Questa perversione della teoria della rivoluzione, della concezione dell’origine della rivolta e della coscienza di classe operata dall’ortodossia marxista incombe anche sul femminismo. Può assumere altre forme, ma non immaginiamo di essere, per magia o grazie alle nostre ovaie, preservate da questo pericolo, in ogni caso non fintanto che saremo delle intellettuali. In effetti, la pretesa di possedere tutti i fili, inclusa l’origine dei movimenti sociali, fa parte degli interessi oggettivi della classe intellettuale, di cui facciamo parte anche noi, della logica della sua conservazione in quanto classe, il che spiega per quale motivo questa classe riconduca tutto, compresa la rivolta, a quella che è la sua riserva privata: l’analisi.

Ora, non dobbiamo ingannarci: l’analisi ha dei limiti. Ci può illuminare sulle modalità e sulle ragioni dell’oppressione; ma non può pretendere di fondare la rivolta, che nasce dalla coscienza dell’oppressione, più di quanto possa istituire la realtà dell’oppressione, dato che l’analisi stessa può procedere soltanto a partire dal momento in cui questa realtà è istituita: altrimenti resta priva di oggetto. L’oppressione è al tempo stesso una realtà e un’interpretazione della realtà: una percezione della realtà come intollerabile, vale a dire, appunto, opprimente. Questa percezione della realtà come opprimente non può fondarsi sulla «pura ragione», basandosi su un’analisi che in principio la ignorerebbe per poi «scoprirla». Al contrario, le diverse analisi della società, della realtà, procedono a partire da percezioni preesistenti di ciò che è tollerabile e ciò che non lo è, di ciò che è giusto e ciò che ingiusto. Non esiste una scienza che possa dirci che siamo oppressi: l’oppressione, in quando coscienza oggettivata, perché condivisa, di essere trattate ingiustamente non ha una base scientifica, non più di quanta ne abbiano i concetti di giustizia e di equità. È qualcosa che non dobbiamo mai dimenticare: non solo le nostre analisi non possono sostituirsi alla rivolta, ma dobbiamo tenere presente che, al contrario, queste analisi a propria volta procedono dalla rivolta e non possono procedere altrimenti. Se ammettiamo che tutte le pratiche intellettuali siano radicate in una posizione (cosciente o meno) di classe, ne consegue che nessuna analisi è dotata di valore propriamente scientifico, che non esiste una scienza con la “S” maiuscola: questo per me è il corollario inevitabile di una posizione materialista conseguente. Un’analisi ha valore soltanto per una posizione di classe, nella misura in cui è utile (questo d’altra parte fa sì che le analisi reazionarie non siano «false»). Se non esiste una scienza con la “S” maiuscola, allora non esiste nemmeno neutralità. Questo significa che quando un’analisi non è più al servizio di una determinata posizione di classe non diventa perciò stesso neutra, ancora meno «oggettiva». Diserta la prima posizione ma, non potendo situarsi al di fuori della classe, si mette al servizio di un’altra posizione di classe. Tutto questo ha, per il nostro lavoro, numerose implicazioni che sono lontana dall’aver soppesato nella loro interezza e di cui, al momento attuale, non ho altro che alcune intuizioni.

Una di queste intuizioni è il ruolo primordiale che deve avere la collera, la nostra collera, nel nostro lavoro, nella nostra maniera di trattare un problema che non è esclusivamente femminista: quello dei rapporti fra la nostra appartenenza alla classe intellettuale e la nostra utilità rivoluzionaria. Questo problema è già affrontato da altri: si tratta di una contraddizione talmente dolorosa, per coloro che hanno avvertito nella maniera più acuta, al tempo stesso, la funzione oggettivamente ancillare al potere della classe intellettuale e la necessità della rivoluzione, da indurre qualcuno come Sartre ad augurarsi di «distruggersi come intellettuale». Pur incarnando l’integrità morale e politica, questa posizione non risolve tuttavia il problema dell’esistenza di questa classe e del suo ruolo. Questo ruolo lo viviamo tutti i giorni: l’università produce una conoscenza al contempo necessaria alla rivoluzione e rifiutata ai suoi protagonisti. L’università può produrre conoscenze soltanto in una forma che le rende inaccessibili alle masse e, al contempo, alienanti per loro. La produzione di una conoscenza spesso utile è, nelle condizioni attuali, inseparabile dalla produzione simultanea di un discorso scientifico che si definisce soltanto per opposizione rispetto al linguaggio «volgare»: quello dei dominati. Di modo che ogni progresso della conoscenza consolida — apparentemente in maniera inesorabile — l’esclusione delle masse, la loro separazione sempre più radicale dagli strumenti intellettuali: dai mezzi per pensare la propria oppressione. Questo problema si pone anche per noi: concretamente, quale uso faremo degli strumenti e delle conoscenze che l’università ci ha dato? In quale misura il nostro femminismo sovvertirà l’università? In quale misura verrà invece recuperato dall’università, per i suoi fini?

Per esempio, quando critichiamo il sessismo dei lavori dei nostri colleghi maschi, è evidente che lo facciamo nella convinzione che questo serva alla lotta femminista. Ma come faremo, come facciamo a creare le condizioni affinché queste critiche siano utilizzabili da tutte le femministe (il che suppone prima di tutto che vengano comprese)? Ora, a seconda del linguaggio che utilizziamo, queste critiche potranno essere comprese dalle femministe — e disprezzate dai nostri colleghi intellettuali — oppure potranno essere comprese da quegli stessi colleghi che, agli occhi della comunità scientifica, avremo in questo modo convinto di sessismo, ma con i quali avremo, al contempo, stabilito una complicità molto più fondamentale, una complicità fondata sull’esclusione di tutte le non-intellettuali, gruppo in cui si trova anche la maggioranza delle femministe. Non ho una risposta già pronta a una domanda come questa, un rimedio miracoloso a un problema che nessuno finora è riuscito a risolvere. Ho soltanto coscienza di alcuni pericoli precisi. Così, se la critica del sessismo delle discipline scientifiche è importante, lo è soltanto nella misura in cui i discorsi di queste discipline costituiscono la versione dotta dell’ideologia patriarcale volgare. È questa che ci importa, è lì che le nostre critiche devono colpire. Quello che ci deve interessare non sono gli argomenti dei nostri colleghi maschi presi di per se stessi, ma il fatto che forniscano una cauzione «scientifica» all’ideologia dominante. È perché la mistificazione della scienza raddoppia la mistificazione dell’ideologia che questi discorsi eruditi devono essere analizzati. Ma la linea è sottile: se le altre donne non comprendono le nostre critiche, se non possono utilizzarle, se tutto questo non costituisce alcun apporto per loro, allora ci saremo di fatto rivolte ai nostri colleghi maschi, avremo riaffermato la nostra solidarietà con l’istituzione mistificante oltre a essere state inutili alla lotta femminista: avremo quindi tradito due volte la classe delle donne.

Usare l’università per la lotta femminista comporta necessariamente denunciare l’università. Denunciare la doppia mistificazione del discorso scientifico: la prima consiste nel fatto che esso non fa altro che parafrasare, raddoppiare l’ideologia dominante; la seconda consiste nel fatto che le conferisce la legittimità del mito della Scienza, Pura, Neutra, Universale. Il semplice ingresso delle femministe, o di preoccupazioni femministe, all’università non è garanzia del fatto le risorse dell’università saranno raccolte da noi, cioè utilizzate contro il ruolo della classe intellettuale e per la rivoluzione. Quando una questione femminista, per esempio quella del lavoro domestico, diventa un argomento accademico; quando viene trattata come tale, cioè come emanante dalla Conoscenza Pura — un mito patriarcale e borghese —, allora il femminismo viene, deliberatamente o meno, tradito. L’unica ragione valida per studiare il lavoro domestico, dato che siamo nella posizione privilegiata di poterlo studiare, è che milioni di donne, ogni giorno e ogni minuto, soffrono nella loro carne il fatto di essere «nient’altro che massaie». Farne un problema accademico equivale a negare — peggio: a insultare — questa sofferenza: significa schierarsi con la classe intellettuale contro le oppresse, contro le massaie, significa reificarle una seconda volta. L’unica maniera per non provocare questo rovesciamento involontario delle alleanze è tenere sempre a mente questa sofferenza e sapere che è l’unica ragione valida per studiare il lavoro domestico. Analogamente, l’unico valore di un’analisi consiste nel contributo che essa può apportare ai mezzi per mettere fine a questa situazione. E l’unico modo per non dimenticare la sofferenza delle altre è cominciare riconoscendo la propria.

Questo non è facile, e non va da sé. L’accesso delle questioni femministe al rango di questioni accademiche appare spesso come un progresso per la stessa lotta femminista, non solo perché l’università in questo modo conferisce loro un brevetto di «serietà», ma anche perché il contesto accademico assicura, o meglio esige, un approccio spassionato ai problemi; e in cambio di questa spassionatezza sembra garantirci un approccio più rigoroso perché più sereno. Questa è una trappola del diavolo, cioè dell’ideologia dominante che ha creato il mito della scienza. Ma se soccombiamo così facilmente è perché questa spassionatezza ci coinvolge anche più direttamente, affettivamente. Prima ancora di cercarvi gli interessi della scienza, troviamo in essa una protezione contro la nostra collera. In effetti non è facile, contrariamente a quanto si crede, essere e soprattutto restare in collera. Si tratta di uno stato doloroso: perché restare in collera significa tenere sempre a mente la causa di questa collera, significa ricordare continuamente quello che vogliamo, che dobbiamo dimenticare almeno qualche volta per riuscire a sopravvivere, e cioè che siamo, anche noi, umiliate e offese. Ma per noi intellettuali dimenticarlo, fosse anche solo per un istante, equivale ad abbandonare il filo che ci lega alla nostra classe di donne, il parapetto che ci impedisce di scivolare dal lato dell’istituzione, dal lato dei nostri oppressori. Abbiamo la tendenza a considerare la collera come un momento superabile, oltre che come un sentimento sgradevole: come qualcosa di temporaneo, che a un certo momento smette di essere utile e diventa persino ingombrante, che dobbiamo deporre prima di varcare le porte dell’università per potere lavorare in pace. Ora, la nostra unica arma contro il tradimento potenziale inscritto nel nostro status di intellettuali è proprio la nostra collera. Perché l’unica garanzia che non saremo, in quanto intellettuali, traditrici della nostra classe è la coscienza di essere, a nostra volta, delle donne, di essere le stesse di cui analizziamo l’oppressione. E l’unica base di questa rivolta è la nostra collera.  

NOTE

(*) C. Delphy, Le patriarcat, le féminisme et leurs intellectuelles, «Nouvelles Questions féministes», 2, ottobre 1981, ora in Ead., L’Ennemi principal 2. Penser le genre, Syllepse, Paris 2001, pp. 223-242.

[1] L. Bland, C. Brundson., D. Hobson, J. Whinship, Women “inside and outside” the relations of production, in Women Studies Group (ed.), Women Take Issue: Aspects of women’s subordination, Hutchinson, London 1978, pp. 35-78.

[2] J. Mitchell, Psicoanalisi e femminismo (1974), Einaudi, Torino 1976.

[3] R. McDonough, G. Harrison, Patriarchy and the Relations of Production, Feminism and Materialism, Routledge and Kegan Paul, London 1978; V. Beechey, On Patriarchy, «Feminist Review», 3, 1979, pp. 66-82. 

[4] F. Bourgeois et al., Travail domestique et famille du capitalisme, «Critique de l’économie politique», 3, 1978, pp. 3-23.

[5] S. Firestone, La dialettica dei sessi (1970), Guaraldi, Firenze 1971.

Il mito dell’orgasmo vaginale

di Anne Koedt, 1970

✽✽✽

Il mito dell’orgasmo vaginale, uno dei primi testi del femminismo radicale statunitense (pubblicato in forma breve nel 1968, per esteso nel 1970), portò con sé una novità dirompente: per la prima volta il piacere sessuale delle donne viene trattato come argomento politico e analizzato nel contesto dei rapporti di potere della società patriarcale. Alla fine degli anni ’60 le femministe si trovano di fronte due modelli di eterosessualità femminile, quello freudiano tradizionale della donna passiva e quello della donna “liberata” della controcultura. Contestano entrambi i modelli come pilastri del patriarcato, eleggendo la clitoride e il suo piacere a simbolo dell’autodeterminazione delle donne.

Se la retorica maschile della cosiddetta “liberazione sessuale” era già stata smascherata dall’umorismo al vetriolo di Valerie Solanas, nel suo pamphlet Anne Koedt si occupa di sfatare il mito dell’orgasmo vaginale: quel discorso fraudolento degli “esperti” che ha causato accuse infondate di “frigidità”, enormi problemi psicologici alle donne e il ricorso diffuso alla dissimulazione. Un discorso patriarcale che conferisce importanza alla vagina come simbolo della femminilità “normale”, affermando l’essenziale dipendenza delle donne dagli uomini e dal pene per il proprio appagamento sessuale ed emotivo. L’autrice sposta invece l’attenzione sulla clitoride, sottraendola alla patologizzazione freudiana con il ricorso alle più recenti ricerche della sessuologia. Nasce così la nuova visione femminista della clitoride come luogo potenziale di una sessualità femminile autonoma, non definita dall’uomo. Come Koedt accenna alla fine del saggio, la sessualità clitoridea non solo destabilizza la gerarchia eterosessuale ma mette in questione la stessa “istituzione dell’eterosessualità”. Centralità della clitoride, potenziale superfluità del maschio, sessualità femminile autodeterminata che si pone al di là delle categorie di etero- e omosessualità: una visione talmente radicale che in seguito alla pubblicazione del testo l’autrice ricevette una gran quantità di lettere d’odio e una minaccia di morte.

Se in questo testo alcuni aspetti dell’analisi sono datati, perché restano dentro i limiti di una spiegazione tutta psicologica del dominio maschile e dei rapporti sociali patriarcali, questo saggio, divenuto un classico del femminismo, rappresenta tuttavia un prezioso documento storico del pensiero femminista: testimonia il tentativo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 (in Italia si pensi a La donna clitoridea e la donna vaginale di Lonzi) di politicizzare la conoscenza del proprio corpo e immaginare un nuovo tipo di sessualità femminile. La clitoride in quegli anni diventa un simbolo che serve ad affermare l’autonomia sessuale delle donne e a demolire il mito della complementarietà naturale dei sessi.

Grazie alla pratica politica della traduzione femminista, in particolare a Serena Luce Castaldi, The Myth of the Vaginal Orgasm arrivò in Italia nel 1972, incluso nella raccolta Donne è bello a cura del gruppo milanese L’Anabasi. Manastabal propone qui una nuova traduzione aggiornata e integrale, basata sul testo pubblicato in Notes of the Second Year: Women’s Liberation. Major Writings of the Radical Feminists, a cura di Shulamith Firestone e Anne Koedt, New York, 1970.

Dalla copertina del libro Radical Feminism, a cura di Anne Koedt, Ellen Levine, Anita Rapone, New York, 1973

✽✽✽

Ogni qualvolta si discute di orgasmo femminile e frigidità, si fa una falsa distinzione tra l’orgasmo vaginale e quello clitorideo. La frigidità è stata generalmente definita dagli uomini come l’incapacità delle donne di avere orgasmi vaginali. In realtà, la vagina non è una zona particolarmente sensibile e non ha una struttura adatta a raggiungere l’orgasmo. È la clitoride a essere il centro della sensibilità sessuale e l’equivalente femminile del pene.

Credo che questo spieghi moltissime cose: prima di tutto il fatto che il cosiddetto tasso di frigidità tra le donne sia incredibilmente alto. Piuttosto che ricondurre la frigidità femminile a false premesse sull’anatomia femminile, i nostri “esperti” hanno stabilito che la frigidità è un problema psicologico delle donne. Le donne che lamentano tale frigidità sono state indirizzate a psichiatri che potessero scoprire quale fosse il loro “problema”, di solito diagnosticato come incapacità di adattarsi al proprio ruolo di donne.

I dati di fatto dell’anatomia e della risposta sessuale femminile ci raccontano tutta un’altra storia. Sebbene vi siano molte zone di eccitazione sessuale, vi è solo una zona per il raggiungimento del climax: questa zona è la clitoride. Tutti gli orgasmi sono estensioni di sensazioni da quest’area. Proprio perché la clitoride non viene sufficientemente stimolata nelle posizioni sessuali convenzionali, ecco che restiamo “frigide”.

Oltre alla stimolazione fisica, che è la causa comune di orgasmo nella maggior parte delle persone, vi è anche una stimolazione attraverso processi principalmente mentali. Alcune donne, ad esempio, possono raggiungere l’orgasmo attraverso fantasie sessuali o attraverso feticismi. In ogni caso, mentre lo stimolo può essere psicologico, l’orgasmo si manifesta fisicamente. La causa può essere psicologica, ma l’effetto è comunque fisico e l’orgasmo ha luogo, necessariamente, nell’organo sessuale preposto al climax sessuale, la clitoride.

L’esperienza dell’orgasmo, inoltre, può assumere diversi gradi di intensità: alcuni più localizzati, altri più diffusi e sensibili. Ma sono tutti orgasmi clitoridei.

Tutto questo pone alcune questioni interessanti sul sesso convenzionale e sul ruolo che in esso svolgiamo. Gli uomini raggiungono l’orgasmo essenzialmente per sfregamento con la vagina e non con la zona clitoridea, che è esterna e non adatta per l’uomo a produrre frizione come la penetrazione vaginale. Le donne, quindi, sono state definite sessualmente in base a ciò che procura piacere agli uomini. La nostra biologia non è stata propriamente analizzata. Invece, siamo state nutrite con il mito della donna “liberata” e del suo orgasmo vaginale – un orgasmo che di fatto non esiste.

Quello che dobbiamo fare è ridefinire la nostra sessualità. Dobbiamo liberarci dai “normali” concetti del sesso e creare nuove linee generali che prendano in considerazione un godimento sessuale reciproco. Sebbene l’idea del godimento reciproco sia ampiamente applaudita nei manuali sul matrimonio, non la si porta alla sua logica conclusione. Dobbiamo iniziare a esigere che, se certe posizioni sessuali definite “standard” non portano reciprocamente all’orgasmo, allora non possano più essere definite “standard”. Bisogna usare o elaborare nuove tecniche che portino a un cambiamento di questo particolare aspetto del nostro attuale sfruttamento sessuale.

Notes from the Second Year, 1970 (Rubenstein Library, Duke University)

Freud, un padre dell’orgasmo vaginale

Freud sosteneva che l’orgasmo clitorideo fosse adolescenziale e che, con la pubertà, quando le donne iniziano ad avere rapporti con gli uomini, esse dovrebbero trasferire il centro dell’orgasmo nella vagina. Si presupponeva che la vagina fosse in grado di produrre un orgasmo analogo, ma più “maturo” rispetto alla clitoride. Si è lavorato molto per sviluppare questa teoria, ma poco si è fatto per mettere in questione i suoi assunti di base. Per comprendere appieno questa incredibile invenzione, si dovrebbe forse ricordare, per prima cosa, l’atteggiamento generale di Freud verso le donne. Mary Ellman, in Thinking about women, lo ha così riassunto:

Tutto, nell’atteggiamento paternalistico e preoccupato di Freud verso le donne, viene ricondotto alla loro mancanza del pene, ma è solo nel suo saggio Psicologia della donna che Freud rende esplicito il suo disprezzo per le donne, altrove implicito nella sua opera. Egli, quindi, prescrive per le donne l’abbandono della vita intellettuale, che interferirebbe con la loro funzione sessuale. Quando è un uomo a essere psicoanalizzato, l’analista si prefigge il compito di sviluppare le capacità del paziente; ma se si tratta di donne, il lavoro dell’analista consiste nel riportarle entro i limiti alla loro sessualità. Come scrive Mr. Rieff, per Freud «l’analisi non può incoraggiare nelle donne l’investimento di nuove energie per ottenere successo e raggiungere obiettivi, ma soltanto insegnare loro la lezione di una razionale rassegnazione».

Furono le sue opinioni sulle donne, che egli considerava secondarie e inferiori rispetto agli uomini, a formare la base per le teorie di Freud sulla sessualità femminile.

Dopo aver dettato legge sulla natura della nostra sessualità, Freud, guarda caso, scoprì un tremendo problema di frigidità nelle donne. La cura che prescriveva per una donna frigida era quella psichiatrica. Per lui, infatti, la donna soffriva dell’incapacità di adeguarsi mentalmente al suo ruolo “naturale” di donna. Frank S. Caprio, un seguace contemporaneo di tali idee, afferma:

Ogni volta che una donna è incapace di raggiungere l’orgasmo tramite il coito, malgrado il marito sia un partner adeguato, e preferisce la stimolazione clitoridea a qualsiasi altra forma di attività sessuale, essa può essere considerata sofferente di frigidità, e bisognosa di assistenza psichiatrica (The Sexually Adequate Female, p. 64).

La spiegazione fornita è che le donne erano invidiose degli uomini: «rinuncia della femminilità». Quindi il fenomeno veniva diagnosticato come un attacco agli uomini.

È importante sottolineare che Freud non ha basato la sua teoria sullo studio dell’anatomia femminile, ma piuttosto sulle sue personali convinzioni sulla donna come un’appendice, inferiore all’uomo, e sul suo conseguente ruolo sociale e psicologico. Nei loro tentativi di affrontare il problema della frigidità di massa delle donne, i freudiani hanno dovuto fare complicati salti mortali nei loro ragionamenti. Marie Bonaparte, in Female Sexuality, arriva a consigliare la chirurgia per riportare le donne sulla giusta strada. Avendo scoperto una strana correlazione tra la donna non frigida e la posizione della clitoride vicino alla vagina, scrive:

Mi è venuto in mente, allora, che, qualora in alcune donne questa distanza fosse eccessiva e la fissazione sulla clitoride fosse ostinata, una riconciliazione clitorideo- vaginale si potrebbe effettuare con mezzi chirurgici, in modo da portare beneficio alla normale funzione erotica. Il professor Halban di Vienna, biologo e chirurgo, si è interessato al problema e ha individuato una semplice tecnica operatoria, in cui il legamento sospensorio della clitoride viene reciso e la clitoride collegata alle strutture sottostanti, fissandola così in una posizione più bassa, con un’eventuale riduzione delle piccole labbra (p. 148).

Ma il danno più grave non ha riguardato l’ambito chirurgico, in cui i freudiani si sono dati da fare nel tentativo assurdo di cambiare l’anatomia femminile per adeguarla ai loro presupposti di base. Il danno peggiore è stato causato alla salute mentale delle donne, sia che soffrissero silenziosamente per il loro senso di colpa, sia che corressero dagli psichiatri alla ricerca disperata di quella terribile repressione nascosta che impediva loro di realizzare il loro destino vaginale.

Mancanza di evidenza?

Inizialmente si potrebbe forse sostenere che queste sono aree sconosciute e poco esplorate, ma a un più attento esame, questo certamente non è vero oggi, e non lo era neanche in passato. Gli uomini, ad esempio, hanno sempre saputo che le donne soffrivano di frigidità durante il rapporto: il problema c’era. E c’è molta evidenza specifica: gli uomini sapevano che la clitoride era – ed è – l’organo essenziale per la masturbazione, sia nelle bambine che nelle donne adulte. Ovviamente le donne hanno chiarito dove pensavano che fosse localizzata la loro sessualità. È piuttosto sospetto, peraltro, che gli uomini sembrino consapevoli del potere della clitoride durante “i preliminari”, quando vogliono fare eccitare le donne e produrre la lubrificazione necessaria alla penetrazione. I preliminari sono un concetto creato per gli scopi degli uomini e che finisce per essere uno svantaggio per molte donne, visto che, appena la donna è eccitata, l’uomo cambia e si dedica alla stimolazione vaginale, lasciando la partner eccitata ma insoddisfatta.

Si è a conoscenza, inoltre, del fatto che generalmente le donne non hanno bisogno di anestesia interna durante operazioni chirurgiche vaginali, il che evidenzia che la vagina non è di fatto una zona molto sensibile. Oggi, con le ampliate conoscenze anatomiche, con gli studi di Kelly, Kinsey, e Masters e Johnson, per citarne solo alcuni, non c’è ignoranza in materia. Ci sono, tuttavia, ragioni sociali per cui queste conoscenze non vengono diffuse su larga scala: viviamo in una società maschile che non persegue alcun cambiamento nel ruolo delle donne.

La prima versione del testo pubblicata su Notes of the First Year, New York, 1968 (Rubenstein Library, Duke University)

Evidenze anatomiche

Invece di iniziare parlando di ciò che le donne dovrebbero sentire, sarebbe più logico partire dalle evidenze anatomiche che riguardano la clitoride e la vagina.

La clitoride è un piccolo equivalente del pene, tranne per il fatto che l’uretra non vi passa attraverso come avviene nell’uomo. La sua erezione è simile a quella maschile e la testa della clitoride ha lo stesso tipo di struttura e funzione della testa del pene.

C. Lombard Kelly, in Sexual Feeling in Married Men and Women, scrive:

La testa della clitoride è anch’essa composta da tessuto erettile e ha un epitelio, o superficie coprente, molto sensibile, fornito di speciali terminazioni nervose chiamate corpuscoli genitali. Essi sono particolarmente adatti alla stimolazione sensoriale che, con le adeguate condizioni mentali, sfocia nell’orgasmo sessuale. Nessun’altra parte dell’apparato sessuale femminile è dotato di questi corpuscoli (p. 35).

La clitoride non ha altra funzione che il piacere sessuale.

La vagina. Le sue funzioni sono collegate alla funzione riproduttiva. Principalmente 1) per le mestruazioni 2) per la ricezione del pene 3) per trattenere lo sperma 4) come passaggio per il parto. L’interno della vagina, che secondo i difensori dell’orgasmo vaginale, sarebbe il centro produttore dell’orgasmo:

Come quasi tutte le altre strutture interne del corpo, è assai poco dotato di organi di senso. Il rivestimento interno della vagina, di origine endodermica, la rende simile da questo punto di vista al retto e ad altre parti dell’apparato digerente (Kinsey, Sexual Behavior in the Human Female, p. 580).

Il grado di insensibilità all’interno della vagina è talmente elevato che «del campione di donne sottoposte a un nostro test ginecologico, meno del 14% hanno mostrato consapevolezza di essere state toccate» (Kinsey, p. 580). Anche l’importanza della vagina come semplice centro erotico (piuttosto che come centro dell’orgasmo) è risultata poco rilevante.

Altre aree – Le piccole labbra e il vestibolo della vagina. Queste due aree sensibili possono dar avvio a un orgasmo clitorideo. Poiché possono essere efficacemente stimolate durante un “normale” coito – sebbene ciò avvenga raramente – questo tipo di stimolo è stato erroneamente considerato un orgasmo vaginale. Tuttavia, è importante distinguere tra aree che possono stimolare la clitoride, incapaci di produrre autonomamente l’orgasmo, e la clitoride stessa:

Indipendentemente dal mezzo di eccitamento usato per portare l’individuo allo stato di climax sessuale, la sensazione è percepita dai corpuscoli genitali ed è localizzata dove questi si trovano: nella testa della clitoride o del pene (Kelly, p. 49).

L’orgasmo stimolato psicologicamente. Oltre ai già citati metodi diretti o indiretti per stimolare la clitoride, vi è un terzo modo per dare avvio a un orgasmo: attraverso la stimolazione mentale (corticale), quando l’immaginazione stimola il cervello, il quale a sua volta stimola i corpuscoli genitali a produrre un orgasmo.

Donne è bello, a cura del gruppo L’Anabasi, Milano, 1972

Donne che dicono di avere un orgasmo vaginale

Confusione. A causa della mancanza di conoscenza della propria anatomia, alcune donne accettano l’idea che un orgasmo percepito durante un rapporto “normale” abbia un’origine vaginale. Questa confusione è dovuta alla combinazione di due fattori. Il primo è l’incapacità di localizzare il centro dell’orgasmo, il secondo è il desiderio di adeguare la propria esperienza all’idea di normalità sessuale definita dal maschio. Dal momento che le donne sanno poco della propria anatomia, è facile confondersi.

Inganno. La maggior parte delle donne che fingono di avere un orgasmo vaginale lo fa, per dirla con Ti-Grace Atkinson, «per non essere scaricata». In un nuovo best-seller danese, I Accuse, Matte Ejlersen tratta specificatamente questo problema diffuso, che lei chiama «la commedia del sesso». Questa commedia ha molte cause. Prima di tutto, l’uomo esercita una forte pressione psicologica sulla donna, perché pensa che la posta in gioco sia la propria abilità come amante. Perciò, per non offendere l’ego di lui, la donna si adatterà al ruolo prescritto e vivrà un’estasi simulata. Tra le donne danesi citate, alcune che non avevano sperimentato il godimento avevano perso ogni interesse per il sesso e fingevano l’orgasmo vaginale per concludere velocemente l’atto sessuale. Altre hanno ammesso di aver simulato l’orgasmo vaginale per legare a sé un uomo. In un caso, una donna aveva simulato l’orgasmo vaginale affinché lui lasciasse la sua prima moglie, che ammetteva di essere vaginalmente frigida. Fu poi costretta a continuare la finzione, poiché, ovviamente, non poteva chiedere al partner di stimolarle la clitoride.

Molte altre donne avevano semplicemente paura di affermare il proprio diritto a un uguale godimento, poiché pensavano che l’atto sessuale fosse anzitutto a beneficio dell’uomo e che ogni piacere che la donna ottenesse fosse in sovrappiù.

Altre donne, con abbastanza amor proprio da respingere la convinzione dell’uomo che esse avessero bisogno di cure psichiatriche, si sono rifiutate di riconoscersi come frigide. Non hanno accettato il senso di colpa, ma non sapevano come risolvere il problema, non conoscendo i dati della propria fisiologia. Così sono rimaste in una sorta di limbo.

Uno dei risultati forse più esasperanti e dannosi di tutta questa farsa è che a donne che erano perfettamente sane sessualmente è stato insegnato a pensare di non esserlo. Quindi, oltre ad essere state private del godimento sessuale, queste donne sono state indotte a colpevolizzarsi, quando non avevano alcuna colpa. Cercare una soluzione a questo problema insolubile può portare una donna su una strada senza uscita di odio di sé e insicurezza. Infatti, le viene detto dal suo analista che anche in quell’unico ruolo che le viene assegnato dalla società maschile – il ruolo di donna – lei fallisce. Così è costretta a mettersi sulla difensiva poiché a partire da dati falsati, le viene chiesto di essere ancor più femminile, di pensare in modo femminile e rinnegare la sua invidia nei confronti degli uomini. Cioè, pedalare, carina!

Edizione della New England Free Press, Boston, 1970

Perché gli uomini tengono in vita il mito

1. Preferenza per la penetrazione vaginale. Lo stimolo migliore per il pene è la vagina, che fornisce la necessaria frizione e lubrificazione. Da un punto di vista strettamente tecnico, questa posizione offre le migliori condizioni fisiche, anche se l’uomo può provare altre posizioni per variare.

2. La donna invisibile. Uno degli elementi dello sciovinismo maschile è il rifiuto o l’incapacità di vedere le donne come esseri umani completi e autonomi. Piuttosto, gli uomini hanno scelto di definire le donne in base al vantaggio che apportano alla loro vita. Sessualmente, una donna non è vista come un soggetto a pari titolo dell’atto sessuale, non più di quanto non sia vista come una persona con desideri indipendenti quando faccia qualsiasi altra cosa nella società. Quindi è stato facile inventare ciò che era più conveniente riguardo alle donne, soprattutto visto che la società è stata pensata in funzione degli interessi maschili e le donne non si erano organizzate nemmeno per contrapporre una resistenza verbale agli “esperti”.

3. Il pene come epitome della mascolinità. Gli uomini definiscono la loro vita principalmente in termini di mascolinità. È una forma universale di autoesaltazione. Vale a dire, in ogni società, anche quando fosse omogenea (per esempio, priva di differenze di “razza”, etnia o di grosse differenze economiche) vi è sempre un gruppo sociale – le donne – da opprimere. L’essenza dello sciovinismo maschile consiste nella superiorità psicologica che gli uomini esercitano sulle donne. Questo tipo di definizione di sé basata sul concetto di superiorità/inferiorità, piuttosto che una definizione positiva basata sulla propria crescita e realizzazione, ha incatenato vittima e oppressore. Ma quella di gran lunga più brutalizzata è la vittima.

Un’analogia si può fare con il razzismo, in cui il razzista bianco compensa il proprio senso di inadeguatezza creando l’immagine dell’uomo nero (è una battaglia prima di tutto maschile) come biologicamente inferiore rispetto a sé. Grazie alla sua posizione avvantaggiata nella struttura di potere maschile e bianca, l’uomo bianco può imporre questa distinzione inventata. Nella misura in cui gli uomini tentano di razionalizzare e giustificare la superiorità maschile attraverso la differenziazione fisica, la mascolinità è simboleggiata dall’essere più muscoloso, più peloso, avere la voce più profonda e il pene più grande. Le donne, invece, ricevono approvazione (cioè, vengono definite “femminili”) se sono delicate, piccole, si depilano le gambe e hanno la voce acuta ma dolce.

Dato che la clitoride è molto simile al pene, in varie società, come è stato attestato, vi sono uomini che tentano di cancellarne l’esistenza per conferire grande importanza alla vagina (come ha fatto Freud), oppure, come avviene in alcune zone del Medioriente, ricorrono all’imposizione della clitoridectomia. Freud considerava questa antica usanza, ancora oggi praticata, come un modo di “femminilizzare” ulteriormente la donna rimuovendo il principale residuo della sua mascolinità. Va notato, inoltre, che una clitoride grande viene considerata brutta e mascolina. Alcune culture utilizzano la pratica di versare un prodotto chimico sulla clitoride per ridurla alla “giusta” misura. Mi sembra chiaro che gli uomini temono la clitoride come una minaccia alla loro mascolinità.

4. Il maschio sessualmente superfluo. Gli uomini temono di diventare sessualmente superflui se la clitoride prende il posto della vagina come centro del piacere delle donne. Effettivamente questo timore è fondato se si considera unicamente l’anatomia. La posizione del pene all’interno della vagina, sebbene perfetta per la riproduzione, non stimola necessariamente l’orgasmo nelle donne, perché la clitoride è situata esternamente e più in alto. Nella posizione “normale”, le donne devono affidarsi alla stimolazione indiretta. La sessualità lesbica è una dimostrazione eccellente, basata su dati anatomici, dell’irrilevanza dell’organo maschile. Albert Ellis accenna al fatto che un uomo senza pene può essere un ottimo amante per una donna.

Considerando che la vagina, dal punto di vista dell’uomo, è molto desiderabile puramente su basi fisiche, si può intuire il dilemma maschile. E ciò ci costringe anche a scartare molti argomenti basati sulla “fisicità” che spiegano perché le donne vadano a letto con gli uomini. Quello che rimane, mi sembra, è un insieme di ragioni principalmente psicologiche che portano le donne a scegliere gli uomini come partner sessuali ed escludere le donne.

Controllo sulle donne. Una ragione per spiegare la pratica mediorientale della clitoridectomia è che tratterrà le donne dall’avere una sregolata vita sessuale. Rimuovendo l’organo sessuale capace di orgasmo, evidentemente il loro desiderio sessuale diminuirà. Dato che gli uomini guardano alle donne come loro proprietà, particolarmente in alcuni paesi, dovremmo iniziare a chiederci come mai non sia nell’interesse degli uomini che le donne siano sessualmente libere. La doppia morale, com’è praticata ad esempio in America latina, è imposta per mantenere le donne come proprietà totale del marito, mentre lui è libero di avere tutti i rapporti che desidera.

6. Lesbismo e bisessualità. A parte le ragioni strettamente anatomiche per cui le donne possono cercare altre donne come amanti, vi è la paura da parte degli uomini che le donne cerchino la compagnia di altre donne su una base pienamente umana. Riconoscere l’evidenza dell’orgasmo clitorideo minaccerebbe l’istituzione eterosessuale. Indicherebbe che il piacere sessuale è ottenibile sia da uomini che da donne, rendendo quindi l’eterosessualità non un assoluto ma una opzione. Si aprirebbe così la questione di relazioni sessuali umane che vadano al di là dei confini dell’attuale sistema dei ruoli maschile e femminile.

Testi citati:

  • Bonaparte, Marie, Female Sexuality, Grove Press, 1953
  • Caprio, Frank S., The Sexually Adequate Female, Fawcett Gold Medal Books, 1953 and 1966
  • Ejlersen,Mette, Jeg Anklager (I Accuse), Chr. Erichsens Forlag, 1968
  • Ellis, Albert, Sex Without Guilt, Grove Press,1958 and 1965
  • Ellman, Mary, Thinking About Women, Harcourt, Brace & World, 1968
  • Kelly, G. Lombard, Sexual Feelings in Married Men and Women, Pocketbooks, 1951 and 1965
  • Kinsey, Alfred C., Sexual Behavior in the Human Female, Pocketbooks, 1953
  • Masters and Johnson, Human Sexual Response, Little, Brown, 1966

Copyright © by Anne Koedt, 1970

Bourdieu o il potere auto-ipnotico del dominio maschile

di Nicole-Claude Mathieu (*)

Nicole-Claude Mathieu ritratta da Laurence Prat

«Un libretto fitto e soffocante; non graffierà gli uomini, ma confonderà un po’ di più, ce ne fosse bisogno, la coscienza delle donne»: con queste parole, alla fine degli anni Novanta, la sociologa e antropologa femminista Nicole-Claude Mathieu concludeva una puntigliosa e incisiva disamina critica di La domination masculine (ll dominio maschile) di Pierre Bourdieu. Senonché, mentre il testo di Bourdieu è stato tempestivamente tradotto in italiano, ristampato, adottato nei corsi universitari di gender studies, ridotto in citazioni da sfoggiare a riprova di una squisita sensibilità culturale e magnificato (incredibilmente, anche da tante devote lettrici) per aver ricordato delle donne solo e soltanto ciò che si presta a dimostrare che queste riproducono il dominio patriarcale tanto quanto gli uomini, del dibattito femminista apertosi in Francia al momento dell’apparizione del volume non è stato recepito quasi nulla nel nostro paese. La politica della traduzione e della circolazione dei testi è politica tout court: stabilisce parametri di legittimità, condiziona l’approccio ai problemi e, in questo caso, sembra obbedire a regole pericolosamente vicine al precetto epistemologico che lo stesso Bourdieu enuncia ne Il dominio maschile, quando accusa le colleghe femministe di «introdurre nel campo scientifico una difesa politica dei particolarismi che autorizza il sospetto a priori», riservando a se stesso il ruolo di custode oggettivo dei fondamenti universalistici della «Repubblica delle scienze». Quale sia la garanzia di “oggettività” che un membro del gruppo dominante può dare quando parla del dominio patriarcale è il filo che percorre queste splendide pagine di Nicole-Claude Mathieu, qui presentate per la prima volta in italiano.

***

Y a qué’qu’chose qui cloche là-d’dans / J’y retourne immédiatement

Boris Vian, La Java des bombes atomiques

1998. Che settembre! Tra la pioggia, la tempesta, il mare agitato, la valanga equivoca del caso Clinton e la grandine fitta del caso Bourdieu, ci si sarebbe quasi potuti dimenticare delle attrattive dell’estate, come la pubblicazione di La construction sociale de l’inégalité des sexes. Des outils et des corps di Paola Tabet [1], Le sexe du savoir di Michèle Le Doeuff, Medias et féminismes. Minoritaires sans paroles di Myriame El Yamani [2], Le savant et la politique. Essai sur le terrorisme sociologique de Pierre Bourdieu di Jeanine Verdès-Leroux [3], – tutti titoli che tornano utili al cospetto de Il dominio maschile, piccolo ordigno abortito di grande incoerenza che costituisce il rifacimento, appena rimaneggiato, di un articolo apparso con lo stesso titolo otto anni fa [4]. Sulla spiaggia o altrove, se vi domandaste che cosa trasmette questa sera la televisione… Grazie all’iniziativa del periodico Télérama [5], il dominio maschile è stato lo scoop dell’estate. Nessuno nelle case può ignorare che tale dominio esiste, e tutti devono ormai sapere che è simbolico, tuttavia efficace o, se preferite, efficace benché soprattutto simbolico. — Simbolico? Come il franco di risarcimento danni [6]? Ah bene… — Ma c’è l’amore? Ah bene! — Impossibile? Eh beh… tuttavia ne parlano tutti i romanzi… Che si fa oggi pomeriggio?

Se il libro si fosse intitolato «L’oppressione delle donne» (ma era impossibile, si vedrà perché), difficilmente la celebrità dell’autore avrebbe invaso in questo modo le riviste illustrate e i chioschi delle stazioni. E se una femminista avesse scritto «Il dominio maschile», si può dubitare che Télérama le avrebbe fatto una simile pubblicità. Si noterà d’altronde che — nella corsa agli approfondimenti e ai commenti sull’autore da parte dei lettori o di membri dell’intellighenzia che un numero impressionante di giornali e riviste si sono ritenuti (visti) obbligati a pubblicare immediatamente —, si noterà, dicevo, che soltanto un’infima porzione è stata consacrata al libro stesso e dunque alla «questione». Ciò dipende dal fatto che, in ultima analisi, la questione interessa poco, o piuttosto dal fatto che, avendo tutti e tutte un interesse preciso per essa, se la parola è denaro per i media, il silenzio è d’oro per la maggioranza dei protagonisti delle relazioni uomini-donne?

Così, ci si può domandare se l’occultamento massiccio del contenuto del libro dietro alle polemiche che si sono risvegliate intorno all’autore non sia dovuto agli stessi meccanismi mediatici (e accademici) che stendono il silenzio sulle pubblicazioni femministe nel momento stesso in cui pubblicizzano gli uomini che trattano dello stesso (?) soggetto. In breve, per una sorta di effetto boomerang [7], lanciando il libro a partire dal suo credito di dominante (il suo «capitale simbolico di celebrità») [8], Bourdieu, mancando uno dei suoi obiettivi (parlare e far parlare del dominio maschile), ha tuttavia ricapitalizzato (plus-valore) questo credito – di cui fanno parte la critica come la lode; ogni autore sa che è meglio essere attaccati piuttosto che passati sotto silenzio.

Essere passate sotto silenzio dai media e dal proprio ambiente professionale è qualcosa di cui coloro che analizzano e denunciano il potere degli uomini hanno una lunga esperienza. Bisogna ricordare qui la strana invisibilità (trasparenza) delle ricercatrici in generale [9]. Quanto al discredito, agli insulti diretti e indiretti [10], agli ostacoli alla carriera opposti alle ricercatrici apertamente «femministe», essi non hanno nulla a che vedere con una qualche «disposizione» dovuta a un inconscio simbolico degli uomini e delle donne alla maniera di Bourdieu, e invece tutto a che vedere con una resistenza maschile intenzionale e organizzata [11] – e pure tutto a che vedere, tra le donne che hanno qualche frammento di potere, con la paura del discredito che colpisce quelle che sostengono altre donne. Che alcune finiscano per abbandonare l’idea di progredire nella carriera, di candidarsi a posizioni di rilievo, è dovuto all’esperienza del rigetto dei loro tentativi o di quelli delle altre; si tratta certamente di un adattamento alle opportunità oggettive, e non di un «adattamento delle disposizioni alle opportunità oggettive», come direbbe Bourdieu – le «disposizioni» essendo «schemi pratici» (DOM, p. 14; trad. it. p. 17) che implicano un «adattamento inconscio alle probabilità associate a una struttura oggettiva di dominio» (DOM, p. 43, corsivo mio; trad. it. p. 47). Ma prima di affrontare i concetti in questione e la politica a cui sono funzionali, occorre tornare sui silenzi dell’autore.

I. CANDIDATO BOURDIEU [12]: RESPINTO ALL’ESAME DI DIPLOMA DI STUDI AVANZATI (I ANNO DI TESI). PER I SEGUENTI MOTIVI:

1) Mancata citazione di autori importanti che hanno lavorato sull’argomento, compresi quelli i cui lavori avrebbero potuto chiarire le sue tesi, e compresi i colleghi della sua comunità scientifica. Esempi: non si fa più alcuna allusione ai lavori antropologici di Françoise Héritier (citata nell’articolo del 1990), sua collega al Collège de France, lavori che in gran parte si concentrano appunto sui meccanismi simbolici della «valenza differenziale dei sessi» [13], quasi universali, specialmente nei sistemi di appellazione di parentela. Manca pure qualsiasi allusione a sociologhe e antropologhe che hanno detto già da più di venti anni ciò che il Candidato pretende di farci scoprire (per esempio che i sessi/generi sono categorie sociali, storiche, costruite e relazionali), ma che in più non nascondono di essere femministe (e quella è senz’altro la duplice ragione dell’omissione). Pensiamo qui a Christine Delphy [14], Colette Guillaumin [15], Paola Tabet [16], per non citare che alcune fra le più «anziane» (fra cui io stessa) che hanno lavorato negli anni Settanta nel campo della sociologia.

[Ma Bourdieu aveva già risposto. Nell’articolo del 1990 (ACT, p. 30), afferma che il loro «isolazionismo» (e il fatto che si riferiscano alle «donne» e non alla «relazione sociale di dominio»!?) conduce «certe produzioni “militanti” ad accreditare alle fondatrici del movimento femminista “scoperte” che fanno parte delle acquisizioni più antiche e da più lungo tempo ammesse nelle scienze sociali, come il fatto che le differenze sessuali siano differenze sociali naturalizzate (corsivo mio)». Si resta senza parole. Anche il Candidato d’altra parte lo è, visto che non offre alcun riferimento storico, senza dubbio sbalordito dalla sua stessa audacia. Per fortuna che lui stesso ha scritto una volta: «Le scoperte scientifiche hanno spesso l’ambiguo privilegio, in antropologia, di diventare ovvie una volta acquisite» (17)].

Bisognerebbe tuttavia sapere se, e in caso affermativo in che cosa, le problematiche differiscono.

[Ma Bourdieu aveva già risposto! «Sebbene io non ami l’esercizio, tipicamente scolastico, consistente nel passare in rassegna, per distinguersene, tutte le teorie concorrenti dell’analisi proposta – fra le altre cose, perché può far credere di non avere altro principio che la ricerca della differenza […]» (ACT, p. 30). Egli ribadisce ne Il dominio… rammaricandosi, per esempio, di non aver sottolineato a sufficienza ciò che lo differenzia da Claude Lévi-Strauss e da Gayle Rubin, perché ciò gli avrebbe permesso, dice, «di evitare di dare l’impressione di ripetere o di riprendere analisi alle quali mi oppongo (18). Il che comporta trattare ogni questione da solo, tra sé e sé].

D’altra parte, nel suo articolo «Bourdieu: nom propre d’une enterprise collective», François de Singly (1998) ha dissezionato con precisione le abituali e diverse forme di occultamento dei collaboratori più vicini (soprattutto uomini) da parte di questo autore. Si potrebbe allora pensare che l’occultamento delle ricercatrici femministe non abbia nulla di peculiarmente «machista». Ora, questa invisibilizzazione, come denunciava già Françoise Armengaud (1993) a proposito dell’articolo del 1990, è un colpo scientemente assestato alle tendenze più sociologiche della ricerca femminista e a quelle più radicali del movimento delle donne – che già non hanno la parola, mentre i collaboratori in questione in ogni caso ce l’hanno.

2) Riferimento rapido ad alcuni autori importanti, eliminando con un colpo di spugna e deformando una delle loro teorie, mentre si ignorano i loro rimanenti lavori sull’argomento. Esempio: il Candidato si situa contro «la lettura strettamente semiologica [di Claude Lévi-Strauss] che, concependo lo scambio di donne come rapporto di comunicazione, occulta la dimensione politica della transazione matrimoniale, rapporto di forza simbolico volto a conservare o ad aumentare la forza simbolica» (DOM, p. 50, corsivo dell’autore; trad. it. p. 55). Pare di sognare. Lévi-Strauss non avrebbe parlato del rapporto, da riorganizzare incessantemente a seconda dei tipi di cicli di scambio, tra i «donatori» (simbolicamente superiori) e gli «acquirenti» (simbolicamente inferiori) di donne? E Lévi-Strauss non avrebbe visto che le donne sono ridotte allo stato «di strumenti simbolici della politica maschile», come pretende di sottolineare il Candidato contro di lui (DOM, p. 49, corsivo dell’autore; trad. it. p. 54)? E Lévi-Strauss non è andato più lontano dell’analisi «puramente semiologica» che gli viene rimproverata quando, nel suo articolo «La famille» (1956; 1971), ha aggiunto al tabù dell’incesto l’istituzione della famiglia e la divisione tecnica del lavoro tra i sessi come mezzi, ugualmente artificiali, per instaurare lo scambio tra gruppi? Il Candidato dovrà rivedersi i classici [19]. O altrimenti spiegarsi meglio (ma si è già visto, supra nota 20, che teme di farlo).

3) Riferimento a certi autori con allusione falsata alle loro teorizzazioni, o senza allusione teorica e a proposito di un dettaglio. Esempio: Gayle Rubin – che a partire dal 1975 ha analizzato criticamente in che modo l’oppressione delle donne è stata trattata nei lavori di Lévi-Strauss (e di Engels, Marx, Freud, Lacan, etc.) e ha proposto, sulla base di un riesame dei dati etnologici e psicoanalitici a partire dal soggetto/oggetto donna, e dunque sulla base di un rinnovamento delle domande da porre, un vasto programma di ricerca sull’«economia politica» del sesso [20] — è citata (DOM, p. 50, nota 69; trad. it. 55) dal Candidato come esempio degli studi «simbolici» (opposti agli studi «materialisti») — studi simbolici certamente «notevoli», ma sempre troppo «parziali» in rapporto ai suoi che, non dimentichiamolo, pretende di superare tutte queste opposizioni attraverso un’«analisi materialista dei beni simbolici». Limitare l’importante ricerca di Gayle Rubin al simbolico è inammissibile. Ella voleva appunto che si studiasse, nell’articolazione reciproca propria a ciascun «sistema di sesso/genere», ogni aspetto della realtà. E, per limitarsi a citare una soltanto delle sue espressioni sconcertanti, ricordava che — oltre a diversi beni materiali e simbolici — ciò che circola nello scambio matrimoniale è «carne femminile» (female flesh) addomesticata in donna.

Altro esempio (DOM, p. 22; trad. it. p. 25). La frase (per altro eminentemente contestabile): «Con ogni evidenza è perché la vagina continua a essere costituita in feticcio e trattata come sacra, segreta e tabù, che il commercio del sesso resta stigmatizzato tanto nella coscienza comune quanto nella lettera del diritto, concordi nell’escludere che le donne possano scegliere la prostituzione come attività lavorativa» è seguita dalla nota 23, che si riferisce a un articolo di Gail Pheterson unicamente a proposito di una legge degli Stati Uniti. Sarebbe stato necessario che il Candidato, poiché si interessa al simbolico, citasse per esempio l’analisi teorica che l’autrice fa dello «stigma della puttana» (the whore stigma) come stigma di genere, di fatto applicato all’insieme delle donne: «una frusta per mantenere l’umanità femminile in uno stato puro di subordinazione» [21]. Per Rubin non è questione di «vagina sacra», ma di strutture oggettive del controllo sociale che, negando alle donne la libera disposizione di se stesse, favoriscono la prostituzione forzata e contemporaneamente rendono sospetta di prostituzione ogni donna che manifesti un comportamento autonomo (dunque trasgressivo) in rapporto alle norme discriminatorie di sesso/genere, che si tratti di lavoro, di regole matrimoniali, di abbigliamento o di migrazione.

4) Allusioni, senza citazione del loro autore, ad alcune teorie direttamente connesse all’argomento. Esempio: «Occorrerà quindi chiedere a un’analisi materialista dell’economia dei beni simbolici i mezzi per sfuggire all’alternativa rovinosa tra il “materiale” e lo “spirituale” o “l’ideale” […]» (DOM, p. 9, corsivo mio; trad. it. p. 9). Allusione velata ai lavori e al libro L’idéel et le matériel (1984) di Maurice Godelier… che d’altra parte non ha mai presentato questi due concetti come costituenti una «alternativa».

5) Ricorso a riferimenti frammentari (alcuni dei quali ad autrici femministe, ma in quel caso preferibilmente anglosassoni e non francesi), destinati a far credere che il Candidato ha «coperto» l’argomento.

6) Ricorso probabile ad appunti di seconda mano, senza riferimento al testo originale né alle date, o incapacità di prendere appunti. Esempio: alle pagine 46-47 [trad. it. pp. 51-52], il Candidato si riferisce a coloro che parlano della conoscenza del dominio utilizzando «il linguaggio della coscienza». Prima persona citata: Jeanne Favret-Saada, con riferimento al suo articolo intitolato «L’arraisonnement des femmes», pubblicato nel 1987. Vengono citate alcune frasi dell’articolo. È bizzarro, ho l’impressione di averle scritte io… Seconda persona citata: Nicole-Claude Mathieu (ecco) per un articolo che si intitolerebbe «De la conscience dominée» (era in effetti il «titolo corrente»…) e pare essere stato pubblicato in un volume nel 1991. Ordine crono/logico normale, si dice il lettore. Ma ecco che alla fine del paragrafo si rinvia (alla nota 65) a un volume collettivo apparentemente pubblicato nel 1985 e che pure si intitola «L’arraisonnement des femmes». È macramé o cosa?, ci si chiede. E voi lettori mi direte: lei ci lascia così a spaccare il capello in quattro (nel qual caso, non leggete le spiegazioni fornite qui sotto in nota) [22]. Perdonatemi, ma sono preoccupata. Quando si conosce la fatica che molti insegnanti fanno per chiarire e spiegare agli studenti di cosa e di chi e di quando parlano (anche a livello di DEA e di tesi), c’è motivo di essere preoccupati per quelli del professor Bourdieu.

7) Uso di un titolo abusivo e ingannevole per la sua opera. Il titolo estremamente generale «Il dominio maschile» lascia intendere che il Candidato abbia affrontato la totalità dei meccanismi in gioco (e che pertanto farà il punto di lavori precedenti, senza limitarsi a un’allusione paternalista e sdoganante all’«immenso lavoro critico svolto dal movimento femminista» (p. 95; trad. it. p. 104). Ora, l’argomento che di fatto viene trattato è il dominio maschile simbolico o, più esattamente, «la dimensione simbolica del dominio maschile» [23], o perché no «la parte simbolica incorporata nel dominio maschile». (Ma il libro sarebbe stato meno facile da vendere). Di fronte a un tema così vasto, ogni autore ha il diritto, e anche il dovere, di restringere il proprio campo di ricerca; ha anche il diritto di domandarsi se una teoria elaborata per una forma di dominio (nel caso del Candidato, le classi sociali) possa applicarsi a un’altra forma (le classi di sesso, espressione che egli evita di usare) [24]. Ma il rigore intellettuale esige di situare esplicitamente il proprio progetto in rapporto ad altre analisi della questione, e non in rapporto a posizioni fantasticate o deformate.  

8) Conclusione. Benché pieno di annotazioni giuste sui comportamenti pratici e simbolico/inconsci (lo scivolamento tra simbolico e inconscio sarebbe tuttavia da riesaminare) degli uomini e delle donne — annotazioni d’altronde nient’affatto originali, ma sempre utili da ricordare, preferibilmente non limitandosi a citare i propri lavori —, il lavoro del Candidato difetta di rigore tecnico, metodologico e deontologico. Pecca di pensiero, di azione, di omissione e di distorsione. Nel complesso è da interpretare come un rifiuto di lasciare spazio al confronto tra analisi differenti, circostanza che conferisce alla tesi uno statuto assertivo e non dimostrativo. Ci si può chiedere, in compenso, se non si tratti di una dimostrazione particolarmente vistosa di dominio maschile, che raddoppia l’oppressione delle donne attraverso la soppressione o la distorsione delle loro esperienze e delle loro analisi. Come disse, pare, Voltaire a un giovane autore: «Amico mio, nel vostro lavoro ci sono cose buone e cose nuove. Sfortunatamente quel che è buono non è nuovo e quel che è nuovo non è buono». Bisognerebbe aggiungere: quel che c’è di cattivo non è nemmeno nuovo.

Nicole-Claude Mathieu – L’anatomie politique 2, 2014

II. DEL SIMBOLICO E DELLA SUA «RIVOLUZIONE»

Nel 1990 il Candidato informava espressamente i suoi interlocutori della «violenza simbolica, che è una dimensione propria di ogni dominio e che costituisce l’essenziale del dominio maschile» (ACT, p. 11, corsivo mio). Ne rimasi interdetta (interloquée) [25]. Il Candidato forse parlava dei, o dai, salotti del quarto arrondissement parigino, dove la violenza economica, demografica e fisica contro le donne è meno visibile, ma non del 99,9999 % del resto del mondo, e in particolare di quelle numerose società in cui il simbolico è inculcato attraverso la, e contemporaneamente alla, violenza fisica (anche agli uomini, ma in proporzione qualitativa e soprattutto temporale inferiore che alle donne).

In breve, pare proprio che il Candidato consideri il principio del simbolismo gerarchico tra i sessi (la cui permanenza attraverso le variazioni storiche e culturali identifica correttamente come problematica) come il fondamento, o il fondamento principale del dominio maschile. Non posso impedirmi di scorgere qui una tesi non solo parziale, ma idealista, benché egli si difenda dall’idealismo. Non mi è chiaro se il «materialismo» a cui la sua analisi si riferisce riguardi lo studio, che egli invoca, dell’economia oggettiva della circolazione dei beni simbolici o la sua insistenza sull’iscrizione del simbolico nei corpi, tramite «somatizzazione dei rapporti sociali di dominio», «incorporazione del dominio», etc. — termini che fanno parte della sua teoria delle «disposizioni» (inconsce) e che d’altronde non contesto.

Non ho nulla contro l’idea secondo cui saremmo tutti e tutte degli isterici (traduco, evidentemente), ma comincio a preoccuparmi quando leggo ripetutamente che questa incorporazione avviene «come per magia», «come per incanto». A parte il fatto che tutta l’argomentazione di Freud consiste nel dimostrare che non c’è nulla di magico nei meccanismi del sogno o nella somatizzazione isterica, a parte il fatto che continuo a non vedere nulla di fatato e ancor meno di magico nei rapporti di potere uomini/donne, mi chiedo se questi termini siano stati utilizzati dal nostro autore anche quando trattava di «disposizioni» a proposito di altre cose oltre ai sessi: delle classi sociali per esempio (confesso di non avere avuto il tempo di leggere l’insieme della sua opera, anzi del suo lavoro — al maschile, come si deve fare se si evoca il simbolismo sessuato). In ogni caso, non è stupefacente che per suffragare la sua personalissima tesi «isterica» sul ruolo preponderante del simbolico nel dominio maschile, il Candidato sfrondi dalle sue esemplificazioni un’enorme mole di poste reali e di rapporti di forza affatto concreti.

Uno dei pericoli del ricorso esclusivo o quasi esclusivo alle spiegazioni o alle interpretazioni tramite il simbolico è la simmetrizzazione finale delle categorie implicate nel rapporto di oppressione, anche se l’autore se ne difende, come si vede qui:

Una sociologia politica dell’atto sessuale farebbe emergere che, come sempre avviene in un rapporto di dominio, le pratiche e le rappresentazioni dei due sessi non sono affatto simmetriche. […] l’atto sessuale stesso è concepito dagli uomini come una forma di dominio, di appropriazione, di “possesso”. Nasce di qui lo scarto tra le attese probabili degli uomini e delle donne in materia di sessualità — insieme ai malintesi, legati a interpretazioni errate dei “segnali”, a volte volutamente ambigui o ingannevoli, che ne risultano. Contrariamente alle donne — socialmente preparate a vivere la sessualità come un’esperienza intima e fortemente investita di affettività, che non include necessariamente la penetrazione ma può inglobare un ampio ventaglio di attività — parlare, toccare, accarezzare, stringere ecc. —  i maschi sono portati a “compartimentare” la sessualità, concepita come un atto aggressivo e soprattutto fisico teso alla penetrazione e all’orgasmo (DOM, p. 26; trad. it. p. 29).

Abbiamo qui le attese e i malintesi, le interpretazioni e i segnali, di «concezioni» differenti della sessualità: esperienza intima e affettiva per la donna, atto aggressivo e fisico per l’uomo. Notiamo che nulla di tutto questo è completamente falso. Ma bisogna leggere questo passaggio per ciò che non dice. Una parola non viene pronunciata: lo stupro, gli atti sessuali forzati. Una vera «sociologia politica dell’atto sessuale» — come la praticano da anni le femministe, rivelando la frequenza e il significato di potere degli stupri detti coniugali e degli stupri incestuosi [26], così come di altri stupri, crimini di guerra o, come dire, “di pace”?, e ricavandone dei progressi giuridici notevoli — non potrebbe eliminare dal quadro queste «pratiche» che in effetti «non sono affatto simmetriche» per i due sessi. L’aspetto più oltraggiosamente perverso della faccenda è che i due riferimenti citati, in nota, sono i libri di Diana Russell: The Politics of Rape e Sexual Exploitation — riferimenti in lingua originale (l’inglese), come è normale ma qui del tutto funzionale. Poiché la parola stupro non compare in francese nel testo, e il suo equivalente rape si trova a caratteri minuscoli alla nota 32, molti lettori/lettrici non avranno colto l’impostura. Sia che non leggano l’inglese (pur essendo in compenso capaci di chiacchierare in ittita o in aramaico), sia che lo leggano — e ho fatto l’esperimento con persone bilingui inglese/francese — semplicemente saltano le note.

Non avendo fatto la minima allusione nel testo alle pratiche effettive dell’«atto sessuale» maschile, ovvero allo stupro come pratica coerente e logica delle «inclinazioni» predatorie degli uomini [27]; avendo parlato soltanto, per quanto riguarda le donne, della stimolazione dell’orgasmo come «attestazione esemplare del potere maschile di rendere l’interazione tra i sessi conforme alla visione degli uomini, che si aspettano dall’orgasmo femminile una prova della loro virilità» (DOM, p. 27; trad. it. p. 30), cosa non falsa ma parziale, il Candidato può allora concludere la sua «sociologia politica dell’atto sessuale» (!) rimettendo in simmetria le attitudini dei due sessi, non a livello di contenuto simbolico (di cui ha detto che non era il medesimo), ma simmetrizzando il rapporto al simbolico e, per di più, il rapporto all’esperienza stessa:

Se il rapporto sessuale appare [sic, notare l’ambiguità del termine] come un rapporto sociale di dominio, ciò dipende dal fatto che è costruito attraverso il principio di divisione fondamentale tra il maschile, attivo, e il femminile, passivo, e che questo principio crea, organizza, esprime e dirige il desiderio: quello maschile come desiderio di possesso, come dominazione erotizzata, quello femminile come desiderio della dominazione maschile, come subordinazione erotizzata o addirittura, al limite, come riconoscimento erotizzato del dominio (DOM, p. 27; trad. it. p. 30).

Ehi! Esprimiamoci geometricamente. Ecco una figura simmetrica (←│→) in rapporto a una linea di demarcazione. Ora esprimiamoci umanamente. Se alla parte destra si assegna un valore erotico maggiore (perché attiva) rispetto alla parte sinistra (passiva), il risultato sarà (←│→→); la linea verticale rappresenta la demarcazione simbolica tra uomini e donne, il contenuto di ogni categoria è visibilmente differente; ma quale matematico vi dirà che la figura che include il rapporto tra ← e │è simmetrica a quella che include il rapporto tra │e →→? È tuttavia quel che succede quando si passa dal dominio erotizzato alla subordinazione erotizzata. Si ristabilisce una (falsa) simmetria di funzionamento.

Può ben darsi che nelle fantasie erotiche delle donne, particolarmente nella masturbazione solitaria, il pensiero della sottomissione sotto forma di coazione, percosse e stupro induca una soddisfazione erotica (ed è forse una delle gravi mutilazioni mentali inflitte alle donne dalla loro condizione obiettiva e generale di non autonomia in rapporto agli uomini). In compenso è certo, secondo innumerevoli testimonianze, che nei rapporti concreti di coazione sessuale (e dio sa se sono frequenti, in particolare all’interno del matrimonio in tutte le società, ma anche in moltissime prime esperienze sessuali delle ragazze [28]), la simulazione dell’orgasmo — di cui il Candidato parla, riferendosi a Catharine MacKinnon, come di un’«attestazione esemplare del potere maschile di rendere l’interazione tra i sessi conforme alla visione degli uomini» (p. 27) — non è la reazione più diffusa tra le donne (ed è anche una delle ragioni addotte dagli uomini per ricorrere alle prostitute, e uno dei “trucchi” che queste utilizzano con piena cognizione di causa). Si trovano, invece, nelle testimonianze delle donne sui rapporti sessuali, molti «aspetto che finisca», per paura di una separazione se sono sposate o in coppia, e in termini più generali per paura (realistica) di scatenare la violenza fisica, per paura di disturbare i figli, i vicini, etc., per non parlare della paura (realistica anch’essa) della morte in caso di stupro «caratterizzato». Che il dominio aggressivo venga erotizzato dallo stupratore è, invece, un fatto appurato.

A parte il fatto che l’erotismo non attinge soltanto alla simbolica dei sessi, l’incorporazione erotizzata del dominio alla maniera di Bourdieu sembra una variante dello stereotipo sul masochismo femminile. Ma Bourdieu ha già risposto! O ha creduto di rispondere segnalando (p. 46) che per lui non è questione di affermare che le donne siano responsabili della loro oppressione, né che esse «scelgano delle pratiche sottomesse» (corsivo dell’autore), né che esse «‘godano’ dei trattamenti che vengono loro imposti». Ma che, per ogni dominato:

occorre ammettere allo stesso tempo che le disposizioni “sottomesse”, in nome delle quali si ha buon gioco ad “accusare la vittima”, sono il prodotto delle strutture oggettive e che tali strutture NON devono la loro efficacia CHE alle disposizioni che innescano e che contribuiscono alla loro riproduzione. Il potere simbolico non può esercitarsi senza il contributo di coloro che lo subiscono e che NON lo subiscono PER NESSUN ALTRO MOTIVO oltre al fatto che lo costruiscono. […] occorre prendere atto e render conto della costruzione sociale delle strutture cognitive che organizzano gli atti di costruzione del mondo e dei suoi poteri. E percepire così chiaramente che questa COSTRUZIONE PRATICA, lungi dall’essere l’atto intellettuale cosciente, libero e deliberato di un “soggetto” isolato, è, invece, l’effetto di un potere, inscritto durevolmente nel corpo dei dominati sotto forma di schemi di percezione e di disposizioni (ad ammirare, rispettare, amare ecc.) che rendono sensibili a certe manifestazioni simboliche del potere (DOM, p. 46, maiuscoletto di N.-C. M; trad. it. pp. 50-51, leggermente modificata).

Si è visto che le «disposizioni sottomesse» non sono sempre provocate, ma ammettiamo che lo siano in certi contesti, come sul mio luogo di lavoro dove le donne si precipitano a lavare i piatti dopo le mangiate collettive. Ancorché il 99,9999% degli uomini si sia eclissato discretamente o discuta di teoria lì nei paraggi, ma non troppo vicino, non si vede per chi altro vengano lavati i piatti, e che ciò che è «impensabile» non è soltanto, simbolicamente, che i piatti possano essere lavati dagli uomini, ma concretamente, che non vengano affatto lavati. Si tratta di una delle «strutture oggettive» che provocano le disposizioni? Poiché le strutture oggettive a cui si riferisce il Candidato sono soprattutto «strutture cognitive», scorgo in quelle donne una struttura cognitiva che non dipende soltanto dall’inconscio simbolico.

Ma ancora, torniamo alla frase citata sopra. Se si sostituiscono i «non… che» con il loro equivalente più chiaro: «unicamente», si legge dunque che: coloro che subiscono il potere simbolico lo subiscono unicamente perché lo costruiscono come tale. Bisogna intendere che se i dominati non lo costruissero come potere, questo potere simbolico non avrebbe degli effetti, o non esisterebbe nemmeno? È vero che ci viene detto spesso che i dominati non possono non accordare la propria adesione al dominante (DOM, p. 41; trad. it. p. 45), ma tralasciamo questo problema per il momento, per soffermarci qui su una nuova simmetrizzazione. Se l’ordine del mondo (lo scambio di donne, la produzione e la riproduzione, etc.), come dice d’altronde l’autore, è costruito dagli uomini, che egli designa (per esempio a p. 50; trad. it. p. 54) come gli «agenti attivi», mentre le donne sono gli «agenti passivi», come si può sostenere che la dominata costruisce, anche «praticamente» ancorché inconsciamente, le strutture del «potere simbolico» — cognitive o di altro tipo? Voglio dire, come si può usare lo stesso termine per il dominante e per il dominato? Tanto più che (per esempio p. 48; trad. it. p. 52), tra le «strutture di cui queste disposizioni sono il prodotto», l’autore insiste in particolare sulla «struttura di un mercato dei beni simbolici la cui legge fondamentale è che le donne vi siano trattati come degli oggetti […]» (corsivi miei) [29]. Vi vedo ancora l’effetto di una riflessione insufficiente sul rispettivo rapporto al simbolico del dominante e del dominato — una semplice traslazione sul dominato (tramite trasposizione) del punto di vista dominante [30].

Il ricorso esclusivo al simbolismo dei sessi (alto/basso, dritto/curvo, esteriore/interiore, etc.) sembra d’altronde, in generale, particolarmente idoneo a produrre questi effetti di simmetrizzazione. È così per esempio che continuano a ragionare molti etnologi a proposito dell’escissione e della circoncisione in Africa, ratificando la versione di un vecchio saggio dogon: l’escissione e la circoncisione sarebbero simbolicamente comparabili e simmetrici, poiché la prima, con l’ablazione della clitoride, rimuoverebbe la mascolinità dalla ragazza e la seconda, con l’ablazione del prepuzio, leverebbe la femminilità al ragazzo. Ricerche più recenti hanno mostrato che il simbolismo nei due casi ruota intorno al potere maschile: conferma della virilità per i ragazzi e interdizione di innalzarsi al livello degli uomini per le ragazze, mentre il senso principale di questa pratica è di renderle «sposabili», vale a dire di porle sotto l’autorità di un uomo. Non c’è simmetria inversa, ma senso unico [31].

A proposito di senso unico, è anche ciò che afferma Bourdieu della circoncisione in Cabilia, «rito di istituzione della mascolinità per eccellenza», che crea «una separazione sacralizzante […] tra coloro che sono sociamente degni di riceverla e quelle che ne sono per sempre escluse, cioè le donne» (DOM, p. 30, corsivo dell’autore; trad. it. p. 34). Certo, l’escissione non esiste in Cabilia; non per questo è ammissibile non aver fatto la minima allusione alla rimozione non solo simbolica, ma fisica, di tutto o di parte del sesso (e ciò concerne più di cento milioni di donne nel mondo, tra cui la Francia) in un libro che, lo ripeto, si intitola IL dominio maschile e che si interessa di pratiche «mitico-rituali» e della… iscrizione del sociale nel corpo.

Bourdieu fa spesso riferimento al pensiero mitico e ai riti, che certamente dipendono dal simbolico, ma a partire da lì opera uno scivolamento verso l’«inconscio sociale», che egli privilegia tra i meccanismi di dominio. Ma miti e riti non dipendono solo dall’inconscio. Essi comportano spesso discorsi e pratiche chiaramente enunciate sulla necessaria disuguaglianza dei sessi e sull’obbligo di obbedienza per le donne.

Ho notato soltanto due volte la parola «oppressione» nel libro, ed essa non compare nell’indice (mentre una parola citata una volta sola, come agorafobia a p. 45, vi si trova) — mentre l’espressione «condizione femminile» appare almeno sette volte. Ricordiamo che questa espressione è scomparsa volontariamente da lustri nella letteratura femminista, precisamente nella misura in cui non dice nulla del rapporto tra le classi di sesso, esattamente come con il marxismo non si è potuto più parlare, come facevano Villermé o Le Play, di «condizione operaia» [32]. È tuttavia proprio il nostro candidato che rimprovera alle «femministe» (percepite come un insieme indifferenziato) di lasciarsi rinchiudere nella categoria «donne», difendendo in questo modo un «particolarismo» [33] — cosa che è in gran parte falsa, e che all’inizio fu (nell’espressione Women’s Studies) un riequilibrio necessario dell’attenzione su un oggetto/soggetto invisibilizzato, e non una chiusura su una categoria [34]. Infine, sono state create delle espressioni generalizzanti appunto per esprimere l’aspetto relazionale, dialettico, delle categorie in questione: sessismo [35], sistemi di sesso/genere (Rubin, nel 1975), sessaggio (Guillaumin, nel 1978), rapporti sociali di sesso, etc. — ma tutto ciò senza dubbio non è sufficientemente distinto per l’autore di La distinzione. Egli arriva addirittura, esprimendosi «in maniera più relazionale», a parlare di «rapporti tra i generi» (p. 124, corsivo mio) — senza arrivare ai rapporti sociali di genere (gender relations), espressione diventata corrente nella ricerca.

Notiamo ancora, come segno di ignoranza del «femminismo», questa frase: «[…] la rivoluzione simbolica evocata dal movimento femminista non può ridursi a una semplice conversione delle coscienze e delle volontà» (DOM, p. 47, corsivo mio; trad. it. p. 52). Il minimo che si possa dire è che non si tratta della «rivoluzione» principale evocata dai movimenti femministi! Non è sul corpo simbolico o simbolizzato, ma sul corpo fecondato dagli uomini che si è fatta e continua a farsi in tutto il mondo la lotta principale delle donne. Un solo gruppo in Francia [36] si è interessato fin dall’inizio a una rivoluzione «simbolica», e ciò avvenne sulla base di una concezione essenzialista della donna e dell’uomo, concezione che il Candidato ha respinto, dopo di noi [37], nel 1990 (ACT, nota 4), riferendosi a «teoriche femministe che si ispirano alla psicoanalisi, sia pure negativamente» — e dicendo che «il [sic] discorso femminista cade molto spesso nell’essenzialismo», con esempi tratti da Irigaray e da Kristeva a suffragio. Questi riferimenti vengono soppressi nel libro Il dominio maschile (qualcuna deve avergli fatto notare il problema). Ma il riferimento alla «rivoluzione simbolica» è rimasto… Sembra tuttavia che il Candidato non abbia compreso alcunché, perché ecco che, senza dubbio per prendere posizione, usa ora (DOM, p. 70; trad. it. p. 77) l’espressione «alcune fautrici della scrittura femminista» (?) per denunciare l’essenzialismo (la scrittura femminile avendo fatto parte, fra le altre, delle idee del gruppo nominato in precedenza e ora rinnovato dalle premure indifferenti del Candidato). Notiamo ancora la sua scoperta migliore: pare che esista un «femminismo detto universalista [che] ignora l’effetto di dominio, e tutto ciò che l’apparente universalità del dominante deve alla propria relazione con il dominato — qui tutto ciò che ha a che fare con la virilità […]» (DOM, p. 69, corsivo mio; trad. it. p. 76). Di ki ki koz? ha detto Zazie che ci perde il suo latino. Quanto ai mezzi originali che il Candidato vedrebbe per fare la (sua) rivoluzione simbolica degli schemi inconsci, non li ho colti.

Scheda di presentazione del libro L’anatomie politique 1991 (Archives FMSH, fonds Nicole-Claude Mathieu)

III. DEL PESANTE FARDELLO DELL’UOMO

Un altro aspetto insidioso della simmetrizzazione è che, secondo Bourdieu, le due categorie sono, sia pure diversamente, dominate dalla dominazione (secondo l’espressione di Marx, dice lui), poiché essa genera in entrambe, a partire dagli stessi schemi dell’inconscio, delle disposizioni, un habitus, etc. «La struttura impone i suoi vincoli ai due estremi del rapporto di dominio» (p. 82; trad. it. p. 83). Ma il Candidato, si sarà capito, è interessato al dominio maschile, e non allo stesso modo all’oppressione delle donne [38]. Ne segue logicamente che ciò che lo preoccupa è l’uomo, cioè se stesso, sempre e ancora, e dunque i comportamenti femminili che lo confortano, e non l’esperienza contraddittoria delle donne. Come dice Michèle Causse:

L’androletto è in effetti un soliloquio. È la produzione mentale, diciamo la patologia linguistica dell’andros che, vittima di un’incrinatura originaria, si è elevato a locutore unico e non ha altro interlocutore che se stesso. Ancor prima di parlare, una donna nell’androcrazia è “interloquita”, nel doppio senso di interdetta-interrotta [39].

Trattandosi di «vincoli» e di «formidabili esigenze» (l’espressione non sarà mai usata per le donne) imposte ai dominanti stessi dalla dominazione di cui beneficiano, leggiamo: «occorre quindi analizzare, nelle sue contraddizioni, l’esperienza maschile del dominio […]» (DOM, p. 76, corsivo mio; trad. it. p. 83), grazie al personaggio del padre in Al faro di Virginia Woolf: il signor Ramsay, preso tra la sua alta opinione di se stesso, la necessità di realizzare il suo ruolo ideale maschile, intellettuale e paterno, e le sue bambinate. «Il fatto che, tra i giochi costitutivi dell’esistenza sociale, quelli considerati seri siano riservati agli uomini […] contribuisce a far dimenticare che l’uomo è anche un bambino che gioca all’uomo» (DOM, p. 82, corsivo mio; trad. it. p. 90). Gli uomini, essendo «designati molto presto, soprattutto attraverso i riti di istituzione, come dominanti […sorvolo sulla parte in latino], hanno il privilegio a doppio taglio di darsi ai giochi di dominio» (ibid.).

Sia pure! Sebbene… torneremo subito sulle «contraddizioni». Ma sul doppio taglio, ci piacerebbe aggiungere che uno dei tagli (la tirannia maschile che si abbatte sulle donne) è nettamene più remunerativo di quanto l’altro (la difficoltà di essere uomo) sia tagliente. Quanto al rischio di «dimenticare che l’uomo è anche un bambino che gioca all’uomo», o di dimenticare «quella specie di sforzo disperato, e alquanto patetico nella sua incoscienza trionfante, che ogni uomo deve compiere per essere all’altezza della sua idea infantile dell’uomo» (DOM, p. 76; trad. it. p. 83), mi sembra che l’80% delle produzioni letterarie e cinematografiche maschili non abbiano smesso di ripeterci quanto sia difficile diventare ed essere un «uomo». E se si vuole ricorrere a degli specialisti, senza parlare della psicoanalisi, la letteratura etnologica è letteralmente invasa da descrizioni e interpretazioni dei rituali e delle diverse esperienze psico-sociologiche che i giovani uomini devono subire per essere separati dal mondo delle donne e raggiungere l’ideale di virilità. I rituali che obbligano le ragazze a «restare» nel mondo delle donne, certamente meno numerosi e spesso meno elaborati, di solito vengono studiati pochissimo. Quanto all’esperienza psico-sociologica delle donne, nel loro rapporto con se stesse e con la femminilità imposta, essa non ha interessato quasi nessuno, a parte le femministe — tra cui Virginia Woolf, per tornare all’oggetto della nostra discussione.

Virginia Woolf – To the Lighthouse, 1927

Ma attenzione, il Candidato, alias Servizio di informazioni stradali, ci comunica le vie traverse da seguire (le sue) per non ingolfarsi stupidamente in una fiumana di pecore. Ecco una delle sue proposizioni più insultanti:

Occorre quindi analizzare, nelle sue contraddizioni, l’esperienza maschile del dominio, prendendo come guida Virginia Woolf, ma NON TANTO L’AUTRICE DI QUEI CLASSICI DEL FEMMINISMO da tutti citati che sono Una stanza tutta per sé […] o Le tre ghinee […], quanto la scrittrice di Al faro che, grazie probabilmente all’anamnesi favorita dal lavoro di scrittura […], propone un’evocazione delle relazioni tra i sessi LIBERATA DA TUTTI I CLICHES SUL SESSO, IL DENARO E IL POTERE che i suoi testi più teorici ancora comportano (DOM, p. 76; maiuscoletto mio; trad. it. pp. 83-84).

Ci si potrebbe domandare com’è che l’anamnesi dell’infanzia borghese nel lavoro di scrittura di François Mauriac (che per di più è insospettabile di femminismo [40]) non gli abbia impedito di scrivere quel «cliché» sul sesso, il denaro e il potere costituito dal personaggio di Thérèse Desqueyroux, che è una delle più belle evocazioni della reclusione delle donne:

Si alzò, aprì la finestra, sentì il freddo dell’alba. Perché non fuggire? Solo quel davanzale da scavalcare. […] Già Thérèse trascina una poltrona, l’accosta alla finestra. MA NON HA DENARO; POSSIEDE INUTILMENTE MIGLIAIA DI PINI: non può riscuotere un franco senza la mediazione di Bernard [suo marito] (Mauriac [1927] 1989, p. 115; maiuscoletto mio; trad. it. p. 102).

Se, di Al faro [41], Bourdieu ha ben compreso il personaggio del signor Ramsay e il suo egotismo tipicamente maschile, che ne è della signora Ramsay? Aggrappandosi sempre al suo schema maschile/femminile // alto/basso // dritto/curvo, etc., egli ha scelto di ricordare, del personaggio, soltanto ciò che conforta la sua tesi sulle «disposizioni subalterne» (affettive e corporee). Ora, se c’è qualcuno che non sembra aver affatto «incorporato» la passività e la tendenza a curvarsi, è proprio lei. È lei a porre le vere questioni metafisiche, e a questo livello manifesta la sua dirittura. La signora Ramsay non è tutta raccolta nell’attenzione e nella «lucidità inquieta e indulgente» (DOM, p. 76; trad. it. p. 84) verso suo marito, che Bourdieu privilegia. Ella tenta di creare un’armonia di cose e di persone, che è in effetti il compito delle donne e della padrona di casa che è, ricevendo degli invitati, ma spesso lascia la casa per le sue faccende, di cui non informa nessuno, e anche lì parte, ben diritta. Quanto alla «curvatura», l’inclinazione della testa, il silenzio davanti alle idiozie di suo marito, quello che Bourdieu non ha ricordato, tra le altre cose, sono le numerose annotazioni nel romanzo sulla sua stanchezza [42]. Egli non ha nemmeno voluto capire il personaggio di Lily Briscoe, pittrice nubile, ribelle alla presenza greve del signor Ramsay e affascinata dalla signora Ramsay (ancorché seccata dai suoi tentativi di fare sposare tutti quanti e dalla sua debolezza verso il marito) — Lily che è il contrappeso o il contrappunto (e non il contrario) della signora Ramsay, vale a dire che i due personaggi sovrapposti restituiscono l’armonia (o piuttosto la disarmonia) d’insieme dell’esperienza delle donne.

Ricordare delle «donne» unicamente quel che si presta a mostrare che esse «aderiscono» agli schemi degli uomini (o che sono delle puttane, e non è il caso di Bourdieu, ma di altri) è molto classico. Non meno classica, ma a mio parere insufficientemente sottolineata, è l’eliminazione delle ragazze da una quantità di riflessioni sulle «dooonne», quale che sia il campo, «scientifico» o letterario [43]. Ne è una prova ulteriore la rapida presentazione del romanzo, «ridotto a un riassunto scolastico» (ACT, p. 22, soppresso in DOM), fatta dal Candidato. Abbiamo letto, relativamente alla fine del romanzo, che dieci anni dopo la morte della signora Ramsay suo marito infine intraprende la gita al faro, con suo figlio. In realtà, il signor Ramsay è accompagnato da un figlio (James) e da una figlia (Cam). Da un punto di vista «scolastico», il riassunto era già da valutare come «cattivo», dato che aggiungere «e sua figlia» (dodici caratteri spazi inclusi) a «con suo figlio» non avrebbe allungato molto il testo. Ma non è questo il problema principale. Per comprenderlo, occorre sapere che nella sua analisi della resistenza dei bambini in generale all’obbligo di sottomettersi ai diktat paterni, non viene citata che la resistenza interiore di James (DOM, p. 79; trad. it. p. 87). Ora, alla fine del romanzo, sulla barca che li conduce al faro, non solo Cam e James — legati da un patto contro il loro padre: «resistere alla tirannia fino alla morte» (V.W., p. 221, 227 e altrove; trad. it. p. 148) — gli oppongono entrambi un silenzio feroce, ma mentre James teme che lei finisca per capitolare come le donne, perché una volta ha risposto a una domanda di suo padre (V.W., p. 225-227; trad. it. pp. 150-151), Cam, cosciente dell’affetto che nonostante tutto nutre per lui, si dice guardando James: «Tu non sei esposto a questa passione, a questo conflitto di sentimenti, a questa straordinaria tentazione» (V.W., p. 228; trad. it. p. 153). Woolf, attraverso la ragazza, ci fa vedere la coscienza che le donne hanno di essere divise, la coscienza delle contraddizioni. Ma di più: Cam osserva in suo fratello, a cui (naturalmente) è stato affidato il timone, la stessa ricerca maschile di approvazione che Woolf descriveva nel signor Ramsay: «Suo padre l’aveva apprezzato. Dovevano credere che lui era perfettamente indifferente. Ma l’hai ottenuto, pensò Cam» (V.W., p. 274-275; trad. it. p. 183).

Se il Candidato si fosse veramente interessato all’esperienza delle donne, e avesse fatto il confronto tra le due categorie, avrebbe forse rinunciato a parlare di «contraddizioni» trattando della classe degli uomini. Quale che sia la società in questione, se c’è dominio maschile, il problema degli uomini è quello di un adattamento tra capacità socio-individuali e ideale dell’Io virile implicato dall’ideale sociale della virilità, che è anche il modello ideale dell’umano. Il problema delle donne consiste effettivamente nelle contraddizioni tra l’imposizione (e non solo simbolica né inconscia) di una personalità individuale e sociale ridotta e determinata in minore umanità, e il sentimento della propria «umanità» e libertà, della propria indeterminazione [44]. Perché nessun essere umano — fosse pure nelle peggiori condizioni di oppressione o di degradazione imposta — può non pensare se stesso.

Le dominate non fanno che piegarsi allo schema inconscio di se stesse e dei dominanti che il sistema procura loro. E non hanno bisogno di essere intellettuali di alto livello per cogliere, se non teorizzare, che qualcosa non va, non fosse che di fronte al disprezzo, agli insulti, alle percosse e alle limitazioni della loro esistenza [45]. Basta paragonare, all’interno di una stessa area culturale, la lotta contro la loro oppressione di donna e contro le strutture sociali, di Phoolan Devi, piccola contadina analfabeta di bassa casta mallah nell’Uttar Pradesh induista e quella di Taslima Nasreen, borghese istruita del Bangladesh, di famiglia musulmana [46]. Due coscienze all’opera, in condizioni sociali che non potrebbero essere più opposte.

IV. SIMBOLICO, COSCIENZA, RESISTENZA

Tutte le donne hanno coscienza, prima o poi, della loro negazione o della loro umiliazione in quanto persone. La questione non riguarda solo l’inconscio simbolico delle donne, ma il disturbo permanente instaurato dall’oppressione e le condizioni sociali che permettono una resistenza efficace, pensata collettivamente.

Perché se Bourdieu si meraviglia che non ci siano più «trasgressioni, sovversioni, delitti e “follie”», poniamo, sulla piazza della Bastiglia o della Concordia, grazie allo «straordinario accordo di migliaia di disposizioni — o di volontà» che rispettano i simboli (codici di circolazione), bisogna pur sapere che ci sono molti incidenti nonostante il codice di circolazione e di uso delle donne. Le minime resistenze delle donne provocano in effetti degli «incidenti», ma di cui loro sono le uniche vittime e i più frequenti dei quali sono le percosse e le ferite. Dal momento in cui le donne si spostano di un millimetro dal posto (simbolico?) che viene loro concretamente imposto, si deve prevedere la loro uccisione. Bourdieu dice che le condizioni sono cambiate in Cabilia. Lascio agli specialisti la cura di rispondere. Ma è informato della quantità di suicidi di ragazze [47] nell’Algeria «moderna», dove viene mantenuto in maniera del tutto consapevole dall’assemblea degli uomini e contro il parere dei movimenti delle donne un «codice» di famiglia che non ha nulla della violenza simbolica dolce e invisibile che gli interessa? Sa che nell’Afghanistan dei Talebani che applicano alla lettera e con la forza il simbolismo «donna=interno / uomo=esterno», delle donne si suicidano o, secondo testimonianze recenti, escono per la strada urlando, letteralmente colte da «follia» [48]? Follia che è una forma di coscienza.

Bourdieu mi rimprovera [49] (DOM, pp. 46-47; trad. it. p. 52) di non aver saputo abbandonare il «linguaggio della coscienza» nel mio articolo L’Arraisonnement des femmes sulla coscienza dominata delle donne e le interpretazioni che ne vengono date. Diciamo rapidamente che non ho utilizzato la parola «coscienza» né in uno dei numerosi sensi filosofici né in senso psicoanalitico, ma per essere compresa da ciascuna. In effetti, contrariamente alla maggior parte degli scritti del Candidato, che, terribilmente tortuosi, sono accessibili esclusivamente ai suoi pari in «capitale culturale» (e, ancora, alla condizione di non addormentarsi), la maggior parte degli scritti femministi, anche quelli specialistici, hanno avuto dall’inizio dei movimenti femministi e dei Women’s Studies, la volontà di essere condivisi dal numero più grande possibile di donne. E se ci fosse bisogno di rifugiarsi sotto l’ala di un grand’uomo, ci si potrebbe riferire a Freud stesso, che evocava la coscienza come «un fatto senza equivalenti che non si può spiegare né descrivere […]. Tuttavia, quando si parla di coscienza, ciascuno sa benissimo, in base alla propria esperienza più intima, che cosa si intende» [50].

Per un verso, ho parlato anche dell’invasione dell’inconscio delle donne per effetto della loro situazione oggettiva di subordinazione agli uomini, e della strutturazione dell’Io che ne scaturisce — precisamente a partire da uno studio di Sarah LeVine (1982) sui sogni di ragazze Gusii, nel sud-ovest del Kenya —, e anche della strutturazione della personalità dei dominati tramite la paura, che non è per forza cosciente. Per altro verso, questo orientamento sulla coscienza era necessario nella misura in cui il testo voleva rispondere in parte alle affermazioni di Maurice Godelier (1982) sul consenso dei dominati alla dominazione, che sarebbe «più forte» della violenza dei dominanti. Ma lasciamo stare. Bourdieu non vuole «ripetere» gli altri, io non voglio ripetermi.

Di fatto, non parliamo della stessa cosa. Bourdieu si riferisce agli effetti materiali del simbolico (incorporazione) — dove d’altra parte nulla prova che sia soltanto il simbolico in gioco — e io agli effetti, nella coscienza e nell’inconscio, delle costrizioni materiali, fisiche e psicologiche. Non ho spinto, dice lui, «fino in fondo l’analisi delle limitazioni delle possibilità di pensiero e di azione che il dominio impone alle oppresse» (p. 47, corsivo di P. B.; trad. it. p. 52). Non ne dubito. Ma l’enfasi che, all’inverso, egli pone sulle strutture inconsce non permette di comprendere le resistenze, individuali e ancor meno collettive. Le femministe — e con questa parola non intendo soltanto i movimenti che si designano così, ma ogni donna che resiste —, le femministe cadono dal cielo? Mi sembra che il compito più urgente sia quello di approfondire l’analisi delle diverse forme di resistenza al sistema da parte delle donne, e dei meccanismi di resistenza degli uomini a queste resistenze.

È interessante confrontare oggi i rispettivi argomenti dei due autori. In Maurice Godelier trovavamo un’attenzione ai soggetti-donna e un riconoscimento esplicito della violenza concreta che possono subire da parte degli uomini; ma, poiché esse «acconsentono al loro dominio», «condividendo» la visione maschile dei rapporti tra i sessi, gli uomini non devono darsi troppa pena per stabilire il loro potere (a parte una minaccia di violenza che si profila «all’orizzonte»). L’autore riteneva che il dominio maschile fosse preterintenzionale, e si aveva quasi l’impressione di un’accettazione quasi intenzionale da parte delle donne. Ho tentato di mostrare, fra le altre cose, che il suo ragionamento era di fatto basato su una simmetrizzazione delle due categorie, sul modello di un contratto come questo può esistere tra pari, tra uguali, e di cui ciascuno conosce i termini; ma ho mostrato anche che le donne non hanno conoscenze uguali a quelle degli uomini, né sulla società né sulla concezione (specialmente mitica e rituale) dei sessi. In breve, in Maurice Godelier, le donne erano costruite come «troppo-soggetti», troppo coscienti si potrebbe dire.

In Bourdieu, troviamo un’attenzione maggiore al soggetto-uomo, con un grande interesse per le sue sofferenze, che egli attribuisce a torto a una serie di contraddizioni mentre si tratta di un problema di adattamento, trascurando contestualmente l’effetto di disturbo che le contraddizioni reali dell’esperienza comportano per le donne. Anche lui tiene a dire, in forme diverse, che non c’è un complotto maschile intenzionale, cosa facile dal momento che insiste principalmente sull’incorporazione da parte dei due sessi degli schemi inconsci del dominio maschile. Tuttavia, abbiamo visto gli stessi effetti di simmetrizzazione delle due categorie, i quali conducono a insinuare che le donne costruiscono la loro oppressione tanto quanto gli uomini costruiscono il dominio, ma nell’incoscienza.

Per Godelier le donne «acconsentono», per Bourdieu le donne «aderiscono», perché in entrambi i casi si suppone che le conoscenze siano comuni e simili:

La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che il dominato NON PUO’ NON ACCORDARE al dominante (quindi al dominio) quando, per pensarlo e per pensarsi, o meglio, per pensare il suo rapporto con il dominante, DISPONE SOLTANTO di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata del rapporto di dominio, fanno apparire questa relazione come naturale […]. (DOM, p. 41, maiuscoletto mio; trad. it. p. 45).

Le donne sono «troppo-soggetti» in Godelier, mentre sono «extra-soggetti» per Bourdieu. Che esse siano fuori tema (non sanno trattare il loro soggetto di studio e di lotta), è in ogni caso ciò che pensa Bourdieu delle femministe. Mi vedo ancora obbligata a segnalare un’altra maniera che ha il Candidato di deformare e caricaturizzare la riflessione dei movimenti femministi, caricatura di cui si trova un’eco nel suo attacco alla «filosofia della coscienza»:

Se è vero che, anche quando SEMBRA [notare il termine] fondato sulla forza nuda, quella delle armi, o del denaro, il riconoscimento del dominio presuppone sempre un atto di conoscenza, ciò non significa affatto che si abbia ragione di descriverlo nel linguaggio della coscienza, in una prospettiva intellettualistica e scolastica che, come in Marx (e soprattutto coloro che, seguendo Lukács, parlano di “falsa coscienza”) porta ad attendersi l’affrancamento delle donne dall’EFFETTO AUTOMATICO della “presa di coscienza”, ignorando, in mancanza di una teoria disposizionale delle pratiche, l’opacità e l’inerzia che risultano dall’inscrizione sociale nel corpo [51]. (DOM, p. 46, maiuscoletto mio; trad. it. p. 51).

Se c’è qualcuno che sa che la presa di coscienza non ha «effetto automatico», sono proprio le dominate in lotta! Altrove nel libro (DOM), le femministe, nell’incapacità in cui si trovano di condurre la loro lotta senza mentore, vengono attaccate in termini più diretti, specialmente a proposito dei «gruppi di coscienza» all’esordio del movimento, che sono ricondotti dall’autore a una sorta di individualismo inefficace. Il mentore non ha dovuto fare molta militanza, quale che sia, se non sa che il debutto di un movimento collettivo, l’unico che possa dispiegare un’efficacia nel futuro, ha bisogno di individui che si parlano. Pare che, parlando di donne, Bourdieu sia regredito in rapporto alle sue riflessioni precedenti. Così si poteva leggere nel 1980:

Nella lotta ideologica tra gruppi (classi di età o classi sessuali, per esempio) o tra le classi sociali per la definizione della realtà, alla violenza simbolica, come violenza misconosciuta e riconosciuta, dunque legittima, SI OPPONE LA PRESA DI COSCIENZA dell’arbitrio, che spossessa i dominanti di una parte della loro forza simbolica abolendo il misconoscimento (maiuscoletto mio) [52].

Pare anche, parlando di donne nel rapporto uomini/donne, regredire rispetto alle sue posizioni più tarde, cioè l’Appendice attuale a Il dominio…:  «Qualche questione sul movimento gay e lesbico», movimento al quale dà più credito che al movimento femminista, che non cessa di attaccare bassamente nel libro. Sembra che Bourdieu si indirizzi al movimento omosessuale (principalmente maschile) per apportargli i suoi consigli e al movimento femminista per chiudergli la bocca [53]. Niente di stupefacente in questo. I movimenti gay misti dis-locano la questione dell’eterosessualità sociale concentrandosi sulla sessualità; una parte dei movimenti femministi e lesbici non misti colloca il sistema dell’eterosessualità obbligatoria e l’organizzazione della riproduzione al cuore dell’oppressione delle donne, e questo è più minaccioso.

Nicole-Claude Mathieu – Illustrazione di Agnes Ricart

V. DELL’AMORE

Veniamo all’amore. Il Candidato vi si riferisce nel post-scriptum (ancorché giudicandolo quasi impossibile), proprio come Lévi-Strauss equivocava/invocava, malgrado lo scambio di donne tra uomini, la ricchezza eterna e misteriosa delle relazioni affettive tra i sessi (apparentemente credendoci). Si tratta, pare, dell’ultima risorsa/speranza degli uomini che constatano l’esistenza del dominio maschile. Richiamiamo questa frase, «incessantemente citata» come direbbe Bourdieu, di Lévi-Strauss:

Ma la donna non poteva divenire solo ed esclusivamente un segno: in un mondo di uomini essa è in ogni caso una persona e nella misura in cui la si definisce come segno ci si obbliga a riconoscerla come produttrice di segni. Nel dialogo matrimoniale tra gli uomini, la donna non è mai soltanto ciò di cui si parla: se da un punto di vista generale, le donne rappresentano infatti una certa categoria di segni destinati ad un certo tipo di comunicazione, tuttavia ogni donna conserva un suo valore particolare che nasce dalla sua capacità, prima e dopo i matrimonio, di svolgere la sua parte in un duo. Al contrario della parola, che è divenuta integralmente segno, la donna dunque, pur facendosi segno, è restata anche valore. Così si spiega che le relazioni tra i sessi abbiano conservato quella ricchezza affettiva, quel fervore e quel mistero che senza dubbio hanno originariamente impregnato di sé tutto l’universo delle comunicazioni umane [54].

L’amore è misterioso e la donna è valore, sempre per gli uomini, è ben noto [55]. Ma torniamo a Bourdieu:

L’ “amore puro” […] invenzione storica relativamente recente […] è certo assai raro nella sua forma più compiuta […]. Eppure esiste, malgrado tutto, SOPRATTUTTO NELLE DONNE, tanto da essere eretto a norma, o a ideale pratico, degno di essere perseguito in sé e per le esperienze d’eccezione che procura (DOM, p. 118, maiuscoletto mio; trad. it. p. 128).

Seguono degli enunciati lirici sulla «sospensione della lotta per il potere simbolico suscitata dalla ricerca del riconoscimento e dalla tentazione correlativa di dominare» (corsivo mio), etc. Dunque, l’amore “puro” esiste ai nostri giorni quel tanto che basta per essere eretto a norma (il sentimento produce la norma…?), e poiché esiste «soprattutto nelle donne», se ne deve concludere che sono le donne a produrre questa norma? Bizzarro, per delle dominate. È un altro dei misteri della donna, senza dubbio.

Inoltre, poiché questo sentimento esiste soprattutto nelle donne (il che è vero), il Candidato non pone più la questione. Come per il simbolismo, o piuttosto la simbolica dei sessi, esso sembra cadere dal cielo con lo Spirito Santo. Tuttavia (p. 73, nota 13; trad. it. p. 81) egli aveva notato un legame con le «strutture oggettive» del dominio:

Se le donne sono particolarmente interessate all’amore detto romantico, lo si deve al fatto che hanno interesse a esserlo: oltre a promettere di affrancarle dal dominio maschile, l’amore offre loro, sia nella forma più comune, con il matrimonio, in cui, nelle società maschili, circolano dal basso verso l’alto, sia nelle forme straordinarie, una via, spesso l’unica, di ascesa sociale [56].

Il guaio è che l’amore è rapportato soltanto a un interesse… quello delle donne, senza che ci venga detto che avere una moglie con il pretesto dell’amore è soprattutto interesse degli uomini (che pur essendo sposati possono garantirsi un’indipendenza sessuale ed esistenziale).

Il fatto è che sotto il sentimento dell’«amore puro» che è inculcato alle donne, si nasconde un’ingiunzione all’amore che maschera la dipendenza strutturale nei confronti degli uomini. La dipendenza economica delle donne e la loro prestazione a senso unico di servizi domestici e affettivi persiste attualmente nelle società occidentali, malgrado i progressi giuridici in altri campi. (È il motivo per cui Bourdieu ha torto nel dire che la famiglia non è più la sede principale del dominio maschile). La semplice constatazione statistica del lasso di tempo, molto più breve per gli uomini che per le donne, oltre il quale ci si risposa o si allaccia una relazione di coppia dopo un divorzio o una vedovanza [57] indica che nell’esperienza l’amore non era così puro, né per gli uomini, né per le donne. Certi uomini provano di fatto amore per la nuova compagna, ed è un doppio beneficio. Altri dicono schiettamente che serve qualcuna che si occupi di loro. Molte donne divorziate non si risposano, anche se alcune continuano a credere all’Amore coniugale [58]. Altre sono realiste come gli uomini; come diceva una donna in lutto per il marito deceduto: «Un uomo che portava a casa [X franchi] al mese…».

Che cos’è la norma dell’amore eterosessuale per le donne, in situazione di oppressione? Già da molto tempo analisi femministe e lesbiche all’interno del movimento si sono poste la questione, perché la grande differenza tra l’oppressione di classe sociale e l’oppressione di classe di sesso è, nel secondo caso, il corpo a corpo obbligatorio tra l’oppressa e il suo oppressore [59]. Obbligatorio in due sensi: richiesto dalla definizione stessa dei «sessi come complementari» e implicante un dispositivo serrato di controllo sociale. Gayle Rubin (1975) analizzando l’articolo di Lévi-Strauss sulla famiglia (1956) — in cui quest’ultimo, insistendo sul carattere artificiale della famiglia, vede nella divisione del lavoro «un mezzo per creare tra i sessi una mutua dipendenza, sociale ed economica […] conducendoli in quel modo a riprodursi e a fondare una famiglia» —, concludeva (già) che Lévi-Strauss non era lontano dal dire che l’eterosessualità, lungi dall’essere naturale, fosse istituita… Ma questa norma pratica dell’amore nel matrimonio (o bisognerebbe dire dell’amore malgrado il matrimonio) non è soltanto il prodotto di «schemi inconsci». Essa è anche scientemente (e commercialmente) mantenuta. «Soprattutto nelle donne», eh sì. Ed è l’oggetto dell’interrogazione del libro di Pascale Noizet, L’idée moderne d’amour. In questa tesi di sociosemiotica [60], Noizet mostra che a partire dal XVIII secolo il matrimonio non è più trattato nella letteratura come una convenzione sociale più o meno soddisfacente, né l’amore come una sfida alle costrizioni della società (Romeo e Giulietta). Ma che l’amore è ormai considerato come un rapporto tra due individui sessuati in conflitto. Dal romanzo psicologico del XVIII secolo alla letteratura popolare del XIX e del XX secolo, e specialmente i romanzi rosa Harlequin, la risoluzione del conflitto si produrrà attraverso la «malattia d’amore» che infine raggiunge miracolosamente («come per incanto», direbbe Bourdieu) l’eroina (e lei soltanto) malgrado le sue precedenti reticenze, e la conduce a «scegliere» il matrimonio. I romanzi rosa, stampati in milioni di esemplari in tutte le lingue, sono dei romanzi d’amore popolari, scientemente destinati alle donne, e la maggior parte delle autrici sono anch’esse donne. Attualmente integrano addirittura una sorta di problematica «femminista» nell’eroina, ma la risoluzione finale del conflitto psicologico è sempre la stessa per la donna: l’amore [61]. Così le donne possono, nell’amore «romanzesco» in cui vengono trattenute per «risolvere» le contraddizioni che potrebbero avvertire, trovare al tempo stesso un’eco dei loro problemi con gli uomini e la garanzia che l’«amore» li trasformerà.

Non era questo il parere di Lily Briscoe, in pieno conflitto psicologico, anche lei (proprio come Cam nei confronti di suo padre). Lily ha appena pensato all’«umiliazione», all’«indebolimento spirituale» che le sembra provocare il matrimonio, a cui «lei non è obbligata»:

[…] sentimenti violentemente opposti […] battagliavano nella sua testa […] È così bello, così eccitante, l’amore, che al suo orlo io tremo […] nove persone su dieci, se richieste, avrebbero risposto che non volevano altro; MENTRE LE DONNE, a giudicare dalla sua esperienza, da parte loro, SENTIVANO PIUTTOSTO CHE NO, NON E’ QUESTO CHE VOLEVANO, non c’è niente di più noioso, puerile e disumano dell’amore. Eppure è anche meraviglioso e necessario. E allora, e allora? [62]

Ho affrontato, certo, solo alcuni dei numerosi punti criticabili del saggio di Bourdieu. Che dire in fin dei conti de Il dominio maschile? Che è un libretto fitto e soffocante; non graffierà gli uomini, ma confonderà un po’ di più, ce ne fosse bisogno, la coscienza delle donne. Una confusione che assomiglia molto a un imbroglio. Per alleviare la mia collera, avrei dovuto scegliere come titolo: «Bourdieu o la dotta ignoranza» [63].

«L’oppressore non intende ciò che dice il suo oppresso come un linguaggio, ma come un rumore. È nella definizione dell’oppressione».

Christiane Rochefort [64]

Ringrazio per gli scambi di vedute Christine Arnault, Michèle Causse, Danielle Charest, Michèle Gerlier, Liliane Kandel, Anne Le Gall e Annie Le Palec.




NOTE

(*) N. C. Mathieu, Bourdieu ou le pouvoir auto-hypnotique de la domination masculine, in Ead., L’anatomie politique II. Usage, déréliction et résilience des femmes, La Dispute/SNÉDIT, Paris 2014, pp. 53-89. Il testo è una versione leggermente modificata del testo pubblicato su «Les Temps Modernes», n. 604, mai-juin-juillet 1999, pp. 286-324. Il «potere ipnotico del dominio» è un’espressione di Virginia Woolf, citata con ammirazione da Bourdieu.

[1] Si tratta della riedizione, grazie al sostegno dell’Associazione nazionale di studi femministi, di due studi fondamentali dell’antropologa italiana: Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», XIX, 3-4, 1979, pp. 5-61 e Fertilité naturelle, reproduction forcée, in N.-C. Mathieu (dir.), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes, Editions de l’EHESS, Paris 1985, pp. 61-146.

[2] Citiamo a proposito di questo libro il bollettino n. 6 (giugno-luglio-agosto 1998) delle edizioni L’Harmattan: «[…] questo saggio intende rispondere a un duplice interrogativo: come e perché i soggetti minoritari, e le donne in particolare, se talvolta prendono la parola nel campo mediatico creando i propri giornali, non riescono a conservarla? Come e perché i media mainstream non danno conto del punto di vista dei soggetti minoritari, in particolare degli eventi che li riguardano?».

[3] Nel suo libro documentato, aspro e spesso molto divertente, Jeanine Verdès-Leroux nota: «È molto imprudente in una conclusione riferirsi all’ultima produzione di Pierre Bourdieu: poiché egli pubblica tutto ciò che dice, rischio nelle prossime tre o quattro settimane di inciampare su un nuovo piccolo tomo…». Eccolo. (Dispiace d’altronde che l’autrice non abbia ritenuto necessario includere nella sua critica l’articolo del 1990).

[4] «La domination masculine», Actes de la recherche en sciences sociales (citato infra con l’abbreviazione ACT); e La domination masculine (citato infra con l’abbreviazione DOM). [Per la traduzione italiana di DOM il riferimento è Il dominio maschile, trad. it. di Alessandro Serra, Feltrinelli, Milano 2009].

[5] Cinque interviste a Bourdieu su Télérama, dal n. 2532 al 2536 (dal 25 luglio al 22 agosto 1998). Lettere dei lettori e commenti nei numeri dal 2536 al 2538. Queste interviste erano state precedute, a beneficio di un pubblico forzatamente più ristretto, dall’anticipazione del Preambolo del libro su Le Monde diplomatique, n. 533, agosto 1998. I redattori del giornale, suppongo, avevano messo come cappello introduttivo in maiuscolo: «La lotta femminista al cuore delle battaglie politiche». Forse non avevano letto il seguito? 

[6] O come Nos dommages et leur intérêts, titolo dato da Monique Plaza (1978) alla sua analisi della giustificazione dello stupro in Michel Foucault. Cfr. https://manastabalblog.wordpress.com/2018/11/14/i-nostri-danni-e-i-loro-interessi/.

[7] «Arma da getto […] che ritorna al proprio punto di partenza se l’obiettivo è mancato» (Le Robert, corsivo mio). Non so se la definizione sia giusta, ma si applica al caso in esame.

[8] Nella sua analisi del personaggio del signor Ramsay in Virginia Woolf, su cui torneremo, Bourdieu parla dell’«avventura intellettuale» come di qualcosa  che permette di conseguire un capitale simbolico di celebrità (ACT, p. 23). In ogni caso, la dura avventura intellettuale delle femministe non ha né questo risultato, né soprattutto questo scopo.

[9] Cfr. Colette Guillaumin, «De la transparence des femmes. Nous sommes toutes des filles de vitrières» (1978).

[10] Esempio di insulto diretto: uno dei miei colleghi, dopo che avevo fatto una comunicazione sull’oppressione generalizzata delle donne a un colloquio di antropologia: «Allora, hai tirato ancora fuori il tuo marchingegno?». È da notare che l’ambiente «scientifico» francese è uno dei più misogini e antifemministi dei paesi occidentali.

[11] Secondo Bourdieu, «[…] anche se non vogliamo certo attribuire agli uomini strategie organizzate di resistenza, possiamo supporre che la logica spontanea delle operazioni di cooptazione […] affondi le sue radici in un’apprensione confusa, e fortemente pervasa di emozione, del pericolo che la femminilizzazione fa correre alla rarità e quindi al valore della posizione, e anche, in qualche modo, all’identità sessuale dei suoi occupanti» (DOM, p. 103, corsivo mio; trad. it. pp. 112-113). Logica spontanea sì, apprensione confusa no. Non si può dimenticare che nei concorsi nazionali degli organismi di ricerca o universitari, le decisioni sono prese attraverso voti che mettono in atto delle strategie di sostegno o di rifiuto delle candidature, e delle alleanze e delle relazioni di clientelismo tra i votanti, oltre che rifiuti ideologici consapevoli. Prenderò a esempio la mia esperienza, non potendo far correre dei rischi supplementari ad altre donne. Ecco alcune reazioni che mi sono state riferite. Alla commissione di sociologia del CNRS, a cui avevo sottoposto diverse volte intorno al 1970 un progetto epistemologico intitolato «Per una definizione sociologica delle categorie di sesso», un uomo meravigliato del reiterato rifiuto opposto alla mia candidatura chiese: «Ma insomma, che cosa avete da ridire contro questo progetto?» — Silenzio. All’EHESS, più tardi, risate grasse scossero l’assemblea quando il mio referente si permise di annunciare: «In qualche modo, la candidata vuole aprire il sesso…». Una candidata donna, sommata a un argomento di ricerca «femminista» che, in più, criticava direttamente la concezione del «sesso» nelle scienze sociali, era un grande «pericolo» per le commissioni. Anche per i candidati: ho sentito dire che uomini che portano avanti ricerche in senso femminista cominciano ad avere qualche difficoltà con l’università… Si troverà nel libro di Michéle Le Doeuff, L’Étude et le rouet (Seuil, Paris 1989), una quantità di dettagli sulla composizione e sul funzionamento delle commissioni, principalmente maschili, delle grandi istituzioni. Si veda anche il suo articolo Gens de sciences bi: le mauvais genre dans l’éprouvette («Nouvelles Questions Féministes», 15, 2, 1993) per esempi precisi dell’ostracismo del mondo accademico nei confronti delle ricerche femministe. E, di Judith Ezekiel, si veda Pénurie de ressources ou de reconnaissances? Les études féministes en France («Nouvelles Questions Féministes», 15, 4,1994). 

[12] D’ora in avanti spesso designato come «il Candidato», per tentare di attenuare «l’effetto bourdieu» [N.d.T.: in minuscolo nell’originale].

[13] Si veda in particolare la sua raccolta di articoli pubblicati tra il 1978 e il 1993: Masculin/féminin. La pensée de la différance, Odile Jacob, Paris 1996; trad. it. di Barbara Fiore, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari 1997.

[14] Si veda la sua raccolta di articoli dal 1970 al 1978: L’Ennemi principal. I – Économie politique du patriarcat (Syllepse, Paris1998).

[15] Una parte dei cui lavori sul pensiero naturalista sono stati riuniti in Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de Nature (1992), articoli tra il 1977 e il 1990; e in Racism, Sexism, Power and Ideology (1995) [trad. it. di Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli, Valeria Ribeiro Corossacz, Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, ombre corte, Verona 2020]. Nella sua opera del 1972, L’Idéologie raciste. Genèse et language actuel, Colette Guillaumin integrava già i sessi nello studio dei meccanismi di naturalizzazione e di razzizzazione.

[16] La presenza del nome di Tabet nell’indice, proprio come quella di Èchard, Journet, Michard e Ribéry non deve illudere. Non si tratta di un riferimento preciso ai loro articoli, ma del semplice fatto che il riferimento bibliografico più preciso all’opera collettiva L’Arraisonnement des femmes comporta, correttamente, i nomi delle co-autrici. L’apprezzamento (apparentemente favorevole) che Bourdieu manifesta di sfuggita (p. 47, nota 65; trad. it. p. 52) per questo libro è d’altronde singolarmente sfasato in rapporto al suo contenuto e ai suoi apporti teorici. È particolarmente curioso, per qualcuno che si interessa al simbolico, che non venga fatta menzione della brillante dimostrazione dei meccanismi inconsci del linguaggio per quanto concerne le categorie di sesso in testi «scientifici» condotta dalle socio-linguiste Claire Michard e Claudine Ribéry: Énonciation et effet idéologique. Les objets de discours “femmes” et “hommes” en ethnologie, in N.-C. Mathieu (dir.), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes, Editions de l’EHESS, Paris 1985, pp. 147-167.

[17] Pierre Bourdieu, Reproduction interdite. La dimension symbolique de la domination économique, «Etudes rurales», 113-144, 1989, pp. 15-36.

[18] DOM, p. 51, nota 70 [trad. it. p. 56]; corsivo mio per sottolineare lo stile impaurito.

[19] Bourdieu polemizza da molto tempo contro Lévi-Strauss a proposito delle strutture di parentela, si veda per esempio Esquisse d’une théorie de la pratique, preceduto da Trois études d’ethnologie kabyle (1972) [trad. it. di Irene Maffi, Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Raffaello Cortina, Milano 2003], ma non sembra essersi interessato al suo articolo sulla famiglia.

[20] Gayle Rubin, The Traffic in Women. Notes on the “Political Economy” of Sex, in Rayna Reiter (ed.), Toward an Anthropology of Women, Monthly Review Press, New York 1975, pp. 157-210. Questo articolo è stato appena tradotto (1998) con il titolo L’économie politique du sexe: transactions sur les femmes et systèmes de sexe/genre in occasione della Giornata di studio organizzata da Nicole-Claude Mathieu su «Lévi-Strauss e le teorie femministe: convergenze e divergenze», che si è tenuta il 16 gennaio 1999 a Jussieu e inaugurava una serie di Giornate su «Le teorie femministe: critiche, prestiti, rotture».

[21] Si veda Gail Pheterson, The Prostitution Prism, Amsterdam University Press, Amsterdam 1996, p. 89, raccolta di articoli apparsi tra il 1983 e il 1995 (Traduzione francese aumentata 2001).

[22] Cronologia…1 — 1985: Nicole-Claude Mathieu, «Quand céder n’est pas consentir. De la conscience dominée des femmes et de quelques-unes de leurs interprétations en ethnologie», in Nicole-Claude Mathieu (a cura di), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes; 2 — 1987: Recensione di questo libro di Jeanne Favret-Saada: «L’arraisonnement des femmes», Les Temps Modernes; 3 — 1991, ripubblicazione dell’articolo di Nicole-Claude Mathieu nella sua raccolta L’Anatomie politique. Catégorisations et idéologies du sexe, Côté-femmes éditions, «Recherches», Paris.

[23] Uno dei suoi articoli (1989) è ben sottotitolato «La dimension symbolique de la domination économique».

[24] Notiamo che il Candidato, che si considera ormai l’illustratore, per non dire lo scopritore, della «costruzione sociale del sesso» (titolo di un’altra e quasi analoga versione del suo articolo di ACT, anch’essa pubblicata nel 1990 in Reherches sur la philosophie et le langage, tome XII) — idea difesa da trent’anni dalle femministe radicali, fra le altre tramite la nozione di classi di sesso (nel senso marxiano della classe) — utilizzava ancora il termine sociologico-biologico di «classi sessuali» nel 1980 ne Il senso pratico (p. 230, nota 27; trad. it. p. 208), libro a cui non cessa di rinviarci ne Il dominio maschile. Torneremo su questa nota, a fronte della quale certi argomenti de Il dominio…presentano una regressione.

[25] «Interloquire (1450). I. Interrompere (un affare, un processo) attraverso un giudizio interlocutorio». — «interlocutorio (1283). Si dice di giudizi preliminari che deliberano su una misura istruttoria o di grazia pregiudicando lo sfondo della domanda». — «Pregiudicare. II Prendere una decisione provvisoria su (qualcosa), lasciando prevedere il giudizio definitivo» (Le Robert).

[26] A tal proposito, ricordiamo che Virginia Woolf, come tante bambine e ragazze, ebbe a subire gli assalti sessuali dei suoi fratellastri: Gerald quando aveva sei anni (lui ne aveva diciotto), e George, intorno ai vent’anni (lui era molto più grande). Quest’ultimo fu anche un tiranno in famiglia, al pari del padre di Virginia. Vedere fra le altre Phyllis Rose, A Woman of Letters: The Life of Virginia Woolf, Oxford University Press, Oxford 1978 (trad. it. di Cristina Bertea, Virginia Woolf, Editori Riuniti, Roma 1980).

[27] Vedere il volantino «Justice patriarcale et peine de viol» («Giustizia patriarcale e pena di stupro»), riprodotto in Alternatives, n. 1, «Face-à-femmes», 1977.

[28] Vedere Paola Tabet, Fertilité naturelle, reproduction forcée (1985) e, per uno studio in Francia, Hugues Lagrange e Brigitte Lhomond (a cura di), L’Entrée dans la sexualité, La Découverte, «Recherches», Paris 1997.

[29] L’autore aggiunge «che circolano dal basso verso l’alto». Può darsi che pensi alla Cabilia o al Béarn, tuttavia non è inutile segnalare che in alcune società stratificate, le donne «circolano» dall’alto verso il basso nello scambio matrimoniale, e non ne sono meno dominate.

[30] È anche ciò che rimproveravo a Maurice Godelier nel suo impiego della vecchia idea di «consenso dei dominati» a proposito delle donne nel suo libro La Production des grands hommes. Pouvoir et domination masculine chez les Baruya de Nouvelle-Guinée, Fayard, Paris 1982. Vedere Nicole-Claude Mathieu, Quand céder n’est pas consentir… (1985).

[31] Per non parlare dell’assenza di equivalenza tra circoncisione ed escissione sul piano fisico e psicologico, ma anche mitico-rituale. Vedere Nicole-Claude Mathieu, Relativisme culturel, excision et violences contre les femmes, in Sexe et race: Discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle, Revue du CERIC, Paris 1994b.

[32] Vedere Nicole-Claude Mathieu, Études féministes et anthropologie, in P. Bonte, M. Izard (dir.), Dictionnaire de l’ethnologie et de l’anthropologie, PUF, Paris 1991.

[33] Vedere fra le altre la citazione riportata infra, alla nota 60.

[34] Per una storia e una presentazione delle differenti analisi critiche femministe fino al 1985, vedere Nicole-Claude Mathieu, Critiques épistémologiques de la probématique des sexes dans le discours ethno-anthropologique, Rapport pour l’UNESCO, Réunion internationale d’experts: “Réflexion sur la problématique féminine dans la recherche et l’enseignement supérieur”, Lisbonne, 17-20 sept. 1985, ora in Ead., L’anatomie politique. Catégorisations et idéologies du sexe, Éditions iXe, Donnemarie-Dontilly 2013, pp. 69-118 (trad. it. di Susanna Lazzarini, Critiche epistemologiche sulla problematica dei sessi nel discorso etno-antropologico, «DWF», 10-11, 1989, pp. 8-54).

[35] Vedere la rubrica Chroniques du sexisme ordinaire apparsa su Les Temps Modernes dal dicembre 1973 al novembre 1983 (pubblicazione parziale per Seuil, nel 1979).

[36] Il gruppo «Psychannalyse et Politique» e le sue edizioni, Des Femmes. Avendo sufficiente capitale economico per pubblicizzarsi all’estero (specialmente negli Stati Uniti, negli ambienti letterari) dove si è fatto passare con successo per «il» femminismo francese, si dichiarava antifemminista all’interno delle frontiere nazionali e fu in effetti molto rapidamente in rottura politica reciproca con l’insieme del movimento, fino al punto di tentare di cancellarne l’esistenza appropriandosi giuridicamente della sigla MLF. Vedere fra le altre Chroniques d’une imposture. Du Mouvement de libération des femmes à une marque commerciale, edito dall’associazione «Mouvement pour les Luttes Féministes», Voix Off, Paris 1981. Vedere anche Françoise Picq, Libération des femmes. Les Années mouvement, Seuil, Paris 1993.

[37] Mille scuse per usare il noi e non seguire, in questo modo, la lezione che il Candidato «ci» impartisce a p. 123, nota 4 [trad. it. p. 133]: «Rivendicare il monopolio di un oggetto qualsiasi (anche attraverso il semplice uso del “noi” che ha corso in certi scritti femministi)…» (corsivi miei), vedere infra, nota 53.

[38] Sulla differenza di linguaggio, e quindi di costruzione d’oggetto, tra ricercatori uomini e ricercatrici femministe, vedere Claire Michard, Mouvement de libération des femmes et affrontement discursif entre auteurs scientifiques, «Journal des anthropologues», 45,1991, pp. 53-65.

[39] Michèle Causse, L’Interloquée, Les Oubliées de l’oubli, Dé/générée. Essais, Trois guinées, Laval 1991, p. 15.

[40] Lui che, all’uscita del Secondo sesso, aveva detto di sapere tutto ormai sulla vagina della signora de Beauvoir. Vedere Ingrid Galster (ed.), Le ‘Deuxième Sexe’ de Simone de Beauvoir,  Presses de l’Université Paris-Sorbonne, Paris 2004, p. 16, nota 44.

[41] Virginia Woolf, La Promenade au phare (1927), citato infra come V. W. nell’edizione tascabile 1983 [trad. it. di Nadia Fusini, Al faro, Feltrinelli, Milano 2017].

[42] Ciò che, senza talento letterario, avevo definito la fatica mentale e fisica delle donne. A tal proposito, diverse pagine, magnifiche, di Al faro sono consacrate a descrivere il lavoro e la fatica estrema di due governanti che devono pulire e riaprire la grande casa in riva al mare, abbandonata per dieci anni, dopo la morte della signora Ramsay. È un caso? Certo, tutto ciò permette a Woolf, così attaccata alle cose, di parlare dei mobili, degli armadi, della biancheria, delle imposte, della ruggine, etc., ma niente le imponeva di farlo in questo modo. «Era piegata dalla stanchezza», dice anche Virginia Woolf della signora MacNab (V.W, 1983, p. 178). [Nella traduzione italiana, p. 125: «Scricchiolava, gemeva»].

[43] Le ragazze non sono (molto) presenti in quest’ultimo campo, se non per la soddisfazione erotica maschile.

[44] Altrove (Quand céder…, 1985) ho trattato a lungo delle numerose contraddizioni che mettono le donne in posizione schizofrenica. Per esempio, tra cedere alle pressioni sessuali maschili ritenendosi libera per poi farsi trattare da puttana e non cedere a quelle pressioni per poi farsi trattare da, indovinate cosa. Della mia giovinezza, accanto alla donna rasata, nuda e messa alla gogna del villaggio «liberato» durante la Liberazione, ricorderò la Costa Brava e quel campeggio misto di studenti alla fine degli anni Cinquanta. Una delle ragazze era rinomata per la sua disponibilità sessuale. Alla fine della vacanza, fu incoronata (indovinate da chi) regina del campeggio. Pregata di salire sul podio, sorrideva tutta felice. Poi la vidi barcollare fisicamente, quando (indovinate chi) intonarono: «Oh la puttana / vai a lavarti il culo / sudiciona…». Riprese subito l’equilibrio e rimase dignitosamente dritta.

[45] Mia nonna, operaia dall’età di 13 anni, nel 1900, nelle fabbriche tessili del Nord (nel momento della distruzione dei piccoli contadini e della loro spaventosa incorporazione nell’industria), diceva, al tempo stesso, che «erano necessari» dei padroni per «dare» lavoro agli operai e parlava delle umiliazioni subite ad opera dei borghesi e dei preti e rivendicava la fierezza di ciò che secondo lei era la sua famiglia, «persone perbene, tanto quanto le altre».

[46] Vedere Moi, Phoolan Devi, reine des bandits, Fixot, Paris 1996; precisiamo che, fatta con la registrazione al magnetofono e letta a Phoolan Devi dopo la trascrizione, è l’unica biografia da lei approvata). E Taslima Nasreen, Enfance, au féminin, Stock, Paris 1998.

[47] Statistiche dell’ospedale di Algeri nel 1991, su 889 tentativi di suicidio: 20,4% di giovani uomini e 79,6% di giovani donne, in Rapporto nazionale della rete FEHLA, Conferenza preparatoria per l’Africa (Dakar, 1994) in vista della Conferenza mondiale delle donne di Pechino, 1995; citato da WLMUL (1996, p. 54).

[48] Vedere anche WLMUL (1998).

[49] Prima sotto copertura di qualcun’altra, poi facendo il mio nome (vedere supra I e nota 29).

[50] Citato in Jean Laplanche e Jean-Baptiste Pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, «Conscience (psychologique)». 3e édition, 1971; trad. it. di Luciano Mecacci e Cynthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, tomo I, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 113.

[51] Occorre ricordare che ci sono femministe che non hanno trovato imbarazzante riflettere contemporaneamente sulla coscienza e la resistenza e sull’iscrizione sociale nel corpo? Vedere per esempio Sande Zeig, The actor as activator: deconstructing gender through gesture», o Colette Guillaumin, Le corps construit.

[52] Le Sense pratique, chapitre VIII: «Les modes de domination», p. 230, n. 27; trad. it di Mauro Piras, Il senso pratico, Armando, Roma 2005, pp. 208-209.

[53] Tralascio, ma non completamente, i suoi piagnistei e il digrignare i denti per il «monopolio» che le femministe si arrogano, perché, figuratevi, «si investono dell’autorità assoluta costituita dall’ “esperienza della femminilità”» e gli impediscono (?), a lui, di esprimersi democraticamente: «Rivendicare il monopolio di un oggetto qualsiasi (anche attraverso il semplice uso del “noi” che ha corso in certi scritti femministi) in nome del privilegio cognitivo che si suppone sia concesso dal semplice fatto di essere al contempo soggetto e oggetto, e più precisamente, dal fatto di avere vissuto in prima persona la forma specifica della condizione umana che si tratta di analizzare scientificamente, significa introdurre nel campo scientifico una difesa politica dei particolarismi che autorizza il sospetto a priori, e mettere in discussione l’universalismo che, soprattutto attraverso il diritto di accesso a tutti gli oggetti, è uno dei fondamenti della Repubblica delle scienze». (DOM, p. 123, nota 4; corsivo mio, evidentemente; trad. it. p. 133).

[54] Claude Lévi-Strauss, Les Structures élémentaires de la parenté (première édition, 1949), 1967, p. 569; trad. it. di Alberto Mario Cirese e Liliana Serafini, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 635-636.

[55] Notiamo tuttavia di passaggio che il vantaggio dell’opinione di Lévi-Strauss su quella di Bourdieu è che il primo ci riconosce la qualità di «produttrici di segni». Forse saremmo allora capaci di produrre del simbolico e non solo di incorporarlo in quanto «agenti passivi».

[56] Occorrerebbe non dimenticare neppure la considerevole discesa sociale delle donne divorziate, anche quando si sono sposate all’interno della stessa classe.

[57] Se si considera non già ciascun individuo/a che ritrova un partner, ma l’insieme disponibile dei partner di sesso opposto, la differenza temporale è oggettivamente legata allo scarto di età tra partner maschili e femminili, gli uomini unendosi a compagne più giovani. Il meccanismo è lo stesso che nella poliginia.

[58] Un donna sposata in regime di comunità dei beni e totalmente derubata dal marito truffatore mi ha confidato, dopo il divorzio, che in caso di nuovo matrimonio avrebbe ripreso quel regime perché «è una questione d’amore». Non l’ho vista risposarsi.

[59] Se nei meccanismi di sfruttamento delle classi povere da parte delle classi ricche o della classe schiava da parte della classe dei padroni si realizza anche, è ben noto, lo sfruttamento sessuale delle donne, questo non costituisce una parte integrante della definizione funzionale di queste classi. 

[60] Pascale Noizet, L’Idée moderne de l’amour. Entre sexe et guerre: vers une théorie du sexologème, Editions Kimé, Paris 1996. Vedere anche la recensione di questo libro di Danielle Charest nella rivista Mots/Les langages du politique, 1996.

[61] Certe riviste dette femminili fanno la stessa cosa, mi sembra, mescolando una dose di femminismo con una dose (più forte) di orientamenti «tradizionali».

[62] La Promenade au phare, p. 139-140, maiuscoletto mio; trad. it. p. 94.

[63] La «dotta ignoranza», formula di Pierre Bourdieu, si riferisce alla verità del sapere pratico dissimulata sotto il discorso esplicativo che un agente può darne; «…questa dotta ignoranza non può che dar luogo a un discorso dell’ingannatore ingannato […]» (Esquisse d’une théorie de la pratique, p. 202).

[64] Christiane Rochefort, «Définition de l’opprimé», presentazione della traduzione francese (1971) di Manifesto SCUM di Valerie Solanas, trad. it. di Deborah Ardilli, Definizione dell’oppresso, in Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), a cura di D. Ardilli, VandA-Morellini, Milano 2018, pp. 287-288.

6 dicembre 1975

Femministe ed estrema sinistra nell’Italia degli anni Settanta

6 dicembre 1975. 20.000 donne arrivano a Roma per una manifestazione sull’aborto. I giovani del servizio d’ordine di Lotta Continua, guidati da Erri De Luca, tentano di sfondare il corteo in nome dell’unità di classe. La sera stessa le donne di Lotta Continua invadono la riunione del Comitato nazionale e accusano di fascismo i compagni. Il giornale dell’organizzazione glissa e l’indomani titola: “20.000 donne da tutta Italia per il loro diritto alla vita, per la morte di questo governo”. Il 12 dicembre interviene Adriano Sofri per ricordare la chiave tutta antifascista della manifestazione contro gli assassini del Circeo e fare di quel crimine, che a suo dire “appartiene tutto intero alla borghesia e alla sua oppressione”, un richiamo di unità.

Sempre in nome dell’unità di classe, nel luglio del 1972, i militanti del Potere Operaio romano avevano brutalmente interrotto il primo seminario separatista sull’occupazione femminile organizzato da Lotta Femminista presso la facoltà di magistero dell’Università di Roma, suggellando l’incompatibilità, anche fisica, tra le ragioni del neofemminismo e quelle della sinistra extraparlamentare. Straordinaria, al riguardo, la testimonianza di Vania Vecchi (militante modenese di Lotta Femminista) sul pestaggio di Roma:

“Eravamo là dentro tante tante donne, in questa atmosfera anche di festa, perché quando ci si vede tra tante persone che vengono da tanti posti diversi con delle idee in testa in comune… Quando si entrava bisognava passare in mezzo a due file di ragazzi grandi e grossi, che mostravano il pugno, inveivano e io ancora non avevo capito chi fossero, dopo, quando siamo là dentro, c’è tutta una vetrata enorme, io tra l’altro ero anche abbastanza vicina. A un certo punto si rompono le vetrate e cadono dei pezzi di ghiaccio lunghi così e ci piovevano addosso… Sei o sette ne hanno tirati, roba da cinema. Puoi figurarti, le urla, il casino, il fuggi fuggi. Questi ci assediavano dentro la sala, dopo aver buttato il ghiaccio erano venuti tutti davanti alla porta. Noi per forza dovevamo passarci in mezzo e alcune dicevano che ci avrebbero picchiato. Dissero che l’unica era uscire tutte assieme e una delle Busatta, che erano come le katanga delle femministe, si era cavata le scarpe e le usava come arma. È stata lei che ha aperto l’uscio con le scarpe in mano, e da lì siamo uscite tutte a valanga… In effetti loro menavano, siamo passate in mezzo come succede nei ‘corridoi’ della polizia, tra due ali di deficienti grandi e grossi che urlavano e cantavano l’Internazionale. Io ero talmente allibita che non correvo neanche, davanti a me una signora che avrà avuto quarant’anni è stata presa per la borsa e trascinata nel corridoio e presa a calci per 5-6 metri. C’è stata una vera e propria battaglia e io non avevo capito che quelli erano di Potere Operaio, pensavo che, essendo Roma una città in cui ci sono tanti fascisti, fossero arrivati loro. Alla fine mi ricordo che sono sfilata davanti a ‘sti omaccioni con le loro ragazze di Potere Operaio, se le erano portate, e io, siccome cantavano col pugno chiuso Bandiera rossa e l’Internazionale, a quel punto ho capito che erano i compagni di Potere Operaio e, nel mio sbalordimento e nella mia ingenuità, ho detto: ‘ma ragazzi, anch’io sono una compagna’ e due o tre hanno messo davanti le loro donne dicendo: ‘No, queste sono vere compagne, tu sei una femminista’, come dire ‘sei una merda’, per cui me ne sono andata da sola davanti a questa curva da stadio che intonava l’Internazionale col pugno chiuso alzato”.

(cit. in Deborah Ardilli e Marcella Farioli, “Crisi dell’emancipazionismo e critica del modello emiliano: Lotta femminista a Modena“, in Modena e la stagione dei movimenti. Politica, lotta e militanza negli anni Settanta, a cura di Alberto Molinari, Editrice Socialmente, Bologna 2018).

«La passione secondo Wittig»

di Christine DelphY*

Ringraziamo Christine Delphy per averci nuovamente permesso di tradurre uno dei suoi scritti. La scelta questa volta è caduta su «La passion selon Wittig», apparso sulle colonne di «Nouvelles Questions Féministes» nel 1985, a ridosso della pubblicazione di Virgile, non di Monique Wittig. Nell’intervallo di tempo trascorso da allora la letteratura critica sulla scrittrice francese è lievitata in volume, ma è su questo breve testo di Delphy che occorre tornare per ritrovare, prima ancora delle tesi, lo spessore auto-coscienziale del «movimento» che ha animato la ricerca teorica, letteraria e politica di Wittig. Perché «il meno citato e il più rimosso dei suoi romanzi» (Rosanna Fiocchetto) si presti particolarmente bene allo scopo, è una questione che rinviamo alla curiosità di chi vorrà proseguire con la lettura, sotto la guida di un’interprete acuta come Delphy.

Lena Vandrey, Monique Wittig oder die Krabbe im Sand

***

Quasi contemporaneamente, questa primavera, è stato pubblicato l’ultimo libro di Monique Wittig, Virgile, non, è stata rappresentata la sua ultima pièce, Le voyage sans fin, al teatro del Rond-Point a Parigi, e Vlasta le ha dedicato un numero speciale. Quest’ultimo include due testi inediti di Wittig, testi e riproduzioni di quadri di Lena Vandrey e quattro analisi dei differenti aspetti dell’opera di Wittig, della quale viene fornita anche una bibliografia completa. Queste analisi provengono tutte da ricercatrici e accademiche femministe nord-americane e rappresentano soltanto una piccola parte dei lavori dedicati allo studio di Monique Wittig negli Stati Uniti.

In effetti, sebbene tutti i libri di Wittig siano ben noti alle femministe francesi, finora non sono stati oggetto di studio. Ritardo delle ricercatrici femministe francesi? Indubbiamente, ma anche preferenza, in questo paese, per l’ écriture féminine, che ha suscitato adepte e glosse interpretative. Anche negli Stati Uniti Cixous, Kristeva e Irigaray, tra le altre, vengono studiate e per di più in quanto femministe, il che è per lo meno sconcertante nel caso delle prime due, che proclamano urbi et orbi la propria distanza dal femminismo. Ma almeno Wittig non è dimenticata, anche se talvolta, per effetto di un controsenso al tempo stesso assoluto e inesplicabile, viene messa dalle sue commentatrici nello stesso sacco delle sostenitrici della neo-femminilità che lei stessa denuncia, le apostole della differenza che le danno il voltastomaco, le inventrici della «scrittura di donna» che deride.

Hélène Wenzel, per parte sua, nel «discorso radicale di M. Wittig», una delle analisi pubblicate su Vlasta, non commette questo errore. Wenzel vede chiaramente che l’analisi femminista radicale che è sottesa all’opera letteraria di Wittig, e che è esplicita nei suoi testi teorici, è agli antipodi della corrente della neo-femminilità (o «femminitudine»). Vede anche i legami tra queste posizioni divergenti sulla subordinazione delle donne e la divergenza di posizioni sul lesbismo: Cixous e Psychanalyse et Politique alias «Des femmes» alias il marchio depositato MLF rifiutano il termine «femminista», come rifiutano il termine «lesbica», mentre Wittig li rivendica entrambi. Altre correlazioni che non vengono menzionate dalle autrici di questo numero sono invece significative.

Il secondo libro di Wittig, Les guerrillères (Minuit, 1969) [1], è stata una tappa importante del movimento di liberazione delle donne. Apparve nel 1969, quando Wittig faceva già parte di un gruppo femminista dal 1968. A differenza delle autrici della neo-femminilità, Wittig non è soltanto una scrittrice: è sempre, fin dal principio, una militante. La sua opera letteraria non è separata dalla teoria, né la teoria dall’azione. Se i piccoli gruppi femministi, che esistevano dal 1968, nel 1970 si aggregano per fondare il movimento di liberazione delle donne, è in gran parte grazie a un articolo che Wittig ha scritto con altre tre donne, Pour un mouvement de libération des femmes, e che l’Idiot internationale pubblica nel maggio 1970 sul numero 6, con il titolo Combat pour la libération de la femme (sic) [2]. Ora, questo articolo è stato scritto, poi pubblicato, contro il parere del gruppo di cui Wittig faceva parte, formato da altre quattro donne tra cui — già — Antoinette Fouque, che due anni più tardi formerà il gruppo «Psychanalyse et Politique». Non avendo potuto impedire la creazione del movimento nel 1970, Fouque lo rovinerà propagandando dall’interno, grazie a fondi di origine sconosciuta che finanziano una potente casa editrice («Des femmes»), la linea reazionaria della neo-femminilità — lavoro di sabotaggio che culminerà nel 1979 con la registrazione come marchio commerciale della dicitura «movimento di liberazione delle donne» e della sigla MLF.

Gille e Monique Wittig nel 1974. Foto di Irene Bouaziz

Wittig, presente fin dalla creazione del movimento, partecipante alla sua costruzione, sarà anche una delle fondatrici delle Féministes révolutionnaires, quindi delle Gouines Rouges, il primo raggruppamento di lesbiche (all’epoca si diceva ancora «omosessuali» e la terminologia ha grande importanza) all’interno del movimento. In seguito partecipa per due anni, dagli Stati Uniti dove risiede, alla redazione di Questions féministes, dove pubblica una magnifica «utopia», Un jour mon prince viendra (Q.F. n. 2) e due testi teorici importanti, La pensée straight (Q.F. n. 7) e On ne naît pas femme (Q.F. n. 8) [3]. Quest’ultimo articolo, benché non sia stato all’origine della scissione del collettivo di Q.F. e benché non abbia nemmeno ispirato direttamente il movimento delle «lesbiche radicali» che fu la causa immediata della rottura, tuttavia conteneva già i germi della posizione separatista, il che spiega la posizione che, all’epoca, Wittig prese nel corso della disputa.

Ma per quanto si possano discutere le conclusioni politiche che le separatiste traggono dall’analisi femminista radicale, per quanto si possano giudicare false, o quanto meno goffe, asserzioni come «una lesbica non è una donna» che furono rimproverate a Wittig, si deve pure ammettere che la critica dei presupposti eterosessuali sottesi a molte analisi femministe — e, a maggior ragione, non femministe — costituisce un apporto essenziale alla teorizzazione femminista, e si deve ammirare il percorso personale, intellettuale e politico di Wittig. Molte scrittrici hanno fatto sapere (o hanno lasciato che si sapesse) di essere «omosessuali», ma Wittig è stata la prima — e, ad oggi, l’ultima — ad avere collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro del lavoro di scrittura. Sarebbe troppo lungo argomentarlo, perciò mi accontenterò di affermare quanto segue: la maniera in cui Wittig integra, o piuttosto inventa, il lesbismo è unica negli annali della letteratura francese.

Il pubblico — il vero pubblico degli scrittori, cioè il piccolo mondo dei critici — non si è ingannato: ha fiutato la sovversione e ha smesso di parlare delle opere di Wittig non appena queste hanno iniziato a intitolarsi Les corps lesbien e Brouillon pour une dictionnaire des amantes [4]. Da pupilla — giovane autrice geniale dell’Opoponax (1964), Premio Médicis [5] — della classe letteraria francese Wittig è diventata, in pochi anni, una paria in quel mondo che fa e disfa le carriere letterarie. La messa al bando da parte dell’establishment sanziona, ma misura anche con grande esattezza, l’importanza del ruolo svolto da Wittig nella creazione del movimento femminista e nella considerazione della dimensione lesbica. Ancora una volta, il modo in cui ella introduce questa dimensione può essere soggetto a cauzione e a discussione, ma il fatto che i progressi della teoria femminista passino attraverso la decostruzione degli schemi di analisi eterosessuali che informano implicitamente la nostra visione del mondo è indubitabile. Il fallimento del movimento (considerato globalmente) nel realizzare questa decostruzione, d’altra parte, non ha soltanto conseguenze teoriche; in effetti, come non collegare l’insufficienza della posizione femminista «standard», che integra le lesbiche su una base liberale, come casi sociali, e la situazione con cui facciamo i conti oggi, ovvero l’alienazione delle nuove generazioni di lesbiche dal movimento femminista?

Ma forse l’apporto più duraturo di Wittig, nel senso che è quello che rimarrà nella storia perché richiede un talento anche peggio distribuito del coraggio politico, consiste nell’avere, se non inventato il genere letterario, scritto le forme più perfette di utopia femminista. Nel numero 9/10 di N.Q.F. dicevo che «le utopie femministe, quando sono riuscite, sono oggetti al tempo stesso molto belli e molto utili», facendo l’esempio del Brouillon. Il ruolo dell’utopia nella scrittura rivoluzionaria certamente è già stato studiato. Utopia e teoria sono le due facce di una stessa ricerca: potremmo dire che la teoria è la faccia, o la fase, negativa dell’analisi di ciò che è, e l’utopia è la faccia, o la fase, positiva. Quando si tengono in considerazione le funzioni complementari dell’utopia e della teoria, l’opposizione fra ragionamento e immaginazione viene meno. Perché per contestare ciò che è, bisogna avere un’idea di ciò che potrebbe essere: occorre dell’immaginazione anche per elaborare la teoria a prima vista più «arida»; e, viceversa, è possibile immaginare un altro mondo soltanto a partire da un’analisi delle carenze del nostro. E, tuttavia, l’utopia è un bene più raro della teoria. Forse perché la teoria consiste soprattutto nella critica, e perché «la critica è facile», mentre l’utopia richiede arte, e «l’arte è difficile»? Ad ogni buon conto, l’utopia è altrettanto necessaria della teoria; quest’ultima dice: «le cose non sono necessariamente così» («It ain’t necessarily so» — Porgy and Bess), ma l’utopia lo mostra. La teoria parla astrattamente di altre possibilità, l’utopia dà a vedere la realizzazione di una di queste possibilità, ed è la cosa che ci convince meglio, o più rapidamente, della contingenza del nostro mondo. Se Les guerillères restano una pietra miliare nella storia del femminismo e della letteratura è perché Wittig ha fatto precisamente questo: vi descrive nel dettaglio gli odori, i colori, i rumori, i fiori di un mondo, i vestiti, i movimenti, i sentimenti di esseri che non esistono e non sono mai esistiti, come se li avesse visti, e questa è la definizione esatta dell’utopia. Non è stupefacente che quest’opera abbia riempito di ammirazione, ma soprattutto d’ispirazione, tante donne, fra cui Lena Vandrey, che nello stesso periodo aveva cominciato a dipingere la serie di giganti selvagge intitolata Cycle des amantes imputrescibles, una parte della quale è riprodotta in questo numero di Vlasta. Vandrey ha realizzato anche le scenografie e i costumi della pièce Le voyage sans fin e questa, a propria volta, ha ispirato una nuova serie di quadri, la Féerie pour Quichotte, anch’essa riprodotta in Vlasta. È una cosa buona e bella che Wittig e Vandrey, che si sono ispirate e stimolate reciprocamente per quindici anni, fornendo ciascuna a proprio modo un contributo importante alla creazione di un universo poetico totalmente nuovo, epico e femminista, siano riunite in questo numero. Forse la visione di queste incorruttibili darà origine, a propria volta, a una nuova razza di donne, anche loro «immarcescibili»?

In Virgile, non (Minuit, 1985) [6] due personaggi, Wittig e la sua guida Manastabal percorrono l’inferno e provano a farne uscire alcune «anime dannate». Raggiungono il paradiso, là dove gli angeli cantano «bella cena della sera», soltanto nell’ultimo capitolo e dopo molte scene di orrore. «Donne» e «uomini» sono le due parole assenti dal testo, per lo meno nel loro senso sessuato. Ma la parabola è chiara: le anime dannate, che sono «esse», vengono perseguitate, tenute al guinzaglio, confinate, stuprate, mutilate da individui dai pronomi («egli», «essi») maschili. I diversi luoghi dell’inferno, o meglio le diverse scene di tortura, sono soprattutto allegorie — talvolta a malapena allegoriche, tanti sono gli elementi reali, descrittivi, che vi sono mescolati — dell’oppressione delle donne da parte degli uomini. Si tratta dell’oppressione delle donne nella, e per mezzo della, eterosessualità. Alla quarta pagina un’anima dannata prende la parola (tra parentesi) e ne approfitta per insultare Wittig, trattandola da «lesbica repellente» e anche «puzzolente»; alla quarta pagina inizia il dialogo tra «quella che dice di non esserlo» e «quella che lo è», ma preferisce «farsi fottere, scopare, sbattere, trombare da un nemico che ha quel che serve, piuttosto che da te che non ce l’hai». Si tratta per altro di uno dei modi — l’innocente Wittig lo apprenderà nel corso di questo viaggio iniziatico — con cui «gli individui», alias «i padroni» o «i cacciatori» impediscono alle anime dannate di fuggire: instillando in loro la paura delle lesbiche dal corpo ricoperto di scaglie che le attendono alle porte dell’inferno per fare subire loro sevizie ancora peggiori di quelle inflitte dai «padroni».

Se ci si arresta a questa lettura, si può dire che Virgile, non apporta un messaggio semplicistico e, oltretutto, poco originale. Ma c’è molto di più — e non parlo qui della rinomata bellezza, propriamente letteraria, dello stile di Wittig. In effetti, non è un caso se è proprio una figura di stile a farci visitare l’inferno al seguito non di uno, ma di due personaggi; perché, per tutto il libro, questi personaggi parlano, commentano le scene che vivono, e si parlano. Ed è in questo dialogo che risiede l’energia drammatica del libro, il suo vero movimento, che non è contenuto né nella descrizione statica dei cerchi dell’inferno, né nel messaggio relativo all’eterosessualità che, come abbiamo visto, viene fornito subito.

Fin dall’inizio Manastabal corregge gli errori più grossolani di Wittig che, nella sua foga, metterebbe in pericolo la vita di entrambe senza che questo comporti un beneficio per le anime già spacciate. Manastabal non le insegna soltanto a proteggersi, a venire a patti con l’inferno, a nascondere il fucile, ma anche a preferire l’efficacia allo stile: per esempio, a «riscattare le anime sottobanco». Ma soprattutto, ella appare nel corso delle pagine come la guida classica dei romanzi di iniziazione: il direttore di coscienza che dissimula la propria autorità morale con una tecnica maieutica e che, d’altronde, la nasconde male, perché a p. 38 rimprovera a Wittig la sua «mancanza di etica verso le anime in pena» e le ricorda bruscamente che non ha «alcun diritto di schiacciare le anime con il suo giudizio…». «Tu puoi rallegrarti», le dice Manastabal, «dieci volte, e non una, di avere disertato e di essere una schiava fuggitiva. Tuttavia finché si ha un simile privilegio, è una misera esibizione servirsene per vessare ancora di più le sfortunate creature che ne sono prive».

Come sono lontane, queste frasi di Manastabal, dal discorso separatista che abbiamo conosciuto, e addirittura contrarie ad esso! Potremmo dire che, in Virgile, non, il discorso separatista è rappresentato dal personaggio di Wittig, mentre il personaggio di Manastabal rappresenta la modifica, la revisione di quel discorso. Si potrebbe anche dire che il personaggio di Wittig incarna l’impostazione lesbica radicale (o separatista), mentre quello di Manastabal incarna l’impostazione femminista. Si potrebbe dire, ancora, che entrambe simboleggiano l’ambivalenza di ogni lesbica nei riguardi dell’eterosessualità. Forse si potrebbe addirittura sostenere che ciò che viene messo in scena dalla loro dualità e dal loro dialogo è la lacerazione di ogni coscienza femminista di fronte all’oppressione delle donne. In effetti, non sono soltanto le lesbiche a oscillare senza posa, davanti allo spettacolo delle atrocità subite, tra solidarietà con le vittime e disprezzo per la loro passività reale o immaginata: ogni donna che ha rifiutato una certa — precisa — oppressione è, di fronte a quella che continua a sostenerla, torturata da questa domanda: «davvero non ha altra scelta?», è divisa tra condanna e compassione. E se oscilla tra questi due atteggiamenti è perché esita tra due possibili risposte alla domanda «perché non si ribella?», che bilancia tra l’ipotesi della complicità delle vittime e l’ipotesi della loro non-libertà assoluta.

Il dialogo tra Wittig e Manastabal traduce esattamente questo doppio movimento della coscienza. Laddove Wittig si indigna per la passività delle anime, Manastabal mostra le catene materiali. Ma Manastabal si spinge ancora più in là. Ella non si limita all’unico criterio etico «Non giudichiamo dalla nostra posizione privilegiata», che in fin dei conti implica un’esteriorità. Quando Wittig dice (p. 86): «Tendo sempre a pensare… che solo un certo grado di istupidimento può spiegare perché si resta all’inferno», Manastabal le ritorce contro: «Sono convinta… che le più grandi intelligenze umane si trovano tra le anime dannate… quando esse sono consapevoli di ciò che sta accadendo, vengono sfidate a esercitare questa intelligenza attraverso tutte le leggi che governano il loro mondo». Anche qui, che movimento! In effetti si passa da un atteggiamento eticamente corretto, ma glaciale, di tolleranza, a una comprensione. Allo stesso modo Manastabal non considera le azioni delle anime dannate come puramente determinate dalle necessità della sopravvivenza in un mondo ostile: è lei a spiegare a Wittig che questo spettacolo è orrendo, perché le anime dannate arrivano a suicidarsi reciprocamente piuttosto che lasciarsi uccidere, a mostrare in questo gesto, a una Wittig che vi scorge soltanto morte, la rivolta dello spirito. Alla fine non solo lo spirito, ma lo spirito di rivolta, l’ambivalenza della coscienza femminista che le osserva, vengono attribuite alle anime stesse. Ciò che viene mostrato dalla descrizione di alcune anime che sono «bicefale…con le teste che ballonzolano ora in avanti, ora all’indietro, e i corpi che seguono una direzione ora dorsale, ora frontale… secondo i bisogni, le loro braccia e gambe possono piegarsi sia in avanti, sia all’indietro, poiché i gomiti e le rotule sono reversibili…le teste sono come quelle di Giano, due in una, l’una girata verso il passato, l’altra verso il futuro» (p. 83), è che le anime sono tormentate tanto quanto le loro salvatrici dal doppio volto: che appartengono alla stessa specie.

Siamo lontane dalla condanna separatista, e anche dalla condiscendenza della posizione «etica»; le anime dannate dell’inferno sono identiche agli angeli del paradiso. È un lungo cammino quello che è stato percorso, dall’incomprensione iniziale di Wittig per quelle che vuole salvare, alla confessione di Manastabal: «Non lo nego, è quasi passione quella che provo per l’intelligenza alle prese con se stessa e che non molla». La necessità di percorrere questo cammino, l’affermazione che si tratta di una via crucis, o di un viaggio negli Inferi, sono — ai miei occhi — il vero messaggio di Virgile, non, il suo vero dramma, cioè il suo vero movimento. Di questo movimento si potrebbe dire che è precisamente il movimento oscillatorio e incerto di ogni donna verso tutte le altre. Ma reintegrando in questo modo Wittig in una sorellanza universale, nel migliore dei casi illusoria, nel peggiore sgradevolmente tiepida, non rischiamo di fare dell’ecumenismo a buon mercato? E per di più alle spalle di quel dramma (questa volta nel senso di tragedia) particolare costituito dal dialogo tra sorde che è il dialogo tra lesbiche ed eterosessuali? Si danno in definitiva  — ed è un altro modo di porre la domanda — un cambiamento di posizione in Wittig, come pure un’esplicitazione dell’appello che risuona nelle prime pagine, e formulato più avanti nel libro, in un modo che è stato incompreso o anche platealmente frainteso? Alcune l’hanno messa in croce per avere scritto: «Ci prendono le donne», credendo che lei si ponesse come loro proprietaria putativa, mentre probabilmente, e senza dubbio, Wittig esprimeva la denuncia della lesbica di essere invisibile per le altre donne; se si può «gustare una certa dolcezza nella loro stizza, nel loro risentimento», non è perché il dolore dovuto al fatto che «non una di voi mi guarda» è tanto forte da preferire l’odio all’indifferenza? E la passione di Manastabal — la guida per le anime dannate non era forse già l’amore deluso di Wittig — la — femminista per tutte le donne? Comprese quelle che le «tagliano la strada» (p. 15), che preferiscono a colei che le ama i «cacciatori» e che, ed è la cosa più crudele, non sarà nemmeno confutata — l’accusano di volere, anche lei, «fotterle, scoparle, sbatterle», in breve la confondono con il nemico.           

NOTE

* C. D., «La passion selon Wittig», «Nouvelles Questions Féministes», 11-12, 1985, pp. 151-156.

[1] Le guerrigliere, trad. it. di Ana Cuenca, “Lesbacce incolte”, Bologna 1996 (seconda edizione 2019).

[2] Per un movimento di liberazione delle donne, trad. it. di Deborah Ardilli, in Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), a cura di D. Ardilli, VandA-Morellini, Milano 2018, pp. 231-251.

[3] Il pensiero eterosessuale e Non si nasce donna, trad. it. di Federico Zappino, in Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale, a cura di F. Zappino, ombre corte, Verona 2019, pp. 42-53 e pp. 29-41.

[4] Il corpo lesbico, trad. it. di Christine Bazzin e Elisabetta Rasy, Edizioni delle Donne, Roma 1976; (con Sande Zeig) Appunti per un dizionario delle amanti, trad. it e cura di Onna Pas, Meltemi, Milano 2020.

[5] L’Opoponax, trad. it. di Clara Lusignoli, Einaudi, Torino 1966.   

[6] Virgile, non, trad. it. di Rosanna Fiocchetto, Il Dito e la Luna, Milano 2005.

Solidarietà a Marcella Campagnano. Marketing “femminista” e soppressione della voce.

Questo slideshow richiede JavaScript.

Quello che ho da dire lo dico da sola
Chi ha detto che hai giovato alla mia causa?
Io ho giovato alla tua carriera

Chi ha detto che il potere non lo conosci?
“Occuparsi di” è arroganza intellettuale
Più ti occupi della donna e più mi sei estranea

io dico io, Secondo Manifesto di Rivolta Femminile, 1977

Manastabal dialoga con Marcella Campagnano, autrice del ciclo fotografico L’invenzione del Femminile: Ruoli (1974). Nel gennaio 2018 abbiamo conosciuto Marcella alla Libreria delle Donne di Milano durante la presentazione di Trilogia SCUM di Valerie Solanas. Per l’occasione Marcella ci mostrò una cartolina autografa di Solanas da lei ricevuta nel 1977.

A partire da agosto 2020 il nome di Marcella viene associato – a sua insaputa – alla campagna pubblicitaria internazionale della nuova collezione Dior su diverse testate e riviste di moda, italiane e straniere. Il nostro dialogo con lei era iniziato prima di questa impropria associazione, in vista di un articolo che si sarebbe dovuto intitolare L’invenzione del femminile: Marcella Campagnano e la fotografia femminista. Alla luce di quanto accaduto, tuttavia, ci preme lasciare la parola alla fotografa sull’esproprio che ha subito. La questione, d’altronde, non riguarda soltanto Marcella: come ha ricostruito Elvira Vannini nel suo articolo L’arte femminista non è un brand Dior (2 marzo 2020), già da qualche tempo l’industria della moda parassita il femminismo, appropriandosi di citazioni fuori contesto e di figure storiche della seconda ondata (Carla Lonzi, Robin Morgan) per ricavarne profitto. La collezione prêt-à-porter autunno-inverno di Dior, disegnata dalla Direttrice Creativa Maria Grazia Chiuri, è presentata sul sito della maison (dotata anche di un “Ufficio di Gender Studies“) come “espressione di una visione spiccatamente femminista”: le fotografie delle modelle, realizzate da Paola Mattioli, ricalcano in sedicesimo la famosa serie di immagini, intitolata Ruoli, che Marcella creò nel salotto di casa insieme alle donne del suo gruppo di autocoscienza, in un momento storico di effervescenza politica collettiva. Diverse riviste di moda pubblicizzano l’operazione di Dior come un “omaggio” alla “feminist icon” Marcella Campagnano.

Scrive Marcella:

“So di aver progettato e strutturato (1974) un’immagine ironica e critica, riferita alla complice subalternità, consapevole o meno, che la figura femminile offre, da migliaia d’anni in tutte le culture, alla degustazione maschile. Questo fenomeno oggi si chiama moda. Marcella Campagnano non ha, comunque, nulla a che fare con la campagna pubblicitaria della Dior che si nutre di isolate figure femminili in campo neutro.”

MANASTABAL: Il ciclo fotografico L’invenzione del Femminile: Ruoli, comincia nel 1974. In un’intervista rilasciata a Marco Scotini su Flash Art hai parlato di quel lavoro come di un «teatro dell’esperienza», un modo per registrare «la mobilitazione spontanea, partecipata ed entusiastica di decine di amiche che, in quei giorni, si prestavano allegramente a un gioco di svelamento del proprio essere al mondo, di cui ognuna di noi coglieva la sotterranea induzione da parte di modelli maschili, che da secoli suggeriscono e guidano la nostra possibile o improbabile identità femminile». In qualche modo suggerisci che, al di là dell’apparente variabilità delle identità femminili, resta invariata la “regia” patriarcale che presiede al loro rinnovamento, e addirittura lo sollecita; e parli di una disponibilità diffusa da parte delle tue amiche, evidentemente debitrice della pratica dell’autocoscienza, a fare i conti con la pressione sotterranea esercitata da questa “regia” patriarcale. Come è nata l’idea di Ruoli?

MARCELLA: Fin dai primi anni Sessanta, durante i miei studi all’Accademia, iniziava in tutte/i noi quel processo di revisione critica che toccava ambiti del vivere e del sapere che, fino ad allora, si erano mantenuti come modelli e luoghi di comunicazione sociale. La nuova richiesta, rivolta anche alla Pittura, ha legittimato, poi, quel percorso che porterà a critiche radicali come quella che condurrà alla nuova coscienza femminista. La Pittura nella sua grandezza, era, pur tuttavia, uno dei celebrati strumenti dell’agire maschile.

Picasso e Duchamp erano gli estremi di una vicenda che poneva le figure di donne artiste in posizione subalterna e ripetitiva. La consapevolezza di tale stato mi spinse a cercare strumenti altri, meno contaminati e coinvolti in questo confronto che improntava tutti i saperi del XX secolo. La Fotografia emancipava da quella eterna ricerca del segno soggettivo per cui, dal Rinascimento in poi, si davano battaglia i grandi autori della Storia dell’Arte. Passando dalla pittura alla fotografia sentivo di accumulare dati della realtà sociale (femminile) che “avrebbero reso superflui tutti i commenti, o anche i giudizi” (S. Sontag).

Donne. Immagini, testo di Lidia Campagnano, Collana “Donne contro”, Milano, Moizzi Editore 1976

MANASTABAL: Prima di Ruoli, negli anni Sessanta, hai realizzato la serie “Donne per la strada” (confluita in Donne. Immagini, 1976), donne “qualsiasi”, di ogni età, fotografate per le vie di Milano. Queste donne sembrano colte durante le attività quotidiane, forse la spesa, o delle commissioni: come hai detto altrove, “una vita milanese che non fa notizia”. Uno sguardo femminista, oggi come allora, può cogliere quanto di politico vi sia in quel soggetto (la vita quotidiana delle donne in una società patriarcale), e anche nel modo in cui è rappresentato attraverso la tua fotografia: le protagoniste rivolgono lo sguardo all’obiettivo e in quello sguardo si percepisce una relazione con la fotografa. Non si tratta di scatti “rubati” come spesso accade nella tradizione della fotografia (maschile) nello spazio pubblico, quella che va “a caccia” di volti o situazioni da catturare di nascosto, con il distacco di chi dirige la lente su un oggetto. Come sei arrivata a uscire dalle mura dell’Accademia e a interessarti al quotidiano delle donne?

MARCELLA: L’Accademia cominciava ad allontanarsi e non rispondeva più agli interessi di Marcella che, definitivamente si stacca dai percorsi indotti. È la città, questo grande contenitore di luoghi, figure e relazioni umane, che si propone ormai come affascinante enigma da affrontare e sciogliere decostruendo l’impianto che, da tempo indicibile, si era accumulato. Senza cercare particolari atteggiamenti e significati, ha cominciato a registrare con la massima obiettività, (quasi impersonalità) queste figure del vivere quotidiano che non avevano mai avuto rilievo e risposta. Erano le “invisibili” relegate a quella coazione a ripetere del quotidiano che, attraverso consapevolezza e analisi femministe, troveranno un riconoscimento irreversibile.

Nella pratica: noi stesse.

È il momento in cui, di fatto e concretamente, Marcella incontra delle illuminazioni che potrebbero anche separarsi da quello che si era ritenuto artistico. La posta in gioco era ormai ben più importante.

MANASTABAL: «In una società femminile l’unica Arte, l’unica Cultura sarà l’esistenza di femmine insolenti, stravaganti, scatenate, capaci di ricavare piacere l’una dall’altra e da qualsiasi altra cosa nell’universo»: sono le parole con cui Valerie Solanas conclude il paragrafo “Grande Arte” e “cultura” di Manifesto SCUM (1967). Ti riconosci in una posizione come questa, che sfocia in sostanza nel rifiuto dell’arte in quanto sistema di alienazione delle donne?

MARCELLA: Mi piacciono davvero queste parole di Valerie Solanas, e contemporaneamente a lei, che allora non conoscevo, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, all’uscita dall’Accademia, ho sostenuto, soprattutto con le mie amiche aspiranti artiste, che l’Arte come lo stesso linguaggio comune, sono il prodotto degli interessi vitali e di scambio del mondo maschile. L’Arte si trascina esausta fino ai giorni nostri (industrializzazione, tecnologia, Duchamp). L’oggetto d’arte, da valore intrinseco diventa valore d’esposizione; è per questo che io azzardo che noi donne dovremmo espandere, lievitare, in modo IMPREVEDIBILE, non ancora formulato. Non una nuova forma d’arte, un nuovo “ismo”.
Altro, altro, come sentiamo di essere.

MANASTABAL: Di recente, in un messaggio alle amiche, hai manifestato insofferenza verso quei galleristi che vorrebbero convertire il tuo lavoro in valore di mercato, attraverso la procedura dell’esposizione. «Il mio lavoro non è nato per i muri delle gallerie, ma per un’apertura e un dialogo collettivo», hai detto. In fondo, la maison Dior, che si è appropriata anche di Carla Lonzi le cui parole figurano su un modello di t-shirt (€ 620 l’una), non si è comportata con te diversamente dai galleristi a cui ti riferivi… Sembra che il mito dell’inclusione prenda il posto della liberazione.

Nel caso di Dior, colpisce il fatto che non solo ti abbiano lasciata all’oscuro dell’operazione – presentata come un “omaggio” a un’“icona femminista” – ma si siano completamente disinteressati al tuo parere in merito…

MARCELLA: A proposito dell’intervista di Maria Grazia Chiuri su Vanity Fair, l’intelligenza tattica e iperprofessionale della direttrice creativa delle linee femminili della maison Dior non scalfisce davvero la ragion d’essere di questa straordinaria MULTINAZIONALE con estesa rete di licenze e royalties. Naturalmente tutta la fatica e il lavoro manuale di tante confezionatrici che costruiscono lo splendore e le preziosità che poi ammiriamo nelle sfilate di Parigi, Milano, New York, resta solitamente occultato.

Il nome di CARLA LONZI e la maison Dior vengono ancora una volta assimilati in un’operazione scontatamente e volgarmente promozionale e pubblicitaria. La cosa si trascina da tempo e pretende di dare la mediocre misura di quello che tutte noi abbiamo sempre ritenuto, invece, un ineffabile volo.

Io non ho più parole. Resto sommessamente in ascolto delle vostre.

MANASTABAL: Dicevi che il tuo lavoro è nato per un’apertura e per un dialogo collettivo. In quali forme ti piacerebbe venisse portato avanti questo dialogo?

MARCELLA: Quello che, stentatamente, ho cercato di dirvi, per me, si raccoglie nell’ormai dilagante espressione (una sintesi di cui vi sono davvero riconoscente): “l’inclusione prende il posto della liberazione”. Non lasciamo, però, che la parola confonda le nostre umane intenzioni. A ottant’anni sono ormai subissata da immagini, ipotesi, finte verità che, potendo, io stessa avrei potuto cavalcare, ma cinquant’anni fa mi sono obbligata a restituire quello che ritenevo un estremo barlume di verità.

Quello che vorrei venisse portato avanti è TUTTO DA INVENTARE nello SCAMBIO COLLETTIVO.

Marcella parla del suo lavoro L’invenzione del femminile: Ruoli (intervista ripresa nel maggio 2019)


Sesso e razza: formazioni immaginarie materialmente efficaci

Dialogo su Colette Guillaumin con Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz

 

COLETTE GUILLAUMIN, 14 giugno 1997, Giornate di studio ANEF, Reid Hall Center, Parigi.

Colette Guillaumin (1934-2017) è stata una sociologa femminista e antirazzista francese. Ricercatrice presso il CNRS a partire dal 1962, nel 1969 discute una tesi in sociologia intitolata Un aspect de l’alterité sociale. L’idéologie raciste. A partire da questo lavoro si svilupperà, tre anni più tardi, la monografia L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel, un contributo pionieristico al dibattito delle scienze sociali sul razzismo. Fra il 1969 e il 1972, Guillaumin partecipa al Laboratorio di sociologia del dominio insieme a Nicole-Claude Mathieu, Colette Capitan e Jaques Jenny. Dal 1977 al 1980 fa parte del collettivo di Questions féministes, la rivista del femminismo materialista francofono fondata da Christine Delphy, Colette Capitan Peter, Emmanuelle de Lesseps, Monique Plaza e Nicole-Claude Mathieu, a cui si unirà anche Monique Wittig a partire dal 1978. Sulle colonne di Questions féministes Guillaumin pubblica in due parti l’importante articolo Pratique du pouvoir et idée de nature, successivamente ripreso all’interno del volume Sexe, race e pratique du pouvoir. L’idée de nature, che include scritti composti fra il 1977 e il 1992. Nel 1981 è fra le fondatrici, insieme a Léon Poliakov, della rivista Le genre humain.

In occasione dell’edizione italiana di Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de nature, pubblicata da ombre corte nel 2020 con il titolo Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, abbiamo posto qualche domanda a Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz, traduttrici e curatrici del volume.

***

MANASTABAL: Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura (ombre corte, 2020) arriva sette anni dopo Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia (Alegre, 2013), l’antologia dedicata al femminismo materialista francofono curata da Sara e Vincenza, a cui anche Valeria ha contribuito con la sezione dedicata a Nicole-Claude Mathieu. La versione italiana di questa raccolta di saggi a firma di Colette Guillaumin si inserisce, quindi, in un cantiere di traduzione e di riflessione avviato già da tempo. Nel periodo trascorso da allora, a vostro giudizio, si sono create condizioni più favorevoli per la ricezione del femminismo materialista in Italia?  

SARA: Stando alla mia esperienza di militante (e) ricercatrice con mezzo piede in Italia, mezzo in Francia, mezzo dentro l’Università e mezzo fuori, non posso che rispondere positivamente e rallegrarmene. Sì, il femminismo materialista suscita oggi più interesse nel nostro paese: è più letto, più studiato, più tradotto e, soprattutto, più usato come strumento di analisi per comprendere il funzionamento della dominazione sociale. Il lavoro di analisi e di traduzione pubblicato sul vostro Manastabal è per me una delle più convincenti forme di esistenza di questo rinnovato e approfondito interesse. Penso anche alle numerose recenti iniziative editoriali (quattro traduzioni di tre opere di Wittig, la traduzione di Deborah Ardilli dell’ultimo libro di Delphy), ai progetti in cantiere (la traduzione de L’ideologia razzista di Guillaumin, un libro di Eva Feole su Wittig e il linguaggio come arma). Penso, inoltre, a una serie di atelier organizzati da collettivi militanti in diverse occasioni (il Campo femminista e lesbico di Agape, le giornate Lesbicx), penso al rigoroso lavoro di ricerca condotto da studiose come Silvia Nugara e ai dialoghi intessuti con più giovani ricercatrici e militanti femministe antirazziste come Marie Moise. Credo che tale risultato sia l’esito del lavoro paziente e testardo di ognun* di noi, delle occasioni di scambio e confronto che personalmente e collettivamente abbiamo costruito e costruiamo. Nonostante questa nota positiva, non posso però non constatare (e deplorare) la quasi totale assenza tra le categorie analitiche impiegate in Italia nel campo delle scienze sociali, o in quello militante, del concetto di «gruppi minoritari» forgiato dalle femministe materialiste per pensare i gruppi inferiorizzati e naturalizzati secondo diversi assi di gerarchizzazione (il sesso, la razza, la classe, l’età, la validità fisica o psichica). Lo stesso vale per il contestuale permanere, nelle analisi che si vogliono femministe o queer, di categorie naturalistiche come quella di «differenza sessuale», per non parlare del successo che continua a mietere quella grande fabbrica di pensiero eteronormativo che è la psicoanalisi. Detto altrimenti, nonostante questo miglioramento nella ricezione del pensiero femminista materialista, le resistenze intellettuali, politiche, ma anche «affettive» alla diffusione di un paradigma teorico che pensa gli uomini e le donne come classi – ovvero come gruppi costruiti naturalizzati e antagonisti – restano fortissime proprio per gli interessi e i privilegi che una tale analisi va a rendere visibili e a toccare.

VALERIA: Nell’ambito femminista, le esperienze, le pratiche e le riflessioni sono costantemente in movimento, in trasformazione, anche se non sempre è facile registrarle, spesso ne perdiamo anche memoria collettiva essendo in molti casi un lavoro che non lascia traccia in documenti scritti. Sì, mi pare che negli ultimi anni ci siano stati dei cambiamenti, delle aperture che possiamo ricondurre a diversi fattori di lunga durata. La maggior circolazione negli anni Duemila del pensiero queer, una vera e propria galassia, ha dato spazio tra le più giovani a un’autrice come Wittig, anche se non inserita nel contesto del femminismo materialista francofono (Tabet, Mathieu, Guillaumin, Delphy, Wittig), quindi forse in modi in cui non ci si focalizzava sul dialogo tra queste autrici. Alcune giovani sono andate in Francia per studio o per altri motivi e lì hanno scoperto le FMF (femministe materialiste francofone). Una volta tornate in Italia hanno riportato dentro le lotte femministe, in particolare penso a Non una di meno, la radicalità di questo pensiero e visione del mondo. Alcune discussioni sull’uso della nozione di razza credo vadano viste anche in questa direzione, approcci politici diversi su come usare questa parola in una lotta femminista antirazzista. Partendo proprio dal lavoro Guillaumin, penso che la parola razza oggi possa essere impiegata per nominare il rapporto sociale che l’ha prodotta, il razzismo. Rimane il fatto che ancora in poche conoscono il FMF, per la mancanza di traduzione, ma forse anche perché leggere i testi di queste autrici è una sfida per tutte noi ad assumere una prospettiva antiessenzialista con cui osservare tutti gli ambiti della nostra vita. Significa vedere con nuovi occhi le relazioni affettive, professionali, di militanza, assumere una radicalità costante e rinnovata nel tempo. Capita che le studentesse che leggono nei miei corsi Tabet, o le donne che incontro quando presento il pensiero femminista materialista, mi dicano che è una lettura che ha un forte impatto su di loro.

Ci sono discussioni molto dense, in cui sarebbe bello inserire anche il FMF. Penso per esempio al recente dibattito che si è sviluppato sul lavoro di cura nel contesto dell’attuale crisi sanitaria da Covid-19, e le sue importanti connessioni con le questioni poste dall’analisi femminista dell’antropocene. Mi pare che questa importante riflessione potrebbe essere ancora più contundente e politicamente efficace se riuscissimo a integrarvi le analisi delle femministe materialiste sul lavoro domestico. Infine, in ambito accademico mi pare che le cose fatichino di più a muoversi. In questo contesto occuparsi di, o produrre, analisi femministe non è facile: è decisamente più accettato usare o identificare la propria produzione con il termine genere, mentre ricordo che le FMF preferiscono impiegare la nozione di sesso inteso come costrutto sociale, con l’obiettivo di denaturalizzare completamente i rapporti sociali tra uomini e donne. Inoltre il nostro sistema è molto rigido per quanto riguarda i confini disciplinari, e il sapere femminista è invece interdisciplinare. In questo contesto speriamo che questa traduzione apra nuovi spazi di formazione e riflessione.

VINCENZA: È una questione un po’ complicata. Da un certo punto di vista mi sembra di sì, il clima è in parte cambiato. Da una parte, grazie all’intensificarsi degli scambi e alla mobilità per motivi di studio e ricerca di molte verso la Francia, seguendo anche stimoli dati da quanto man mano alcune di noi facevano circolare qui in Italia, e che hanno facilitato la «scoperta» dell’esistenza di un femminismo altro rispetto a quello che per decenni passava qui in Italia come «femminismo francese» (Irigaray eccetera). Dall’altra, c’è stata anche una moltiplicazione delle pubblicazioni, e queste hanno favorito una maggiore circolazione e discussione nel nostro paese degli assunti teorici del femminismo materialista francofono. Penso in particolare, ad esempio, a Le dita tagliate di Paola Tabet (Ediesse, collana sessimo&razzismo, 2014), in cui l’autrice riprende temi e analisi della sua ricerca antropologica sul dominio esercitato dalla classe degli uomini su quella delle donne portata avanti sin dagli anni Settanta (alcuni degli scritti più significativi di questo percorso sono pubblicati in La construction sociale de l’inégalité des sexes. Des outils et des corps, Paris, L’Harmattan, 1998), ma restata a lungo pressoché sconosciuta in Italia. O ancora le recenti traduzioni degli scritti teorico-politici di Monique Wittig (Il pensiero straight e altri saggi, volume nato, come ricorda Silvia Nugara nella recensione pubblicata da «il manifesto», da un lungo percorso di discussioni condivise di varie soggettività poi riunitesi nel collettivo La Lacuna, e il contemporaneo volume Il pensiero eterosessuale curato da Federico Zappino). O, last but not least, la traduzione di Deborah Ardilli per ombre corte del volume Per una teoria generale dello sfruttamento. Forme contemporanee di estorsione del lavoro di Christine Delphy, come anche il lavoro di traduzione/riflessione/diffusione che portate avanti con questo stesso vostro sito. E gli effetti si avvertono sia in ambito «militante» che, seppure in misura minore (come conseguenza della situazione dell’università italiana in termini di accesso, possibilità, eccetera), in ambito accademico grazie al lavoro di quante valorizzano all’interno delle loro ricerche, come anche dei loro corsi, il lavoro delle femministe materialiste francofone (per restare «tra noi» si veda tra le altre il lavoro svolto da Valeria all’Università di Modena). Detto questo, è innegabile che la strada da compiere sia ancora molto lunga. Ad esempio, seppure non si possa più parlare di una vera e propria «egemonia» del femminismo detto «della differenza» come negli anni Ottanta e buona parte dei Novanta, credo che permangano ancora i residui, anche nell’ambito degli studi femministi (di «genere» o di «sesso», come direbbero le «nostre»), di un pensiero «naturalista», non ancora compiutamente antiessenzialista.

MANASTABAL: A caratterizzare la riflessione di Guillaumin è l’approccio sociologico all’idea di razza. Potete chiarire di che cosa si tratta e in che senso questa decostruzione della razza si presta a essere estesa a tutti i gruppi istituzionalmente rivestiti del marchio biologico?

VALERIA: Il lavoro di analisi di Guillaumin sulla razza e sull’ideologia che la sottende, L’Idéologie raciste (1972), è la sua prima opera (la sua tesi dottorato), a cui è utile tornare per comprendere il suo metodo di lavoro. In esso Guillaumin fa una storia e una sociologia della formazione dell’idea di razza e delle idee che hanno interagito con la sua nascita (si pensi, per esempio, all’idea moderna di «ereditarietà»). Che cosa è la razza nella sua analisi? L’invenzione di una categoria naturalistica. Guillaumin decostruisce la definizione corrente della nozione di razza (gruppo naturale), dimostrando allo stesso tempo come questa nozione sia reale, materiale, prodotta da determinati rapporti sociali di potere e oppressione (il razzismo). È forse proprio in questo approccio in cui insieme si decostruisce il nucleo sentito come vero dell’idea di razza (la natura), e al contempo si riconosce la materialità dell’oppressione che essa incarna (il razzismo), che ritroviamo un’analisi imprescindibile per la comprensione dell’emersione storica di quei gruppi istituzionalmente rivestiti del marchio biologico, in primis i sessi. Il saggio sul sistema dei marchi è appassionante (Razza e Natura), proprio perché ci permette di capire come viene prima il rapporto sociale e poi un marchio che lo rappresenta isolandolo dalla sua origine sociale. Oggi si pensa: sono neri, per questo sono stati schiavizzati, e oggi discriminati. Ma invece viene prima il rapporto di oppressione e sfruttamento di un gruppo che casualmente era nero, e poi la legittimazione di tale oppressione con un marchio sentito come biologico, il colore della pelle. Il colore della pelle «secerne» la nostra posizione sociale: questa è una visione essenzialista del mondo, in cui si negano i rapporti materiali.

VINCENZA: Negli anni (primissimi anni Sessanta) in cui Guillaumin comincia la sua ricerca sulla «razza» si credeva ancora nella realtà delle «razze», e che solo successivamente queste, naturalmente presenti, subissero un processo di gerarchizzazione (il razzismo), a causa dell’ostilità e dell’aggressività tra gruppi. Le «razze» erano quindi considerate delle categorie concrete, naturali e a-storiche, che precedevano il razzismo costituendone di fatto il fondamento. Guillaumin opera una rottura radicale di questa prospettiva (rottura che innova completamente anche lo stesso approccio della disciplina sociologica, che all’epoca non era quella che consociamo oggi), problematizzando la «razza» come il prodotto e non come il supporto del razzismo. In questo modo Guillaumin fa emergere il carattere socialmente costruito della categoria di razza, un’«invenzione» sociale, storica, economica e politica che trasforma alcune caratteristiche fisiche, come il colore della pelle, in «marchi naturali», atti a sostenere processi di categorizzazione e gerarchizzazione e a giustificare i rapporti di potere e dominio come fondati in «natura». In questo modo ci vengono offerti gli strumenti per la comprensione del rovesciamento da causa ad effetto attraverso cui operano le diverse forme di oppressione, e quindi anche il sessismo. Un approccio talmente radicale – nel suo contemporaneo innovare completamente il quadro teorico, ma anche anticipare temi che diverranno di cruciale importanza negli anni a venire, come il carattere relazionale di razzismo/sessismo, o la necessità di considerare in questo processo il ruolo del gruppo dominante – che spesso mi meraviglio (e non sono la sola) di quanto, ancora oggi, Guillaumin sia così poco studiata e citata, o citata «male», in particolare nell’ambito degli studi su razza/razzismo.

SARA: A partire dagli anni Sessanta Colette Guillaumin ha elaborato una definizione sociologica della razza intesa come una categoria che è il prodotto storicamente determinato del razzismo, a sua volta da lei definito come un sistema coeso di strutture sociali e mentali di inferiorizzazione, sfruttamento e alterizzazione di un gruppo (i bianchi) su un altro (i non-bianchi). Si tratta di una categoria che non ha alcuna validità biologica, ma che, da un lato, produce effetti sociali feroci e mortiferi e, dall’altro, innerva la società tutta intera. Per riprendere i termini di Guillaumin, la razza è una «formazione immaginaria materialmente efficace» che «è dappertutto». Oltre a ridefinire la razza (e il razzismo), Guillaumin ne indaga il modus operandi. Se per il senso comune il colore della pelle è supposto precedere e giustificare l’esistenza di diversi gruppi che occupano posti differenti nella gerarchia sociale – le persone bianche e le persone non-bianche –, per Guillaumin (e lo stesso vale per le altre femministe materialiste) è un marchio che non sarebbe socialmente pertinente in assenza del rapporto sociale di dominazione che lega i due gruppi in presenza. La teoria di Guillaumin rende così possibile esprimere «la verità e la menzogna» della categoria di razza e capire che la verità – l’esistenza di un gruppo – nutre la menzogna – il fatto che si tratti di un gruppo naturale. Le sue definizioni di razza, razzizzazione e razzismo sono state riprese nel corso degli anni da divers* ricercator* o collettivi antirazzisti. Il diffondersi di un tale approccio costruttivista alla categoria di razza e a una forma di antirazzismo che impiega tali nozioni ha scatenato in questi ultimi anni e in numerosi paesi, in primis in Francia, violentissimi attacchi tanto nel campo politico che nel campo accademico e mediatico.

MANASTABAL: L’esigenza di demistificare l’approccio essenzialista alla realtà sociale, come avete sottolineato tutte e tre, è uno dei moventi fondamentali della riflessione di Guillaumin e, più in generale, del femminismo materialista francofono. Per altro verso, dobbiamo constatare che è raro imbattersi in esplicite e orgogliose rivendicazioni o auto-attribuzioni di essenzialismo. Quello che stiamo maneggiando, in altri termini, è un epiteto delegittimante che circola con grande facilità nel dibattito teorico e politico interno ai movimenti femministi, tanto che nemmeno il femminismo e il lesbismo materialista sono stati risparmiati da questa accusa. Potremmo ricordare, per limitarci a un caso famoso, la requisitoria di Judith Butler nei confronti di Monique Wittig in Questioni di genere. Ma vale la pena segnalare pure l’obiezione contro cui regolarmente urta il ricorso a una categoria come quella di «classi di sesso», e cioè che la (innegabile) mancanza di omogeneità interna del gruppo minoritario «donne», al pari della (innegabile) mancanza di omogeneità interna del gruppo dominante «uomini», renderebbe «essenzialista» — e dunque illegittima, arbitrariamente generalizzante, nemica della complessità, «ideologica», se non addirittura subalterna al pensiero patriarcale — la pretesa di concepirli come classi antagoniste. Quali strumenti ci offre Guillaumin per inquadrare, valutare, ed eventualmente confutare, un’obiezione come questa?

SARA: Rispetto alla prima osservazione che formulate, mi sento di dire che, se è vero che la rivendicazione essenzialista è poco diffusa nel campo delle scienze sociali, o in quello dei movimenti minoritari, le eccezioni non mancano. Penso, da un lato, alle analisi di pensatori come Norman Ajari che affermano la necessità dell’uso della nozione di essenzialismo nella definizione delle identità dei gruppi razzizzati e, dall’altro, a tutte le argomentazioni essenzialiste che avanzano (appena appena) mascherate. Mi riferisco a tutte le prospettive teoriche o politiche destoricizzate e psicologizzanti che usano categorie quali «differenza sessuale», «femminile», «maschile», «materno», «paterno», «uomo», «donna», «bianco», «nero» come fossero dati di natura, o che impiegano altre nozioni direttamente prelevate dalla dottrina psicoanalitica, in particolare, nella sua versione lacaniana («il Nome del Padre», «il Fallo», «l’Edipo», «la Castrazione»). Per non palare, poi, dei presupposti funzionalisti, culturalisti, biologizzanti, ergo pseudo-materialisti, di molte delle analisi ancora prodotte nel campo delle scienze sociali che, non interrogando il rapporto di potere sociale e storico alla base della costituzione dei gruppi sociali, comportano, ciascuna, una forma assai poco residuale di pensiero naturalista.

Venendo, ora, allo specifico oggetto della vostra domanda, mi pare che, per comodità, possiamo distinguere due ordini di argomentazioni, non di rado usate congiuntamente dai detrattori e dalle detrattrici dell’approccio femminista materialista. Le femministe materialiste teorizzano il rapporto di appropriazione che a loro giudizio costituisce le classi di sesso e lo considerano come il fattore esplicativo delle disuguaglianze di potere tra uomini e donne. Secondo il primo degli argomenti che criticano questo approccio, dire che le donne sono una classe significa essenzializzarle. Questa obiezione mi pare patentemente auto-contraddittoria. Sappiamo come il concetto di classe sia stato costruito, da Marx in poi e nella differenza delle teorizzazioni, come totalmente antinomico a quello di gruppo naturale: una volta distrutto il rapporto sociale che costituisce i gruppi secondo un dato asse di dominazione – il capitalismo, il sistema patriarcale, il sistema razzista – le corrispondenti classi spariscono. Purtroppo siamo ben lontani da questo esito, ma il fine utopistico di una teoria che si vuole strumento di lotta non la rende per questo meno pertinente o meno necessaria. Stando al secondo tipo di critiche, dire che le donne sono una classe vuol dire negare che il gruppo delle donne è attraversato da altre forme di dominazione (di classe sociale, di razza, di sessualità, e così via). Anche qui, la confusione logica è evidente: perché mai affermare l’esistenza di una classe, anzi, per essere precis*, di due classi, che, repetita iuvant, sono costituite da un rapporto sociale, che sono antagoniste e interdipendenti, implicherebbe la loro omogeneità? La classe capitalistica e la classe lavoratrice non esistono perché eterogenee al loro interno? «Uomo», «donna», e così vale per «bianco», «nero»: si tratta di categorie politiche naturalizzate. La vostra domanda è tanto pertinente quanto utile perché permette di esplicitare una componente dell’approccio femminista materialista di cui si parla ancora meno del poco di cui si discute di questo paradigma. L’analisi femminista materialista non è riducibile ad un approccio analogico tra dominazione di sesso e dominazione di razza. Affermare che i gruppi di sesso e i gruppi di razza sono costituiti, ciascuno, da un rapporto sociale specifico, e che le categorie di razza e di sesso funzionano in modo analogico (reificazione, alterizzazione e naturalizzazione dei gruppi oppressi), non significa che i diversi gruppi non siano eterogenei al loro interno. Al contrario, queste teoriche affermano che occorre prendere in considerazione gli altri rapporti sociali che caratterizzano uomini e donne, bianchi e non bianchi e studiarne «i legami organici» (come dicono Guillaumin e Danielle Juteau), le modalità di «intreccio» (come dice Jules Falquet), di «intersezione» (come dice Sylvia Walby). Ma ciò non significa ridurre l’oppressione delle donne a questi altri rapporti sociali e, ancor meno, evacuare il meccanismo centrale della produzione delle classi di sesso, che rimanda a due gruppi antagonisti i quali, nelle relative differenze, condividono situazioni ed esperienze di potere (per gli uni) o di non-potere (per le altre) comuni.  Guillaumin analizza questa «coesistenza dell’indissociabile omogeneità ed eterogeneità della classe delle donne» – l’espressione è di Danielle Juteau – in numerosi passaggi di Sesso, razza e pratica del potere, ma anche in un articolo meno noto intitolato La confrontation des féministes en particulier au racisme en général. Remarques sur les relations du féminisme à ses sociétés. Guillaumin mostra, da un lato, che il sistema di oppressione delle donne ha modi di estrinsecazione altri che capitalistici e altri che privati e, dall’altro, che esso si dispiega attraverso forme di appropriazione tanto collettiva che privata che producono diverse contraddizioni e posizionamenti all’interno di una stessa classe di sesso. Altra questione ancora è il rapporto tra appartenenza ad una classe di sesso, coscienza di classe e margine di manovra individuale (su cui Delphy ha scritto), o quella delle lesbiche come «transfughe» della classe di sesso-donne (su cui Wittig ha scritto) o, ancora, quella delle «trasgressioni di sesso attraverso il genere» (su cui Mathieu ha scritto)…

VINCENZA: Concordo con quanto sottolineate, ovvero che l’accusa di «essenzialismo» circola oggi con una certa «disinvoltura» nel dibattito teorico/politico, fino a colpire paradossalmente anche approcci caratterizzati da un pensiero radicalmente anti-essenzialista come quello teorizzato dal femminismo materialista francofono (e specifico francofono vista l’emergenza, negli ultimi anni, di altre correnti femministe e queer che si definiscono, o sono definite, «materialiste»). Penso che questo paradosso vada necessariamente collocato in un quadro complesso, in cui l’«accusa» di essenzialismo viene mossa da (e contro) realtà e soggettività molto diverse sia per il tipo di «posizionamento» che per gli strumenti e (gli scopi) teorici e politici messi in campo. Del resto, come notavo in una delle risposte precedenti, è innegabile che ancora oggi persistano, anche all’interno degli studi di genere/femministi e nella teoria e pratica politica di diversi gruppi minoritari, residui di un approccio/pensiero che possiamo definire essenzialisti. Residui che si manifestano però – molto spesso – in forme non solo meno esplicite, ma anche non immediatamente sovrapponibili a quelle ampiamente discusse e tematizzate criticamente in passato. Lo stesso concetto di «essenzialismo», del resto, è stato negli ultimi anni reinterpretato in forme inedite, penso ad esempio all’«essenzialismo strategico» come «errore necessario» proposto da Gayatri Chakravorty Spivak in un saggio del 1990, una mossa contingente attraverso cui alcuni gruppi subalterni hanno potuto utilizzare criticamente determinate contrapposizioni binarie (uomo/donna, omosessuale/eterosessuale, Primo/ Terzo mondo…) per rendere visibili rapporti di potere e dominio. Un quadro quindi complesso in cui si scontrano istanze teoriche e politiche diverse, che hanno effetti diversi e richiedono da parte nostra risposte e spiegazioni molto differenti. Da una parte vanno collocate quelle che, a mio parere, sono le forme più esplicite (e preoccupanti) dell’utilizzo dell’accusa di essenzialismo, ovvero quelle che vengono agite, a vari livelli e in diversi ambiti disciplinari e/o politici, con lo scopo palese di delegittimare le lotte e le teorizzazioni delle/dei subalterni, e quindi invisibilizzare in un solo colpo il carattere sistemico dei rapporti di dominio e i privilegi dei gruppi dominanti. Nelle loro espressioni più rozze queste forme si caratterizzano anche per l’invenzione/utilizzo di alcuni di quegli pseudo-concetti che Sara evoca nella sua parte di introduzione al volume («razzismo anti-bianchi», «sessismo anti-uomini» o «eterofobia»). Dall’altra, fattori molto diversi mi sembrano invece caratterizzare (alcune) delle critiche e delle «accuse» di «essenzialismo» che si sono espresse all’interno del dibattito teorico/politico nei confronti del femminismo materialista francofono. Critiche che – anche quando palesemente infondate e/o basate su una lettura approssimativa dei testi – ho sempre trovato estremamente stimolanti. Danno infatti la possibilità di verificare, sul terreno concreto della teoria e della pratica politica femminista, le questioni ancora «oscure» in un corpus concettuale molto complesso come quello del femminismo materialista, ovvero cosa è necessario esplicitare e/o spiegare, come stiamo facendo in questa intervista, per far emergere la radicalità di questo pensiero, la sua attualità e l’utilità di farlo dialogare anche con altri quadri concettuali come quelli dei femminismi postcoloniali e intersezionali. In questa prospettiva la categoria di «classi di sesso» è indubbiamente stata, fin dagli anni Settanta (ad esempio si vedano le critiche mosse da Michèle Barrett e Mary McIntosh a Christine Delphy nel saggio del 1979), quella che ha suscitato i maggiori malintesi poiché interpretata come una categoria «omogeneizzante» e che non darebbe conto, fino a invisibilizzarle, delle divisioni esistenti tra donne in virtù della loro appartenenza a diverse classi sociali e/o gruppi «razziali». Quello che sfugge è che la teorizzazione del gruppo sociale delle donne e del gruppo sociale degli uomini, che sono configurate come classi antagoniste, non implica affatto che vi sia una omogeneità all’interno di ogni classe (classi che sono invece pensate come eterogenee al loro interno, in quanto implicate in altri specifici, e connessi, rapporti sociali di dominio), ma piuttosto mira  a far emergere il rapporto di appropriazione, collettiva e privata, dell’intera classe delle donne da parte dell’intera classe degli uomini o, per dirla con le parole di Guillaumin, «l’atto di forza permanente attraverso cui si dispiega l’appropriazione della classe delle donne da parte della classe degli uomini» (dal saggio Pratica del potere e idea di Natura). L’incomprensione su questo punto cruciale è determinante anche per l’altra obiezione spesso rivolta al femminismo materialista francofono, ovvero il presunto approccio in termini «analogici» al rapporto sesso/razza. Un’obiezione che è stata tra l’altro al centro dell’acceso dibattito innescato, come ricordate, dalla famosa requisitoria di Judith Butler contro Monique Wittig in Gender Trouble e alla quale fece seguito l’altrettanto famosa contro-requisitoria di Teresa De Lauretis. Nonostante l’uso frequente e diversificato della forma analogica nell’opera (teorica ma anche soprattutto letteraria) di Wittig meriterebbe di essere maggiormente valutato e contestualizzato (per una ricostruzione del dibattito il saggio di Stéphanie Kunert, L’analogie «sexisme/racisme»: une lecture de Wittig), così come su un piano diverso si colloca, e andrebbe quindi discusso e collocato, l’uso dell’analogia sesso/razza in alcuni dei testi di Christine Delphy dei primi anni Settanta, anche su questo nodo fondamentale Guillaumin ci offre, come abbiamo sottolineato nell’introduzione, strumenti preziosi non solo per «smontare» o tematizzare questa e altre obiezioni, ma anche e soprattutto per comprendere come i diversi rapporti sociali (di classe, razza, sesso…) si producono (e operano) simultaneamente e organicamente, e quindi indicarci anche le modalità per combatterli.

VALERIA: Grazie per la domanda, molto utile poiché è un commento o critica che spesso è rivolta al femminismo materialista francofono e al concetto di classe di donne. Definire le donne come una classe non implica cancellare le esperienze diverse che ciascuna di essa fa del sessaggio e di altre forme di oppressione. Quando uso la categoria classe di donne, sto mettendo in evidenza che le donne esistono come gruppo nel rapporto sociale con gli uomini, che a loro volta costituiscono una classe proprio nel rapporto sociale con le donne. Il fatto di appartenere alla classe delle donne è comprensibile solo ed esclusivamente se consideriamo il rapporto sociale che mi produce come donna, ovvero il rapporto sociale di sesso. Ed è qualcosa che ci accomuna, anche se non costituisce di per sé un terreno di lotta comune. Non esistono donne, né uomini, al di fuori di questo rapporto sociale, la categoria donna non precede il rapporto sociale tra i sessi, ma ne è il prodotto, il risultato di una forma specifica di appropriazione collettiva e individuale, materiale e ideologica, il sessaggio. Questo approccio non cancella e non può cancellare le altre esperienze di oppressione che le donne fanno nella loro vita materiale, e quindi anche nei rapporti tra donne, come il razzismo, l’oppressione di classe e in base alla sessualità. Proprio perché non esiste di per sé una categoria «donne» a cui apparteniamo prima dei rapporti sociali materiali che viviamo con gli uomini, non può esserci un’identità essenzialista della classe «donne». Ribalterei così l’accusa di essenzialismo rivolta alla categoria classi di sesso. Nel leggere Guillaumin noi ci immergiamo completamente nell’approccio materialista e quindi riconosciamo che non c’è omogeneità interna al gruppo «classe di sesso», ma c’è un rapporto sociale e storico che ci produce come donne, e che questo rapporto sociale co-esiste con altri rapporti di oppressione basati sulla razza, sulla classe e sessualità. Questo approccio comporta riconoscere che le donne possono avere interessi diversi. E questo tra l’altro significa riconoscere, nel dialogo tra donne, che per alcune l’oppressione di razza possa essere riconosciuta come più pressante e violenta nella propria vita. È in questo modo che è possibile un riconoscimento reciproco e porsi la questione delle alleanze tra donne. A questo proposito, la femminista decoloniale afro-domenicana Ochy Curiel, fine lettrice di Guillaumin e delle altre femministe materialiste, riflettendo sulle difficoltà di alcune a considerare insieme le discriminazioni di razza, sesso e orientamento sessuale, ricorda come «quando appare la resistenza ad abbordare questo tipo di discriminazione (quella per orientamento sessuale, n.d.t.), in connessione con l’elemento ‘razziale’ e di genere, la discussione gira attorno alla questione di sapere se noi siamo per prima cosa nere, donne o lesbiche» (Pour un féminisme qui articule race, sexe et classe, «Nouvelles questions féministes», 20, 3, 1999). Credo che la categoria di sessaggio, insieme al lavoro di Guillaumin sul razzismo, ci permettano di guardare alla materialità delle condizioni di esistenza, ai rapporti sociali come la matrice dei gruppi che vediamo come naturali, e quindi a non fossilizzarci su cosa viene prima, ma a vedere ciò che li produce. Nel 1998 Guillaumin ha partecipato a un convegno dell’Association Nationale des Études Féministes, dal titolo Les féministes face à l’antisémitisme et au racisme. Il testo del suo intervento offre una riflessione, ancora attuale, su femminismo e altri movimenti di gruppi minoritari (nei rapporti di potere), e sul rapporto tra movimento femminista a movimenti antirazzisti. In questa riflessione, Guillaumin ricorda che non sono le donne ad essere differenti: ciò infatti implicherebbe l’idea che esista una categoria «donne» in sé, negando che le donne esistono solo nel rapporto sociale con gli uomini, e che gli uomini sono a loro volta immersi in rapporti di potere. Ad essere differenti sono le possibilità materiali in cui vivono le donne, che comportano scelte concrete certamente differenti.

MANASTABAL: Al pari delle altre teoriche femministe materialiste, Guillaumin punta a costruire una teoria generale del dominio sociale e della sue razionalizzazioni ideologiche. L’approccio materialista permette, in altri termini, di analizzare il dominio razzista e il dominio patriarcale a partire da meccanismi che operano in maniera analoga in entrambe le configurazioni, per esempio quello che presiede alla naturalizzazione dei gruppi dominati. Per altro verso verifichiamo quotidianamente, anche negli ambienti progressisti, la resistenza a prendere sul serio le analogie: chi non ha difficoltà a caratterizzare come integralmente sociale e antagonistica la relazione fra bianchi e non bianchi all’interno delle società occidentali, può averne invece moltissime a rappresentarsi negli stessi termini quella fra uomini e donne. Allo stesso modo, chi non ha alcuna difficoltà a interpretare in termini materialisti lo sfruttamento salariale recalcitra a estendere la considerazione materialista a quello domestico. Come si spiega secondo voi il fatto che, quando è in gioco il rapporto sociale di sesso, il residuo ideologico del naturalismo non manca di esercitare il proprio influsso?  

VINCENZA: Come mostrano mirabilmente gli scritti di Guillaumin, così come quelli delle altre femministe materialiste francofone, la credenza nella «naturalità» dei rapporti di dominio che legano la classe (dominante) degli uomini a quella (dominata) delle donne, ha uno dei suoi punti di forza nella sua assoluta pervasività, che investe cioè ogni ambito ed espressione dell’esistenza e in questo senso alcuni dei saggi contenuti nel volume Sesso, razza e pratica del potere sono assolutamente  illuminanti. Tuttavia, e soprattutto a così tanti anni di distanza, è legittimo chiedersi perché, anche in quei contesti che definite «progressisti», e dove la comprensione del meccanismo che presiede alla naturalizzazione dei gruppi dominati ha portato a leggere in termini di rapporti sociali i conflitti di classe e il razzismo, questo non funziona ancora oggi con i rapporti sociali di sesso. Posso solo provare ad abbozzare una risposta, a partire anche dalla constatazione che storicamente, prima dell’emergenza del movimento femminista in particolare materialista, il concetto di «sesso», ha sempre avuto, nel pensiero politico contemporaneo, uno statuto molto diverso da quello di «classe». È anche una questione di tempi: come ci ricorda Paola Tabet in Le dita tagliate, ci sono voluti secoli prima di giungere, ad esempio, ad analisi materialiste dei rapporti di classe. In seguito la predominanza della classe come categoria di analisi è stata molto forte in una larga parte dei movimenti degli anni Settanta e questo ha contribuito all’instaurarsi di una sorta di «gerarchia» delle lotte, in cui quella delle donne era vista come «secondaria». Anche la categoria di «razza» ha avuto a lungo uno statuto «debole» (simile, anche se con traiettorie diverse, a quello di «sesso») e ha cominciato ad acquisire una certa legittimità e diffusione come categoria analitica solo a partire dagli anni Sessanta-Settanta (sulla spinta soprattutto delle lotte anti-coloniali, del «potere nero» negli USA e, per quanto concerne la storia delle donne, grazie alle lotte e agli scritti dei femminismi neri, decoloniali e diasporici). Per la categoria di «sesso» – ovvero la comprensione del rapporto tra i sessi come rapporto sociale e non come dato naturale – le resistenze sono state, e sono tuttora, molto più tenaci, anche se possiamo sperare in un progressivo cambiamento di prospettiva, grazie all’apporto decisivo del femminismo materialista francofono. Al momento è per certi versi sconcertante quanto suoni ancora attuale talvolta, a cinquant’anni di distanza, l’amara constatazione delle autrici di Combat pour la libération de la femme (1970), tra le quali Monique Wittig:

Ci sentiamo sempre dire che la nostra lotta è un «problema secondario». Molto rari sono coloro che ci accordano altrettanta importanza che a quella dei neri negli Usa oppure a quella dei lavoratori immigrati qui […]. D’altronde cosa rappresenta la nostra lotta per loro? Lotta domestica, lotta prosaica, lotta di serve …

Questo anche perché il gruppo sociale delle donne, pur nelle «differenze» (da intendersi, in primo luogo, come diseguaglianze) che posizionano ogni singola donna lungo diversi assi di differenziazione – «razza», «classe», sessualità, età … – nel contesto sociale, economico e politico (e ognuna rispetto all’altra), sono un gruppo trasversale a tutti gli altri gruppi sociali. E questo le espone maggiormente ai meccanismi di appropriazione, sfruttamento e subordinazione da parte del gruppo sociale degli uomini nel suo insieme. Questo avviene, come ci mostrano le femministe materialiste, in tutti gli ambiti, dal piano collettivo a quello cosiddetto «privato». Ben pochi uomini, anche «progressisti», sono disponibili a rinunciare al proprio privilegio e a molti continua ad apparire come normale, naturale, che l’insieme delle attività domestiche e di cura siano svolte dalle donne, o gratuitamente (come madri, mogli, compagne, figlie…) o come lavoratrici sotto-pagate, via anche la progressiva e massiccia razzializzazione di questo tipo di lavoro.

SARA: Direi che sono proprio i testi delle femministe a offrire i migliori elementi di risposta alla vostra più che pertinente domanda. Queste teoriche si sono ampiamente interrogate sulla forza e la pervasività della credenza naturalista secondo la quale uomini e donne sarebbero gruppi naturali e naturalmente complementari. Nella relativa differenza dei concetti forgiati e utilizzati dall’una o dall’altra di queste pensatrici, la risposta è convergente: l’oppressione materiale subita dalla classe delle donne da parte della classe degli uomini è sostenuta e incoraggiata da un sistema categoriale, discorsivo, ma anche percettivo che inculca nelle teste, negli automatismi motori e linguistici la credenza «dura come il cemento», scrive Guillaumin, nell’esistenza di una «natura» differente e complementare per gli uomini e per le donne e la iscrive nelle istituzioni, nelle strutture sociali che definiscono la trama del mondo in cui viviamo. La doppia forma di esistenza di questa credenza naturalista – una forma oggettivata, nelle cose, e una forma soggettivata, nelle teste, nei corpi – e la complicità sotterranea che lega l’una forma all’altra spiegano la forza di questa credenza. A proposito della pervasività dell’ideologia naturalista, Wittig conia la nozione di «pensiero straight» che opera attraverso la destoricizzazione e la naturalizzazione delle bicategorizzazioni «uno/altro», «referente/differente», «uomo/donna», «bianco/nero». Delphy parla del genere come di una «cosmologia» e, nel suo inconfondibile stile fatto di rigore e ironia, si chiede senza gli uomini e le donne come si potrebbe mai fare? «Non ci sarebbe né alto, né basso, né sole, né luna, né, ça va sans dire, amore: l’umanità stessa sarebbe in pericolo». Mi piace ricordare qui che un sociologo caro a Guillaumin e a Delphy, Erving Goffman, in un breve folgorante testo del 1977, The Arrangement between the Sexes, aveva definito il genere come il «vero oppio dei popoli» (naturalmente il genere come insieme di strutture sociali che naturalizzano i gruppi di sesso, e non il genere come concetto che fa vedere come tale naturalizzazione operi). Basta guardarsi attorno, come non essere d’accordo?

VALERIA: Guillaumin è attenta a non affermare che ci sia una pura analogia tra oppressione razzista e patriarcale, ben consapevole dei rischi di questa affermazione, ma, come dite voi, proprio perché osserva i rapporti sociali nella loro materialità, riconosce come le oppressioni di razza e sesso si producano e si legittimino attraverso una certa idea di natura. Guillaumin analizza i processi di naturalizzazione di rapporti sociali di razza e sesso, che non vengono assunti in quanto tali, soprattutto dal gruppo dominante. Per riprendere la vostra domanda, credo che una risposta possa essere trovata nella difesa del privilegio da parte del gruppo dominante, in questo caso gli uomini. Il naturalismo permette di accettare confortevolmente, di non mettere in discussione la propria posizione dominante in rapporti nell’ambito domestico, professionale, ma anche nella militanza. Ammettere che si è dentro un rapporto di potere strutturale e che se ne traggono i vantaggi è qualcosa che non si vuole fare, poiché potrebbe aprire un varco per dei cambiamenti: occuparsi di lavori meno gratificanti, avere meno tempo per sé, parlare di meno, occupare meno spazi di potere, ascoltare e legittimare il punto di vista delle e degli oppressi. Si tratterebbe di riconoscere l’insieme dei rapporti sociali di sesso, e andare oltre l’orizzonte individuale, con il classico «io a casa lavo i piatti, ecc.». Questa resistenza a estendere l’analisi materialista ai rapporti sociali di sesso è una tappa di un processo lungo di trasformazione. Noi continueremo a leggere Guillaumin, ora anche in italiano, e altre autrici, per smontare questo approccio naturalista. 

MANASTABAL: Una delle implicazioni più importanti del discorso di Guillaumin è costituita dalla rottura con quel tenace assunto di senso comune secondo cui razzismo e sessismo sarebbero definiti anzitutto, se non esclusivamente, dall’ostilità dei dominanti verso gruppi oggettivamente differenti: in una parola, dalla paura e dal rigetto dell’alterità. Sempre in base a questo assunto, la promozione e la valorizzazione delle «differenze», per esempio nei contesti scolastici, rappresenterebbero l’antidoto alla riproduzione di assetti gerarchici lungo gli assi della razza e del genere. Che cosa replicherebbe Guillaumin a questa enfatica volontà di celebrare le «differenze»? 

VINCENZA: Su questo punto Guillaumin è nei suoi testi, a partire da L’idéologie raciste, estremamente chiara. Se il suo approccio rompe radicalmente con la visione di razzismo e sessismo come generati da sentimenti di ostilità/aggressività/paura del gruppo dominante nei confronti dei soggetti dominati, parimenti mette in evidenza come sovente i processi di alterizzazione/subordinazione all’opera nei rapporti di dominio si appoggiano anche sull’esaltazione e sulla celebrazione di determinate qualità che sarebbero specifiche del gruppo dominato. Per il sessismo pensiamo per esempio alla celebrazione delle cosiddette virtù femminili, in primis quelle «materne», e per il razzismo l’enfasi posta sulla presunta superiorità o maggiore «bravura» dei/delle neri/e nello sport, nel canto o nella danza, come anche alcuni processi di estetizzazione razzializzata della bellezza e dei corpi. Queste forme celebrative non scardinano i rapporti gerarchici e di potere, ma anzi li rafforzano e li riproducono. Per quanto concerne la promozione e valorizzazione delle «differenze» nei contesti scolastici, indicazioni preziose ci vengono anche dalla ricerca sulla percezione della «razza» nelle/nei bambine/i di Paola Tabet, confluita poi nel volume La pelle giusta (Einaudi, 1997), come anche dal libro curato dalla stessa Tabet con Silvana Di Bella, Io non sono razzista ma … Strumenti per disimparare il razzismo (Anicia, 1998). Nelle riflessioni di Tabet notevole è il distacco critico dalle riduzioni del razzismo alla questione della comunicazione-conoscenza tra culture che informano numerose esperienze di educazione interculturale nelle scuole. Non solo per i rischi impliciti all’assunzione della «differenza culturale» come un dato primo (gli anni in cui Tabet scriveva questo testo erano quelli in cui emergeva con forza, anche qui in Italia, il cosiddetto neorazzismo), ma anche perché la mancanza di uno sguardo più ampio sulle dissimmetrie di potere economico e politico che caratterizzano l’insieme dei rapporti sociali può contribuire a falsare il problema, e concorrere a riprodurlo. Piuttosto, credo che molto si possa fare a livello educativo/scolastico lavorando sui libri di testo per offrire nuovi modelli identificativi non «stereotipati» e/o vittimizzanti e approfondimenti su questioni spesso lasciate ai margini (o affrontate dal punto di vista dei dominanti), come la storia del colonialismo italiano o la storia delle donne/dei femminismi. Importante sarebbe poi offrire agli/alle insegnanti (con corsi di formazione o altro) quell’insieme di strumenti teorici e metodologici utili per affrontare questioni cruciali quali il privilegio, la bianchezza, i rapporti di dominio. 

VALERIA: Difficile domanda, posso dirvi come rispondo io usando Guillaumin. Intanto Guillaumin è imprescindibile proprio per la sua descrizione di come il nucleo del razzismo e del sessismo, non è l’ostilità verso «altri diversi», poiché il rapporto di oppressione si produce anche attraverso altri meccanismi che sono per esempio la valorizzazione restrittiva che permette di riprodurre efficacemente sistemi di oppressione. Guillaumin ci chiama a riflettere su cosa è la differenza, chi definisce chi è differente, e differente da chi? (si veda Questione di differenza). Con queste domande diventa chiaro che celebrare le differenze, parlare di alterità, non è una strategia efficace di lotta contro i rapporti di oppressione basati sulla razza o il sesso. E soprattutto con queste domande Guillaumin nomina il Referente, il gruppo socialmente definito bianco, che non si vede o si pone come neutro, come elemento centrale per comprendere come si riproduce il razzismo. I bambini e giovani delle scuole italiane non hanno bisogno della valorizzazione della cucina marocchina, ma di qualcuno che li aiuti a discutere insieme dei rapporti di potere che vedono e vivono quotidianamente e di quelli del passato, hanno bisogno che i docenti bianchi propongano narrazioni in cui gli oppressi (quel magma che viene definito con «migranti/immigrati») siano soggetti, individui attivi, e non solo vittime passive o individui pericolosi. Mediamente in Italia i docenti credono che non esista razzismo nel nostro paese, o che i bambini non possono essere razzisti perché non sanno quello che dicono: questa visione è parte del problema, siamo già nella logica razzista che nega che esiste razzismo, e che rifiuta di vedere che i bambini riproducono quello che vivono attorno a loro (si veda lo splendido lavoro di Paola Tabet, La pelle giusta). Per il sessismo, la situazione più frequente è una vaga idea di pari opportunità (in Italia trattiamo allo stesso modo bambini e bambine) alla cui base vi è la convinzione che se alla fine alle bambine piace stare più con le bambine, allora vuol dire che è «naturale». Offrire la possibilità ai bambini di giocare con le bambole non cambia i rapporti sociali di sesso. In questo momento storico, c’è poco spazio e legittimità per discutere con i docenti e per preparare i docenti ad altri modi di affrontare il razzismo e il sessismo, che appunto mettano in discussione l’idea di natura come fulcro dei gruppi sociali di uomini e donne, bianchi e neri.

SARA: Che il razzismo (il sessismo) non si possa limitare all’espressione di ostilità è una delle principali conseguenze delle analisi proposte da Guillaumin ne L’idéologie raciste, il testo citato in precedenza da Vincenza (ne riuscirà a breve una riedizione dopo quella del 2001). Nel corso di tutto il suo lavoro, Guillaumin mostra come la celebrazione de la-differenza che sarebbe propria di specifici gruppi sia un’altra forma attraverso la quale si produce l’inferiorizzazione e l’alterizzazione dei gruppi socialmente oppressi. Qualunque forma di rivendicazione de la-differenza è, pertanto, a suo giudizio funesta politicamente perché rafforza quell’ideologia naturalista che sostiene l’oppressione materiale dei gruppi subordinati. Ma Guillaumin insiste anche su un secondo aspetto. Non solo il razzismo non si limita alle manifestazioni individuali di odio, comprendendo forme di celebrazione differenziale e compensatoria dei dominati, ma il razzismo opera al di là delle mere volontà individuali. Si tratta di un sistema che gerarchizza e naturalizza due gruppi asimmetrici in termini di potere. Questo sistema attraversa e intacca le diverse strutture sociali e mentali che definiscono il mondo sociale in cui viviamo. Una tale prospettiva ha una duplice conseguenza in termini analitici e politici. Da un lato, mostra la non pertinenza di nozioni quali «razzismo anti-bianchi», «razzismo anti-uomini» o «eterofobia» usati oggi da alcuni degli attori e dei gruppi che attaccano i saperi e le lotte minoritarie. Dall’altro, permette di rendere visibile che i gruppi dominanti secondo i diversi assi di categorizzazione (razza, genere, sessualità), benché eterogenei al loro interno, godono di un sistema di privilegi che corrisponde al sistema di privazioni dei gruppi oppressi. Nel saggio Pratique du pouvoir et idée de nature pubblicato nel 1978 su Questions féministes, Guillaumin scrive: «si dice dei Neri che sono neri rispetto ai Bianchi, ma i Bianchi sono solo bianchi. Non è, tra l’altro, affatto certo che i Bianchi siano di un qualsivoglia colore». I bianchi non fanno parte delle «persone di colore»: «il bianco», il referente, non ha colore. Analogamente, nella designazione dell’appartenenza di sesso, la categoria differenziale è quella di «donna». «L’uomo» («l’eterosessuale») è il non-detto, l’implicito delle categorie sessuali. Guillaumin enuncia, così, il vantaggio strutturale dei dominanti: l’essere bianchi – lo stesso vale per l’essere uomini, l’essere eterosessuali – rimanda al sistema normativo in vigore ovvero ad un sistema di privilegi materiali e simbolici che non si pensa, né vede come tale, ma si dà come «normalità», «natura», «universale».

MANASTABAL: Tradurre significa anche forzare la lingua di arrivo introducendo termini nuovi, non ancora consacrati dall’uso. Nel caso di Guillaumin spicca il conio sexage, che voi avete scelto di rendere in italiano con «sessaggio». Potete spiegare a chi ci legge che cos’è il sessaggio? In quale misura, a vostro parere, questo concetto si presta ad analizzare le dimensioni attuali della subordinazione patriarcale delle donne? Qualche esempio?

SARA: Al momento dell’ideazione e della preparazione di Non si nasce donna che proponeva, insieme a brevi introduzioni al pensiero delle femministe materialiste, alcune traduzioni dei loro articoli, ho avuto la possibilità e il privilegio di discutere con Mathieu, Guillaumin e Delphy. Molti degli scambi riguardavano l’importanza che ognuna di loro attribuiva alla traduzione. Una tale attenzione al linguaggio non stupisce coloro che conoscono i testi di queste teoriche. Una parola non è mai usata a caso o fuori posto. Figuriamoci un concetto. Non è difficile capire il perché: per queste teoriche il linguaggio è un’arma a doppio taglio. Da un lato, è un vettore di oppressione (pensiamo semplicemente al fatto che nella gran parte delle lingue parlate non si può non dire il sesso), dall’altro è uno strumento di possibile emancipazione quando è reinvestito dai soggetti minoritari per nominare e far vedere forme di dominazione invisibili in assenza della teorizzazione minoritaria. Una dei celebri passaggi de Les Guérillères di Wittig afferma che «ogni parola deve essere passata al vaglio». Nicole-Claude Mathieu ha scelto questa frase come esergo del primo tomo de L’anatomie politique. Tradurre i concetti cercando di restituire al meglio il rigore con cui erano stati elaborati e di rendere la loro portata epistemologica è stato il nostro imperativo durante la realizzazione del libro. Nel caso del concetto di sexage la scelta è stata semplice. È Guillaumin a creare in francese il neologismo sexage, coniato per vicinanza e assonanza coi termini esclavage (schiavitù) e servage (servaggio), per esprimere il rapporto di classe che lega quella degli uomini a quella delle donne. Si tratta di un rapporto di reificazione, di alterizzazione, di appropriazione. Non c’è, pertanto, mai stato alcun dubbio (nemmeno per Guillaumin, tra l’altro): «sessaggio» rendeva in italiano il sexage francese. Tra i «mezzi concreti» attraverso cui il sessaggio si dispiega, Guillaumin e, più in generale, le femministe materialiste individuano diverse istituzioni e processi e ne analizzano il funzionamento. Tra di essi: il lavoro domestico, il contratto di matrimonio, i processi di socializzazione infantile, la rigida sessualizzazione dello spazio (privato e pubblico), l’accudimento materiale ed emotivo degli individui più deboli in seno alla famiglia o alla società, il sotto-equipaggiamento tecnologico delle donne rispetto agli uomini, l’uso della violenza psicologica o fisica da parte della classe degli uomini contro le donne per soggiogare o anche solo per intimidire e ridurre al silenzio ciascuna donna e per esprimere i diritti di proprietà che ciascun uomo può vantare sulla classe delle donne.

VINCENZA: Sì, tradurre è anche «forzare» la lingua di arrivo, che è anche un’enorme responsabilità vista l’attenzione che storicamente tutti i gruppi minoritari (nel senso datole da Guillaumin) hanno dato al linguaggio in quanto terreno non «neutro», che riflette, veicola e riproduce i rapporti di dominio. Sono note, e citatissime, in questo senso le pagine che bell hooks dedica al linguaggio come «luogo di lotta» (in uno dei saggi da poco riediti tra l’altro da Tamu Edizioni). Non è un caso che la produzione militante e teorica dei movimenti degli ultimi decenni, da quelli femministi a quelli lgbtqi, dai movimenti postcoloniali a quelli decoloniali, sia caratterizzata anche dalla produzione di neologismi, necessari per nominare e dare «corpo» a nuovi concetti e pratiche, per autorappresentarsi e autodefinirsi fuori dalle logiche anche linguistiche di dominio. Nelle femministe materialiste questa attenzione al linguaggio è fortissima, come emerge chiaramente dai loro testi, coniugandosi, come hanno potuto sperimentare direttamente quante di noi hanno avuto la preziosa possibilità di un confronto anche solo con alcune di loro, a quel rigore estremo che viene dalla consapevolezza di esprimere (e restituire) un tipo di approccio che rompe radicalmente gli schemi analitici precedenti. Per venire al termine sexage coniato da Guillaumin per indicare il rapporto di appropriazione da parte del gruppo sociale degli uomini della classe delle donne, la traduzione con sessaggio ci è sembrata valida (nonostante l’esistenza del termine in italiano per indicare altro) pur se non mantiene e restituisce del tutto, come in francese sexage, l’assonanza con, e l’insieme di significati veicolati da, i termini esclavage (schiavitù) e servage (servaggio). Abbiamo comunque ritenuto, ad ogni occorrenza del termine, di rinviare a scanso di equivoci (e a maggior ragione visto che si tratta di una raccolta di saggi che possono anche essere letti separatamente e non necessariamente nella loro sequenza di pubblicazione), alla pagina in cui Guillaumin nomina per la prima volta il neologismo dandone spiegazione. All’interno del volume Guillaumin offre molteplici esempi, tra l’altro in una continua connessione con il lavoro delle altre femministe materialiste, degli ambiti e dei meccanismi attraverso i quali opera questa appropriazione della classe delle donne da parte della classe degli uomini, un’appropriazione che investe sia la dimensione «fisica» che quella «mentale», e che opera sia sul piano individuale/privato che collettivo/pubblico. E nonostante i progressi dovuti alle mobilitazioni femministe di questi ultimi decenni (anche a partire da quelle portate avanti dalle femministe materialiste, che oltre che delle teoriche sono state, vale la pena ricordarlo, anche delle militanti impegnate in prima persona nel movimento femminista delle anni Settanta e oltre), il sessaggio, in varie forme, permane ancora oggi, come del resto abbiamo potuto osservare chiaramente, ad esempio, per quanto concerne l’ambito del lavoro domestico e di cura, nella crisi generata dalla pandemia Covid-19 in questi mesi.

VALERIA: Il lavoro sulla lingua è uno dei tratti più contundenti nella produzione delle femministe materialiste, penso non solo ovviamente a Wittig, ma anche a Mathieu, all’assidua attenzione nella scelta delle parole nelle sue analisi. Al pari di Sara e Vincenza, ho avuto l’immenso piacere di discutere con Mathieu, Guillaumin e Tabet e in questi incontri tutte scavavano nella lingua per trovare il modo di esprimere al meglio ciò che si esaminava. Si potrebbe suggerire che, di fronte alla negazione e/o invisibilizzazione di un rapporto di oppressione, il conio di nuovi termini può aiutare a vederli, a nominare quello che viviamo quotidianamente (sappiamo quanto è importante nominare, e farlo collettivamente). Il sessaggio è un rapporto sociale di appropriazione fisica da parte della classe degli uomini della classe delle donne, del loro corpo inteso come unità produttrice e riproduttrice della forza lavoro. Ora, oggi questa nozione può sembrare dissonante, soprattutto per gli uomini, perché si pensa che siamo meno appropriate rispetto alle nostre madri o nonne, o che non lo siamo affatto. Non è necessario negare i cambiamenti e i miglioramenti, per osservare il quadro attuale con uno sguardo attento e riconoscere come si riproducono queste forme di appropriazione pur in condizioni di maggior autodeterminazione per le donne rispetto al passato. Innanzitutto dobbiamo andare oltre a una visione individuale e osservare la società nel suo insieme, per poi anche osservare i casi individuali collocati in una struttura più ampia. Un esempio di sessaggio lo abbiamo avuto durante il lockdown: nel lavoro accademico, a livello globale, è brutalmente diminuito il numero di articoli proposti da donne alle riviste, mentre è aumentato quello proposto da uomini, ovvero quando vengono meno i servizi sociali come la scuola o il supporto di altre donne, il lavoro domestico e riproduttivo ricade tutto sulle donne. Si è trattato di una forma di appropriazione della forza lavoro delle donne, del loro intero corpo, inclusa la loro capacità di essere compagne intellettuali con cui ci si confronta sulla proposta di articolo. E questa appropriazione è successa in modo «naturale», per molti/e in modo che sembra «automatico». Oppure se vogliamo guardare l’Italia, un esempio di sessaggio è l’appropriazione del corpo riproduttivo delle donne, con lo svuotamento della legge 194 e la conseguente difficoltà ad interrompere una gravidanza in sicurezza nel servizio pubblico. Alle donne è di fatto impedito di autodeterminarsi, di decidere del proprio corpo, in questo senso il passaggio sulla pillola RU486 di questa estate è importante. Lo svuotamento della 194 va di pari passo con la richiesta di fare più figli o di fare figli tout court. La mancanza di uno stato sociale che offra alle persone anziane soluzioni dignitose per vivere e curarsi, è una forma di sessaggio, poiché la cura di queste persone ricade sulle donne, che siano interne alla famiglia, o esterne ad essa e a pagamento. Ma voglio ricordare che la caratteristica del sessaggio non è solo l’appropriazione sul piano materiale, poiché essa è sempre accompagnata dall’appropriazione psicologica sul piano individuale, sia nei termini di lavoro mentale, sia nei termini di ideologia. Cosa vuol dire? Che noi crediamo che sia naturale, innato, questo tipo di rapporto, che sia l’unico possibile, o anche che sia giusto così, e invece non è l’unico possibile! Leggere Guillaumin è una boccata d’aria per dirci insieme che questo non è l’unico modo di vivere le relazioni tra quei gruppi che abbiamo imparato a considerare naturali, uomini e donne, ma che naturali non sono.

Mi piace pensare che questa traduzione permetta di far entrare in dialogo il lavoro di Guillaumin con quello di tante altre femministe che oggi innervano la riflessione femminista in Italia, e con quello di autrici ancora poco note, penso alle femministe decoloniali, ricordando che in America latina la traduzione di Guillaumin e di altre FMF è arrivata ben prima di qui, forse anche per la radicalità delle lotte delle donne razzizzate in questa regione.

MANASTABAL: In Questione di differenza, uno dei saggi già citati da Valeria, Guillaumin non risparmia critiche pungenti ai gruppi minoritari che riducono la propria politica a gesti di «rivendicazione culturale» e ostentano un’indifferenza sdegnosa per il potere che comunque non hanno, bollando questo atteggiamento come una «reazione di fuga». A ben vedere non si tratta di osservazioni isolate, o estranee alla sensibilità di altre animatrici del collettivo di Questions féministes: già nel 1970 Delphy concludeva l’articolo Il nemico principale sostenendo che il movimento di liberazione delle donne avrebbe dovuto prepararsi per una lotta «rivoluzionaria», intendendo dire che la distruzione del sistema di produzione e riproduzione patriarcale non si sarebbe compiuta senza «presa del potere politico». Si tratta di una prospettiva sicuramente anomala rispetto a quella abbracciata da tradizioni femministe più consolidate nel nostro paese: una prospettiva distante sia dal proposito (lonziano, per capirsi) di muoversi su un piano totalmente altro rispetto a quello del potere, sia dall’idea che restituire potere alla dominate equivalga a istituire quote rosa, sfondare tetti di cristallo o distribuire cariche di prestigio a una frazione privilegiata di donne chiamata a cogestire l’esistente. Ora, a decenni di distanza, e in una fase in cui la memoria storica è stata azzerata, alla cultura egemone riesce sin troppo facile ironizzare sullo slancio rivoluzionario che motivava l’appello alla «presa del potere politico», a maggior ragione se declinata in chiave femminista. Altrettanto facile, per la cultura egemone, è indulgere nella sopravvalutazione dell’effettivo potere sociale dei gruppi minoritari, grazie all’uso disinvolto di concetti come empowerment ed agency. Resta il fatto che un meccanismo sociale di appropriazione materiale e ideologica delle donne come quello ricapitolato dal concetto di sessaggio si è dimostrato relativamente invulnerabile alle rivendicazioni culturali delle minoranze. E dunque, come si disarmano gli appropriatori? Il dominante, dice Guillaumin, teme più di tutto l’eventualità dell’«autonomia concreta» delle dominate: come si costruiscono, collettivamente, «la ricerca e l’acquisizione dei mezzi pratici e concreti dell’indipendenza»?      

VALERIA: È una questione complessa, e, a partire dalla mia esperienza, anche come antropologa femminista, la risposta non credo possa essere una sola, non esiste una sola formula, ma tante pratiche che funzionano a seconda dei contesti e dei momenti, e che contribuiscono ad acquisire i mezzi pratici e concreti dell’indipendenza. Se penso alle proposte di legge elaborate da Marielle Franco, consigliera comunale nera, socialista, femminista, madre, lesbica e abitante delle favelas uccisa a Rio de Janeiro nel marzo del 2018, riconosco proprio questo tipo di azione politica che cerca di produrre un’autonomia concreta, in particolare delle donne nere, lesbiche, madri, abitanti delle periferie. Il fatto di essere eletta e di entrare nel consiglio comunale, uno spazio bianco, maschile ed eterosessuale, con un progetto politico di riconoscimento delle lotte portate avanti dalle lesbiche, dalle donne nere delle periferie è stato un atto dirompente, che ha prodotto la sensazione di un attacco al potere, in tutte le sue vesti. La sua presenza in quello spazio è stata percepita come un’azione volta a disarmare gli appropriatori, e questo elemento certamente va considerato quando pensiamo alle motivazioni dietro alla sua uccisione (sul piano giudiziario si sa ancora molto poco). La sua traiettoria politica, la sua vita è stata spezzata anche dalla violenza maschile, associata ad altre forme di violenza come il razzismo e la lesbofobia, proprio nel momento in cui lei esercitava un’autonomia concreta per i gruppi che rappresentava. La sua traiettoria ci ricorda anche che lei è parte di una lunga storia, un punto in una lotta che l’ha preceduta e che continua, che oggi per esempio vede tante nuove donne nere e lesbiche presenti in spazi istituzionali bianchi, maschili e eterosessuali in cui portano avanti azioni politiche concrete per rendere le donne, le donne nere e povere meno dipendenti e meno appropriate. Tuttavia la traiettoria di Marielle Franco e di altre donne e trans nere oggi presenti nelle istituzioni brasiliane, non può essere ricondotta a qualcosa di simile alle quote rosa. Questo perché dietro alla singola, c’è un lavoro collettivo, una pratica condivisa di lotte che sono dirette a combattere l’appropriazione, che Marielle Franco ha saputo restituire, con un’incredibile capacità analitica e comunicativa, come appropriazione su più piani: come donne, nere, lesbiche, abitanti delle periferie. Non credo che gli appropriatori si disarmino solo con le leggi, anche se esse sono necessarie. L’esercizio dell’autonomia concreta, l’autonomia economica delle donne, delle lesbiche, è costantemente sotto attacco e solo un progetto collettivo può creare delle fratture in sistemi solidi come la dominazione degli uomini. Se pensiamo a come la sessualità sia uno spazio politico di oppressione delle donne, per esempio riprendendo il lavoro di Tabet sullo scambio sessuo-economico (disponibile in italiano), capiamo come si produce l’appropriazione e la dipendenza, tra l’altro non solo nelle società occidentali, e come servano trasformazioni strutturali. In Italia, la rivendicazione per un reddito per l’autodeterminazione, portata avanti da diversi gruppi femministi, tra cui Amatrix e oggi Non una di meno, è una tappa per esercitare la propria indipendenza, per uscire dalla famiglia.

SARA: Il ragionamento di Delphy mi pare cristallino e coerente: le donne non sono né un gruppo naturale, né un club che federa le portatrici di una data forma di «alterità» o «differenza». Le donne sono una classe oppressa, ovvero un gruppo costituito da un dato sistema di oppressione. Tale oppressione permea tutte le strutture sociali (in questo senso, è un sistema) e, come lo mostrano bene le analisi di Guillaumin e Wittig a proposito della pervasività del senso comune eteronormato, è incorporata quale fosse una «seconda natura» negli automatismi categoriali e motori dei membri delle due classi di sesso. La «liberazione» della classe (di sesso) oppressa necessita, dunque, la contestuale realizzazione di due condizioni: la distruzione delle basi materiali e simboliche su cui si fonda la nostra società – il che non è proprio un’inezia da realizzare –  e la perdita da parte della classe degli oppressori degli smisurati poteri e privilegi che essi detengono – idem come sopra. Come ciò può avvenire? Occorre fare una rivoluzione, e una rivoluzione si fa… facendo la rivoluzione, dice Delphy. Detto altrimenti, la rivoluzione si fa – cito Delphy – «non prendendo un aperitivo insieme», ma prendendo insieme il potere politico. Leggendola, e leggendo le altre femministe materialiste, si capisce bene il fatto che tali teoriche pensino il potere politico tanto nel senso proprio, quanto nel senso più largo del termine. Basti pensare alla loro visione teorica e alla loro pratica politica del diritto come arma (pensiamo, ad esempio, all’engament di Delphy per l’adozione della legge che ha autorizzato l’interruzione volontaria di gravidanza, o quella per la criminalizzazione dello stupro, o quella per la «parità in politica» da lei difesa come strumento di «affirmative action»). Lungi dal produrre per le donne e, più in generale, per i soggetti minoritari una reale uguaglianza «in termini di poter fare o di poter dire», «l’acquisizione di un dato statuto giuridico» rappresenta – sto citando Guillaumin –  una fondamentale «rottura della soglia percettiva» che produce per il soggetto minoritario un «nome reale e irrevocabile: ciò che il diritto nomina esiste». Le conquiste giuridiche da parte dei gruppi minoritari, pertanto, danno vita per queste teoriche non solo a una maggiore uguaglianza formale (che è già qualcosa), ma anche a una «resistenza nuova» nei confronti dei dispositivi ideologici – religiosi, morali, (pseudo)scientifici – e materiali che contribuiscono pesantemente all’inferiorizzazione dei gruppi minoritari. In altre parole, la rivoluzione deve essere declinata in tutti i modi in cui si declina il sistema dell’oppressione e investire tutte le strutture sociali e le categorie mentali. Come scrive Delphy nel lungo saggio che apre L’ennemi principal: penser le genre, la lotta femminista e, più in generale, la lotta minoritaria rivela l’esistenza di una serie di gerarchizzazioni sociali che per il senso comune sono considerate essere frontiere «naturali», «evidenti», quindi intoccabili: quella tra uomini e donne, tra eterosessuali e non-eterosessuali, tra pubblico e privato… La lotta femminista e, più in generale, la lotta minoritaria è, pertanto, una lotta che mira a distruggere l’efficienza del sistema di dominazione che ha costituito il gruppo minoritario. Per queste pensatrici la lotta rivoluzionaria minoritaria è, pertanto, ad un tempo, lotta politica situazionale – spostamento delle frontiere, diversa inclinazione delle gerarchizzazioni – e lotta politica utopica che immagina una loro sparizione. In tale ottica, i gruppi minoritari non sono né un’«illusione da dissipare» per via di «integrazione» o di «assimilazione», né una «natura a parte», sempre e comunque «differente» e «marginale». L’«assimilazionismo» e il «marginalismo» sono per queste teoriche due forme equivalenti di disfattismo politico che non intaccano né il principio di visione e di divisione sessista ed eteronormativo che regge la pratica del potere, né il rapporto sociale che produce gli uomini e le donne come gruppi naturali e naturalmente complementari.

VINCENZA: Prima di provare a rispondere alla domanda, una piccola nota. Mi sembra che la prospettiva di una lotta femminista «rivoluzionaria» nei termini tratteggiati da Delphy nel saggio che citate (tra l’altro uno dei pochi a essere stato tradotto in Italia, e in ben due traduzioni diverse, poco tempo dopo la sua pubblicazione in Francia) non sia del tutto «anomala» se confrontata (pure nelle diversità di approcci e quadri concettuali proposti) con alcune delle elaborazioni e pratiche politiche portate avanti da alcuni gruppi femministi italiani degli anni Settanta, molto lontane da quelle che giustamente definite le «tradizioni femministe più consolidate nel nostro paese». Erano infatti esperienze che si muovevano intrecciando e tenendo insieme i due piani, ovvero sia quello «rivendicativo» e quindi di negoziazione con lo Stato e le sue leggi — dalle lotte per il diritto all’aborto libero e gratuito alla richiesta di un salario per il lavoro domestico/contro il lavoro domestico —, che della lotta autonoma, per la totale rimessa in discussione delle strutture sociali che sostengono l’appropriazione materiale e ideologica delle donne. Quindi anche con delle «assonanze» (nonostante differenze non da poco sul piano analitico) con la traiettoria politica delle femministe materialiste francofone, molte delle quali sono state, come sappiamo, anche militanti della prima ora nel Mouvement de libération des femmes, impegnate nelle lotte per i diritti delle donne (ad esempio Christine Delphy e Monique Wittig sono tra le firmatarie di quello che è noto come le manifeste des 343 del 1971), e di altri gruppi minoritari. Quindi non c’è, da parte delle femministe materialiste un rifiuto del piano dei diritti formali/giuridici, ma piuttosto la consapevolezza che sono nello stesso tempo necessari e non sufficienti. Come sottolinea infatti Guillaumin in Questioni di differenza la conquista di determinati diritti (e tra gli esempi cita la conquista dell’indipendenza giuridica dei paesi colonizzati o dei diritti civili da parte degli afro-americani) non ha storicamente prodotto automaticamente un’uguaglianza «reale». Anche noi donne, scrive ancora Guillaumin, abbiamo legalmente diritto allo stesso salario degli uomini, ma nella realtà non abbiamo lo stesso salario. Ma questo non equivale a dire che le lotte per i diritti siano inutili, sono anzi necessarie per (e cito quasi integralmente):

1) la presa di coscienza del carattere politico della situazione dei dominati 2) la dimostrazione ai dominanti dell’esistenza dei dominati 3) e per gli interessi pratici reali conseguenti all’applicazione di ciò che era stato ottenuto e per le possibilità di altre lotte che queste tappe implicavano.

Quindi, i diritti, le leggi servono ma non bastano, poiché non sufficienti per smantellare le strutture di potere che determinano l’appropriazione materiale e ideologica delle donne e degli altri gruppi minoritari. Ma quindi, per provare finalmente a rispondere alla vostra domanda, come possiamo trovare e costruire i mezzi pratici e concreti per una reale indipendenza? Penso che oggi questa strada vada cercata, individualmente e collettivamente, in due direzioni strettamente connesse. Da una parte penso sia fondamentale, costruendo alleanze transnazionali con altre soggettività oppresse, continuare a lottare sia per l’ottenimento di quei diritti fondamentali di cui in tante/i sono oggi ancora prive/i, sia per difendere quei diritti già ottenuti (faticosamente tra l’altro) ma oggi sotto attacco. Dall’altra penso che a partire dalla «coscienza esatta del posto che si occupa nella società», ognuna/o di noi, individualmente e collettivamente, possa e debba continuare a «pensare» nuove modalità/mezzi concreti per scardinare nelle fondamenta le strutture sociali, materiali e ideologiche alla base della dominazione nelle sue varie forme (un esempio mi sembra essere la risignificazione della modalità classica dello sciopero messa in opera con lo sciopero globale delle donne), perché come scrive Guillaumin a proposito degli effetti teorici della collera delle oppresse (e di altre soggettività minoritarie), «pensare è già modificare. Pensare un fatto è già modificare questo fatto».