«Una sorta di paradosso, ma non proprio»: il corpo lesbico di Monique Wittig, cinquant’anni dopo

A cinquant’anni dall’uscita di Le corps lesbien, e in vista dell’imminente pubblicazione della nuova versione italiana (a cura di Deborah Ardilli) per VandA Edizioni, proponiamo — nella bella traduzione di Sara Garbagnoli — due testi di Monique Wittig finora inediti in italiano: la Author’s Note che accompagna l’edizione inglese dell’opera (The Lesbian Body, Owen, London 1975) e Some Remarks on The Lesbian Body (1997-2001), scritto su richiesta di Namascar Shaktini e pubblicato nella silloge da lei curata, On Monique Wittig: Theoretical, Political and Literary Essays, per i tipi della University of Illinois Press. Quest’ultimo testo è stato ripreso nella ristampa francese di Le corps lesbien uscita nel gennaio 2023 per le Éditions de Minuit.

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Molte scrittrici hanno fatto sapere (o hanno lasciato che si sapesse) di essere «omosessuali», ma Wittig è stata la prima — e, ad oggi, l’ultima — ad avere collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro del lavoro di scrittura.

Christine Delphy (1985)

Copertina della prima edizione di Le Corps lesbien, Éditions de Minuit, Paris 1973

Nota dell’autore

di Monique Wittig (trad. it. di Sara Garbagnoli)

Il corpo lesbico ha per tema il lesbismo ovvero un tema che non si può nemmeno definire tabù perché non esiste nella storia della letteratura. La letteratura omosessuale maschile ha un passato, ha un presente. Le lesbiche, da parte loro, sono silenziose, come lo sono a tutti i livelli tutte le donne in quanto donne. Quando si sono lette le poesie di Saffo, Il pozzo della solitudine di Radclyffe Hall, le poesie di Sylvia Plath e di Anais Nin, La Bastarda di Violette Leduc, si è letto tutto. Solo il movimento delle donne si è dimostrato capace di produrre testi lesbici in un contesto di totale rottura con la cultura maschile, testi scritti da donne esclusivamente per donne, incuranti dell’approvazione maschile. Il corpo lesbico rientra in questa categoria.

Nel libro, le descrizioni delle isole alludono alle Amazzoni, alle isole delle donne, ai domini delle donne che esistevano in passato e che avevano una cultura propria. Ma alludono anche alle Amazzoni del presente e del futuro. Già abbiamo i nostri isolotti, le nostre isole, siamo già in procinto di vivere in una cultura che ci favorisce. Le Amazzoni sono donne che vivono tra di loro, da sole e per se stesse a tutti i livelli: immaginario, simbolico, reale. Poiché siamo illusorie per la cultura maschile tradizionale, non facciamo distinzione tra i tre livelli. La nostra realtà è la realtà immaginaria accettata socialmente, i nostri simboli negano i simboli tradizionali e sono immaginari per la cultura maschile tradizionale, e noi possediamo un’intera dimensione immaginaria in cui proiettiamo noi stesse e che è già una possibile realtà. È la nostra dimensione immaginaria che ci convalida.

Il corpo del testo sussume tutte le parole del corpo femminile. Il corpo lesbico cerca di affermare la propria realtà. Gli elenchi di nomi contribuiscono a questa attività. Recitare il proprio corpo, recitare il corpo dell’altra, è recitare le parole di cui si compone il libro. La fascinazione per lo scrivere il mai scritto prima e la fascinazione per l’inarrivabile corpo procedono dallo stesso desiderio. Il desiderio di portare il corpo reale violentemente in vita nelle parole del libro (tutto ciò che è scritto esiste), il desiderio di fare violenza, scrivendo, al linguaggio in cui I/o [J/e] può entrare solo di forza. ‘Io’ [Je] come soggetto femminile generico può entrare solo con la forza in un linguaggio che gli è estraneo, perché tutto ciò che è umano (maschile) gli è estraneo, non essendo l’umano femminile, dal punto di vista grammaticale, umano riguarda i pronomi ‘egli’ [il] e ‘essi’ [ils, in francese]. ‘Io’ [Je] nasconde le differenze sessuali delle persone verbali, mentre le specifica nell’interscambio verbale. ‘Io’ [Je] cancella il fatto che ‘essa’ [elle] o ‘esse’ [elles] sono sommerse in ‘esso’ o ‘essi’, cioè che tutte le persone femminili sono complementari a quelle maschili. L’‘Io’ femminile [Je] che parla può fortunatamente dimenticare questa differenza e assumere indifferentemente il linguaggio maschile. Ma l’‘Io’ femminile [Je] che scrive è ricondotto alla sua esperienza specifica di soggetto femminile. L’‘Io’ [Je] che scrive è estraneo alla sua stessa scrittura in ogni parola che scrive perché questo ‘Io’ [Je] usa un linguaggio estraneo all’‘Io’ femminile. Questo ‘Io’ [Je] sperimenta ciò che le è estraneo, poiché questo ‘Io’ [Je] non può essere “uno scrittore”. Se, scrivendo je, adotto il suo linguaggio, questo je non può farlo. J/e è il simbolo dell’esperienza vissuta e lacerante che è la m/ia scrittura, di questo taglio in due che in tutta la letteratura è l’esercizio di un linguaggio che non m/i costituisce come soggetto. J/e pone la questione ideologica e storica dei soggetti femminili. (Alcuni gruppi di donne hanno proposto di scrivere ‘ioo’, jee, o ‘ia’, jeue). Se I/o [J/e] esamina la m/ia situazione specifica di soggetto nella lingua, I/o [J/e] sono fisicamente incapace di scrivere ‘Io’ [Je], I/o [J/e] non ho alcun desiderio di farlo.

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Un moie est apparu… testo di Monique Wittig apparso nel 1972 sul numero 5 di Le torchon brûle, il giornale pubblicato dal Mouvement de Libération des Femmes dal 1970 al 1973.

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Alcune osservazioni su Il corpo lesbico

di Monique Wittig (trad. it. di Sara Garbagnoli)

Per Il corpo lesbico mi sono trovata di fronte alla necessità di scrivere un libro interamente lesbico nella sua tematica, nel suo vocabolario e nella sua struttura, un libro lesbico dall’inizio alla fine, dalla prima alla quarta di copertina. Mi trovavo quindi di fronte a un doppio vuoto: quello della pagina bianca, che tutti gli scrittori devono affrontare quando iniziano un libro, e un altro di natura diversa: la non esistenza di un tale libro fino ad allora. Non mi ero mai trovata di fronte ad una sfida così radicale. Potevo tentare? Ne ero capace? E cosa sarebbe stato questo libro? Ho tenuto il manoscritto in un cassetto per sei mesi prima di consegnarlo al mio editore.

Non c’erano libri lesbici, a parte Saffo; almeno così la vedevo io all’epoca (non conoscevo ancora Djuna Barnes). Saffo era, insieme a Pindaro, uno dei più grandi poeti lirici del V secolo a.C.

Così, ho iniziato a scrivere frammenti in questo territorio vergine, con Saffo come unico orizzonte. Ho perso quei frammenti. Non funzionavano. Ricordo che a quel punto una delle possibilità formali che avevo in mente era quella di utilizzare l’intera opera di Saffo e di comporre intorno ad essa, di mettere l’intera opera di Saffo al centro e di scrivervi attorno, ai suoi margini. Poi, ho visto un’altra possibilità, che sarebbe stata quella di incorporare il testo di Saffo nel mio lavoro, di intertestualizzarlo nel mio lavoro. Ma nemmeno questo ha funzionato, perché i poemi di Saffo venivano da troppo lontano e si riferivano a un luogo, a un’epoca e a personaggi di cui non sapevo nulla.

Di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi sopravvivono pochissimi versi. Il più lungo
frammento sopravvissuto è stato spesso imitato come modello di lirica, in particolare da
Louise Labé nel XVI secolo, o da Boileau, autore de L’Art poétique, nel XVII secolo. Saffo
era in grado di esprimere la passione con grande economia di mezzi, ma con estrema potenza.


Quando scrive «quando ti vedo, divento più verde dell’erba», evocando il ruolo degli organi
come il fegato e cistifellea nella passione carnale, o meglio il tormento degli organi fino al
punto estremo in cui ci si sente vicini a soccombere tale è la violenza della passione.
La maggior parte dei frammenti saffici è composta da uno o due versi, a volte solo da due
parole. E in questi frammenti la violenza non è espressa o percepibile. Al contrario, si può
supporre che i personaggi vivessero in un mondo privo di violenza. E in nessun punto le
poesie suggeriscono che ci sia un’oppressione delle donne da parte degli uomini. Gli storici
hanno poi paragonato Saffo a Platone, la sua scuola di Lesbo a quella socratica. Per noi è
rimasta un mistero totale. È un enigma.

Se mi soffermo tanto sull’opera di Saffo, è perché questa idea di prendere lei come il TESTO, la Bibbia, le livre, il libro, e di scrivere intorno ad essa, è un’idea ricorrente per me. Ma non funziona mai. Mi trovo sempre davanti allo spazio bianco della pagina, questo spazio che io chiamo il cantiere letterario. Non insisterò mai abbastanza su questo spazio che, per ogni scrittore, può in ogni momento diventare un abisso, un abisso da cui c’è sempre il rischio di non poter uscire.

Cercare una nuova forma, provare a scrivere di ciò che non osa dire il suo nome, provare a scriverne con forza, questo era il dilemma con cui mi confrontavo. Le cose erano tali che la violenza era al centro e al cuore di questa impresa. È necessario parlare di una violenza della scrittura perché è sempre così per le forme innovative: minacciano le altre forme, fanno loro violenza. Lo si fa con le parole, parole che devono essere investite di una nuova forma e di conseguenza di un nuovo significato. Lo si fa con parole che devono provocare uno shock sui lettori. Se i lettori non sentono lo shock delle parole, non hai fatto il tuo lavoro. Questo vale per qualsiasi opera letteraria. C’è, quindi, fin dall’inizio una violenza fatta al lettore. Un buon lettore può essere colpito da questo processo come da un’esplosione. (È quello che ho provato per strada quando ho letto per la prima volta Tropismi di Nathalie Sarraute. Dopo di allora, la scrittura e la lettura non sono più state le stesse per me).

Il secondo tipo di violenza che ho sentito di dover esprimere in questo libro che non era ancora mai esistito era la violenza della passione. La passione che non osa dire il suo nome – la passione lesbica. Devo qui dire, per spiegare perché il mio libro Il corpo lesbico dovesse essere così criptico e allo stesso tempo realistico nella sua espressione, che l’amore lesbico in letteratura esisteva solo come la forma più evanescente d’amore – ne è il miglior esempio l’opera di Colette – come legame di due esseri vittimizzati dagli uomini che cercavano di trovare insieme una forma di associazione che li univa. Nel contesto letterario in cui mi trovavo, Colette era la scrittrice più famosa. E in un tale contesto, le due povere donne si aiutavano a vicenda – per compassione – a superare l’acme della passione – l’orgasmo –come una suora che aiuta un moribondo.

Le lesbiche sono entrate nella letteratura moderna con Baudelaire, che ha inventato il termine; una prima versione de I fiori del male era intitolata Le lesbiche. Poi Verlaine ha scritto Parallelamente. Erano tempi di abbondanza per il lesbismo come paradigma letterario, con gli stessi uomini gay che nascondevano la loro omosessualità dietro personaggi lesbici. Non che voglia biasimarli. Dove sarei senza di loro? A quindici anni mi hanno detto tutto quello che dovevo sapere.

Ma torniamo al mio cantiere letterario, dove stavo con il fuoco tra i denti e nient’altro che una pagina bianca. Improvvisamente mi si pararono davanti due parole il cui accostamento mi fece scoppiare in una grande risata (si può ridere anche quando si è angosciati): corpo lesbico. Potete rendervi conto di quanto fosse ilare per me? È così che il libro ha cominciato a esistere: con ironia. “Corpo”, parola maschile in francese, era qualificato dalla parola “lesbico”. In altre parole, mi sembrava che “lesbico”, per la sua vicinanza a “corpo”, destabilizzasse la nozione stessa di corpo. Questo è un buon modo per farvi capire che uno scrittore scrive parola per parola, e ogni parola è un’entità sia materiale che concettuale. Da queste due parole si è dipanato l’intero libro Il corpo lesbico. Non tutto in una volta, ma a poco a poco, come si descrive un’armatura. Prima l’elmo, poi il pezzo per le spalle, poi il pezzo per il petto, e così via. Questo era il mio “corpo lesbico”, una sorta di paradosso, ma non proprio, una specie di scherzo, ma non proprio, una specie di impossibilità, ma non proprio.

In ogni caso, grazie a queste prime due parole, tutto ciò che avrei detto, sarebbe stato trasformato. Davanti alla necessità di dover usare il vocabolario anatomico per descrivere il corpo umano, ebbene, lo avrei ripreso per il mio scopo. L’intero lessico di quest’opera di finzione, Il corpo lesbico, è quindi tratto da un rigido vocabolario anatomico. In questo modo, ho acquisito un preciso insieme di parole per parlare del corpo senza metafore, rimanendo concreta e pragmatica, senza sentimentalismi o romanticismi.

Questo corrispondeva anche ad una mia vecchia idea, secondo la quale il vocabolario usato dallo scrittore doveva essere conosciuto in anticipo dal lettore. Ora potevo cominciare a costruire sulla mia pagina bianca. Il lessico anatomico è stato il primo strato dell’edificio. Ho fatto in modo che perforasse il libro da un capo all’altro, rivelando così la sua strumentalità. A partire da questo vocabolario rigoroso, ero in grado di lesbicizzare l’intera mappa dell’amore così come lo conosciamo. (Il mio modello è Alla ricerca del tempo perduto di Proust). Poi, strato dopo strato, ho potuto introdurre molteplici riferimenti all’amore carnale in grado di fondersi insieme per creare quella che ho chiamato passione lesbica.

Questo vocabolario anatomico è freddo e distante. Mi è servito come strumento per incidere la massa di testi dedicati all’amore. All’altro estremo, c’era per me la necessità di usare la violenza testuale come metafora della passione carnale.

Gli scritti da cui ho preso a prestito e ho intertestualizzato, gettato insieme, sono tratti da Ovidio (Le metamorfosi), da Du Bellay, Genet, Baudelaire, Lautréamont, Raymond Roussel, Nathalie Sarraute, dal Nuovo Testamento, dal Cantico dei Cantici, dai poemi omerici, e altro ancora. Mi sono permessa di attingere da questi scritti solo a condizione che la mente del lettore potesse associarli alla violenza. Dovevo rendere questi testi compatibili con l’idea che avevo di una tensione tra il “tu” e l’“io” che sono i protagonisti de Il corpo lesbico. L’intero progetto è una descrizione impassibile della passione lesbica; ho cercato di lasciarmi alle spalle Baudelaire, Lautréamont e Verlaine.

Perché cos’è l’estasi totale tra due amanti se non una morte squisita? Un atto violento (qui attraverso le parole) che può essere riscattato solo da una resurrezione immediata. I grandi amanti della cultura eterosessuale (Don Giovanni, Otello e persino il dolce Orfeo) sono, il primo, uno stupratore, il secondo, un assassino e il terzo un senza cervello. Invece, le amanti de Il corpo lesbico quando uccidono, risorgono, illustrando, così, la frase poetica della Bibbia secondo cui l’amore è più forte della morte. In un certo senso, non lasciamo l’ambito dell’ironia.

Volevo anche parlare dell’amore lesbico da un punto di vista carnale, in modo che sentimenti, abbandono, lacrime, tutti questi segni sociali dell’amore potessero essere annessi dal solo punto di vista carnale, un punto di vista momentaneo. Non ci sono coppie eterne, non c’è un amore rassicurante che porti il lettore all’idea di “felicità eterna”. Sto solo descrivendo un momento, uno stato dell’esistere che può capitare a chiunque e che non può durare. Non è il fondamento di uno stile di vita. Non ha nulla a che fare con la vita sociale. Perché i poemi non sono una rappresentazione della vita reale. E quando le due cose coincidono, il testo della vita e il testo del libro, può essere solo sotto forma di inspiegabili flash come in quei versi di Rimbaud che mi ossessionano e ancora provocano in me uno shock:

Au bois il y a un oiseau

Son chant vous arrête et vous fait rougir.

Nel bosco c’è un uccello,

Il suo canto vi ferma e vi fa arrossire.

Come ho scritto nel mio libro Il pensiero straight, i pronomi personali sono parte integrante di tutta la questione. A volte, penso a Il corpo lesbico come ad una fantasticheria basata sulla bella analisi del linguista Émile Benveniste sui pronomi io e tu. La barra nel mio I/o è un segno di eccesso. Un segno che ci permette di immaginare un eccesso di “Io”, un “Io” esaltato nella sua passione lesbica, un “Io” così potente da poter attaccare l’ordine dell’eterosessualità nei testi e lesbicizzare gli eroi dell’amore, lesbicizzare i simboli, lesbicizzare gli dei e le dee, lesbicizzare Cristo, lesbicizzare uomini e donne. Questo “io” e questo “tu” sono intercambiabili, non c’è una gerarchia tra “io” e “tu”, che è il suo simile. Inoltre, l’“io” e il “tu” sono molteplici. Possono essere visti come protagonisti diversi in ogni frammento.

Come ne Le guerrigliere, anche ne Il corpo lesbico, ho utilizzato una tecnica di montaggio (di composizione) come per un film. Tutti i frammenti erano stesi sul pavimento al fine di essere organizzati. Il libro è stato costruito su questo principio. L’organizzazione finale produce una simmetria asimmetrica. Con ciò intendo dire che ogni frammento è stato duplicato in una forma e in un significato leggermente diversi.

Il libro si compone, quindi, di due parti. Si apre e si chiude su se stesso. La sua forma può essere paragonata a un anacardo, a una mandorla, a una vulva.

Si chiamava Norma

di Yasmin Nair

Norma McCorvey nel 1989 – foto di Lorie Shaull

Chi era Jane Roe, ovvero Norma McCorvey, la querelante nel caso Roe v. Wade? La storica sentenza con cui nel 1973 la Corte suprema degli Stati Uniti aveva riconosciuto il diritto all’aborto è stata clamorosamente annullata nel giugno del 2022. Yasmin Nair ripercorre la vicenda di Norma McCorvey/Jane Roe, evidenziando i limiti dell’interpretazione liberale della pratica dell’autodeterminazione e le sue disastrose ricadute politiche.

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Ho scritto questo articolo nel 2020, due anni prima del recente annullamento della sentenza sull’aborto Roe v. Wade. Non mi interessava recuperare la figura di Norma McCorvey come quella di un’eroina senza macchia: il mio scopo era dimostrare che le nostre battaglie politiche più incisive sono radicate in vite e storie complicate che dobbiamo mettere in evidenza, non oscurare. McCorvey è stata usata da una comunità di attiviste per il diritto all’aborto che l’ha nascosta alla vista del pubblico, temendo che una persona così imperfetta (cioè, reale) potesse diminuire la simpatia verso la causa. Ma a cosa serve una causa che ignora la realtà delle vite che pretende di rappresentare? Oggi i liberal-democratici di tutto il mondo si torcono le mani per il recente annullamento di Roe, dichiarandosi scioccati dalla piega che hanno preso gli eventi. Ma Roe è stata praticamente inutile fin dall’inizio per le donne come McCorvey, perché è stata basata su concetti come “privacy” e “autonomia corporea”, che sono tutti fondati su un’economia di privilegi. La vita di Norma McCorvey ci ricorda che non dobbiamo ripristinare e ritornare a una Roe imperfetta e inefficace. Invece, in tutto il mondo, dobbiamo costruire un accesso all’aborto infinitamente migliore e più sostenibile, che veda l’aborto come una questione economica. (Y. N.)

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“Con lei, tutti i nostri passati – quello queer, quello femminista e quello apertamente etero – diventano infintamente più complicati e infinitamente più ricchi”.

Norma McCorvey è morta il 18 febbraio del 2017. Tre anni dopo, un documentario su di lei ha provocato sconcerto, costernazione e un profondo senso di tradimento da entrambe le parti del dibattito sull’aborto.

Norma McCorvey era Jane Roe, la querelante nella storica sentenza Roe v. Wade del 1973, alla quale viene ampiamente attribuito il merito di aver dato alle donne americane il diritto di “scegliere” l’aborto. Il film è AKA Jane Roe. In realtà, come sappiamo, le attuali leggi sull’aborto sono ancora enormemente restrittive, quasi quanto lo erano il giorno in cui McCorvey, allora ventenne, nel 1969, cercò di abortire in Texas, dove le donne non potevano legalmente interrompere la gravidanza senza uscire dallo Stato. Trovandosi incinta e senza alcuna speranza di ricevere assistenza da parte dei medici, anche se dichiarò di avere subito uno stupro, McCorvey finì in un posto in cui si praticavano aborti clandestini, un luogo infestato da scarafaggi e coperto di sporcizia: diede un’occhiata ed ebbe paura di non uscirne viva. Se ne tornò a casa e partorì un bambino che diede subito in adozione.

Negli anni successivi, qualcuno la mise in contatto con due avvocate che stavano cercando una donna attorno alla quale potessero imbastire una causa sul diritto all’aborto fino al terzo trimestre: doveva essere abbastanza povera da non poter uscire dallo Stato per abortire. In McCorvey trovarono la candidata perfetta. Quando vinsero la causa, la chiamarono per congratularsi e le chiesero: Non sei contenta? Lei rispose: Perché dovrei essere contenta? Il bambino l’ho avuto.

Nel 1989 a Washington ci fu una manifestazione di donne provenienti da tutto il paese per il diritto all’aborto. Tra le celebrità intervenute, cariche di privilegi e frementi di rabbia, c’erano donne che vibravano di virtuosa indignazione come Whoopi Goldberg e Cybil Shepherd. Nel frattempo, McCorvey era stata intervistata a proposito del suo aborto e aveva rivelato che in realtà, no, la gravidanza che aveva cercato di interrompere e che aveva portato alla causa legale non era mai stata il risultato di uno stupro. Come disse senza mezzi termini, mentire era quello che bisognava fare, a quei tempi, per ottenere un aborto. Questo, insieme al suo carattere brusco da proletaria (lavorava come donna delle pulizie) e al suo pronunciato accento nasale della Louisiana/Texas, l’aveva resa un’oratrice inadatta agli occhi delle organizzatrici della manifestazione, e non fu invitata a parlare. L’ironia è che Roe v. Wade avrebbe potuto avere successo solo con una donna come McCorvey e che nessuna delle donne a cui era stata data l’opportunità di tuonare contro la perdita del diritto all’aborto avrebbe mai dovuto combattere per ottenerlo come dovette fare lei.

Con il passare degli anni, la salute e la situazione economica di McCorvey divennero sempre più precarie: alla fine rinnegò il proprio aborto, divenne una born-again Christian e trovò accoglienza tra le braccia del movimento antiabortista, che si rallegrò di trovare in lei un’icona perfetta da esibire. Come dichiara l’evangelico Robert Schenck nel documentario: “con lei abbiamo avuto il nostro Oscar”. McCorvey continuò a fare campagna elettorale per candidati antiabortisti e parlò spesso della propria fede in televisione. Il movimento per il diritto all’aborto, lo stesso che si era rifiutato di darle voce a dispetto del suo ruolo fondamentale per la causa, a quel punto si sentì profondamente tradito. Come ha potuto? si chiedevano. Ecco, sapevamo di non poterci fidare di lei.

Poi, tre anni dopo la sua morte, McCorvey ha di nuovo inorridito tutti, su entrambi i fronti. Il documentario mostra un filmato in cui la donna rivela di avere assunto una posizione antiabortista solo in cambio di denaro, che le era stato versato attraverso vari canali dalle forze anti-choice, in particolare dall’organizzazione Operation Rescue di Randall Terry: l’importo totale era di circa 450.000 dollari nell’arco di diversi anni. Nel video McCorvey afferma chiaramente di essere, in realtà, a favore del diritto dell’aborto, poi ride e si fa beffe dell’ipocrisia di coloro che pensavano di aver comprato le sue opinioni: Sono una brava attrice, dice ridendo e facendo spallucce.

Tutto ciò potrebbe non essere completamente vero, anche se le parole di Robert Schenck, l’unico evangelico di tutta la baracca che abbia qualcosa di simile a una coscienza, sembrano le più appropriate: Mi sono sempre chiesto: Ci sta prendendo in giro? Perché so per certo che noi stiamo prendendo in giro lei… Ora la farsa è finita.

La maggior parte delle persone, me compresa, non ha mai saputo che la donna il cui cognome fittizio è diventato simbolo del diritto all’aborto in realtà non ha mai ottenuto l’aborto che voleva. Il suo nome e il suo volto apparivano qua e là soprattutto come curiosità: Oh, guardate, eccola, la querelante nella causa Roe v. Wade, o Avete sentito che la donna di Roe v. Wade ora è antiabortista?

E la maggior parte delle persone, me compresa, non sapeva che McCorvey ha avuto diverse relazioni lesbiche, tra cui quella con Connie Gonzalez, con cui ha vissuto per trentacinque anni. Commentando il film, The Advocate (USA) e Pink News (UK) hanno usato parole identiche per descriverla: McCorvey, che si identificava come lesbica ma ebbe relazioni sia con uomini che con donne…

Il “ma” è indicativo del profondo sospetto della comunità gay mainstream nei confronti di tutte le persone che non possono essere identificate con precisione da una sessualità facilmente riconoscibile; il “ma” indica una persona di cui non ci si può fidare. Avrebbero potuto scrivere tranquillamente: “McCorvey, che si identificava come lesbica E aveva relazioni sia con uomini che con donne”, ma sarebbe stato troppo: tutta la gay-lesbicità sarebbe crollata, incapace di sopportare il peso dell’indeterminatezza e dell’illeggibilità.

A tutt’oggi, sebbene in occasione di ogni Pride a tante figure venga attribuito uno status eroico, non si è parlato neanche della possibilità di collocare Norma McCorvey in una sorta di firmamento che riconosca il suo posto straordinariamente importante, anche se conflittuale e talvolta confuso, nella storia americana. Senza di lei, non ci sarebbe stata la sentenza Roe v. Wade, per quanto imperfetta e inadeguata. Con lei, tutti i nostri passati – quello queer, quello femminista e quello ostentatamente etero – diventano infinitamente più complicati e infinitamente più ricchi.

La parola “menzogna” ricorre spesso nel modo in cui viene narrata McCorvey, i cui racconti autobiografici sono costellati di quelle che potremmo definire omissioni di ogni tipo. Ma se dovessimo guardare alle storie delle donne e alle storie queer in modo più onesto, dovremmo riconoscere che non riescono a integrare le vite delle persone come lei: fu odiata e abbandonata dalla madre, che lei stessa chiamerà Una stronza, falsa e stronza! Alla tenera età di dieci anni McCorvey è scappata con un’amichetta e, in qualche modo, le due sono riuscite a prendere una stanza d’albergo dove sono state trovate a baciarsi. Per questo fu messa in un’istituzione per ragazze (che, dirà in seguito, amava perché, come dichiarò, Non avevo mai visto così tante tette in un posto solo). Una volta uscita da lì, fu affidata a un parente che la stuprò ripetutamente, quindi sposò un uomo che – racconta – la picchiò quando rimase incinta, fu emarginata da un movimento letteralmente costruito sul suo nome, e così via. La storia dei gay e delle lesbiche,  e un certo filone della storia femminista, si basano sulla verità ineccepibile, o su una qualche versione di essa: ci piace che le nostre figure eroiche siano incontaminate, preferibilmente belle e colte. McCorvey non era una “figura imperfetta”: era una figura umana, che a malapena riusciva a sopravvivere sotto la pressione del capitalismo e che, alla fine, raccolse tutte le sue riserve e rivolse un gigantesco dito medio al movimento antiabortista che pensava di essere riuscito a comprare il suo silenzio.

Norma McCorvey era una lesbica, Norma McCorvey non era una lesbica, Norma McCorvey non era in grado di essere fedele alla verità, Norma McCorvey diceva la verità come nessun’altra.

Si chiamava Norma McCorvey e dobbiamo fare tutto il possibile per ricordarla.

*** Testo originale sul blog di Yasmin Nair.
Ringraziamo l’autrice per la nota introduttiva scritta per Manastabal.

IL TRATTAMENTO

Backlash patriarcale e ascesa del paradigma psicoterapeutico nella filiera istituzionale dell’antiviolenza

Con l’approvazione della legge 69/2019 — il cosiddetto Codice Rosso — si è registrato un salto di qualità nel lungo percorso che, in Italia, ha portato a ristrutturare la filiera istituzionale dell’antiviolenza intorno a una serie di principi tanto semplici quanto insidiosi, a maggior ragione perché reclamizzati all’insegna delle suggestioni retoriche legate all’evocazione di una modellistica modernizzante («finalmente l’Italia rimonta il ritardo rispetto ai più evoluti modelli internazionali!») e sistematicamente esonerati da qualsiasi esame di realtà condotto dal punto di vista delle dominate. Ridotti all’essenziale, tali principi possono enunciarsi come segue: 1) l’idea che la lotta al patriarcato e alle sue istituzioni debba stemperarsi in un più prudente e spiritualizzato «cambiamento culturale»; 2) l’idea che il «cambiamento culturale» possa aver luogo senza intaccare in maniera sostanziale il potere economico, sociale, politico e ideologico che gli uomini esercitano sulle donne, ma anzi consolidando rapporti di cooperazione che provvederanno a generare un’equa ripartizione di benefici tra dominanti e dominate; 3) l’idea che la via maestra del «cambiamento culturale» e della prevenzione della violenza maschile contro le donne passi attraverso il finanziamento pubblico di programmi psicoterapeutici e rieducativi adibiti al recupero degli «autori di violenza nelle relazioni affettive e di genere» — così li definisce la Relazione della Commissione femminicidio approvata all’unanimità dal Senato il 25 maggio 2022, evitando di proposito termini come «maltrattanti», «aggressori» o «violenti», ritenuti troppo stigmatizzanti e contrari allo spirito di «cambiamento» che anima il progetto.

«Certamente non tutti gli uomini autori di violenza cambiano» ammettono gli estensori della Relazione (tre uomini: il presidente dell’ex CAM di Roma, ora Centro Prima, Andrea Bernetti; il professore di diritto penale Emanuele Corn; lo psicoterapeuta Arturo Sica, presidente dell’associazione White Dove Progetto Educazione), «ma ogni progresso che si evidenzia in quegli uomini rappresenta comunque un passo avanti nel contrasto alla violenza sulle donne. Il cambiamento di ogni singolo soggetto è un nuovo tassello nel cambiamento culturale del paese». Nessun rapporto di forza tra gruppi sociali da modificare, nessun torto storico nei confronti della classe delle donne da riparare. Nella più vieta tradizione dell’individualismo metodologico liberale, la società viene rappresentata come un aggregato aleatorio di individui e l’idea di prosciugare l’oceano con il cucchiaino può accreditarsi come bella utopia pragmatica, libera da astrattezze ideologiche, vicina alla concretezza dell’esperienza. Poste tali premesse, va da sé che il «cambiamento» che conta è quello che avviene in interiore homine, una volta sgombrato il terreno dall’impressione che sfruttamento, controllo e violenza degli uomini sulle donne afferiscano alle gerarchie materiali che strutturano i rapporti sociali di sesso.

Nel caso esista ancora qualche anima novecentesca attardata sull’osservazione (o peggio: direttamente implicata nell’esperienza) dell’appropriazione maschile dei corpi, del lavoro, del tempo e della mente delle donne, la Relazione provvede infatti a correggere quella che ci assicura essere una pura distorsione ottica: «”Possedere” l’altro è una fantasia che ha una grande capacità di presa emotiva, diventa facilmente un obiettivo totalizzante e nell’uomo ben si aggancia con gli stereotipi della cultura patriarcale. Ma nessuno si possiede fino in fondo, in quanto l’altro è per definizione altro da sé e in quanto tale non è riducibile a ciò che si desidera. Questa impotenza comporta quasi inevitabilmente la trasformazione della fantasia di possesso con la fantasia di distruzione di ciò che si vorrebbe possedere. In sostanza il possesso è sempre impotente, disperato, distruttivo e violento» (corsivi nostri).

Per la saggezza psicologica che informa la Relazione della Commissione femminicidio, quindi, non viviamo in una società in cui l’esercizio effettivo del potere si regge su rapporti sociali di appropriazione (patriarcale e capitalistica). No: il possesso ha una consistenza puramente fantasmatica, “violenza” fa sempre rima con “impotenza”, la tautologia «l’altro è per definizione l’altro da sé» sarebbe l’inoppugnabile dimostrazione del teorema. Alla luce di queste premesse, è facile capire come la realtà dei rapporti di forza tra un gruppo dominante (gli uomini) e un gruppo dominato (donne) possa essere distillata in una sequenza di «vissuti» maschili completamente arbitrari, gratuiti, correlati forse a traumi pregressi, ma privi di agganci contestuali alla realtà extra-psichica in cui il soggetto è implicato. Il controllo, la pretesa, l’obbligo, la provocazione, la diffidenza, la lamentazione, la preoccupazione non possono essere decifrati altrimenti che come «vissuti emotivi che si trasformano in pretesti per comportamenti che inevitabilmente si manifestano nelle relazioni in cui, anziché la condivisione dei desideri, si vive il tentativo disperato del possesso dell’altra» (corsivi nostri). La violenza maschile contro le donne, quindi, come alibi del fantasma.

Scomparsa dalla scena la domanda sulle possibilità strumentali che mettono gli «autori» nelle condizioni di compiere il passo fra il sentire e l’agire, fra il proprio «vissuto» e l’inflitto alla vita altrui, restano in campo i fantasmi maschili come terreno privilegiato di intervento/«cambiamento» — ammesso e non concesso che il «cambiamento» dipenda effettivamente e unicamente da una ristrutturazione della scena infra-psichica. In fondo, nemmeno il più idealista degli psicologi potrebbe orientarsi e soprattutto puntare al risultato (sovvenzioni pubbliche ai CAM e accreditamento del paradigma psicoterapeutico) restando fedele alla purezza dei propri assunti. In effetti, è la stessa Relazione a individuare al di fuori della psiche degli «autori» l’incentivo determinante ai fini del «cambiamento», osservando candidamente che «subordinare alla partecipazione a specifici corsi di recupero la sospensione condizionale della pena», come previsto appunto dalla legge 69/2019 per i condannati a una pena relativamente bassa, «costituisce una novità importante, che certamente stimolerà un maggior ricorso e una maggiore diffusione su tutto il territorio nazionale di percorsi per uomini autori di violenza».

La ragionevole previsione di una crescita della domanda di accesso ai servizi rieducativi, indotta dalla possibilità garantita agli «autori» di fruire di benefici di legge, ha pertanto imposto un’accelerazione al percorso finalizzato a integrare i CAM (Centri di ascolto uomini maltrattanti) nelle reti istituzionali antiviolenza e a destinare al potenziamento di queste strutture ingenti risorse pubbliche: 9 milioni di euro per il 2022, contro i 5 milioni previsti per i centri antiviolenza e altri 5 milioni destinati a quella misura propagandistica di carità derisoriamente definita «reddito di libertà».

Siamo, dunque, al punto di approdo di un processo che, secondo le ricostruzioni fornite dai promotori e dalle promotrici dei CAM (cfr. A.A. V.V., Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento, Ediesse, Roma 2017), può essere fatto risalire agli anni Novanta, quando la nascita dei primi gruppi di autocoscienza maschile stimola una ridefinizione del problema della violenza contro le donne sempre più sbilanciata sul versante psicologico. Interpretata ora come incapacità di «accettare la differenza», ora come risposta a «un’autonomia e una libertà già entrate nella vita di molte donne», la violenza patriarcale diventa oggetto di un discorso psicologico che la colloca nel segno dell’impotenza simbolica e della frustrazione reattiva, facendole perdere qualsiasi connotato strumentale di potere esercitato — impunemente e remunerativamente — per conseguire degli scopi, ricavare dei vantaggi, assicurarsi il controllo, puntellare una gerarchia sociale.

Gettate alle ortiche le coordinate di analisi della violenza patriarcale elaborate dal femminismo negli anni Settanta (pensiamo, per esempio, al contributo pionieristico di Jalna Hanmer) e messa in mora ogni indagine sulla riorganizzazione della violenza patriarcale nel contesto neoliberale (per una sintesi, cfr. Jules Falquet, Pax neoliberalia. Perspectives féministes sur la (réorganisation de) la violence, iXe, Donnemarie-Dontilly 2016), comincia a prepararsi un terreno favorevole all’accoglienza di quel mito tenace che va sotto il nome di «crisi della mascolinità»: espressione certamente volatile nei suoi contenuti — in un mondo in cui gli uomini continuano a monopolizzare la maggior parte delle posizioni di potere nel campo politico, economico, culturale — ma particolarmente idonea, proprio a causa della sua vacuità, a creare l’impressione che «anche i potenti piangono», o comunque farebbero scorrere volentieri le lacrime, se solo il più terribile degli interdetti non impedisse loro di abbandonarsi a un’autocommiserazione ristoratrice.

In maniera solo apparentemente paradossale, la retorica del trattamento come processo di auto-responsabilizzazione degli uomini rispetto alla violenza compiuta non può evitare di porli e presupporli come vittime del modello culturale patriarcale, come dominati dal dominio, come oppressi dal patriarcato allo stesso titolo delle donne, e dunque allo stesso titolo candidati a essere destinatari di prestazioni sociali. La psicologizzazione del discorso, insomma, non può fare altro che ristabilire simmetrie immaginarie tra oppresse e oppressori, magari denegate a parole da chi non smette di predicare «priorità alle vittime», ma di fatto continuamente riattivate perché ideologicamente e operativamente funzionali a scongiurare il conflitto e a rappresentare come «bene comune» il consolidamento di vantaggi patriarcali. Il senso comune presuntivamente più «illuminato» e sensibile alle «questioni di genere» non cessa di sussurrare all’orecchio degli uomini che essi acquisiscono la propria identità di genere individualmente e dolorosamente e che la loro violenza si spiega come reazione individuale ai traumi subiti. Senso comune che si vuole «illuminato» e impegnato in una lotta meritoria contro gli «stereotipi di genere», ma che resta singolarmente cieco al fatto che questa violenza «reattiva» non esplode casualmente, in qualsiasi circostanza, contro qualsiasi bersaglio, ma nel perimetro della relazione tra un socialmente superiore e un socialmente inferiore. Del resto: come mai i vissuti femminili, i traumi femminili, le frustrazioni femminili, i fantasmi femminili, le dolorose acquisizioni dell’identità di genere femminile non danno luogo agli stessi esiti in fatto di violenza domestica e sessuale?

Va per altro detto che questo tipo di attenzione al disagio maschile difficilmente avrebbe oltrepassato le cerchie ristrette dei diretti interessati se non avesse trovato sponde favorevoli presso settori femministi sensibili al richiamo della psicologizzazione del discorso. Per altro verso, il percorso di legittimazione della funzione sociale dei CAM avrebbe forse incontrato maggiori diffidenze se, a promuoverlo nel nostro paese, non fossero state forze provenienti dal mondo dei centri antiviolenza e decise a rompere con un modello di intervento giudicato insensibile alle esigenze delle donne indisponibili a far coincidere il percorso di fuoriuscita dalla violenza con un percorso di fuoriuscita dalla relazione con l’«autore». Fiumi di retorica sulla necessaria complementarietà tra centri antiviolenza e CAM tendono in effetti a seppellire la memoria e il peso di una polemica apertamente verbalizzata da una delle pioniere dei CAM in Italia: «se non onoriamo le scelte affettive delle donne che ci consultano» ha scritto Alessandra Pauncz, fondatrice nel 2009 del primo CAM italiano a Firenze, «come possiamo pensare di riconnetterle a quei valori relazionali che sono spesso alla base delle loro scelte di vita? Molte operatrici sarebbero pronte ad argomentare che un rapporto maltrattante non è un rapporto di amore. Del resto alcune campagne contro la violenza si sono basate proprio su questa idea, se ti picchia non ti può amare. Ben si capisce l’origine di questa idea. Se voglio il bene di qualcuno non metto in atto comportamenti che lo fanno stare male, o lo danneggiano fisicamente. Ma quanto moralismo conformista e normativo c’è in questa idea? E quanto sono rispettosa e in grado di valorizzare le scelte affettive delle donne in momentanea difficoltà?» (A. Pauncz, Verso il luogo delle origini: riflessioni di un’operatrice eretica, in A.A. V.V., Il lato oscuro degli uomini. La violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento, Ediesse, Roma 2017, p. 351).

Se queste sono le premesse, se la necessità di comprendere si tramuta addirittura nel dovere di «onorare», se l’analisi del rapporto di potere e il pur minimo accenno a che cosa comporta la coppia eterosessuale per le donne si lasciano liquidare così in fretta come deprecabile «moralismo normativo», è proprio così infondata l’ipotesi che l’accreditamento dei CAM agisca come una forma mascherata di mediazione familiare?

Un altro fattore che certamente ha influito sulla legittimazione dei CAM è stata l’abile strumentalizzazione della tematica anti-carceraria e anti-punitivista. A partire da un assunto condiviso e condivisibile, cioè che il patriarcato non si smantella a colpi di diritto penale, si è consolidata una tenace catena di non sequitur finalizzati a preservare gli uomini dai rigori della sanzione, a distogliere lo sguardo dal modo in cui le falle (per le donne) e le complicità (per gli uomini) della giustizia possono diventare una risorsa operativa nelle mani violenti, a rinunciare a fare anche della giustizia un campo di battaglia. E così, mentre settori di femminismo accademico e filoni libertari di movimento gareggiano tra loro nella denuncia rituale del «femminismo punitivo», capita di imbattersi in corporazioni di penalisti che mettono a disposizione dei propri clienti servizi di questo tipo: «Maltrattamenti e stalking, il percorso giusto per evitare il carcere. Evitare il carcere per i reati di maltrattamenti, violenza sessuale e atti persecutori è possibile con una strategia difensiva che si avvalga di esperti psicologi».

Dicevamo all’inizio di una sistematica resistenza all’esame di realtà da parte dei fautori e delle fautrici dell’ideologia corrente. In effetti, né le circostanze in cui è maturato il femminicidio di Juana Cecilia Hazana Loayza a Reggio Emilia nel novembre 2021, né quelle che, nel giugno del 2022, hanno agevolato i propositi stragisti di Zatlan Vasiljevic a Vicenza, sembrano aver sollevato dei dubbi sulla bontà del processo in corso, alimentato proteste significative contro il Codice Rosso o sollecitato un dibattito critico di più ampio respiro sul paradigma psicoterapeutico che si sta imponendo come norma del contrasto alla violenza maschile contro le donne. Al contrario, a ogni crepa che si apre nell’edificio costruito sulle basi del «trattamento», la reazione ricorrente è che servono più CAM, serve più trattamento, serve più fiducia nella sua imprescindibile necessità, serve mettere al centro delle premure pubbliche l’«autore» — mentre ci si proibisce anche solo di pensare a misure immediate di sicurezza per prevenire morti annunciate e, più in generale, si stenta addirittura a domandarsi se le vittime di violenza abbiano di che pagarsi un affitto per uscire dal tetto coniugale, in un paese in cui, per la prima volta dal 2013, l’occupazione femminile è crollata al di sotto della soglia, non solo psicologica, del 50% .

Curiosamente, nemmeno le più accese sostenitrici della Convenzione di Istanbul si sono sentite in dovere di alzare la voce per segnalare almeno che, se l’art. 16 della Convenzione raccomanda l’istituzione di programmi di recupero per gli «autori di atti di violenza domestica», non prescrive la fruizione di benefici di legge da parte dei maltrattanti in cambio della partecipazione ai percorsi trattamentali. Ma ancor più curiosa, a ben guardare, è la riconciliazione con il paradigma psicoterapeutico da parte di tante che, a partire dal 2016, hanno riempito le piazze al grido «il violento non è un malato, è figlio sano del patriarcato». Valeva allora e non vale più adesso? Vale in piazza, ma non vale più nel lavoro quotidiano?

A ogni buon conto, non ci troviamo di fronte a problemi totalmente inediti, mai discussi in precedenza. Si tratta però di rilanciare la discussione sulle ragioni di questa assuefazione paralizzante a un modo di concepire la lotta alla violenza patriarcale che ci riporta a una visione riparativa dell’intervento centrata sulla necessità di restaurare il buon funzionamento della coppia eterosessuale e del nucleo domestico — uno dei principali luoghi di sfruttamento delle donne.

Vent’anni fa la rivista femminista francofona «Nouvelles Questions Féministes» pubblicava un’intervista di Martin Dufresne allo psicologo quebbechese Rudolf Rausch, a proposito dei programmi di recupero destinati ai maltrattanti. Ne riportiamo in traduzione alcuni stralci, tanto più interessanti in quanto il punto di vista è quello di un insider, e ancora utili a mettere in evidenza il tratto politicamente regressivo del passaggio al paradigma psicoterapeutico dell’antiviolenza.

RR: Chi lavora con i maltrattanti — psicologi e altri operatori — tende tradizionalmente a vedere la violenza come un sintomo o un indicatore di qualche altro problema di fondo, che troppo spesso è visto come intrapsichico o come una difficoltà sistemica, una difficoltà di comunicazione o di interazione tra i coniugi.

MD: Con quale effetto?

RR: L’effetto è duplice. Da un lato, si banalizza questa violenza, nel senso che viene percepita come non necessariamente così importante, e dall’altro, viene interpretata più come una reazione a qualcosa che come un’azione, un mezzo per ottenere qualcosa. Questa è la prima tappa: molti operatori oscilleranno enormemente nello sforzo di confrontarsi con l’uomo, di fargli nominare o meno il proprio repertorio di violenza.

La seconda tappa del modello tradizionale è che, a prescindere dalla scuola di pensiero, esiste un quadro comune nella strategia degli operatori, il che significa che, in genere, la fase successiva sarà quella di cercare di andare sull’emozione, sull’affetto, presumendo che si tratti di un problema emotivo. Quindi lavoreranno molto con l’uomo affinché aumenti il contatto con la sua vita interiore, affinché arrivi a riconoscere le emozioni che sta vivendo. Ora, si può immaginare che, quando lavoriamo con persone già molto egocentriche, il fatto di portarle a essere ancora più “ombelicali”, ancora più centrate sulla loro vita interiore, abbia l’effetto di alimentare, fondamentalmente, quello che stanno già facendo, o almeno questo è il rischio. D’altra parte, è comune che questi operatori incoraggino – tacitamente o più direttamente, più formalmente – gli uomini a dare un nome ai loro affetti. Si cerca di dotarli di tecniche di comunicazione per far valere meglio le loro emozioni. Si può quindi facilmente capire che, quando una persona è già molto concentrata sulla propria vita e tiene poco conto della vita e dei diritti delle persone che le sono vicine, dotarla di un maggior numero di queste tecniche ha l’effetto fondamentale di aiutarla a diventare più raffinata nell’abuso di potere, nei suoi mezzi per esercitare il controllo sulla partner.

Infine, molto spesso, gli operatori convalideranno l’emozione. Qui bisogna fare attenzione: questo può essere rischioso perché, anche se di solito non invalidiamo gli affetti di qualcuno, questi vengono recuperati dagli aggressori come giustificazione per la loro violenza.

MD: Ricevono un sostegno sociale?

RR: Sì, in un certo senso. E succede che molto presto gli uomini, prima ancora di assumersi le proprie responsabilità, rischiano di sviluppare un discorso del tipo «Anch’io ho dei diritti!» Così si mettono nella posizione di rivendicare ancora prima di essersi resi imputabili. Ciò significa che la violenza verbale e psicologica non solo non diminuirà, ma potrebbe addirittura aumentare con questo tipo di approccio.

MD: Non è forse dovuto al fatto che, in pratica, il «trattamento» fa parte di un processo sociale alternativo alla giudiziarizzazione, alle sanzioni, alla rottura, insomma a qualsiasi conseguenza negativa dell’aggressione per il suo autore?

RR: A volte, e spesso, è proprio quello che accade. Infatti, gli uomini, soprattutto quelli violenti, di solito si rivolgono a un aiutante (psicologo o altro), non per cambiare se stessi, ma essenzialmente per creare una coalizione con qualcuno che ha uno status di potere, e quindi per rimanere gli stessi. Se qualcuno deve affrontare un’accusa penale, userà la relazione di aiuto per cercare di ridurre la portata della criminalizzazione. E nel caso in cui la situazione non sia stata giudizializzata, in cui non siano state formulate accuse, e vediamo che l’uomo chiede aiuto perché la moglie lo ha lasciato o minaccia di farlo, a quel punto è sicuro che il suo obiettivo non è cambiare se stesso, ma stabilire una coalizione che gli permetta di riavere la moglie.

MD: Come reagisci alla situazione in cui ti mette?

RR: Dobbiamo tenerne conto, così come degli effetti secondari e persino primari del nostro intervento, vale a dire che, inizialmente, abbiamo un cliente che vuole affidarci un mandato di non cambiamento, un mandato di ripristino dell’influenza al fine, fondamentalmente, di evitare le conseguenze delle sue azioni e anche di riavere la sua coniuge. Ciò significa che, in quanto operatori, abbiamo la pesante responsabilità di non stringere un patto del genere in modo innocente, senza tenere conto di questo problema e degli effetti perversi che la nostra offerta di aiuto a quest’uomo può avere, cioè prolungare il periodo in cui una donna è esposta a un uomo che può essere pericoloso per lei.

MD: Nel senso che lei resterà con lui perché lui sta parlando con un «terapeuta»?

RR: Proprio così. In effetti, Edward Gondolf ha dimostrato in modo abbastanza conclusivo molti anni fa che l’effetto principale dell’offerta di servizi a un partner violento è quello di incoraggiare le donne maltrattate, nella stragrande maggioranza dei casi, a tornare a vivere con lui.

MD: Nel tuo articolo riferisci del tentativo in Quebec, subito incoraggiato dallo Stato, di creare una rete di sostegno maschilista per i coniugi maltrattanti, ribattezzata «uomini in crisi», un modo per ridefinire i maltrattanti sulla base delle loro cosiddette difficoltà personali. Gli erogatori di programmi tradizionali hanno sfruttato gli omicidi sessisti sostenendo che, se gli assassini avessero avuto accesso alle risorse maschili, i crimini non sarebbero stati commessi. Qual è lo stato di avanzamento di questo approccio?

RR: Beh, continua. Quasi ogni volta che una donna viene uccisa, di solito nel giro di pochi giorni, vediamo alcuni dei protagonisti deplorare ancora una volta l’assenza di un numero verde per i partner violenti, l’assenza di centri «rifugio» per gli aggressori, il sottofinanziamento delle risorse per gli uomini e anche il presunto sessismo delle risorse pubbliche che non accolgono adeguatamente gli uomini, cioè secondo un’interpretazione maschilista di ciò che significa essere un uomo. Questi discorsi hanno un capitale sempre maggiore nei media e l’attività di lobbying continua in questa direzione.

MD: Non c’è forse una collusione tra lo Stato e il movimento maschilista per emarginare ciò che è inquietante nel confronto femminista con la violenza e il potere maschile?

RR: Forse. È certo che al momento manca la volontà politica di garantire che gli operatori siano responsabilizzati. Chiediamo agli abusanti di diventare responsabili, ma se vogliamo raggiungere questo obiettivo, i programmi per uomini dovrebbero essere responsabili, così come i loro operatori. Ma c’è poca responsabilità in questi programmi, quindi cosa significa? Vedo che in molti casi si ignora la documentazione esistente, in particolare la letteratura statunitense sull’argomento, che è molto più avanti rispetto a quella prodotta in Quebec. Che cosa significa? Si potrebbe pensare che da qualche parte le autorità stiano beneficiando di questa negligenza.

MD: Un cambiamento che osserviamo in Nord America è quello di una «patologizzazione» delle donne abusate, nel senso che alcuni giudici che mandano un abusante «in terapia» mandano anche la sua vittima! Com’è la situazione in Quebec?

RR: Sì, purtroppo questo deriva anche dalla mancanza di comprensione del problema da parte di molti giudici. Si tratta di una lettura sistemica o transazionale del problema che «compra» l’idea che quando c’è violenza domestica, è 50-50, il che è completamente depotenziante e inefficace come prospettiva. Parlare di 50-50 implica essenzialmente una simmetria nella coppia: è adottare una lettura sistemica che pretende che ogni membro del sistema sia intercambiabile nell’analisi, il che è palesemente falso.

MD: Mi sembra che negli ultimi trent’anni si sia aperta una finestra di opportunità sul tema della violenza domestica. Questo tema è stato messo in piazza, come uno scandalo. Ma da allora si è assistito a un processo di banalizzazione e persino a una risacca che ha reso il fenomeno sempre meno scandaloso. Pensi che ci sia un modo per contrastare questo processo?

RR: Claire Renzetti ha scritto che quando si inizia a guardare alla violenza domestica, è come ballare con un orso. Di solito, quando si balla, si balla per un po’ e quando ci si stanca ci si siede. Ma quando si inizia a interessarsi all’uguaglianza di genere e al fenomeno della violenza domestica, è un po’ come ballare con un orso, nel senso che quando si inizia a essere stanchi, non ci si può più sedere. Bisogna continuare a ballare finché l’orso non si stanca. Per tornare alla sua domanda: sì, c’è stata questa finestra di opportunità, sono state poste delle pietre miliari, sono stati fatti dei progressi sociali, ma allo stesso tempo non è sorprendente che ci sia stato un intero processo di recupero che ci porta a un punto in cui, nella mentalità di molte persone e in quello che possono desiderare, «abbiamo cambiato abbastanza, abbiamo fatto abbastanza».

Il patriarcato, il femminismo e le loro intellettuali

di Christine Delphy (*)

“Quanto a noi, femministe radicali che rivendicano un’impostazione materialista, siamo arrivate alla conclusione provvisoria, dopo anni di riflessione, che per comprendere il patriarcato occorre rimettere in questione l’ideologia patriarcale in modo radicale: rigettarne tutti i presupposti, inclusi quelli che non sembrano tali ma si presentano come categorie fornite direttamente dal reale, per esempio le categorie di «donne» e «uomini»”: così Christine Delphy nell’ormai lontano 1981. Che cosa voglia dire mettere in questione fino in fondo i presupposti dell’ideologia patriarcale — anche polemizzando, se necessario, con correnti femministe che si sono fermate a metà del guado — è quanto la sociologa francese chiarisce nel saggio Le patriarcat, le féminisme et leurs intellectuelles, originariamente apparso su «Nouvelles Questions féministes», e qui presentato per la prima volta in traduzione italiana.

***

Il termine «patriarcato» era poco utilizzato fino all’inizio degli anni Settanta, vale a dire fino alla rinascita del femminismo nei paesi occidentali. Il termine faceva comunque parte del linguaggio corrente, ma soprattutto nella forma aggettivale: «patriarcale». D’altra parte è soprattutto la letteratura, e in particolare la letteratura del XIX secolo, che ne ha fatto una parola familiare. Le scienze umane invece la ignoravano e, per lo più, la ignorano ancora.

Curiosamente, nemmeno coloro che, come Bachofen, Morgan e Engels, hanno difeso una visione evoluzionista della storia delle società umane fondata sul postulato — assai problematico — di un matriarcato originario, che poi sarebbe stato «rovesciato», hanno ritenuto utile definire «patriarcali» le tappe successive a questo «rovesciamento». E quando si trova «patriarcale» sotto la penna di Marx, ciò avviene con la stessa connotazione a-temporale e, a dirla tutta, poetica, che il termine ha in Victor Hugo. Per loro, come per tutti gli autori che lo usano, questo aggettivo ha una connotazione eminentemente positiva; il più delle volte è preceduto dalla parola «virtù», la più grande delle quali è la «semplicità di costumi patriarcale». In che cosa consistono questi costumi «semplici»? Passandoli in rassegna, i poeti che parlano delle «virtù» patriarcali evocano lo stesso tipo di società a cui si riferiscono i sociologi che, come Tönnies e Durkheim all’inizio del secolo, esaltano la Gemeinschaft (antica società comunitaria) e la «solidarietà meccanica» a spese della Gesellschaft (società moderna e atomizzata) e della «solidarietà organica», e gli antropologi contemporanei, in genere marxisti, che oppongono le società primitive senza classi e senza sfruttamento — dicono loro — alle società moderne, stratificate e basate sullo sfruttamento. Queste opposizioni, più o meno chiaramente mitiche, esprimono tutte la stessa cosa: la nostalgia di un’«età dell’oro» dell’umanità fondata sul consenso e non sul conflitto. Ora, questa utopia per loro è strettamente associata all’immagine di un gruppo umano in cui l’organizzazione familiare è, al tempo stesso, la principale base concreta e il modello di tutti i rapporti sociali. Questi miti — siano essi riconosciuti come tali, o accreditati da una parvenza scientifica — dipendono tutti, dunque, dalla stessa credenza: che la pace, la coesione sociale e l’assenza di gerarchie fra «classi» (intendete: fra uomini) esigono che la gerarchia familiare, in se stessa buona e naturale — buona perché naturale, di fatto definita naturale perché ritenuta buona — sia invece in vigore e accettata.

L’introduzione del sostantivo «patriarcato» si deve però al movimento femminista. E non è sulla scena letteraria o accademica che i movimenti femministi negli anni Settanta introducono questo termine, ma esattamente là dove questi movimenti si situano: sulla scena politica. Prima del neo-femminismo il termine «patriarcato» non aveva un senso esplicito e, soprattutto, non un senso esplicitamente politico. Non è il caso di stupirsene: fa parte della natura del patriarcato — come di ogni sistema di oppressione — negarsi in quanto tale. Le femministe, dunque, in un certo senso hanno inventato questo termine, nell’accezione e soprattutto nella funzione che gli attribuiscono. E certamente, per le femministe, la sua connotazione non è più positiva, bensì negativa. Tuttavia non è un caso se le femministe — se noi — abbiamo scelto questo termine per nominare il responsabile della nostra oppressione. Un’analisi di contenuto sistematica rivelerebbe senza dubbio che tutti i significati espliciti che le femministe attribuiscono al termine «patriarcato» sono in germe, come ho cercato di mostrare brevemente, nell’uso letterario e inconsapevole, ovvero patriarcale, dell’aggettivo «patriarcale». Si potrebbe caratterizzare la rinascita del femminismo alla fine degli anni Sessanta in molti modi. Il neo-femminismo ha operato una rottura molto netta sia nei riguardi di quello che restava — logoro, imbastardito e riformista — dei movimenti femministi precedenti, sia nei riguardi degli altri movimenti politici contemporanei. Ha introdotto un modo nuovo di interpretare la situazione delle donne e, con questo, la situazione di tutti i gruppi sociali; contemporaneamente, ha creato un modo nuovo di fare politica. Di conseguenza il femminismo ha creato molti nuovi concetti necessari per esprimere queste visioni differenti. E sotto questi due riguardi, quello della concezione della condizione femminile e della società da una parte, quello della concezione del politico e della rivoluzione dall’altra parte, quello di «patriarcato» è senza dubbio uno dei concetti più importanti, se non il più importante. Tuttavia la sua utilità non è oggetto di un consenso unanime tra femministe; il ruolo che gli viene assegnato nelle diverse analisi è rivelatore delle fratture più importanti che esistono in seno al movimento femminista.

In Francia la linea di demarcazione è chiara: l’impiego del termine «patriarcato» differenzia nettamente le femministe radicali dalle femministe socialiste (chiamate in Francia «tendenza lotta di classe»). Notiamo che, se l’opposizione fra queste due correnti è stata una costante del neo-femminismo in tutti i paesi, da dieci anni a questa parte si sono prodotti degli spostamenti. Il movimento femminista è cambiato e, in Francia come altrove, si è — nel complesso — radicalizzato. Questa radicalizzazione è attestata dall’impiego sempre più frequente del termine «patriarcato» da parte delle femministe socialiste. Non al punto che il termine cessi di essere problematico, tuttavia, né al punto di smettere di essere la parola d’ordine della tendenza radicale. A Parigi, l’8 marzo 1980, le femministe radicali sfilavano dietro a uno striscione che diceva: «Qui si lotta contro il patriarcato», il che dimostra che non erano sicure che questo fosse vero per l’insieme delle manifestanti. Do per scontata una familiarità con la situazione dei movimenti femministi e con il contenuto del disaccordo tra queste due correnti sufficiente a rendere inutile una lunga digressione sulle ragioni per cui quella di patriarcato è una nozione controversa. Per le femministe socialiste, l’oppressione delle donne è dovuta in ultima analisi al capitalismo, e i suoi beneficiari principali sono i capitalisti, mentre per le femministe radicali l’oppressione delle donne è principalmente dovuta a un sistema differente, originale, che, sebbene strettamente intrecciato nella società concreta con il sistema capitalista, tuttavia non può essere confuso con questo. Gli uomini sono i beneficiari di questo sistema e questo sistema è il patriarcato. Viceversa, la ragione profonda della trasformazione di questo termine in concetto fondamentale di una teoria della condizione delle donne, è la percezione del fatto che l’oppressione delle donne è sistemica. Questa percezione deriva dal postulato principale e comune che fonda il neo-femminismo: l’oppressione delle donne non è un fenomeno individuale, né naturale, bensì un fenomeno politico. Questa percezione, tuttavia, ha implicazioni differenti a seconda delle diverse analisi: così le femministe socialiste non negano che l’oppressione delle donne sia sistemica, ma pensano che le determinanti di tale sistema possano essere rintracciate nel capitalismo, vale a dire che questo sistema oppressivo sia fondamentalmente identico a quello subito dai lavoratori.

Questa posizione presenta numerosi punti deboli, rivelati dal fatto che le femministe socialiste non sono mai state in grado di produrre un’analisi di qualche aspetto dell’oppressione delle donne che faccia appello esclusivamente e fino in fondo soltanto al capitalismo. Ed è senza dubbio per questo motivo, oltre che in ragione di un’autentica radicalizzazione che per altro non può essere negata, che esse sono sempre più spesso obbligate a ricorrere al termine «patriarcato» e all’aggettivo «patriarcale». Se questo ricorso testimonia la debolezza della loro posizione, secondo la quale esisterebbe soltanto un sistema di oppressione, in compenso esso mette anche in luce che il termine «patriarcato» non è sinonimo del concetto «patriarcato». In effetti, le femministe socialiste utilizzano il termine in un modo che mostra bene come continuino a rifiutare di considerare il patriarcato un sistema. L’impiego del termine «patriarcato» non è, dunque, una panacea teorica: non è garanzia di un’analisi femminista radicale.

È così che alcuni usi del termine «patriarcato» da parte delle femministe socialiste appaiono come un modo per consolidare distinzioni che il femminismo radicale rimette violentemente in questione: quella fra l’ambito del «privato» e l’ambito del «politico», quella fra il naturale e il sociale. Nei primi testi femministi socialisti in cui appare il patriarcato, esso appare anche come un guazzabuglio, per di più senza statuto teorico. Non si sa se si tratta di un sistema globale di relazioni sociali, come nell’analisi femminista radicale, o di una parte di un sistema, o ancora di un’ideologia, o persino di un tratto psicologico. Si tratta di un deus ex machina che esce da non si sa dove per rendere conto di ciò che i concetti marxisti ortodossi non sono riusciti a spiegare. Deus ex machina, ma anche pattumiera in cui si ritrovano pezzi eterocliti, scarti che non rientrano nella teoria marxista ortodossa.

E soprattutto, il patriarcato si trova rigettato sul versante delle mentalità. Ma non sul versante delle mentalità collegate a un sistema sociale: no, sul versante delle mentalità fondamentali e a-storiche, insomma sul versante di una «natura umana». Si ritrovano nel testo di Bland, Brundson, Hobson e Winship [1], le connotazioni associate all’uso classico, cioè pre-femminista, dell’aggettivo «patriarcale», connotazioni psicologizzanti e biologizzanti. Il patriarcato è, in quest’uso, una specie di nucleo al tempo stesso inesplicabile e irriducibile della «natura umana». Juliet Mitchell, in Psicoanalisi e femminismo [2], ha offerto la formulazione più esplicita di questo recupero del termine «patriarcato» da parte di coloro che ne rigettano la definizione femminista e dunque l’utilità teorica — che negano la sua natura di sistema sociale. La sua definizione di patriarcato è stata criticata nel dettaglio da McDonough e Harrison e da Beechey [3], pertanto non ripeterò questa critica. Mi limiterò a segnalare che tutte le incoerenze analitiche e teoriche, così come tutte le implicazioni reazionarie di questo impiego del termine «patriarcato», sono, in Mitchell, caricaturali. Il patriarcato viene rigettato, questa volta in maniera esplicita, nel sovrastrutturale: viene definito non solo come un’ideologia, ma come l’Ideologia. Per Mitchell non solo un’oppressione materiale — quella delle donne — è causata semplicemente da un’ideologia, ma questa ideologia è, curiosamente, quella del capitalismo; ma non solo del capitalismo. In effetti, secondo Mitchell, il patriarcato è al tempo stesso l’ideologia del capitalismo e quella delle società precapitalistiche fino alla preistoria e addirittura fino alle «origini» ignote e inconoscibili. Se da un lato il patriarcato sembra rientrare nella storia, dato che viene definito «ideologia», cosa che suppone un sistema sociale preciso, con lo stesso movimento viene anche destoricizzato: il patriarcato è visto come una struttura mentale a-storica, prodotta non da una o diverse società concrete, ma dalla Società. In effetti, viene presentato come la base stessa della costituzione di ogni società. Le implicazioni politiche sono chiare: se il patriarcato è il corollario, o meglio la condizione, del passaggio dalla natura alla cultura, non solo è inevitabile, ma desiderabile; è imposto dalla natura del sociale, e questa natura del sociale è a propria volta imposta dalla natura fisica. In effetti, se il passaggio dalla natura alla cultura implica necessariamente l’oppressione delle donne, ciò è dovuto, in questa visione, alla rispettiva anatomia delle donne e degli uomini, o più esattamente, delle femmine e dei maschi. In questo modo l’avvento del patriarcato e la sua conservazione appaiono doppiamente inesorabili e giustificati: da una parte, dalla natura animale della specie, dalla sua biologia; dall’altra parte, dalla sua natura propriamente umana, dal suo carattere sociale.

Il concetto di patriarcato può essere deviato e svuotato del suo senso di sistema sociale in altre maniere. Si possono re-iniettare in questo concetto elementi della stessa ideologia patriarcale e, in particolare, la distinzione così nebulosa e così tipicamente ideologica tra «produzione» e «riproduzione». Il dibattito femminista nei paesi anglosassoni, come alcune ricerche sul lavoro domestico in Francia [4], si orienta sempre più verso questa direzione che noi, femministe radicali materialiste, consideriamo pericolosa. Tuttavia, e non è uno dei paradossi minori della storia delle idee femministe, e della storia delle idee tout court, è giocoforza constatare che tra coloro che pretendono di reinventare come una trovata meravigliosa ciò che di fatto ereditano dall’ideologia patriarcale, ci sono delle femministe radicali. E persino la teoria che negli Stati Uniti, come in Inghilterra, è considerata fondatrice del femminismo radicale, quella di Shulamith Firestone [5], è scandalosamente biologizzante, dal momento che fa dipendere l’oppressione delle donne dall’«handicap naturale» delle gravidanze.

Le femministe socialiste hanno combattuto a lungo questa teoria con buoni argomenti, ma per le ragioni sbagliate: denunciando il suo biologismo, rifiutano il primato che Firestone assegna alla lotta di sesso, ma per ribadire il principio altrettanto dubbio del primato della lotta di classe. Tuttavia, non essendo riuscite a spiegare totalmente l’oppressione delle donne con il capitalismo, adesso rinnegano questi argomenti. In effetti oggi le femministe socialiste parlano di «patriarcato», ma lo assimilano a un nuovo concetto, quello di «sistema di riproduzione». Non si sa a che cosa si riferisca questo termine, se non che da una parte è legato alle funzioni fisiche dei sessi nella procreazione, e dall’altra parte esplicitamente opposto al concetto di «sistema di produzione». Così facendo, esse rendono esplicito il biologismo implicito da cui le loro analisi sono sempre state infettate. In effetti, se prima di oggi si sono preoccupate soltanto dell’oppressione «capitalista» delle donne, è precisamente perché pensavano che soltanto quella sia sociale, tutto il resto essendo, per implicazione, naturale. Inoltre, identificando un «sistema di riproduzione» quando, nel loro pensiero, il sistema di produzione resta il motore della storia, le femministe socialiste non fanno altro che rinnovare, con altre parole, la dottrina secondo la quale la lotta delle donne è secondaria in rapporto alla lotta anticapitalista. Più curiosamente, è in sostanza la stessa analisi che propongono alcune femministe radicali, come le inglesi Revolutionary Feminists, ma per arrivare a conclusioni politiche del tutto opposte. Della divisione produzione/riproduzione, infatti, le Revolutionary Feminists adottano soltanto l’irriducibilità di un sistema all’altro e dunque la priorità, per le donne, della lotta antipatriarcale. Bisogna pure riconoscere che non esiste un adeguamento perfetto fra le analisi e le strategie politiche che dovrebbero «derivarne». Di modo che il biologismo che noi, femministe radicali, vediamo come una linea di divisione essenziale nell’analisi, non lo è dal punto di vista delle strategie: su questo piano, non è il punto di vista sulla biologia che divide le femministe radicali, per le quali il nemico è il patriarcato, dalle femministe socialiste, per le quali il nemico è il capitale. Tuttavia sarebbe opportuno esaminare se il biologismo delle une e delle altre ha esattamente lo stesso contenuto. Resta il fatto che le femministe radicali devono convivere con questo paradosso: la strada verso conclusioni politiche affini, se non del tutto simili, lungi dall’essere la stessa per tutte, può imboccare vie divergenti e addirittura opposte. Il che pone il problema di osservare più da vicino il rapporto tra analisi teorica e strategia politica.

Quanto a noi, femministe radicali che rivendicano un’impostazione materialista, siamo arrivate alla conclusione provvisoria, dopo anni di riflessione, che per comprendere il patriarcato occorre rimettere in questione l’ideologia patriarcale in modo radicale: rigettarne tutti i presupposti, inclusi quelli che non sembrano tali ma si presentano come categorie fornite direttamente dal reale, per esempio le categorie di «donne» e «uomini». Per ricapitolare in maniera molto schematica il nostro lavoro, noi pensiamo che il genere — le rispettive posizioni sociali delle donne e degli uomini — non sia costruito sulla categoria (apparentemente) naturale del sesso, ma che, al contrario, il sesso sia diventato un fatto pertinente, e quindi una categoria della percezione, a partire dalla creazione della categoria di genere, cioè dalla divisione dell’umanità in due gruppi antagonistici uno dei quali opprime l’altro, gli uomini e le donne.

Per la maggior parte delle persone, incluse alcune femministe, il sesso anatomico (e le sue implicazioni fisiche) crea o almeno permette il genere — la divisione tecnica del lavoro — che, a propria volta, crea o almeno permette il dominio di un gruppo sull’altro. Noi pensiamo al contrario che sia l’oppressione a creare il genere, che la gerarchia della divisione del lavoro sia anteriore, da un punto di vista logico, alla divisione tecnica del lavoro e la crei: crei i ruoli sessuali, quello che viene chiamato il genere; e che il genere, a propria volta, crei il sesso anatomico nel senso che questa divisione gerarchica dell’umanità in due trasforma in distinzione pertinente per la pratica sociale una differenza anatomica in se stessa priva di implicazioni sociali; che la pratica sociale, e questa soltanto, trasformi in categoria di pensiero un fatto fisico in se stesso privo di senso, come tutti i tratti fisici.

Questa evidentemente è un’ipotesi e ci vorranno anni prima di poterla dimostrare, dato che urta contro ciò che oggi ci sembra un’evidenza inaggirabile: che le differenti funzioni ricoperte dalle femmine e dai maschi nella procreazione non possono non avere un’importanza intrinseca per tutta la società, indipendentemente da ciò che essa costruisce su questa differenza. Mostrare che il processo in realtà è inverso, che questa differenza — ovvero il significato che le viene attribuito — è il risultato finale della pratica sociale e non la sua base, è una sfida, e tuttavia è la nostra scommessa.

Questa impostazione per noi è la conseguenza logica della visione di partenza comune all’insieme del movimento femminista, cioè l’interpretazione del dominio maschile come un fenomeno politico. Questo punto di partenza ci ha portate a mettere l’accento sul rapporto che costituisce donne e uomini in due gruppi non solo differenti, ma soprattutto e in primo luogo gerarchizzati, cioè ad adottare una problematica di classe. All’interno di questa problematica non è il contenuto di ciascun ruolo a essere essenziale, ma il rapporto fra i ruoli, fra i due gruppi. Ora, questo rapporto è caratterizzato dalla gerarchia ed è questa quindi a spiegare il contenuto di ciascun ruolo, e non l’inverso. All’interno di questa problematica pertanto, come si vede, il concetto chiave è quello di oppressione, che è o dovrebbe essere il concetto chiave di ogni problematica di classe. Ciò ha delle conseguenze non solo per il contenuto dell’analisi della situazione delle oppresse e per le strategie destinate a mettere fine a questa situazione, ma anche per il modo di pensare l’oppressione: per il ruolo della teoria stessa, e delle teoriche, nella lotta.

Ecco perché altrettanto importante del fatto di discutere di patriarcato è il fatto di discuterne qui, all’università. Non è un caso se non ho mai parlato né della mia specializzazione professionale, né dell’università, a proposito di patriarcato. È che l’università non ha giocato alcun ruolo nella creazione di questo concetto, o di altri concetti politici, così come non ha giocato alcun ruolo nella comparsa di un movimento sociale, il femminismo, che ha elaborato le analisi e i concetti di cui parliamo. Tuttavia ne gioca uno, in tutta evidenza, ospitando questo dibattito, e quale? Una delle tante cose che distingueva le femministe in origine, dieci anni fa, dall’estrema sinistra che resta il suo nemico e il suo interlocutore privilegiato, è il rapporto tra soggetto e oggetto del discorso e della pratica «rivoluzionaria». I gruppi di estrema sinistra lottano per la liberazione e l’arrivo al potere di un proletariato di cui non fanno parte, per persone che non sono loro. Le contraddizioni che scaturiscono da questa situazione sono, a priori, estranee alle femministe: noi non lottiamo per altri, ma per noi; noi, non altri, siamo le vittime dell’oppressione che denunciamo e combattiamo. E quando noi parliamo, non è a nome, né al posto di altri, ma a nostro nome e al nostro posto. L’identità della vittima e della combattente, del soggetto e dell’oggetto della lotta, ci conferisce una legittimità rivoluzionaria che fa crudelmente difetto ai piccolo-borghesi che costituiscono l’estrema sinistra. Che le donne, a partire dal momento in cui lottano per se stesse, abbiano immediatamente questa legittimità, sembra un’evidenza. Ma è un’evidenza o un’apparenza o, più esattamente, si tratta di una realtà immediata o di una semplice potenzialità? Le donne, noi, al pari di tutti gli oppressi, provano ripugnanza a sentirsi donne perché provano ripugnanza, al pari di tutti gli esseri umani, a sentirsi oppresse. Questo è uno dei grandi ostacoli al coinvolgimento delle donne nella lotta femminista: perché lottare significa riconoscere di essere oppressa, e riconoscere di essere oppressa è doloroso.

Per molte donne l’unica attenuazione possibile dell’oppressione che subiscono, poiché nella realtà non possono sfuggirvi, consiste in una denegazione immaginaria di questa oppressione, che sfocia in un diniego della pertinenza per sé della lotta femminista. Ma esiste anche un’altra forma di denegazione: è quella che consiste nel dire o nel significare, con le parole o con le azioni, che le donne sono oppresse, certo, ma solo le altre o soprattutto le altre. Penso alla pratica osservata per tanto tempo da tutta una parte delle femministe socialiste francesi: la lotta femminista consisteva per queste donne nel battersi precisamente ed esclusivamente contro lo sfruttamento delle operaie, che loro non erano. Questo evidentemente corrispondeva, a un primo livello, alle consegne della loro organizzazione mista, e rifletteva l’operaismo che imperversava in questo tipo di gruppi di estrema sinistra. Ma credo che queste consegne incontrassero un desiderio in queste donne: quello di non essere messe di fronte al fatto che anche loro erano donne e, paradossalmente, il fatto di fare quello che loro chiamavano un «lavoro sulle donne» le distanziava radicalmente da questa coscienza femminista invece di agevolarla. D’altronde la pratica della «presa di coscienza», elemento fondamentale del neo-femminismo, veniva condannata, all’interno di questi gruppi, come «piccolo-borghese» ed esplicitamente proibita. Penso anche a quelle accademiche jugoslave che, convocando un convegno nel 1978 sulla condizione delle donne, parlavano in continuazione di «loro». Dire «loro», quando diventa impossibile tacere del tutto, è l’ultima difesa di fronte alle temibili prospettive aperte dal «noi». Questi due esempi evocano momenti dell’evoluzione di queste donne, che hanno superato o supereranno. Ma non esiste la possibilità di un regresso, soprattutto se ci si colloca questa volta a livello collettivo? Un movimento avanza sempre?

Il femminismo è entrato all’università, negli Stati Uniti più che in Europa, in Inghilterra più che nell’Europa del sud, in Spagna più che in Francia. Che gli studi femministi o Women’s Studies siano una buona cosa, nessuno lo nega. Questo dipende anche dal modo in cui vengono condotti, più precisamente dal rapporto che intrattengono con il movimento politico che li suscita e li alimenta. Lo sviluppo dei Women’s Studies negli Stati Uniti è un argomento talmente vasto che non rientra nei miei propositi, né nelle mie competenze parlarne qui, se non per segnalare che alcuni aspetti di questo sviluppo preoccupano, pare a giusto titolo, più di una femminista americana. In effetti il problema che si pone, stante il fatto che l’università non è un luogo neutro e che la rivoluzione per quanto ne so non è ancora stata fatta, è questo (che per altro non riguarda solo l’università e le femministe, ma gli intellettuali in generale e anche le lotte politiche in generale): che ruolo devono avere, nella lotta, le femministe che sono intellettuali, o le intellettuali che sono anche femministe? In realtà ci sono diversi ordini di problemi. Comincerò dal più evidente, quello che si pone per tutti i rivoluzionari e per l’insieme della classe intellettuale (intendo classe, qui, in un senso poco rigoroso, questo per prevenire le critiche). Alcune pensano che, essendo donne, noi siamo soltanto donne, e dunque assolte dalla nostra qualità di vittime dai nostri privilegi. Ma noi femministe materialiste, che affermiamo l’esistenza di diversi — almeno due — sistemi di classe, e dunque la possibilità che un individuo abbia più appartenenze di classe, che oltretutto possono essere contraddittorie; noi che pensiamo che gli operai non siano, in quanto vittime del capitalismo, perciò stesso assolti dal peccato di essere beneficiari del patriarcato, noi rifiutiamo questa via di uscita, troppo facile per essere onesta. In che modo quelle fra di noi che hanno un legame istituzionale alla classe intellettuale possono fare in modo che l’università serva al femminismo e non il femminismo all’università? Questa seconda ipotesi sembra del tutto improbabile a prima vista. Tuttavia, non lo è. Prenderò come esempio il ruolo giocato dai marxisti nell’università francese e nella classe intellettuale francese in generale. Se negli Stati Uniti gli intellettuali marxisti si contano sulle dita di una mano e corrono dei rischi, non è questo il caso in Francia. Il marxismo è largamente accettato nell’università francese. Non dubito un istante della buona fede e della buona volontà dei nostri pensatori marxisti. Si votano sinceramente alla rivoluzione e operano per essa nelle loro discipline.

Ma qual è il risultato dei loro sforzi e dei loro studi? La rivoluzione progredisce maggiormente in Francia che negli Stati Uniti o in Spagna, dove il marxismo fino a poco tempo fa odorava di zolfo e non era compatibile con una carriera universitaria? Le analisi della nostra intellettualità marxista sono straordinariamente rivoluzionarie. L’unico problema è che sono scritte in un linguaggio che può essere compreso da una proporzione ridicolmente piccola della popolazione. Certamente essi denunciano i postulati reazionari e l’ideologia capitalistica ovunque le vedano; ma preferiscono snidarla anzitutto in altri lavori scientifici, anziché nella produzione ideologica destinata al grande pubblico. Dopodiché le loro denunce sono estremamente convincenti… quando si riesce a comprenderle. E, in generale, solo i loro colleghi sono in grado di comprenderle. Di qui il paradosso per cui vengono compresi e apprezzati da coloro che considerano avversari politici, cioè i loro colleghi reazionari, mentre coloro che pretendono di difendere nel migliore dei casi li ignorano, nel peggiore li vedono come dei mistificatori, dunque dei nemici. Indipendentemente dalle loro intenzioni, qual è il risultato del loro lavoro? Nella misura in cui si rivolge agli intellettuali di destra ed esclude i non-intellettuali di sinistra, questo lavoro rafforza oggettivamente la coesione della classe intellettuale nel suo insieme, di tutte le posizioni politiche, di fronte agli strati non-intellettuali della popolazione. E questo non è dovuto unicamente alla contraddizione a cui le donne sfuggono: al fatto di non appartenere, in realtà, alla classe che difendono.  

Molti intellettuali credono che sia l’analisi marxista a fondare la realtà dell’oppressione dei proletari, credenza assurda sia dal punto di vista logico che storico. Qui non posso descrivere in lungo e in largo in che modo Marx, in realtà, abbia preso le mosse dalla constatazione preliminare dell’oppressione dei lavoratori, non potendo fare altrimenti; in che modo, lungi dal tentare di dimostrarne l’esistenza, la certezza di tale esistenza sia stata per lui un dato di base; in che modo, senza questo a priori, non avrebbe avuto alcuna ragione, né soggettiva, né oggettiva, per provare a distruggere i meccanismi che la provocano; in che modo, in breve, non si possa studiare qualcosa che non esiste. Questa perversione della teoria della rivoluzione, della concezione dell’origine della rivolta e della coscienza di classe operata dall’ortodossia marxista incombe anche sul femminismo. Può assumere altre forme, ma non immaginiamo di essere, per magia o grazie alle nostre ovaie, preservate da questo pericolo, in ogni caso non fintanto che saremo delle intellettuali. In effetti, la pretesa di possedere tutti i fili, inclusa l’origine dei movimenti sociali, fa parte degli interessi oggettivi della classe intellettuale, di cui facciamo parte anche noi, della logica della sua conservazione in quanto classe, il che spiega per quale motivo questa classe riconduca tutto, compresa la rivolta, a quella che è la sua riserva privata: l’analisi.

Ora, non dobbiamo ingannarci: l’analisi ha dei limiti. Ci può illuminare sulle modalità e sulle ragioni dell’oppressione; ma non può pretendere di fondare la rivolta, che nasce dalla coscienza dell’oppressione, più di quanto possa istituire la realtà dell’oppressione, dato che l’analisi stessa può procedere soltanto a partire dal momento in cui questa realtà è istituita: altrimenti resta priva di oggetto. L’oppressione è al tempo stesso una realtà e un’interpretazione della realtà: una percezione della realtà come intollerabile, vale a dire, appunto, opprimente. Questa percezione della realtà come opprimente non può fondarsi sulla «pura ragione», basandosi su un’analisi che in principio la ignorerebbe per poi «scoprirla». Al contrario, le diverse analisi della società, della realtà, procedono a partire da percezioni preesistenti di ciò che è tollerabile e ciò che non lo è, di ciò che è giusto e ciò che ingiusto. Non esiste una scienza che possa dirci che siamo oppressi: l’oppressione, in quando coscienza oggettivata, perché condivisa, di essere trattate ingiustamente non ha una base scientifica, non più di quanta ne abbiano i concetti di giustizia e di equità. È qualcosa che non dobbiamo mai dimenticare: non solo le nostre analisi non possono sostituirsi alla rivolta, ma dobbiamo tenere presente che, al contrario, queste analisi a propria volta procedono dalla rivolta e non possono procedere altrimenti. Se ammettiamo che tutte le pratiche intellettuali siano radicate in una posizione (cosciente o meno) di classe, ne consegue che nessuna analisi è dotata di valore propriamente scientifico, che non esiste una scienza con la “S” maiuscola: questo per me è il corollario inevitabile di una posizione materialista conseguente. Un’analisi ha valore soltanto per una posizione di classe, nella misura in cui è utile (questo d’altra parte fa sì che le analisi reazionarie non siano «false»). Se non esiste una scienza con la “S” maiuscola, allora non esiste nemmeno neutralità. Questo significa che quando un’analisi non è più al servizio di una determinata posizione di classe non diventa perciò stesso neutra, ancora meno «oggettiva». Diserta la prima posizione ma, non potendo situarsi al di fuori della classe, si mette al servizio di un’altra posizione di classe. Tutto questo ha, per il nostro lavoro, numerose implicazioni che sono lontana dall’aver soppesato nella loro interezza e di cui, al momento attuale, non ho altro che alcune intuizioni.

Una di queste intuizioni è il ruolo primordiale che deve avere la collera, la nostra collera, nel nostro lavoro, nella nostra maniera di trattare un problema che non è esclusivamente femminista: quello dei rapporti fra la nostra appartenenza alla classe intellettuale e la nostra utilità rivoluzionaria. Questo problema è già affrontato da altri: si tratta di una contraddizione talmente dolorosa, per coloro che hanno avvertito nella maniera più acuta, al tempo stesso, la funzione oggettivamente ancillare al potere della classe intellettuale e la necessità della rivoluzione, da indurre qualcuno come Sartre ad augurarsi di «distruggersi come intellettuale». Pur incarnando l’integrità morale e politica, questa posizione non risolve tuttavia il problema dell’esistenza di questa classe e del suo ruolo. Questo ruolo lo viviamo tutti i giorni: l’università produce una conoscenza al contempo necessaria alla rivoluzione e rifiutata ai suoi protagonisti. L’università può produrre conoscenze soltanto in una forma che le rende inaccessibili alle masse e, al contempo, alienanti per loro. La produzione di una conoscenza spesso utile è, nelle condizioni attuali, inseparabile dalla produzione simultanea di un discorso scientifico che si definisce soltanto per opposizione rispetto al linguaggio «volgare»: quello dei dominati. Di modo che ogni progresso della conoscenza consolida — apparentemente in maniera inesorabile — l’esclusione delle masse, la loro separazione sempre più radicale dagli strumenti intellettuali: dai mezzi per pensare la propria oppressione. Questo problema si pone anche per noi: concretamente, quale uso faremo degli strumenti e delle conoscenze che l’università ci ha dato? In quale misura il nostro femminismo sovvertirà l’università? In quale misura verrà invece recuperato dall’università, per i suoi fini?

Per esempio, quando critichiamo il sessismo dei lavori dei nostri colleghi maschi, è evidente che lo facciamo nella convinzione che questo serva alla lotta femminista. Ma come faremo, come facciamo a creare le condizioni affinché queste critiche siano utilizzabili da tutte le femministe (il che suppone prima di tutto che vengano comprese)? Ora, a seconda del linguaggio che utilizziamo, queste critiche potranno essere comprese dalle femministe — e disprezzate dai nostri colleghi intellettuali — oppure potranno essere comprese da quegli stessi colleghi che, agli occhi della comunità scientifica, avremo in questo modo convinto di sessismo, ma con i quali avremo, al contempo, stabilito una complicità molto più fondamentale, una complicità fondata sull’esclusione di tutte le non-intellettuali, gruppo in cui si trova anche la maggioranza delle femministe. Non ho una risposta già pronta a una domanda come questa, un rimedio miracoloso a un problema che nessuno finora è riuscito a risolvere. Ho soltanto coscienza di alcuni pericoli precisi. Così, se la critica del sessismo delle discipline scientifiche è importante, lo è soltanto nella misura in cui i discorsi di queste discipline costituiscono la versione dotta dell’ideologia patriarcale volgare. È questa che ci importa, è lì che le nostre critiche devono colpire. Quello che ci deve interessare non sono gli argomenti dei nostri colleghi maschi presi di per se stessi, ma il fatto che forniscano una cauzione «scientifica» all’ideologia dominante. È perché la mistificazione della scienza raddoppia la mistificazione dell’ideologia che questi discorsi eruditi devono essere analizzati. Ma la linea è sottile: se le altre donne non comprendono le nostre critiche, se non possono utilizzarle, se tutto questo non costituisce alcun apporto per loro, allora ci saremo di fatto rivolte ai nostri colleghi maschi, avremo riaffermato la nostra solidarietà con l’istituzione mistificante oltre a essere state inutili alla lotta femminista: avremo quindi tradito due volte la classe delle donne.

Usare l’università per la lotta femminista comporta necessariamente denunciare l’università. Denunciare la doppia mistificazione del discorso scientifico: la prima consiste nel fatto che esso non fa altro che parafrasare, raddoppiare l’ideologia dominante; la seconda consiste nel fatto che le conferisce la legittimità del mito della Scienza, Pura, Neutra, Universale. Il semplice ingresso delle femministe, o di preoccupazioni femministe, all’università non è garanzia del fatto le risorse dell’università saranno raccolte da noi, cioè utilizzate contro il ruolo della classe intellettuale e per la rivoluzione. Quando una questione femminista, per esempio quella del lavoro domestico, diventa un argomento accademico; quando viene trattata come tale, cioè come emanante dalla Conoscenza Pura — un mito patriarcale e borghese —, allora il femminismo viene, deliberatamente o meno, tradito. L’unica ragione valida per studiare il lavoro domestico, dato che siamo nella posizione privilegiata di poterlo studiare, è che milioni di donne, ogni giorno e ogni minuto, soffrono nella loro carne il fatto di essere «nient’altro che massaie». Farne un problema accademico equivale a negare — peggio: a insultare — questa sofferenza: significa schierarsi con la classe intellettuale contro le oppresse, contro le massaie, significa reificarle una seconda volta. L’unica maniera per non provocare questo rovesciamento involontario delle alleanze è tenere sempre a mente questa sofferenza e sapere che è l’unica ragione valida per studiare il lavoro domestico. Analogamente, l’unico valore di un’analisi consiste nel contributo che essa può apportare ai mezzi per mettere fine a questa situazione. E l’unico modo per non dimenticare la sofferenza delle altre è cominciare riconoscendo la propria.

Questo non è facile, e non va da sé. L’accesso delle questioni femministe al rango di questioni accademiche appare spesso come un progresso per la stessa lotta femminista, non solo perché l’università in questo modo conferisce loro un brevetto di «serietà», ma anche perché il contesto accademico assicura, o meglio esige, un approccio spassionato ai problemi; e in cambio di questa spassionatezza sembra garantirci un approccio più rigoroso perché più sereno. Questa è una trappola del diavolo, cioè dell’ideologia dominante che ha creato il mito della scienza. Ma se soccombiamo così facilmente è perché questa spassionatezza ci coinvolge anche più direttamente, affettivamente. Prima ancora di cercarvi gli interessi della scienza, troviamo in essa una protezione contro la nostra collera. In effetti non è facile, contrariamente a quanto si crede, essere e soprattutto restare in collera. Si tratta di uno stato doloroso: perché restare in collera significa tenere sempre a mente la causa di questa collera, significa ricordare continuamente quello che vogliamo, che dobbiamo dimenticare almeno qualche volta per riuscire a sopravvivere, e cioè che siamo, anche noi, umiliate e offese. Ma per noi intellettuali dimenticarlo, fosse anche solo per un istante, equivale ad abbandonare il filo che ci lega alla nostra classe di donne, il parapetto che ci impedisce di scivolare dal lato dell’istituzione, dal lato dei nostri oppressori. Abbiamo la tendenza a considerare la collera come un momento superabile, oltre che come un sentimento sgradevole: come qualcosa di temporaneo, che a un certo momento smette di essere utile e diventa persino ingombrante, che dobbiamo deporre prima di varcare le porte dell’università per potere lavorare in pace. Ora, la nostra unica arma contro il tradimento potenziale inscritto nel nostro status di intellettuali è proprio la nostra collera. Perché l’unica garanzia che non saremo, in quanto intellettuali, traditrici della nostra classe è la coscienza di essere, a nostra volta, delle donne, di essere le stesse di cui analizziamo l’oppressione. E l’unica base di questa rivolta è la nostra collera.  

NOTE

(*) C. Delphy, Le patriarcat, le féminisme et leurs intellectuelles, «Nouvelles Questions féministes», 2, ottobre 1981, ora in Ead., L’Ennemi principal 2. Penser le genre, Syllepse, Paris 2001, pp. 223-242.

[1] L. Bland, C. Brundson., D. Hobson, J. Whinship, Women “inside and outside” the relations of production, in Women Studies Group (ed.), Women Take Issue: Aspects of women’s subordination, Hutchinson, London 1978, pp. 35-78.

[2] J. Mitchell, Psicoanalisi e femminismo (1974), Einaudi, Torino 1976.

[3] R. McDonough, G. Harrison, Patriarchy and the Relations of Production, Feminism and Materialism, Routledge and Kegan Paul, London 1978; V. Beechey, On Patriarchy, «Feminist Review», 3, 1979, pp. 66-82. 

[4] F. Bourgeois et al., Travail domestique et famille du capitalisme, «Critique de l’économie politique», 3, 1978, pp. 3-23.

[5] S. Firestone, La dialettica dei sessi (1970), Guaraldi, Firenze 1971.

Il mito dell’orgasmo vaginale

di Anne Koedt, 1970

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Il mito dell’orgasmo vaginale, uno dei primi testi del femminismo radicale statunitense (pubblicato in forma breve nel 1968, per esteso nel 1970), portò con sé una novità dirompente: per la prima volta il piacere sessuale delle donne viene trattato come argomento politico e analizzato nel contesto dei rapporti di potere della società patriarcale. Alla fine degli anni ’60 le femministe si trovano di fronte due modelli di eterosessualità femminile, quello freudiano tradizionale della donna passiva e quello della donna “liberata” della controcultura. Contestano entrambi i modelli come pilastri del patriarcato, eleggendo la clitoride e il suo piacere a simbolo dell’autodeterminazione delle donne.

Se la retorica maschile della cosiddetta “liberazione sessuale” era già stata smascherata dall’umorismo al vetriolo di Valerie Solanas, nel suo pamphlet Anne Koedt si occupa di sfatare il mito dell’orgasmo vaginale: quel discorso fraudolento degli “esperti” che ha causato accuse infondate di “frigidità”, enormi problemi psicologici alle donne e il ricorso diffuso alla dissimulazione. Un discorso patriarcale che conferisce importanza alla vagina come simbolo della femminilità “normale”, affermando l’essenziale dipendenza delle donne dagli uomini e dal pene per il proprio appagamento sessuale ed emotivo. L’autrice sposta invece l’attenzione sulla clitoride, sottraendola alla patologizzazione freudiana con il ricorso alle più recenti ricerche della sessuologia. Nasce così la nuova visione femminista della clitoride come luogo potenziale di una sessualità femminile autonoma, non definita dall’uomo. Come Koedt accenna alla fine del saggio, la sessualità clitoridea non solo destabilizza la gerarchia eterosessuale ma mette in questione la stessa “istituzione dell’eterosessualità”. Centralità della clitoride, potenziale superfluità del maschio, sessualità femminile autodeterminata che si pone al di là delle categorie di etero- e omosessualità: una visione talmente radicale che in seguito alla pubblicazione del testo l’autrice ricevette una gran quantità di lettere d’odio e una minaccia di morte.

Se in questo testo alcuni aspetti dell’analisi sono datati, perché restano dentro i limiti di una spiegazione tutta psicologica del dominio maschile e dei rapporti sociali patriarcali, questo saggio, divenuto un classico del femminismo, rappresenta tuttavia un prezioso documento storico del pensiero femminista: testimonia il tentativo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 (in Italia si pensi a La donna clitoridea e la donna vaginale di Lonzi) di politicizzare la conoscenza del proprio corpo e immaginare un nuovo tipo di sessualità femminile. La clitoride in quegli anni diventa un simbolo che serve ad affermare l’autonomia sessuale delle donne e a demolire il mito della complementarietà naturale dei sessi.

Grazie alla pratica politica della traduzione femminista, in particolare a Serena Luce Castaldi, The Myth of the Vaginal Orgasm arrivò in Italia nel 1972, incluso nella raccolta Donne è bello a cura del gruppo milanese L’Anabasi. Manastabal propone qui una nuova traduzione aggiornata e integrale, basata sul testo pubblicato in Notes of the Second Year: Women’s Liberation. Major Writings of the Radical Feminists, a cura di Shulamith Firestone e Anne Koedt, New York, 1970.

Dalla copertina del libro Radical Feminism, a cura di Anne Koedt, Ellen Levine, Anita Rapone, New York, 1973

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Ogni qualvolta si discute di orgasmo femminile e frigidità, si fa una falsa distinzione tra l’orgasmo vaginale e quello clitorideo. La frigidità è stata generalmente definita dagli uomini come l’incapacità delle donne di avere orgasmi vaginali. In realtà, la vagina non è una zona particolarmente sensibile e non ha una struttura adatta a raggiungere l’orgasmo. È la clitoride a essere il centro della sensibilità sessuale e l’equivalente femminile del pene.

Credo che questo spieghi moltissime cose: prima di tutto il fatto che il cosiddetto tasso di frigidità tra le donne sia incredibilmente alto. Piuttosto che ricondurre la frigidità femminile a false premesse sull’anatomia femminile, i nostri “esperti” hanno stabilito che la frigidità è un problema psicologico delle donne. Le donne che lamentano tale frigidità sono state indirizzate a psichiatri che potessero scoprire quale fosse il loro “problema”, di solito diagnosticato come incapacità di adattarsi al proprio ruolo di donne.

I dati di fatto dell’anatomia e della risposta sessuale femminile ci raccontano tutta un’altra storia. Sebbene vi siano molte zone di eccitazione sessuale, vi è solo una zona per il raggiungimento del climax: questa zona è la clitoride. Tutti gli orgasmi sono estensioni di sensazioni da quest’area. Proprio perché la clitoride non viene sufficientemente stimolata nelle posizioni sessuali convenzionali, ecco che restiamo “frigide”.

Oltre alla stimolazione fisica, che è la causa comune di orgasmo nella maggior parte delle persone, vi è anche una stimolazione attraverso processi principalmente mentali. Alcune donne, ad esempio, possono raggiungere l’orgasmo attraverso fantasie sessuali o attraverso feticismi. In ogni caso, mentre lo stimolo può essere psicologico, l’orgasmo si manifesta fisicamente. La causa può essere psicologica, ma l’effetto è comunque fisico e l’orgasmo ha luogo, necessariamente, nell’organo sessuale preposto al climax sessuale, la clitoride.

L’esperienza dell’orgasmo, inoltre, può assumere diversi gradi di intensità: alcuni più localizzati, altri più diffusi e sensibili. Ma sono tutti orgasmi clitoridei.

Tutto questo pone alcune questioni interessanti sul sesso convenzionale e sul ruolo che in esso svolgiamo. Gli uomini raggiungono l’orgasmo essenzialmente per sfregamento con la vagina e non con la zona clitoridea, che è esterna e non adatta per l’uomo a produrre frizione come la penetrazione vaginale. Le donne, quindi, sono state definite sessualmente in base a ciò che procura piacere agli uomini. La nostra biologia non è stata propriamente analizzata. Invece, siamo state nutrite con il mito della donna “liberata” e del suo orgasmo vaginale – un orgasmo che di fatto non esiste.

Quello che dobbiamo fare è ridefinire la nostra sessualità. Dobbiamo liberarci dai “normali” concetti del sesso e creare nuove linee generali che prendano in considerazione un godimento sessuale reciproco. Sebbene l’idea del godimento reciproco sia ampiamente applaudita nei manuali sul matrimonio, non la si porta alla sua logica conclusione. Dobbiamo iniziare a esigere che, se certe posizioni sessuali definite “standard” non portano reciprocamente all’orgasmo, allora non possano più essere definite “standard”. Bisogna usare o elaborare nuove tecniche che portino a un cambiamento di questo particolare aspetto del nostro attuale sfruttamento sessuale.

Notes from the Second Year, 1970 (Rubenstein Library, Duke University)

Freud, un padre dell’orgasmo vaginale

Freud sosteneva che l’orgasmo clitorideo fosse adolescenziale e che, con la pubertà, quando le donne iniziano ad avere rapporti con gli uomini, esse dovrebbero trasferire il centro dell’orgasmo nella vagina. Si presupponeva che la vagina fosse in grado di produrre un orgasmo analogo, ma più “maturo” rispetto alla clitoride. Si è lavorato molto per sviluppare questa teoria, ma poco si è fatto per mettere in questione i suoi assunti di base. Per comprendere appieno questa incredibile invenzione, si dovrebbe forse ricordare, per prima cosa, l’atteggiamento generale di Freud verso le donne. Mary Ellman, in Thinking about women, lo ha così riassunto:

Tutto, nell’atteggiamento paternalistico e preoccupato di Freud verso le donne, viene ricondotto alla loro mancanza del pene, ma è solo nel suo saggio Psicologia della donna che Freud rende esplicito il suo disprezzo per le donne, altrove implicito nella sua opera. Egli, quindi, prescrive per le donne l’abbandono della vita intellettuale, che interferirebbe con la loro funzione sessuale. Quando è un uomo a essere psicoanalizzato, l’analista si prefigge il compito di sviluppare le capacità del paziente; ma se si tratta di donne, il lavoro dell’analista consiste nel riportarle entro i limiti alla loro sessualità. Come scrive Mr. Rieff, per Freud «l’analisi non può incoraggiare nelle donne l’investimento di nuove energie per ottenere successo e raggiungere obiettivi, ma soltanto insegnare loro la lezione di una razionale rassegnazione».

Furono le sue opinioni sulle donne, che egli considerava secondarie e inferiori rispetto agli uomini, a formare la base per le teorie di Freud sulla sessualità femminile.

Dopo aver dettato legge sulla natura della nostra sessualità, Freud, guarda caso, scoprì un tremendo problema di frigidità nelle donne. La cura che prescriveva per una donna frigida era quella psichiatrica. Per lui, infatti, la donna soffriva dell’incapacità di adeguarsi mentalmente al suo ruolo “naturale” di donna. Frank S. Caprio, un seguace contemporaneo di tali idee, afferma:

Ogni volta che una donna è incapace di raggiungere l’orgasmo tramite il coito, malgrado il marito sia un partner adeguato, e preferisce la stimolazione clitoridea a qualsiasi altra forma di attività sessuale, essa può essere considerata sofferente di frigidità, e bisognosa di assistenza psichiatrica (The Sexually Adequate Female, p. 64).

La spiegazione fornita è che le donne erano invidiose degli uomini: «rinuncia della femminilità». Quindi il fenomeno veniva diagnosticato come un attacco agli uomini.

È importante sottolineare che Freud non ha basato la sua teoria sullo studio dell’anatomia femminile, ma piuttosto sulle sue personali convinzioni sulla donna come un’appendice, inferiore all’uomo, e sul suo conseguente ruolo sociale e psicologico. Nei loro tentativi di affrontare il problema della frigidità di massa delle donne, i freudiani hanno dovuto fare complicati salti mortali nei loro ragionamenti. Marie Bonaparte, in Female Sexuality, arriva a consigliare la chirurgia per riportare le donne sulla giusta strada. Avendo scoperto una strana correlazione tra la donna non frigida e la posizione della clitoride vicino alla vagina, scrive:

Mi è venuto in mente, allora, che, qualora in alcune donne questa distanza fosse eccessiva e la fissazione sulla clitoride fosse ostinata, una riconciliazione clitorideo- vaginale si potrebbe effettuare con mezzi chirurgici, in modo da portare beneficio alla normale funzione erotica. Il professor Halban di Vienna, biologo e chirurgo, si è interessato al problema e ha individuato una semplice tecnica operatoria, in cui il legamento sospensorio della clitoride viene reciso e la clitoride collegata alle strutture sottostanti, fissandola così in una posizione più bassa, con un’eventuale riduzione delle piccole labbra (p. 148).

Ma il danno più grave non ha riguardato l’ambito chirurgico, in cui i freudiani si sono dati da fare nel tentativo assurdo di cambiare l’anatomia femminile per adeguarla ai loro presupposti di base. Il danno peggiore è stato causato alla salute mentale delle donne, sia che soffrissero silenziosamente per il loro senso di colpa, sia che corressero dagli psichiatri alla ricerca disperata di quella terribile repressione nascosta che impediva loro di realizzare il loro destino vaginale.

Mancanza di evidenza?

Inizialmente si potrebbe forse sostenere che queste sono aree sconosciute e poco esplorate, ma a un più attento esame, questo certamente non è vero oggi, e non lo era neanche in passato. Gli uomini, ad esempio, hanno sempre saputo che le donne soffrivano di frigidità durante il rapporto: il problema c’era. E c’è molta evidenza specifica: gli uomini sapevano che la clitoride era – ed è – l’organo essenziale per la masturbazione, sia nelle bambine che nelle donne adulte. Ovviamente le donne hanno chiarito dove pensavano che fosse localizzata la loro sessualità. È piuttosto sospetto, peraltro, che gli uomini sembrino consapevoli del potere della clitoride durante “i preliminari”, quando vogliono fare eccitare le donne e produrre la lubrificazione necessaria alla penetrazione. I preliminari sono un concetto creato per gli scopi degli uomini e che finisce per essere uno svantaggio per molte donne, visto che, appena la donna è eccitata, l’uomo cambia e si dedica alla stimolazione vaginale, lasciando la partner eccitata ma insoddisfatta.

Si è a conoscenza, inoltre, del fatto che generalmente le donne non hanno bisogno di anestesia interna durante operazioni chirurgiche vaginali, il che evidenzia che la vagina non è di fatto una zona molto sensibile. Oggi, con le ampliate conoscenze anatomiche, con gli studi di Kelly, Kinsey, e Masters e Johnson, per citarne solo alcuni, non c’è ignoranza in materia. Ci sono, tuttavia, ragioni sociali per cui queste conoscenze non vengono diffuse su larga scala: viviamo in una società maschile che non persegue alcun cambiamento nel ruolo delle donne.

La prima versione del testo pubblicata su Notes of the First Year, New York, 1968 (Rubenstein Library, Duke University)

Evidenze anatomiche

Invece di iniziare parlando di ciò che le donne dovrebbero sentire, sarebbe più logico partire dalle evidenze anatomiche che riguardano la clitoride e la vagina.

La clitoride è un piccolo equivalente del pene, tranne per il fatto che l’uretra non vi passa attraverso come avviene nell’uomo. La sua erezione è simile a quella maschile e la testa della clitoride ha lo stesso tipo di struttura e funzione della testa del pene.

C. Lombard Kelly, in Sexual Feeling in Married Men and Women, scrive:

La testa della clitoride è anch’essa composta da tessuto erettile e ha un epitelio, o superficie coprente, molto sensibile, fornito di speciali terminazioni nervose chiamate corpuscoli genitali. Essi sono particolarmente adatti alla stimolazione sensoriale che, con le adeguate condizioni mentali, sfocia nell’orgasmo sessuale. Nessun’altra parte dell’apparato sessuale femminile è dotato di questi corpuscoli (p. 35).

La clitoride non ha altra funzione che il piacere sessuale.

La vagina. Le sue funzioni sono collegate alla funzione riproduttiva. Principalmente 1) per le mestruazioni 2) per la ricezione del pene 3) per trattenere lo sperma 4) come passaggio per il parto. L’interno della vagina, che secondo i difensori dell’orgasmo vaginale, sarebbe il centro produttore dell’orgasmo:

Come quasi tutte le altre strutture interne del corpo, è assai poco dotato di organi di senso. Il rivestimento interno della vagina, di origine endodermica, la rende simile da questo punto di vista al retto e ad altre parti dell’apparato digerente (Kinsey, Sexual Behavior in the Human Female, p. 580).

Il grado di insensibilità all’interno della vagina è talmente elevato che «del campione di donne sottoposte a un nostro test ginecologico, meno del 14% hanno mostrato consapevolezza di essere state toccate» (Kinsey, p. 580). Anche l’importanza della vagina come semplice centro erotico (piuttosto che come centro dell’orgasmo) è risultata poco rilevante.

Altre aree – Le piccole labbra e il vestibolo della vagina. Queste due aree sensibili possono dar avvio a un orgasmo clitorideo. Poiché possono essere efficacemente stimolate durante un “normale” coito – sebbene ciò avvenga raramente – questo tipo di stimolo è stato erroneamente considerato un orgasmo vaginale. Tuttavia, è importante distinguere tra aree che possono stimolare la clitoride, incapaci di produrre autonomamente l’orgasmo, e la clitoride stessa:

Indipendentemente dal mezzo di eccitamento usato per portare l’individuo allo stato di climax sessuale, la sensazione è percepita dai corpuscoli genitali ed è localizzata dove questi si trovano: nella testa della clitoride o del pene (Kelly, p. 49).

L’orgasmo stimolato psicologicamente. Oltre ai già citati metodi diretti o indiretti per stimolare la clitoride, vi è un terzo modo per dare avvio a un orgasmo: attraverso la stimolazione mentale (corticale), quando l’immaginazione stimola il cervello, il quale a sua volta stimola i corpuscoli genitali a produrre un orgasmo.

Donne è bello, a cura del gruppo L’Anabasi, Milano, 1972

Donne che dicono di avere un orgasmo vaginale

Confusione. A causa della mancanza di conoscenza della propria anatomia, alcune donne accettano l’idea che un orgasmo percepito durante un rapporto “normale” abbia un’origine vaginale. Questa confusione è dovuta alla combinazione di due fattori. Il primo è l’incapacità di localizzare il centro dell’orgasmo, il secondo è il desiderio di adeguare la propria esperienza all’idea di normalità sessuale definita dal maschio. Dal momento che le donne sanno poco della propria anatomia, è facile confondersi.

Inganno. La maggior parte delle donne che fingono di avere un orgasmo vaginale lo fa, per dirla con Ti-Grace Atkinson, «per non essere scaricata». In un nuovo best-seller danese, I Accuse, Matte Ejlersen tratta specificatamente questo problema diffuso, che lei chiama «la commedia del sesso». Questa commedia ha molte cause. Prima di tutto, l’uomo esercita una forte pressione psicologica sulla donna, perché pensa che la posta in gioco sia la propria abilità come amante. Perciò, per non offendere l’ego di lui, la donna si adatterà al ruolo prescritto e vivrà un’estasi simulata. Tra le donne danesi citate, alcune che non avevano sperimentato il godimento avevano perso ogni interesse per il sesso e fingevano l’orgasmo vaginale per concludere velocemente l’atto sessuale. Altre hanno ammesso di aver simulato l’orgasmo vaginale per legare a sé un uomo. In un caso, una donna aveva simulato l’orgasmo vaginale affinché lui lasciasse la sua prima moglie, che ammetteva di essere vaginalmente frigida. Fu poi costretta a continuare la finzione, poiché, ovviamente, non poteva chiedere al partner di stimolarle la clitoride.

Molte altre donne avevano semplicemente paura di affermare il proprio diritto a un uguale godimento, poiché pensavano che l’atto sessuale fosse anzitutto a beneficio dell’uomo e che ogni piacere che la donna ottenesse fosse in sovrappiù.

Altre donne, con abbastanza amor proprio da respingere la convinzione dell’uomo che esse avessero bisogno di cure psichiatriche, si sono rifiutate di riconoscersi come frigide. Non hanno accettato il senso di colpa, ma non sapevano come risolvere il problema, non conoscendo i dati della propria fisiologia. Così sono rimaste in una sorta di limbo.

Uno dei risultati forse più esasperanti e dannosi di tutta questa farsa è che a donne che erano perfettamente sane sessualmente è stato insegnato a pensare di non esserlo. Quindi, oltre ad essere state private del godimento sessuale, queste donne sono state indotte a colpevolizzarsi, quando non avevano alcuna colpa. Cercare una soluzione a questo problema insolubile può portare una donna su una strada senza uscita di odio di sé e insicurezza. Infatti, le viene detto dal suo analista che anche in quell’unico ruolo che le viene assegnato dalla società maschile – il ruolo di donna – lei fallisce. Così è costretta a mettersi sulla difensiva poiché a partire da dati falsati, le viene chiesto di essere ancor più femminile, di pensare in modo femminile e rinnegare la sua invidia nei confronti degli uomini. Cioè, pedalare, carina!

Edizione della New England Free Press, Boston, 1970

Perché gli uomini tengono in vita il mito

1. Preferenza per la penetrazione vaginale. Lo stimolo migliore per il pene è la vagina, che fornisce la necessaria frizione e lubrificazione. Da un punto di vista strettamente tecnico, questa posizione offre le migliori condizioni fisiche, anche se l’uomo può provare altre posizioni per variare.

2. La donna invisibile. Uno degli elementi dello sciovinismo maschile è il rifiuto o l’incapacità di vedere le donne come esseri umani completi e autonomi. Piuttosto, gli uomini hanno scelto di definire le donne in base al vantaggio che apportano alla loro vita. Sessualmente, una donna non è vista come un soggetto a pari titolo dell’atto sessuale, non più di quanto non sia vista come una persona con desideri indipendenti quando faccia qualsiasi altra cosa nella società. Quindi è stato facile inventare ciò che era più conveniente riguardo alle donne, soprattutto visto che la società è stata pensata in funzione degli interessi maschili e le donne non si erano organizzate nemmeno per contrapporre una resistenza verbale agli “esperti”.

3. Il pene come epitome della mascolinità. Gli uomini definiscono la loro vita principalmente in termini di mascolinità. È una forma universale di autoesaltazione. Vale a dire, in ogni società, anche quando fosse omogenea (per esempio, priva di differenze di “razza”, etnia o di grosse differenze economiche) vi è sempre un gruppo sociale – le donne – da opprimere. L’essenza dello sciovinismo maschile consiste nella superiorità psicologica che gli uomini esercitano sulle donne. Questo tipo di definizione di sé basata sul concetto di superiorità/inferiorità, piuttosto che una definizione positiva basata sulla propria crescita e realizzazione, ha incatenato vittima e oppressore. Ma quella di gran lunga più brutalizzata è la vittima.

Un’analogia si può fare con il razzismo, in cui il razzista bianco compensa il proprio senso di inadeguatezza creando l’immagine dell’uomo nero (è una battaglia prima di tutto maschile) come biologicamente inferiore rispetto a sé. Grazie alla sua posizione avvantaggiata nella struttura di potere maschile e bianca, l’uomo bianco può imporre questa distinzione inventata. Nella misura in cui gli uomini tentano di razionalizzare e giustificare la superiorità maschile attraverso la differenziazione fisica, la mascolinità è simboleggiata dall’essere più muscoloso, più peloso, avere la voce più profonda e il pene più grande. Le donne, invece, ricevono approvazione (cioè, vengono definite “femminili”) se sono delicate, piccole, si depilano le gambe e hanno la voce acuta ma dolce.

Dato che la clitoride è molto simile al pene, in varie società, come è stato attestato, vi sono uomini che tentano di cancellarne l’esistenza per conferire grande importanza alla vagina (come ha fatto Freud), oppure, come avviene in alcune zone del Medioriente, ricorrono all’imposizione della clitoridectomia. Freud considerava questa antica usanza, ancora oggi praticata, come un modo di “femminilizzare” ulteriormente la donna rimuovendo il principale residuo della sua mascolinità. Va notato, inoltre, che una clitoride grande viene considerata brutta e mascolina. Alcune culture utilizzano la pratica di versare un prodotto chimico sulla clitoride per ridurla alla “giusta” misura. Mi sembra chiaro che gli uomini temono la clitoride come una minaccia alla loro mascolinità.

4. Il maschio sessualmente superfluo. Gli uomini temono di diventare sessualmente superflui se la clitoride prende il posto della vagina come centro del piacere delle donne. Effettivamente questo timore è fondato se si considera unicamente l’anatomia. La posizione del pene all’interno della vagina, sebbene perfetta per la riproduzione, non stimola necessariamente l’orgasmo nelle donne, perché la clitoride è situata esternamente e più in alto. Nella posizione “normale”, le donne devono affidarsi alla stimolazione indiretta. La sessualità lesbica è una dimostrazione eccellente, basata su dati anatomici, dell’irrilevanza dell’organo maschile. Albert Ellis accenna al fatto che un uomo senza pene può essere un ottimo amante per una donna.

Considerando che la vagina, dal punto di vista dell’uomo, è molto desiderabile puramente su basi fisiche, si può intuire il dilemma maschile. E ciò ci costringe anche a scartare molti argomenti basati sulla “fisicità” che spiegano perché le donne vadano a letto con gli uomini. Quello che rimane, mi sembra, è un insieme di ragioni principalmente psicologiche che portano le donne a scegliere gli uomini come partner sessuali ed escludere le donne.

Controllo sulle donne. Una ragione per spiegare la pratica mediorientale della clitoridectomia è che tratterrà le donne dall’avere una sregolata vita sessuale. Rimuovendo l’organo sessuale capace di orgasmo, evidentemente il loro desiderio sessuale diminuirà. Dato che gli uomini guardano alle donne come loro proprietà, particolarmente in alcuni paesi, dovremmo iniziare a chiederci come mai non sia nell’interesse degli uomini che le donne siano sessualmente libere. La doppia morale, com’è praticata ad esempio in America latina, è imposta per mantenere le donne come proprietà totale del marito, mentre lui è libero di avere tutti i rapporti che desidera.

6. Lesbismo e bisessualità. A parte le ragioni strettamente anatomiche per cui le donne possono cercare altre donne come amanti, vi è la paura da parte degli uomini che le donne cerchino la compagnia di altre donne su una base pienamente umana. Riconoscere l’evidenza dell’orgasmo clitorideo minaccerebbe l’istituzione eterosessuale. Indicherebbe che il piacere sessuale è ottenibile sia da uomini che da donne, rendendo quindi l’eterosessualità non un assoluto ma una opzione. Si aprirebbe così la questione di relazioni sessuali umane che vadano al di là dei confini dell’attuale sistema dei ruoli maschile e femminile.

Testi citati:

  • Bonaparte, Marie, Female Sexuality, Grove Press, 1953
  • Caprio, Frank S., The Sexually Adequate Female, Fawcett Gold Medal Books, 1953 and 1966
  • Ejlersen,Mette, Jeg Anklager (I Accuse), Chr. Erichsens Forlag, 1968
  • Ellis, Albert, Sex Without Guilt, Grove Press,1958 and 1965
  • Ellman, Mary, Thinking About Women, Harcourt, Brace & World, 1968
  • Kelly, G. Lombard, Sexual Feelings in Married Men and Women, Pocketbooks, 1951 and 1965
  • Kinsey, Alfred C., Sexual Behavior in the Human Female, Pocketbooks, 1953
  • Masters and Johnson, Human Sexual Response, Little, Brown, 1966

Copyright © by Anne Koedt, 1970

Bourdieu o il potere auto-ipnotico del dominio maschile

di Nicole-Claude Mathieu (*)

Nicole-Claude Mathieu ritratta da Laurence Prat

«Un libretto fitto e soffocante; non graffierà gli uomini, ma confonderà un po’ di più, ce ne fosse bisogno, la coscienza delle donne»: con queste parole, alla fine degli anni Novanta, la sociologa e antropologa femminista Nicole-Claude Mathieu concludeva una puntigliosa e incisiva disamina critica di La domination masculine (ll dominio maschile) di Pierre Bourdieu. Senonché, mentre il testo di Bourdieu è stato tempestivamente tradotto in italiano, ristampato, adottato nei corsi universitari di gender studies, ridotto in citazioni da sfoggiare a riprova di una squisita sensibilità culturale e magnificato (incredibilmente, anche da tante devote lettrici) per aver ricordato delle donne solo e soltanto ciò che si presta a dimostrare che queste riproducono il dominio patriarcale tanto quanto gli uomini, del dibattito femminista apertosi in Francia al momento dell’apparizione del volume non è stato recepito quasi nulla nel nostro paese. La politica della traduzione e della circolazione dei testi è politica tout court: stabilisce parametri di legittimità, condiziona l’approccio ai problemi e, in questo caso, sembra obbedire a regole pericolosamente vicine al precetto epistemologico che lo stesso Bourdieu enuncia ne Il dominio maschile, quando accusa le colleghe femministe di «introdurre nel campo scientifico una difesa politica dei particolarismi che autorizza il sospetto a priori», riservando a se stesso il ruolo di custode oggettivo dei fondamenti universalistici della «Repubblica delle scienze». Quale sia la garanzia di “oggettività” che un membro del gruppo dominante può dare quando parla del dominio patriarcale è il filo che percorre queste splendide pagine di Nicole-Claude Mathieu, qui presentate per la prima volta in italiano.

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Y a qué’qu’chose qui cloche là-d’dans / J’y retourne immédiatement

Boris Vian, La Java des bombes atomiques

1998. Che settembre! Tra la pioggia, la tempesta, il mare agitato, la valanga equivoca del caso Clinton e la grandine fitta del caso Bourdieu, ci si sarebbe quasi potuti dimenticare delle attrattive dell’estate, come la pubblicazione di La construction sociale de l’inégalité des sexes. Des outils et des corps di Paola Tabet [1], Le sexe du savoir di Michèle Le Doeuff, Medias et féminismes. Minoritaires sans paroles di Myriame El Yamani [2], Le savant et la politique. Essai sur le terrorisme sociologique de Pierre Bourdieu di Jeanine Verdès-Leroux [3], – tutti titoli che tornano utili al cospetto de Il dominio maschile, piccolo ordigno abortito di grande incoerenza che costituisce il rifacimento, appena rimaneggiato, di un articolo apparso con lo stesso titolo otto anni fa [4]. Sulla spiaggia o altrove, se vi domandaste che cosa trasmette questa sera la televisione… Grazie all’iniziativa del periodico Télérama [5], il dominio maschile è stato lo scoop dell’estate. Nessuno nelle case può ignorare che tale dominio esiste, e tutti devono ormai sapere che è simbolico, tuttavia efficace o, se preferite, efficace benché soprattutto simbolico. — Simbolico? Come il franco di risarcimento danni [6]? Ah bene… — Ma c’è l’amore? Ah bene! — Impossibile? Eh beh… tuttavia ne parlano tutti i romanzi… Che si fa oggi pomeriggio?

Se il libro si fosse intitolato «L’oppressione delle donne» (ma era impossibile, si vedrà perché), difficilmente la celebrità dell’autore avrebbe invaso in questo modo le riviste illustrate e i chioschi delle stazioni. E se una femminista avesse scritto «Il dominio maschile», si può dubitare che Télérama le avrebbe fatto una simile pubblicità. Si noterà d’altronde che — nella corsa agli approfondimenti e ai commenti sull’autore da parte dei lettori o di membri dell’intellighenzia che un numero impressionante di giornali e riviste si sono ritenuti (visti) obbligati a pubblicare immediatamente —, si noterà, dicevo, che soltanto un’infima porzione è stata consacrata al libro stesso e dunque alla «questione». Ciò dipende dal fatto che, in ultima analisi, la questione interessa poco, o piuttosto dal fatto che, avendo tutti e tutte un interesse preciso per essa, se la parola è denaro per i media, il silenzio è d’oro per la maggioranza dei protagonisti delle relazioni uomini-donne?

Così, ci si può domandare se l’occultamento massiccio del contenuto del libro dietro alle polemiche che si sono risvegliate intorno all’autore non sia dovuto agli stessi meccanismi mediatici (e accademici) che stendono il silenzio sulle pubblicazioni femministe nel momento stesso in cui pubblicizzano gli uomini che trattano dello stesso (?) soggetto. In breve, per una sorta di effetto boomerang [7], lanciando il libro a partire dal suo credito di dominante (il suo «capitale simbolico di celebrità») [8], Bourdieu, mancando uno dei suoi obiettivi (parlare e far parlare del dominio maschile), ha tuttavia ricapitalizzato (plus-valore) questo credito – di cui fanno parte la critica come la lode; ogni autore sa che è meglio essere attaccati piuttosto che passati sotto silenzio.

Essere passate sotto silenzio dai media e dal proprio ambiente professionale è qualcosa di cui coloro che analizzano e denunciano il potere degli uomini hanno una lunga esperienza. Bisogna ricordare qui la strana invisibilità (trasparenza) delle ricercatrici in generale [9]. Quanto al discredito, agli insulti diretti e indiretti [10], agli ostacoli alla carriera opposti alle ricercatrici apertamente «femministe», essi non hanno nulla a che vedere con una qualche «disposizione» dovuta a un inconscio simbolico degli uomini e delle donne alla maniera di Bourdieu, e invece tutto a che vedere con una resistenza maschile intenzionale e organizzata [11] – e pure tutto a che vedere, tra le donne che hanno qualche frammento di potere, con la paura del discredito che colpisce quelle che sostengono altre donne. Che alcune finiscano per abbandonare l’idea di progredire nella carriera, di candidarsi a posizioni di rilievo, è dovuto all’esperienza del rigetto dei loro tentativi o di quelli delle altre; si tratta certamente di un adattamento alle opportunità oggettive, e non di un «adattamento delle disposizioni alle opportunità oggettive», come direbbe Bourdieu – le «disposizioni» essendo «schemi pratici» (DOM, p. 14; trad. it. p. 17) che implicano un «adattamento inconscio alle probabilità associate a una struttura oggettiva di dominio» (DOM, p. 43, corsivo mio; trad. it. p. 47). Ma prima di affrontare i concetti in questione e la politica a cui sono funzionali, occorre tornare sui silenzi dell’autore.

I. CANDIDATO BOURDIEU [12]: RESPINTO ALL’ESAME DI DIPLOMA DI STUDI AVANZATI (I ANNO DI TESI). PER I SEGUENTI MOTIVI:

1) Mancata citazione di autori importanti che hanno lavorato sull’argomento, compresi quelli i cui lavori avrebbero potuto chiarire le sue tesi, e compresi i colleghi della sua comunità scientifica. Esempi: non si fa più alcuna allusione ai lavori antropologici di Françoise Héritier (citata nell’articolo del 1990), sua collega al Collège de France, lavori che in gran parte si concentrano appunto sui meccanismi simbolici della «valenza differenziale dei sessi» [13], quasi universali, specialmente nei sistemi di appellazione di parentela. Manca pure qualsiasi allusione a sociologhe e antropologhe che hanno detto già da più di venti anni ciò che il Candidato pretende di farci scoprire (per esempio che i sessi/generi sono categorie sociali, storiche, costruite e relazionali), ma che in più non nascondono di essere femministe (e quella è senz’altro la duplice ragione dell’omissione). Pensiamo qui a Christine Delphy [14], Colette Guillaumin [15], Paola Tabet [16], per non citare che alcune fra le più «anziane» (fra cui io stessa) che hanno lavorato negli anni Settanta nel campo della sociologia.

[Ma Bourdieu aveva già risposto. Nell’articolo del 1990 (ACT, p. 30), afferma che il loro «isolazionismo» (e il fatto che si riferiscano alle «donne» e non alla «relazione sociale di dominio»!?) conduce «certe produzioni “militanti” ad accreditare alle fondatrici del movimento femminista “scoperte” che fanno parte delle acquisizioni più antiche e da più lungo tempo ammesse nelle scienze sociali, come il fatto che le differenze sessuali siano differenze sociali naturalizzate (corsivo mio)». Si resta senza parole. Anche il Candidato d’altra parte lo è, visto che non offre alcun riferimento storico, senza dubbio sbalordito dalla sua stessa audacia. Per fortuna che lui stesso ha scritto una volta: «Le scoperte scientifiche hanno spesso l’ambiguo privilegio, in antropologia, di diventare ovvie una volta acquisite» (17)].

Bisognerebbe tuttavia sapere se, e in caso affermativo in che cosa, le problematiche differiscono.

[Ma Bourdieu aveva già risposto! «Sebbene io non ami l’esercizio, tipicamente scolastico, consistente nel passare in rassegna, per distinguersene, tutte le teorie concorrenti dell’analisi proposta – fra le altre cose, perché può far credere di non avere altro principio che la ricerca della differenza […]» (ACT, p. 30). Egli ribadisce ne Il dominio… rammaricandosi, per esempio, di non aver sottolineato a sufficienza ciò che lo differenzia da Claude Lévi-Strauss e da Gayle Rubin, perché ciò gli avrebbe permesso, dice, «di evitare di dare l’impressione di ripetere o di riprendere analisi alle quali mi oppongo (18). Il che comporta trattare ogni questione da solo, tra sé e sé].

D’altra parte, nel suo articolo «Bourdieu: nom propre d’une enterprise collective», François de Singly (1998) ha dissezionato con precisione le abituali e diverse forme di occultamento dei collaboratori più vicini (soprattutto uomini) da parte di questo autore. Si potrebbe allora pensare che l’occultamento delle ricercatrici femministe non abbia nulla di peculiarmente «machista». Ora, questa invisibilizzazione, come denunciava già Françoise Armengaud (1993) a proposito dell’articolo del 1990, è un colpo scientemente assestato alle tendenze più sociologiche della ricerca femminista e a quelle più radicali del movimento delle donne – che già non hanno la parola, mentre i collaboratori in questione in ogni caso ce l’hanno.

2) Riferimento rapido ad alcuni autori importanti, eliminando con un colpo di spugna e deformando una delle loro teorie, mentre si ignorano i loro rimanenti lavori sull’argomento. Esempio: il Candidato si situa contro «la lettura strettamente semiologica [di Claude Lévi-Strauss] che, concependo lo scambio di donne come rapporto di comunicazione, occulta la dimensione politica della transazione matrimoniale, rapporto di forza simbolico volto a conservare o ad aumentare la forza simbolica» (DOM, p. 50, corsivo dell’autore; trad. it. p. 55). Pare di sognare. Lévi-Strauss non avrebbe parlato del rapporto, da riorganizzare incessantemente a seconda dei tipi di cicli di scambio, tra i «donatori» (simbolicamente superiori) e gli «acquirenti» (simbolicamente inferiori) di donne? E Lévi-Strauss non avrebbe visto che le donne sono ridotte allo stato «di strumenti simbolici della politica maschile», come pretende di sottolineare il Candidato contro di lui (DOM, p. 49, corsivo dell’autore; trad. it. p. 54)? E Lévi-Strauss non è andato più lontano dell’analisi «puramente semiologica» che gli viene rimproverata quando, nel suo articolo «La famille» (1956; 1971), ha aggiunto al tabù dell’incesto l’istituzione della famiglia e la divisione tecnica del lavoro tra i sessi come mezzi, ugualmente artificiali, per instaurare lo scambio tra gruppi? Il Candidato dovrà rivedersi i classici [19]. O altrimenti spiegarsi meglio (ma si è già visto, supra nota 20, che teme di farlo).

3) Riferimento a certi autori con allusione falsata alle loro teorizzazioni, o senza allusione teorica e a proposito di un dettaglio. Esempio: Gayle Rubin – che a partire dal 1975 ha analizzato criticamente in che modo l’oppressione delle donne è stata trattata nei lavori di Lévi-Strauss (e di Engels, Marx, Freud, Lacan, etc.) e ha proposto, sulla base di un riesame dei dati etnologici e psicoanalitici a partire dal soggetto/oggetto donna, e dunque sulla base di un rinnovamento delle domande da porre, un vasto programma di ricerca sull’«economia politica» del sesso [20] — è citata (DOM, p. 50, nota 69; trad. it. 55) dal Candidato come esempio degli studi «simbolici» (opposti agli studi «materialisti») — studi simbolici certamente «notevoli», ma sempre troppo «parziali» in rapporto ai suoi che, non dimentichiamolo, pretende di superare tutte queste opposizioni attraverso un’«analisi materialista dei beni simbolici». Limitare l’importante ricerca di Gayle Rubin al simbolico è inammissibile. Ella voleva appunto che si studiasse, nell’articolazione reciproca propria a ciascun «sistema di sesso/genere», ogni aspetto della realtà. E, per limitarsi a citare una soltanto delle sue espressioni sconcertanti, ricordava che — oltre a diversi beni materiali e simbolici — ciò che circola nello scambio matrimoniale è «carne femminile» (female flesh) addomesticata in donna.

Altro esempio (DOM, p. 22; trad. it. p. 25). La frase (per altro eminentemente contestabile): «Con ogni evidenza è perché la vagina continua a essere costituita in feticcio e trattata come sacra, segreta e tabù, che il commercio del sesso resta stigmatizzato tanto nella coscienza comune quanto nella lettera del diritto, concordi nell’escludere che le donne possano scegliere la prostituzione come attività lavorativa» è seguita dalla nota 23, che si riferisce a un articolo di Gail Pheterson unicamente a proposito di una legge degli Stati Uniti. Sarebbe stato necessario che il Candidato, poiché si interessa al simbolico, citasse per esempio l’analisi teorica che l’autrice fa dello «stigma della puttana» (the whore stigma) come stigma di genere, di fatto applicato all’insieme delle donne: «una frusta per mantenere l’umanità femminile in uno stato puro di subordinazione» [21]. Per Rubin non è questione di «vagina sacra», ma di strutture oggettive del controllo sociale che, negando alle donne la libera disposizione di se stesse, favoriscono la prostituzione forzata e contemporaneamente rendono sospetta di prostituzione ogni donna che manifesti un comportamento autonomo (dunque trasgressivo) in rapporto alle norme discriminatorie di sesso/genere, che si tratti di lavoro, di regole matrimoniali, di abbigliamento o di migrazione.

4) Allusioni, senza citazione del loro autore, ad alcune teorie direttamente connesse all’argomento. Esempio: «Occorrerà quindi chiedere a un’analisi materialista dell’economia dei beni simbolici i mezzi per sfuggire all’alternativa rovinosa tra il “materiale” e lo “spirituale” o “l’ideale” […]» (DOM, p. 9, corsivo mio; trad. it. p. 9). Allusione velata ai lavori e al libro L’idéel et le matériel (1984) di Maurice Godelier… che d’altra parte non ha mai presentato questi due concetti come costituenti una «alternativa».

5) Ricorso a riferimenti frammentari (alcuni dei quali ad autrici femministe, ma in quel caso preferibilmente anglosassoni e non francesi), destinati a far credere che il Candidato ha «coperto» l’argomento.

6) Ricorso probabile ad appunti di seconda mano, senza riferimento al testo originale né alle date, o incapacità di prendere appunti. Esempio: alle pagine 46-47 [trad. it. pp. 51-52], il Candidato si riferisce a coloro che parlano della conoscenza del dominio utilizzando «il linguaggio della coscienza». Prima persona citata: Jeanne Favret-Saada, con riferimento al suo articolo intitolato «L’arraisonnement des femmes», pubblicato nel 1987. Vengono citate alcune frasi dell’articolo. È bizzarro, ho l’impressione di averle scritte io… Seconda persona citata: Nicole-Claude Mathieu (ecco) per un articolo che si intitolerebbe «De la conscience dominée» (era in effetti il «titolo corrente»…) e pare essere stato pubblicato in un volume nel 1991. Ordine crono/logico normale, si dice il lettore. Ma ecco che alla fine del paragrafo si rinvia (alla nota 65) a un volume collettivo apparentemente pubblicato nel 1985 e che pure si intitola «L’arraisonnement des femmes». È macramé o cosa?, ci si chiede. E voi lettori mi direte: lei ci lascia così a spaccare il capello in quattro (nel qual caso, non leggete le spiegazioni fornite qui sotto in nota) [22]. Perdonatemi, ma sono preoccupata. Quando si conosce la fatica che molti insegnanti fanno per chiarire e spiegare agli studenti di cosa e di chi e di quando parlano (anche a livello di DEA e di tesi), c’è motivo di essere preoccupati per quelli del professor Bourdieu.

7) Uso di un titolo abusivo e ingannevole per la sua opera. Il titolo estremamente generale «Il dominio maschile» lascia intendere che il Candidato abbia affrontato la totalità dei meccanismi in gioco (e che pertanto farà il punto di lavori precedenti, senza limitarsi a un’allusione paternalista e sdoganante all’«immenso lavoro critico svolto dal movimento femminista» (p. 95; trad. it. p. 104). Ora, l’argomento che di fatto viene trattato è il dominio maschile simbolico o, più esattamente, «la dimensione simbolica del dominio maschile» [23], o perché no «la parte simbolica incorporata nel dominio maschile». (Ma il libro sarebbe stato meno facile da vendere). Di fronte a un tema così vasto, ogni autore ha il diritto, e anche il dovere, di restringere il proprio campo di ricerca; ha anche il diritto di domandarsi se una teoria elaborata per una forma di dominio (nel caso del Candidato, le classi sociali) possa applicarsi a un’altra forma (le classi di sesso, espressione che egli evita di usare) [24]. Ma il rigore intellettuale esige di situare esplicitamente il proprio progetto in rapporto ad altre analisi della questione, e non in rapporto a posizioni fantasticate o deformate.  

8) Conclusione. Benché pieno di annotazioni giuste sui comportamenti pratici e simbolico/inconsci (lo scivolamento tra simbolico e inconscio sarebbe tuttavia da riesaminare) degli uomini e delle donne — annotazioni d’altronde nient’affatto originali, ma sempre utili da ricordare, preferibilmente non limitandosi a citare i propri lavori —, il lavoro del Candidato difetta di rigore tecnico, metodologico e deontologico. Pecca di pensiero, di azione, di omissione e di distorsione. Nel complesso è da interpretare come un rifiuto di lasciare spazio al confronto tra analisi differenti, circostanza che conferisce alla tesi uno statuto assertivo e non dimostrativo. Ci si può chiedere, in compenso, se non si tratti di una dimostrazione particolarmente vistosa di dominio maschile, che raddoppia l’oppressione delle donne attraverso la soppressione o la distorsione delle loro esperienze e delle loro analisi. Come disse, pare, Voltaire a un giovane autore: «Amico mio, nel vostro lavoro ci sono cose buone e cose nuove. Sfortunatamente quel che è buono non è nuovo e quel che è nuovo non è buono». Bisognerebbe aggiungere: quel che c’è di cattivo non è nemmeno nuovo.

Nicole-Claude Mathieu – L’anatomie politique 2, 2014

II. DEL SIMBOLICO E DELLA SUA «RIVOLUZIONE»

Nel 1990 il Candidato informava espressamente i suoi interlocutori della «violenza simbolica, che è una dimensione propria di ogni dominio e che costituisce l’essenziale del dominio maschile» (ACT, p. 11, corsivo mio). Ne rimasi interdetta (interloquée) [25]. Il Candidato forse parlava dei, o dai, salotti del quarto arrondissement parigino, dove la violenza economica, demografica e fisica contro le donne è meno visibile, ma non del 99,9999 % del resto del mondo, e in particolare di quelle numerose società in cui il simbolico è inculcato attraverso la, e contemporaneamente alla, violenza fisica (anche agli uomini, ma in proporzione qualitativa e soprattutto temporale inferiore che alle donne).

In breve, pare proprio che il Candidato consideri il principio del simbolismo gerarchico tra i sessi (la cui permanenza attraverso le variazioni storiche e culturali identifica correttamente come problematica) come il fondamento, o il fondamento principale del dominio maschile. Non posso impedirmi di scorgere qui una tesi non solo parziale, ma idealista, benché egli si difenda dall’idealismo. Non mi è chiaro se il «materialismo» a cui la sua analisi si riferisce riguardi lo studio, che egli invoca, dell’economia oggettiva della circolazione dei beni simbolici o la sua insistenza sull’iscrizione del simbolico nei corpi, tramite «somatizzazione dei rapporti sociali di dominio», «incorporazione del dominio», etc. — termini che fanno parte della sua teoria delle «disposizioni» (inconsce) e che d’altronde non contesto.

Non ho nulla contro l’idea secondo cui saremmo tutti e tutte degli isterici (traduco, evidentemente), ma comincio a preoccuparmi quando leggo ripetutamente che questa incorporazione avviene «come per magia», «come per incanto». A parte il fatto che tutta l’argomentazione di Freud consiste nel dimostrare che non c’è nulla di magico nei meccanismi del sogno o nella somatizzazione isterica, a parte il fatto che continuo a non vedere nulla di fatato e ancor meno di magico nei rapporti di potere uomini/donne, mi chiedo se questi termini siano stati utilizzati dal nostro autore anche quando trattava di «disposizioni» a proposito di altre cose oltre ai sessi: delle classi sociali per esempio (confesso di non avere avuto il tempo di leggere l’insieme della sua opera, anzi del suo lavoro — al maschile, come si deve fare se si evoca il simbolismo sessuato). In ogni caso, non è stupefacente che per suffragare la sua personalissima tesi «isterica» sul ruolo preponderante del simbolico nel dominio maschile, il Candidato sfrondi dalle sue esemplificazioni un’enorme mole di poste reali e di rapporti di forza affatto concreti.

Uno dei pericoli del ricorso esclusivo o quasi esclusivo alle spiegazioni o alle interpretazioni tramite il simbolico è la simmetrizzazione finale delle categorie implicate nel rapporto di oppressione, anche se l’autore se ne difende, come si vede qui:

Una sociologia politica dell’atto sessuale farebbe emergere che, come sempre avviene in un rapporto di dominio, le pratiche e le rappresentazioni dei due sessi non sono affatto simmetriche. […] l’atto sessuale stesso è concepito dagli uomini come una forma di dominio, di appropriazione, di “possesso”. Nasce di qui lo scarto tra le attese probabili degli uomini e delle donne in materia di sessualità — insieme ai malintesi, legati a interpretazioni errate dei “segnali”, a volte volutamente ambigui o ingannevoli, che ne risultano. Contrariamente alle donne — socialmente preparate a vivere la sessualità come un’esperienza intima e fortemente investita di affettività, che non include necessariamente la penetrazione ma può inglobare un ampio ventaglio di attività — parlare, toccare, accarezzare, stringere ecc. —  i maschi sono portati a “compartimentare” la sessualità, concepita come un atto aggressivo e soprattutto fisico teso alla penetrazione e all’orgasmo (DOM, p. 26; trad. it. p. 29).

Abbiamo qui le attese e i malintesi, le interpretazioni e i segnali, di «concezioni» differenti della sessualità: esperienza intima e affettiva per la donna, atto aggressivo e fisico per l’uomo. Notiamo che nulla di tutto questo è completamente falso. Ma bisogna leggere questo passaggio per ciò che non dice. Una parola non viene pronunciata: lo stupro, gli atti sessuali forzati. Una vera «sociologia politica dell’atto sessuale» — come la praticano da anni le femministe, rivelando la frequenza e il significato di potere degli stupri detti coniugali e degli stupri incestuosi [26], così come di altri stupri, crimini di guerra o, come dire, “di pace”?, e ricavandone dei progressi giuridici notevoli — non potrebbe eliminare dal quadro queste «pratiche» che in effetti «non sono affatto simmetriche» per i due sessi. L’aspetto più oltraggiosamente perverso della faccenda è che i due riferimenti citati, in nota, sono i libri di Diana Russell: The Politics of Rape e Sexual Exploitation — riferimenti in lingua originale (l’inglese), come è normale ma qui del tutto funzionale. Poiché la parola stupro non compare in francese nel testo, e il suo equivalente rape si trova a caratteri minuscoli alla nota 32, molti lettori/lettrici non avranno colto l’impostura. Sia che non leggano l’inglese (pur essendo in compenso capaci di chiacchierare in ittita o in aramaico), sia che lo leggano — e ho fatto l’esperimento con persone bilingui inglese/francese — semplicemente saltano le note.

Non avendo fatto la minima allusione nel testo alle pratiche effettive dell’«atto sessuale» maschile, ovvero allo stupro come pratica coerente e logica delle «inclinazioni» predatorie degli uomini [27]; avendo parlato soltanto, per quanto riguarda le donne, della stimolazione dell’orgasmo come «attestazione esemplare del potere maschile di rendere l’interazione tra i sessi conforme alla visione degli uomini, che si aspettano dall’orgasmo femminile una prova della loro virilità» (DOM, p. 27; trad. it. p. 30), cosa non falsa ma parziale, il Candidato può allora concludere la sua «sociologia politica dell’atto sessuale» (!) rimettendo in simmetria le attitudini dei due sessi, non a livello di contenuto simbolico (di cui ha detto che non era il medesimo), ma simmetrizzando il rapporto al simbolico e, per di più, il rapporto all’esperienza stessa:

Se il rapporto sessuale appare [sic, notare l’ambiguità del termine] come un rapporto sociale di dominio, ciò dipende dal fatto che è costruito attraverso il principio di divisione fondamentale tra il maschile, attivo, e il femminile, passivo, e che questo principio crea, organizza, esprime e dirige il desiderio: quello maschile come desiderio di possesso, come dominazione erotizzata, quello femminile come desiderio della dominazione maschile, come subordinazione erotizzata o addirittura, al limite, come riconoscimento erotizzato del dominio (DOM, p. 27; trad. it. p. 30).

Ehi! Esprimiamoci geometricamente. Ecco una figura simmetrica (←│→) in rapporto a una linea di demarcazione. Ora esprimiamoci umanamente. Se alla parte destra si assegna un valore erotico maggiore (perché attiva) rispetto alla parte sinistra (passiva), il risultato sarà (←│→→); la linea verticale rappresenta la demarcazione simbolica tra uomini e donne, il contenuto di ogni categoria è visibilmente differente; ma quale matematico vi dirà che la figura che include il rapporto tra ← e │è simmetrica a quella che include il rapporto tra │e →→? È tuttavia quel che succede quando si passa dal dominio erotizzato alla subordinazione erotizzata. Si ristabilisce una (falsa) simmetria di funzionamento.

Può ben darsi che nelle fantasie erotiche delle donne, particolarmente nella masturbazione solitaria, il pensiero della sottomissione sotto forma di coazione, percosse e stupro induca una soddisfazione erotica (ed è forse una delle gravi mutilazioni mentali inflitte alle donne dalla loro condizione obiettiva e generale di non autonomia in rapporto agli uomini). In compenso è certo, secondo innumerevoli testimonianze, che nei rapporti concreti di coazione sessuale (e dio sa se sono frequenti, in particolare all’interno del matrimonio in tutte le società, ma anche in moltissime prime esperienze sessuali delle ragazze [28]), la simulazione dell’orgasmo — di cui il Candidato parla, riferendosi a Catharine MacKinnon, come di un’«attestazione esemplare del potere maschile di rendere l’interazione tra i sessi conforme alla visione degli uomini» (p. 27) — non è la reazione più diffusa tra le donne (ed è anche una delle ragioni addotte dagli uomini per ricorrere alle prostitute, e uno dei “trucchi” che queste utilizzano con piena cognizione di causa). Si trovano, invece, nelle testimonianze delle donne sui rapporti sessuali, molti «aspetto che finisca», per paura di una separazione se sono sposate o in coppia, e in termini più generali per paura (realistica) di scatenare la violenza fisica, per paura di disturbare i figli, i vicini, etc., per non parlare della paura (realistica anch’essa) della morte in caso di stupro «caratterizzato». Che il dominio aggressivo venga erotizzato dallo stupratore è, invece, un fatto appurato.

A parte il fatto che l’erotismo non attinge soltanto alla simbolica dei sessi, l’incorporazione erotizzata del dominio alla maniera di Bourdieu sembra una variante dello stereotipo sul masochismo femminile. Ma Bourdieu ha già risposto! O ha creduto di rispondere segnalando (p. 46) che per lui non è questione di affermare che le donne siano responsabili della loro oppressione, né che esse «scelgano delle pratiche sottomesse» (corsivo dell’autore), né che esse «‘godano’ dei trattamenti che vengono loro imposti». Ma che, per ogni dominato:

occorre ammettere allo stesso tempo che le disposizioni “sottomesse”, in nome delle quali si ha buon gioco ad “accusare la vittima”, sono il prodotto delle strutture oggettive e che tali strutture NON devono la loro efficacia CHE alle disposizioni che innescano e che contribuiscono alla loro riproduzione. Il potere simbolico non può esercitarsi senza il contributo di coloro che lo subiscono e che NON lo subiscono PER NESSUN ALTRO MOTIVO oltre al fatto che lo costruiscono. […] occorre prendere atto e render conto della costruzione sociale delle strutture cognitive che organizzano gli atti di costruzione del mondo e dei suoi poteri. E percepire così chiaramente che questa COSTRUZIONE PRATICA, lungi dall’essere l’atto intellettuale cosciente, libero e deliberato di un “soggetto” isolato, è, invece, l’effetto di un potere, inscritto durevolmente nel corpo dei dominati sotto forma di schemi di percezione e di disposizioni (ad ammirare, rispettare, amare ecc.) che rendono sensibili a certe manifestazioni simboliche del potere (DOM, p. 46, maiuscoletto di N.-C. M; trad. it. pp. 50-51, leggermente modificata).

Si è visto che le «disposizioni sottomesse» non sono sempre provocate, ma ammettiamo che lo siano in certi contesti, come sul mio luogo di lavoro dove le donne si precipitano a lavare i piatti dopo le mangiate collettive. Ancorché il 99,9999% degli uomini si sia eclissato discretamente o discuta di teoria lì nei paraggi, ma non troppo vicino, non si vede per chi altro vengano lavati i piatti, e che ciò che è «impensabile» non è soltanto, simbolicamente, che i piatti possano essere lavati dagli uomini, ma concretamente, che non vengano affatto lavati. Si tratta di una delle «strutture oggettive» che provocano le disposizioni? Poiché le strutture oggettive a cui si riferisce il Candidato sono soprattutto «strutture cognitive», scorgo in quelle donne una struttura cognitiva che non dipende soltanto dall’inconscio simbolico.

Ma ancora, torniamo alla frase citata sopra. Se si sostituiscono i «non… che» con il loro equivalente più chiaro: «unicamente», si legge dunque che: coloro che subiscono il potere simbolico lo subiscono unicamente perché lo costruiscono come tale. Bisogna intendere che se i dominati non lo costruissero come potere, questo potere simbolico non avrebbe degli effetti, o non esisterebbe nemmeno? È vero che ci viene detto spesso che i dominati non possono non accordare la propria adesione al dominante (DOM, p. 41; trad. it. p. 45), ma tralasciamo questo problema per il momento, per soffermarci qui su una nuova simmetrizzazione. Se l’ordine del mondo (lo scambio di donne, la produzione e la riproduzione, etc.), come dice d’altronde l’autore, è costruito dagli uomini, che egli designa (per esempio a p. 50; trad. it. p. 54) come gli «agenti attivi», mentre le donne sono gli «agenti passivi», come si può sostenere che la dominata costruisce, anche «praticamente» ancorché inconsciamente, le strutture del «potere simbolico» — cognitive o di altro tipo? Voglio dire, come si può usare lo stesso termine per il dominante e per il dominato? Tanto più che (per esempio p. 48; trad. it. p. 52), tra le «strutture di cui queste disposizioni sono il prodotto», l’autore insiste in particolare sulla «struttura di un mercato dei beni simbolici la cui legge fondamentale è che le donne vi siano trattati come degli oggetti […]» (corsivi miei) [29]. Vi vedo ancora l’effetto di una riflessione insufficiente sul rispettivo rapporto al simbolico del dominante e del dominato — una semplice traslazione sul dominato (tramite trasposizione) del punto di vista dominante [30].

Il ricorso esclusivo al simbolismo dei sessi (alto/basso, dritto/curvo, esteriore/interiore, etc.) sembra d’altronde, in generale, particolarmente idoneo a produrre questi effetti di simmetrizzazione. È così per esempio che continuano a ragionare molti etnologi a proposito dell’escissione e della circoncisione in Africa, ratificando la versione di un vecchio saggio dogon: l’escissione e la circoncisione sarebbero simbolicamente comparabili e simmetrici, poiché la prima, con l’ablazione della clitoride, rimuoverebbe la mascolinità dalla ragazza e la seconda, con l’ablazione del prepuzio, leverebbe la femminilità al ragazzo. Ricerche più recenti hanno mostrato che il simbolismo nei due casi ruota intorno al potere maschile: conferma della virilità per i ragazzi e interdizione di innalzarsi al livello degli uomini per le ragazze, mentre il senso principale di questa pratica è di renderle «sposabili», vale a dire di porle sotto l’autorità di un uomo. Non c’è simmetria inversa, ma senso unico [31].

A proposito di senso unico, è anche ciò che afferma Bourdieu della circoncisione in Cabilia, «rito di istituzione della mascolinità per eccellenza», che crea «una separazione sacralizzante […] tra coloro che sono sociamente degni di riceverla e quelle che ne sono per sempre escluse, cioè le donne» (DOM, p. 30, corsivo dell’autore; trad. it. p. 34). Certo, l’escissione non esiste in Cabilia; non per questo è ammissibile non aver fatto la minima allusione alla rimozione non solo simbolica, ma fisica, di tutto o di parte del sesso (e ciò concerne più di cento milioni di donne nel mondo, tra cui la Francia) in un libro che, lo ripeto, si intitola IL dominio maschile e che si interessa di pratiche «mitico-rituali» e della… iscrizione del sociale nel corpo.

Bourdieu fa spesso riferimento al pensiero mitico e ai riti, che certamente dipendono dal simbolico, ma a partire da lì opera uno scivolamento verso l’«inconscio sociale», che egli privilegia tra i meccanismi di dominio. Ma miti e riti non dipendono solo dall’inconscio. Essi comportano spesso discorsi e pratiche chiaramente enunciate sulla necessaria disuguaglianza dei sessi e sull’obbligo di obbedienza per le donne.

Ho notato soltanto due volte la parola «oppressione» nel libro, ed essa non compare nell’indice (mentre una parola citata una volta sola, come agorafobia a p. 45, vi si trova) — mentre l’espressione «condizione femminile» appare almeno sette volte. Ricordiamo che questa espressione è scomparsa volontariamente da lustri nella letteratura femminista, precisamente nella misura in cui non dice nulla del rapporto tra le classi di sesso, esattamente come con il marxismo non si è potuto più parlare, come facevano Villermé o Le Play, di «condizione operaia» [32]. È tuttavia proprio il nostro candidato che rimprovera alle «femministe» (percepite come un insieme indifferenziato) di lasciarsi rinchiudere nella categoria «donne», difendendo in questo modo un «particolarismo» [33] — cosa che è in gran parte falsa, e che all’inizio fu (nell’espressione Women’s Studies) un riequilibrio necessario dell’attenzione su un oggetto/soggetto invisibilizzato, e non una chiusura su una categoria [34]. Infine, sono state create delle espressioni generalizzanti appunto per esprimere l’aspetto relazionale, dialettico, delle categorie in questione: sessismo [35], sistemi di sesso/genere (Rubin, nel 1975), sessaggio (Guillaumin, nel 1978), rapporti sociali di sesso, etc. — ma tutto ciò senza dubbio non è sufficientemente distinto per l’autore di La distinzione. Egli arriva addirittura, esprimendosi «in maniera più relazionale», a parlare di «rapporti tra i generi» (p. 124, corsivo mio) — senza arrivare ai rapporti sociali di genere (gender relations), espressione diventata corrente nella ricerca.

Notiamo ancora, come segno di ignoranza del «femminismo», questa frase: «[…] la rivoluzione simbolica evocata dal movimento femminista non può ridursi a una semplice conversione delle coscienze e delle volontà» (DOM, p. 47, corsivo mio; trad. it. p. 52). Il minimo che si possa dire è che non si tratta della «rivoluzione» principale evocata dai movimenti femministi! Non è sul corpo simbolico o simbolizzato, ma sul corpo fecondato dagli uomini che si è fatta e continua a farsi in tutto il mondo la lotta principale delle donne. Un solo gruppo in Francia [36] si è interessato fin dall’inizio a una rivoluzione «simbolica», e ciò avvenne sulla base di una concezione essenzialista della donna e dell’uomo, concezione che il Candidato ha respinto, dopo di noi [37], nel 1990 (ACT, nota 4), riferendosi a «teoriche femministe che si ispirano alla psicoanalisi, sia pure negativamente» — e dicendo che «il [sic] discorso femminista cade molto spesso nell’essenzialismo», con esempi tratti da Irigaray e da Kristeva a suffragio. Questi riferimenti vengono soppressi nel libro Il dominio maschile (qualcuna deve avergli fatto notare il problema). Ma il riferimento alla «rivoluzione simbolica» è rimasto… Sembra tuttavia che il Candidato non abbia compreso alcunché, perché ecco che, senza dubbio per prendere posizione, usa ora (DOM, p. 70; trad. it. p. 77) l’espressione «alcune fautrici della scrittura femminista» (?) per denunciare l’essenzialismo (la scrittura femminile avendo fatto parte, fra le altre, delle idee del gruppo nominato in precedenza e ora rinnovato dalle premure indifferenti del Candidato). Notiamo ancora la sua scoperta migliore: pare che esista un «femminismo detto universalista [che] ignora l’effetto di dominio, e tutto ciò che l’apparente universalità del dominante deve alla propria relazione con il dominato — qui tutto ciò che ha a che fare con la virilità […]» (DOM, p. 69, corsivo mio; trad. it. p. 76). Di ki ki koz? ha detto Zazie che ci perde il suo latino. Quanto ai mezzi originali che il Candidato vedrebbe per fare la (sua) rivoluzione simbolica degli schemi inconsci, non li ho colti.

Scheda di presentazione del libro L’anatomie politique 1991 (Archives FMSH, fonds Nicole-Claude Mathieu)

III. DEL PESANTE FARDELLO DELL’UOMO

Un altro aspetto insidioso della simmetrizzazione è che, secondo Bourdieu, le due categorie sono, sia pure diversamente, dominate dalla dominazione (secondo l’espressione di Marx, dice lui), poiché essa genera in entrambe, a partire dagli stessi schemi dell’inconscio, delle disposizioni, un habitus, etc. «La struttura impone i suoi vincoli ai due estremi del rapporto di dominio» (p. 82; trad. it. p. 83). Ma il Candidato, si sarà capito, è interessato al dominio maschile, e non allo stesso modo all’oppressione delle donne [38]. Ne segue logicamente che ciò che lo preoccupa è l’uomo, cioè se stesso, sempre e ancora, e dunque i comportamenti femminili che lo confortano, e non l’esperienza contraddittoria delle donne. Come dice Michèle Causse:

L’androletto è in effetti un soliloquio. È la produzione mentale, diciamo la patologia linguistica dell’andros che, vittima di un’incrinatura originaria, si è elevato a locutore unico e non ha altro interlocutore che se stesso. Ancor prima di parlare, una donna nell’androcrazia è “interloquita”, nel doppio senso di interdetta-interrotta [39].

Trattandosi di «vincoli» e di «formidabili esigenze» (l’espressione non sarà mai usata per le donne) imposte ai dominanti stessi dalla dominazione di cui beneficiano, leggiamo: «occorre quindi analizzare, nelle sue contraddizioni, l’esperienza maschile del dominio […]» (DOM, p. 76, corsivo mio; trad. it. p. 83), grazie al personaggio del padre in Al faro di Virginia Woolf: il signor Ramsay, preso tra la sua alta opinione di se stesso, la necessità di realizzare il suo ruolo ideale maschile, intellettuale e paterno, e le sue bambinate. «Il fatto che, tra i giochi costitutivi dell’esistenza sociale, quelli considerati seri siano riservati agli uomini […] contribuisce a far dimenticare che l’uomo è anche un bambino che gioca all’uomo» (DOM, p. 82, corsivo mio; trad. it. p. 90). Gli uomini, essendo «designati molto presto, soprattutto attraverso i riti di istituzione, come dominanti […sorvolo sulla parte in latino], hanno il privilegio a doppio taglio di darsi ai giochi di dominio» (ibid.).

Sia pure! Sebbene… torneremo subito sulle «contraddizioni». Ma sul doppio taglio, ci piacerebbe aggiungere che uno dei tagli (la tirannia maschile che si abbatte sulle donne) è nettamene più remunerativo di quanto l’altro (la difficoltà di essere uomo) sia tagliente. Quanto al rischio di «dimenticare che l’uomo è anche un bambino che gioca all’uomo», o di dimenticare «quella specie di sforzo disperato, e alquanto patetico nella sua incoscienza trionfante, che ogni uomo deve compiere per essere all’altezza della sua idea infantile dell’uomo» (DOM, p. 76; trad. it. p. 83), mi sembra che l’80% delle produzioni letterarie e cinematografiche maschili non abbiano smesso di ripeterci quanto sia difficile diventare ed essere un «uomo». E se si vuole ricorrere a degli specialisti, senza parlare della psicoanalisi, la letteratura etnologica è letteralmente invasa da descrizioni e interpretazioni dei rituali e delle diverse esperienze psico-sociologiche che i giovani uomini devono subire per essere separati dal mondo delle donne e raggiungere l’ideale di virilità. I rituali che obbligano le ragazze a «restare» nel mondo delle donne, certamente meno numerosi e spesso meno elaborati, di solito vengono studiati pochissimo. Quanto all’esperienza psico-sociologica delle donne, nel loro rapporto con se stesse e con la femminilità imposta, essa non ha interessato quasi nessuno, a parte le femministe — tra cui Virginia Woolf, per tornare all’oggetto della nostra discussione.

Virginia Woolf – To the Lighthouse, 1927

Ma attenzione, il Candidato, alias Servizio di informazioni stradali, ci comunica le vie traverse da seguire (le sue) per non ingolfarsi stupidamente in una fiumana di pecore. Ecco una delle sue proposizioni più insultanti:

Occorre quindi analizzare, nelle sue contraddizioni, l’esperienza maschile del dominio, prendendo come guida Virginia Woolf, ma NON TANTO L’AUTRICE DI QUEI CLASSICI DEL FEMMINISMO da tutti citati che sono Una stanza tutta per sé […] o Le tre ghinee […], quanto la scrittrice di Al faro che, grazie probabilmente all’anamnesi favorita dal lavoro di scrittura […], propone un’evocazione delle relazioni tra i sessi LIBERATA DA TUTTI I CLICHES SUL SESSO, IL DENARO E IL POTERE che i suoi testi più teorici ancora comportano (DOM, p. 76; maiuscoletto mio; trad. it. pp. 83-84).

Ci si potrebbe domandare com’è che l’anamnesi dell’infanzia borghese nel lavoro di scrittura di François Mauriac (che per di più è insospettabile di femminismo [40]) non gli abbia impedito di scrivere quel «cliché» sul sesso, il denaro e il potere costituito dal personaggio di Thérèse Desqueyroux, che è una delle più belle evocazioni della reclusione delle donne:

Si alzò, aprì la finestra, sentì il freddo dell’alba. Perché non fuggire? Solo quel davanzale da scavalcare. […] Già Thérèse trascina una poltrona, l’accosta alla finestra. MA NON HA DENARO; POSSIEDE INUTILMENTE MIGLIAIA DI PINI: non può riscuotere un franco senza la mediazione di Bernard [suo marito] (Mauriac [1927] 1989, p. 115; maiuscoletto mio; trad. it. p. 102).

Se, di Al faro [41], Bourdieu ha ben compreso il personaggio del signor Ramsay e il suo egotismo tipicamente maschile, che ne è della signora Ramsay? Aggrappandosi sempre al suo schema maschile/femminile // alto/basso // dritto/curvo, etc., egli ha scelto di ricordare, del personaggio, soltanto ciò che conforta la sua tesi sulle «disposizioni subalterne» (affettive e corporee). Ora, se c’è qualcuno che non sembra aver affatto «incorporato» la passività e la tendenza a curvarsi, è proprio lei. È lei a porre le vere questioni metafisiche, e a questo livello manifesta la sua dirittura. La signora Ramsay non è tutta raccolta nell’attenzione e nella «lucidità inquieta e indulgente» (DOM, p. 76; trad. it. p. 84) verso suo marito, che Bourdieu privilegia. Ella tenta di creare un’armonia di cose e di persone, che è in effetti il compito delle donne e della padrona di casa che è, ricevendo degli invitati, ma spesso lascia la casa per le sue faccende, di cui non informa nessuno, e anche lì parte, ben diritta. Quanto alla «curvatura», l’inclinazione della testa, il silenzio davanti alle idiozie di suo marito, quello che Bourdieu non ha ricordato, tra le altre cose, sono le numerose annotazioni nel romanzo sulla sua stanchezza [42]. Egli non ha nemmeno voluto capire il personaggio di Lily Briscoe, pittrice nubile, ribelle alla presenza greve del signor Ramsay e affascinata dalla signora Ramsay (ancorché seccata dai suoi tentativi di fare sposare tutti quanti e dalla sua debolezza verso il marito) — Lily che è il contrappeso o il contrappunto (e non il contrario) della signora Ramsay, vale a dire che i due personaggi sovrapposti restituiscono l’armonia (o piuttosto la disarmonia) d’insieme dell’esperienza delle donne.

Ricordare delle «donne» unicamente quel che si presta a mostrare che esse «aderiscono» agli schemi degli uomini (o che sono delle puttane, e non è il caso di Bourdieu, ma di altri) è molto classico. Non meno classica, ma a mio parere insufficientemente sottolineata, è l’eliminazione delle ragazze da una quantità di riflessioni sulle «dooonne», quale che sia il campo, «scientifico» o letterario [43]. Ne è una prova ulteriore la rapida presentazione del romanzo, «ridotto a un riassunto scolastico» (ACT, p. 22, soppresso in DOM), fatta dal Candidato. Abbiamo letto, relativamente alla fine del romanzo, che dieci anni dopo la morte della signora Ramsay suo marito infine intraprende la gita al faro, con suo figlio. In realtà, il signor Ramsay è accompagnato da un figlio (James) e da una figlia (Cam). Da un punto di vista «scolastico», il riassunto era già da valutare come «cattivo», dato che aggiungere «e sua figlia» (dodici caratteri spazi inclusi) a «con suo figlio» non avrebbe allungato molto il testo. Ma non è questo il problema principale. Per comprenderlo, occorre sapere che nella sua analisi della resistenza dei bambini in generale all’obbligo di sottomettersi ai diktat paterni, non viene citata che la resistenza interiore di James (DOM, p. 79; trad. it. p. 87). Ora, alla fine del romanzo, sulla barca che li conduce al faro, non solo Cam e James — legati da un patto contro il loro padre: «resistere alla tirannia fino alla morte» (V.W., p. 221, 227 e altrove; trad. it. p. 148) — gli oppongono entrambi un silenzio feroce, ma mentre James teme che lei finisca per capitolare come le donne, perché una volta ha risposto a una domanda di suo padre (V.W., p. 225-227; trad. it. pp. 150-151), Cam, cosciente dell’affetto che nonostante tutto nutre per lui, si dice guardando James: «Tu non sei esposto a questa passione, a questo conflitto di sentimenti, a questa straordinaria tentazione» (V.W., p. 228; trad. it. p. 153). Woolf, attraverso la ragazza, ci fa vedere la coscienza che le donne hanno di essere divise, la coscienza delle contraddizioni. Ma di più: Cam osserva in suo fratello, a cui (naturalmente) è stato affidato il timone, la stessa ricerca maschile di approvazione che Woolf descriveva nel signor Ramsay: «Suo padre l’aveva apprezzato. Dovevano credere che lui era perfettamente indifferente. Ma l’hai ottenuto, pensò Cam» (V.W., p. 274-275; trad. it. p. 183).

Se il Candidato si fosse veramente interessato all’esperienza delle donne, e avesse fatto il confronto tra le due categorie, avrebbe forse rinunciato a parlare di «contraddizioni» trattando della classe degli uomini. Quale che sia la società in questione, se c’è dominio maschile, il problema degli uomini è quello di un adattamento tra capacità socio-individuali e ideale dell’Io virile implicato dall’ideale sociale della virilità, che è anche il modello ideale dell’umano. Il problema delle donne consiste effettivamente nelle contraddizioni tra l’imposizione (e non solo simbolica né inconscia) di una personalità individuale e sociale ridotta e determinata in minore umanità, e il sentimento della propria «umanità» e libertà, della propria indeterminazione [44]. Perché nessun essere umano — fosse pure nelle peggiori condizioni di oppressione o di degradazione imposta — può non pensare se stesso.

Le dominate non fanno che piegarsi allo schema inconscio di se stesse e dei dominanti che il sistema procura loro. E non hanno bisogno di essere intellettuali di alto livello per cogliere, se non teorizzare, che qualcosa non va, non fosse che di fronte al disprezzo, agli insulti, alle percosse e alle limitazioni della loro esistenza [45]. Basta paragonare, all’interno di una stessa area culturale, la lotta contro la loro oppressione di donna e contro le strutture sociali, di Phoolan Devi, piccola contadina analfabeta di bassa casta mallah nell’Uttar Pradesh induista e quella di Taslima Nasreen, borghese istruita del Bangladesh, di famiglia musulmana [46]. Due coscienze all’opera, in condizioni sociali che non potrebbero essere più opposte.

IV. SIMBOLICO, COSCIENZA, RESISTENZA

Tutte le donne hanno coscienza, prima o poi, della loro negazione o della loro umiliazione in quanto persone. La questione non riguarda solo l’inconscio simbolico delle donne, ma il disturbo permanente instaurato dall’oppressione e le condizioni sociali che permettono una resistenza efficace, pensata collettivamente.

Perché se Bourdieu si meraviglia che non ci siano più «trasgressioni, sovversioni, delitti e “follie”», poniamo, sulla piazza della Bastiglia o della Concordia, grazie allo «straordinario accordo di migliaia di disposizioni — o di volontà» che rispettano i simboli (codici di circolazione), bisogna pur sapere che ci sono molti incidenti nonostante il codice di circolazione e di uso delle donne. Le minime resistenze delle donne provocano in effetti degli «incidenti», ma di cui loro sono le uniche vittime e i più frequenti dei quali sono le percosse e le ferite. Dal momento in cui le donne si spostano di un millimetro dal posto (simbolico?) che viene loro concretamente imposto, si deve prevedere la loro uccisione. Bourdieu dice che le condizioni sono cambiate in Cabilia. Lascio agli specialisti la cura di rispondere. Ma è informato della quantità di suicidi di ragazze [47] nell’Algeria «moderna», dove viene mantenuto in maniera del tutto consapevole dall’assemblea degli uomini e contro il parere dei movimenti delle donne un «codice» di famiglia che non ha nulla della violenza simbolica dolce e invisibile che gli interessa? Sa che nell’Afghanistan dei Talebani che applicano alla lettera e con la forza il simbolismo «donna=interno / uomo=esterno», delle donne si suicidano o, secondo testimonianze recenti, escono per la strada urlando, letteralmente colte da «follia» [48]? Follia che è una forma di coscienza.

Bourdieu mi rimprovera [49] (DOM, pp. 46-47; trad. it. p. 52) di non aver saputo abbandonare il «linguaggio della coscienza» nel mio articolo L’Arraisonnement des femmes sulla coscienza dominata delle donne e le interpretazioni che ne vengono date. Diciamo rapidamente che non ho utilizzato la parola «coscienza» né in uno dei numerosi sensi filosofici né in senso psicoanalitico, ma per essere compresa da ciascuna. In effetti, contrariamente alla maggior parte degli scritti del Candidato, che, terribilmente tortuosi, sono accessibili esclusivamente ai suoi pari in «capitale culturale» (e, ancora, alla condizione di non addormentarsi), la maggior parte degli scritti femministi, anche quelli specialistici, hanno avuto dall’inizio dei movimenti femministi e dei Women’s Studies, la volontà di essere condivisi dal numero più grande possibile di donne. E se ci fosse bisogno di rifugiarsi sotto l’ala di un grand’uomo, ci si potrebbe riferire a Freud stesso, che evocava la coscienza come «un fatto senza equivalenti che non si può spiegare né descrivere […]. Tuttavia, quando si parla di coscienza, ciascuno sa benissimo, in base alla propria esperienza più intima, che cosa si intende» [50].

Per un verso, ho parlato anche dell’invasione dell’inconscio delle donne per effetto della loro situazione oggettiva di subordinazione agli uomini, e della strutturazione dell’Io che ne scaturisce — precisamente a partire da uno studio di Sarah LeVine (1982) sui sogni di ragazze Gusii, nel sud-ovest del Kenya —, e anche della strutturazione della personalità dei dominati tramite la paura, che non è per forza cosciente. Per altro verso, questo orientamento sulla coscienza era necessario nella misura in cui il testo voleva rispondere in parte alle affermazioni di Maurice Godelier (1982) sul consenso dei dominati alla dominazione, che sarebbe «più forte» della violenza dei dominanti. Ma lasciamo stare. Bourdieu non vuole «ripetere» gli altri, io non voglio ripetermi.

Di fatto, non parliamo della stessa cosa. Bourdieu si riferisce agli effetti materiali del simbolico (incorporazione) — dove d’altra parte nulla prova che sia soltanto il simbolico in gioco — e io agli effetti, nella coscienza e nell’inconscio, delle costrizioni materiali, fisiche e psicologiche. Non ho spinto, dice lui, «fino in fondo l’analisi delle limitazioni delle possibilità di pensiero e di azione che il dominio impone alle oppresse» (p. 47, corsivo di P. B.; trad. it. p. 52). Non ne dubito. Ma l’enfasi che, all’inverso, egli pone sulle strutture inconsce non permette di comprendere le resistenze, individuali e ancor meno collettive. Le femministe — e con questa parola non intendo soltanto i movimenti che si designano così, ma ogni donna che resiste —, le femministe cadono dal cielo? Mi sembra che il compito più urgente sia quello di approfondire l’analisi delle diverse forme di resistenza al sistema da parte delle donne, e dei meccanismi di resistenza degli uomini a queste resistenze.

È interessante confrontare oggi i rispettivi argomenti dei due autori. In Maurice Godelier trovavamo un’attenzione ai soggetti-donna e un riconoscimento esplicito della violenza concreta che possono subire da parte degli uomini; ma, poiché esse «acconsentono al loro dominio», «condividendo» la visione maschile dei rapporti tra i sessi, gli uomini non devono darsi troppa pena per stabilire il loro potere (a parte una minaccia di violenza che si profila «all’orizzonte»). L’autore riteneva che il dominio maschile fosse preterintenzionale, e si aveva quasi l’impressione di un’accettazione quasi intenzionale da parte delle donne. Ho tentato di mostrare, fra le altre cose, che il suo ragionamento era di fatto basato su una simmetrizzazione delle due categorie, sul modello di un contratto come questo può esistere tra pari, tra uguali, e di cui ciascuno conosce i termini; ma ho mostrato anche che le donne non hanno conoscenze uguali a quelle degli uomini, né sulla società né sulla concezione (specialmente mitica e rituale) dei sessi. In breve, in Maurice Godelier, le donne erano costruite come «troppo-soggetti», troppo coscienti si potrebbe dire.

In Bourdieu, troviamo un’attenzione maggiore al soggetto-uomo, con un grande interesse per le sue sofferenze, che egli attribuisce a torto a una serie di contraddizioni mentre si tratta di un problema di adattamento, trascurando contestualmente l’effetto di disturbo che le contraddizioni reali dell’esperienza comportano per le donne. Anche lui tiene a dire, in forme diverse, che non c’è un complotto maschile intenzionale, cosa facile dal momento che insiste principalmente sull’incorporazione da parte dei due sessi degli schemi inconsci del dominio maschile. Tuttavia, abbiamo visto gli stessi effetti di simmetrizzazione delle due categorie, i quali conducono a insinuare che le donne costruiscono la loro oppressione tanto quanto gli uomini costruiscono il dominio, ma nell’incoscienza.

Per Godelier le donne «acconsentono», per Bourdieu le donne «aderiscono», perché in entrambi i casi si suppone che le conoscenze siano comuni e simili:

La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che il dominato NON PUO’ NON ACCORDARE al dominante (quindi al dominio) quando, per pensarlo e per pensarsi, o meglio, per pensare il suo rapporto con il dominante, DISPONE SOLTANTO di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata del rapporto di dominio, fanno apparire questa relazione come naturale […]. (DOM, p. 41, maiuscoletto mio; trad. it. p. 45).

Le donne sono «troppo-soggetti» in Godelier, mentre sono «extra-soggetti» per Bourdieu. Che esse siano fuori tema (non sanno trattare il loro soggetto di studio e di lotta), è in ogni caso ciò che pensa Bourdieu delle femministe. Mi vedo ancora obbligata a segnalare un’altra maniera che ha il Candidato di deformare e caricaturizzare la riflessione dei movimenti femministi, caricatura di cui si trova un’eco nel suo attacco alla «filosofia della coscienza»:

Se è vero che, anche quando SEMBRA [notare il termine] fondato sulla forza nuda, quella delle armi, o del denaro, il riconoscimento del dominio presuppone sempre un atto di conoscenza, ciò non significa affatto che si abbia ragione di descriverlo nel linguaggio della coscienza, in una prospettiva intellettualistica e scolastica che, come in Marx (e soprattutto coloro che, seguendo Lukács, parlano di “falsa coscienza”) porta ad attendersi l’affrancamento delle donne dall’EFFETTO AUTOMATICO della “presa di coscienza”, ignorando, in mancanza di una teoria disposizionale delle pratiche, l’opacità e l’inerzia che risultano dall’inscrizione sociale nel corpo [51]. (DOM, p. 46, maiuscoletto mio; trad. it. p. 51).

Se c’è qualcuno che sa che la presa di coscienza non ha «effetto automatico», sono proprio le dominate in lotta! Altrove nel libro (DOM), le femministe, nell’incapacità in cui si trovano di condurre la loro lotta senza mentore, vengono attaccate in termini più diretti, specialmente a proposito dei «gruppi di coscienza» all’esordio del movimento, che sono ricondotti dall’autore a una sorta di individualismo inefficace. Il mentore non ha dovuto fare molta militanza, quale che sia, se non sa che il debutto di un movimento collettivo, l’unico che possa dispiegare un’efficacia nel futuro, ha bisogno di individui che si parlano. Pare che, parlando di donne, Bourdieu sia regredito in rapporto alle sue riflessioni precedenti. Così si poteva leggere nel 1980:

Nella lotta ideologica tra gruppi (classi di età o classi sessuali, per esempio) o tra le classi sociali per la definizione della realtà, alla violenza simbolica, come violenza misconosciuta e riconosciuta, dunque legittima, SI OPPONE LA PRESA DI COSCIENZA dell’arbitrio, che spossessa i dominanti di una parte della loro forza simbolica abolendo il misconoscimento (maiuscoletto mio) [52].

Pare anche, parlando di donne nel rapporto uomini/donne, regredire rispetto alle sue posizioni più tarde, cioè l’Appendice attuale a Il dominio…:  «Qualche questione sul movimento gay e lesbico», movimento al quale dà più credito che al movimento femminista, che non cessa di attaccare bassamente nel libro. Sembra che Bourdieu si indirizzi al movimento omosessuale (principalmente maschile) per apportargli i suoi consigli e al movimento femminista per chiudergli la bocca [53]. Niente di stupefacente in questo. I movimenti gay misti dis-locano la questione dell’eterosessualità sociale concentrandosi sulla sessualità; una parte dei movimenti femministi e lesbici non misti colloca il sistema dell’eterosessualità obbligatoria e l’organizzazione della riproduzione al cuore dell’oppressione delle donne, e questo è più minaccioso.

Nicole-Claude Mathieu – Illustrazione di Agnes Ricart

V. DELL’AMORE

Veniamo all’amore. Il Candidato vi si riferisce nel post-scriptum (ancorché giudicandolo quasi impossibile), proprio come Lévi-Strauss equivocava/invocava, malgrado lo scambio di donne tra uomini, la ricchezza eterna e misteriosa delle relazioni affettive tra i sessi (apparentemente credendoci). Si tratta, pare, dell’ultima risorsa/speranza degli uomini che constatano l’esistenza del dominio maschile. Richiamiamo questa frase, «incessantemente citata» come direbbe Bourdieu, di Lévi-Strauss:

Ma la donna non poteva divenire solo ed esclusivamente un segno: in un mondo di uomini essa è in ogni caso una persona e nella misura in cui la si definisce come segno ci si obbliga a riconoscerla come produttrice di segni. Nel dialogo matrimoniale tra gli uomini, la donna non è mai soltanto ciò di cui si parla: se da un punto di vista generale, le donne rappresentano infatti una certa categoria di segni destinati ad un certo tipo di comunicazione, tuttavia ogni donna conserva un suo valore particolare che nasce dalla sua capacità, prima e dopo i matrimonio, di svolgere la sua parte in un duo. Al contrario della parola, che è divenuta integralmente segno, la donna dunque, pur facendosi segno, è restata anche valore. Così si spiega che le relazioni tra i sessi abbiano conservato quella ricchezza affettiva, quel fervore e quel mistero che senza dubbio hanno originariamente impregnato di sé tutto l’universo delle comunicazioni umane [54].

L’amore è misterioso e la donna è valore, sempre per gli uomini, è ben noto [55]. Ma torniamo a Bourdieu:

L’ “amore puro” […] invenzione storica relativamente recente […] è certo assai raro nella sua forma più compiuta […]. Eppure esiste, malgrado tutto, SOPRATTUTTO NELLE DONNE, tanto da essere eretto a norma, o a ideale pratico, degno di essere perseguito in sé e per le esperienze d’eccezione che procura (DOM, p. 118, maiuscoletto mio; trad. it. p. 128).

Seguono degli enunciati lirici sulla «sospensione della lotta per il potere simbolico suscitata dalla ricerca del riconoscimento e dalla tentazione correlativa di dominare» (corsivo mio), etc. Dunque, l’amore “puro” esiste ai nostri giorni quel tanto che basta per essere eretto a norma (il sentimento produce la norma…?), e poiché esiste «soprattutto nelle donne», se ne deve concludere che sono le donne a produrre questa norma? Bizzarro, per delle dominate. È un altro dei misteri della donna, senza dubbio.

Inoltre, poiché questo sentimento esiste soprattutto nelle donne (il che è vero), il Candidato non pone più la questione. Come per il simbolismo, o piuttosto la simbolica dei sessi, esso sembra cadere dal cielo con lo Spirito Santo. Tuttavia (p. 73, nota 13; trad. it. p. 81) egli aveva notato un legame con le «strutture oggettive» del dominio:

Se le donne sono particolarmente interessate all’amore detto romantico, lo si deve al fatto che hanno interesse a esserlo: oltre a promettere di affrancarle dal dominio maschile, l’amore offre loro, sia nella forma più comune, con il matrimonio, in cui, nelle società maschili, circolano dal basso verso l’alto, sia nelle forme straordinarie, una via, spesso l’unica, di ascesa sociale [56].

Il guaio è che l’amore è rapportato soltanto a un interesse… quello delle donne, senza che ci venga detto che avere una moglie con il pretesto dell’amore è soprattutto interesse degli uomini (che pur essendo sposati possono garantirsi un’indipendenza sessuale ed esistenziale).

Il fatto è che sotto il sentimento dell’«amore puro» che è inculcato alle donne, si nasconde un’ingiunzione all’amore che maschera la dipendenza strutturale nei confronti degli uomini. La dipendenza economica delle donne e la loro prestazione a senso unico di servizi domestici e affettivi persiste attualmente nelle società occidentali, malgrado i progressi giuridici in altri campi. (È il motivo per cui Bourdieu ha torto nel dire che la famiglia non è più la sede principale del dominio maschile). La semplice constatazione statistica del lasso di tempo, molto più breve per gli uomini che per le donne, oltre il quale ci si risposa o si allaccia una relazione di coppia dopo un divorzio o una vedovanza [57] indica che nell’esperienza l’amore non era così puro, né per gli uomini, né per le donne. Certi uomini provano di fatto amore per la nuova compagna, ed è un doppio beneficio. Altri dicono schiettamente che serve qualcuna che si occupi di loro. Molte donne divorziate non si risposano, anche se alcune continuano a credere all’Amore coniugale [58]. Altre sono realiste come gli uomini; come diceva una donna in lutto per il marito deceduto: «Un uomo che portava a casa [X franchi] al mese…».

Che cos’è la norma dell’amore eterosessuale per le donne, in situazione di oppressione? Già da molto tempo analisi femministe e lesbiche all’interno del movimento si sono poste la questione, perché la grande differenza tra l’oppressione di classe sociale e l’oppressione di classe di sesso è, nel secondo caso, il corpo a corpo obbligatorio tra l’oppressa e il suo oppressore [59]. Obbligatorio in due sensi: richiesto dalla definizione stessa dei «sessi come complementari» e implicante un dispositivo serrato di controllo sociale. Gayle Rubin (1975) analizzando l’articolo di Lévi-Strauss sulla famiglia (1956) — in cui quest’ultimo, insistendo sul carattere artificiale della famiglia, vede nella divisione del lavoro «un mezzo per creare tra i sessi una mutua dipendenza, sociale ed economica […] conducendoli in quel modo a riprodursi e a fondare una famiglia» —, concludeva (già) che Lévi-Strauss non era lontano dal dire che l’eterosessualità, lungi dall’essere naturale, fosse istituita… Ma questa norma pratica dell’amore nel matrimonio (o bisognerebbe dire dell’amore malgrado il matrimonio) non è soltanto il prodotto di «schemi inconsci». Essa è anche scientemente (e commercialmente) mantenuta. «Soprattutto nelle donne», eh sì. Ed è l’oggetto dell’interrogazione del libro di Pascale Noizet, L’idée moderne d’amour. In questa tesi di sociosemiotica [60], Noizet mostra che a partire dal XVIII secolo il matrimonio non è più trattato nella letteratura come una convenzione sociale più o meno soddisfacente, né l’amore come una sfida alle costrizioni della società (Romeo e Giulietta). Ma che l’amore è ormai considerato come un rapporto tra due individui sessuati in conflitto. Dal romanzo psicologico del XVIII secolo alla letteratura popolare del XIX e del XX secolo, e specialmente i romanzi rosa Harlequin, la risoluzione del conflitto si produrrà attraverso la «malattia d’amore» che infine raggiunge miracolosamente («come per incanto», direbbe Bourdieu) l’eroina (e lei soltanto) malgrado le sue precedenti reticenze, e la conduce a «scegliere» il matrimonio. I romanzi rosa, stampati in milioni di esemplari in tutte le lingue, sono dei romanzi d’amore popolari, scientemente destinati alle donne, e la maggior parte delle autrici sono anch’esse donne. Attualmente integrano addirittura una sorta di problematica «femminista» nell’eroina, ma la risoluzione finale del conflitto psicologico è sempre la stessa per la donna: l’amore [61]. Così le donne possono, nell’amore «romanzesco» in cui vengono trattenute per «risolvere» le contraddizioni che potrebbero avvertire, trovare al tempo stesso un’eco dei loro problemi con gli uomini e la garanzia che l’«amore» li trasformerà.

Non era questo il parere di Lily Briscoe, in pieno conflitto psicologico, anche lei (proprio come Cam nei confronti di suo padre). Lily ha appena pensato all’«umiliazione», all’«indebolimento spirituale» che le sembra provocare il matrimonio, a cui «lei non è obbligata»:

[…] sentimenti violentemente opposti […] battagliavano nella sua testa […] È così bello, così eccitante, l’amore, che al suo orlo io tremo […] nove persone su dieci, se richieste, avrebbero risposto che non volevano altro; MENTRE LE DONNE, a giudicare dalla sua esperienza, da parte loro, SENTIVANO PIUTTOSTO CHE NO, NON E’ QUESTO CHE VOLEVANO, non c’è niente di più noioso, puerile e disumano dell’amore. Eppure è anche meraviglioso e necessario. E allora, e allora? [62]

Ho affrontato, certo, solo alcuni dei numerosi punti criticabili del saggio di Bourdieu. Che dire in fin dei conti de Il dominio maschile? Che è un libretto fitto e soffocante; non graffierà gli uomini, ma confonderà un po’ di più, ce ne fosse bisogno, la coscienza delle donne. Una confusione che assomiglia molto a un imbroglio. Per alleviare la mia collera, avrei dovuto scegliere come titolo: «Bourdieu o la dotta ignoranza» [63].

«L’oppressore non intende ciò che dice il suo oppresso come un linguaggio, ma come un rumore. È nella definizione dell’oppressione».

Christiane Rochefort [64]

Ringrazio per gli scambi di vedute Christine Arnault, Michèle Causse, Danielle Charest, Michèle Gerlier, Liliane Kandel, Anne Le Gall e Annie Le Palec.




NOTE

(*) N. C. Mathieu, Bourdieu ou le pouvoir auto-hypnotique de la domination masculine, in Ead., L’anatomie politique II. Usage, déréliction et résilience des femmes, La Dispute/SNÉDIT, Paris 2014, pp. 53-89. Il testo è una versione leggermente modificata del testo pubblicato su «Les Temps Modernes», n. 604, mai-juin-juillet 1999, pp. 286-324. Il «potere ipnotico del dominio» è un’espressione di Virginia Woolf, citata con ammirazione da Bourdieu.

[1] Si tratta della riedizione, grazie al sostegno dell’Associazione nazionale di studi femministi, di due studi fondamentali dell’antropologa italiana: Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», XIX, 3-4, 1979, pp. 5-61 e Fertilité naturelle, reproduction forcée, in N.-C. Mathieu (dir.), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes, Editions de l’EHESS, Paris 1985, pp. 61-146.

[2] Citiamo a proposito di questo libro il bollettino n. 6 (giugno-luglio-agosto 1998) delle edizioni L’Harmattan: «[…] questo saggio intende rispondere a un duplice interrogativo: come e perché i soggetti minoritari, e le donne in particolare, se talvolta prendono la parola nel campo mediatico creando i propri giornali, non riescono a conservarla? Come e perché i media mainstream non danno conto del punto di vista dei soggetti minoritari, in particolare degli eventi che li riguardano?».

[3] Nel suo libro documentato, aspro e spesso molto divertente, Jeanine Verdès-Leroux nota: «È molto imprudente in una conclusione riferirsi all’ultima produzione di Pierre Bourdieu: poiché egli pubblica tutto ciò che dice, rischio nelle prossime tre o quattro settimane di inciampare su un nuovo piccolo tomo…». Eccolo. (Dispiace d’altronde che l’autrice non abbia ritenuto necessario includere nella sua critica l’articolo del 1990).

[4] «La domination masculine», Actes de la recherche en sciences sociales (citato infra con l’abbreviazione ACT); e La domination masculine (citato infra con l’abbreviazione DOM). [Per la traduzione italiana di DOM il riferimento è Il dominio maschile, trad. it. di Alessandro Serra, Feltrinelli, Milano 2009].

[5] Cinque interviste a Bourdieu su Télérama, dal n. 2532 al 2536 (dal 25 luglio al 22 agosto 1998). Lettere dei lettori e commenti nei numeri dal 2536 al 2538. Queste interviste erano state precedute, a beneficio di un pubblico forzatamente più ristretto, dall’anticipazione del Preambolo del libro su Le Monde diplomatique, n. 533, agosto 1998. I redattori del giornale, suppongo, avevano messo come cappello introduttivo in maiuscolo: «La lotta femminista al cuore delle battaglie politiche». Forse non avevano letto il seguito? 

[6] O come Nos dommages et leur intérêts, titolo dato da Monique Plaza (1978) alla sua analisi della giustificazione dello stupro in Michel Foucault. Cfr. https://manastabalblog.wordpress.com/2018/11/14/i-nostri-danni-e-i-loro-interessi/.

[7] «Arma da getto […] che ritorna al proprio punto di partenza se l’obiettivo è mancato» (Le Robert, corsivo mio). Non so se la definizione sia giusta, ma si applica al caso in esame.

[8] Nella sua analisi del personaggio del signor Ramsay in Virginia Woolf, su cui torneremo, Bourdieu parla dell’«avventura intellettuale» come di qualcosa  che permette di conseguire un capitale simbolico di celebrità (ACT, p. 23). In ogni caso, la dura avventura intellettuale delle femministe non ha né questo risultato, né soprattutto questo scopo.

[9] Cfr. Colette Guillaumin, «De la transparence des femmes. Nous sommes toutes des filles de vitrières» (1978).

[10] Esempio di insulto diretto: uno dei miei colleghi, dopo che avevo fatto una comunicazione sull’oppressione generalizzata delle donne a un colloquio di antropologia: «Allora, hai tirato ancora fuori il tuo marchingegno?». È da notare che l’ambiente «scientifico» francese è uno dei più misogini e antifemministi dei paesi occidentali.

[11] Secondo Bourdieu, «[…] anche se non vogliamo certo attribuire agli uomini strategie organizzate di resistenza, possiamo supporre che la logica spontanea delle operazioni di cooptazione […] affondi le sue radici in un’apprensione confusa, e fortemente pervasa di emozione, del pericolo che la femminilizzazione fa correre alla rarità e quindi al valore della posizione, e anche, in qualche modo, all’identità sessuale dei suoi occupanti» (DOM, p. 103, corsivo mio; trad. it. pp. 112-113). Logica spontanea sì, apprensione confusa no. Non si può dimenticare che nei concorsi nazionali degli organismi di ricerca o universitari, le decisioni sono prese attraverso voti che mettono in atto delle strategie di sostegno o di rifiuto delle candidature, e delle alleanze e delle relazioni di clientelismo tra i votanti, oltre che rifiuti ideologici consapevoli. Prenderò a esempio la mia esperienza, non potendo far correre dei rischi supplementari ad altre donne. Ecco alcune reazioni che mi sono state riferite. Alla commissione di sociologia del CNRS, a cui avevo sottoposto diverse volte intorno al 1970 un progetto epistemologico intitolato «Per una definizione sociologica delle categorie di sesso», un uomo meravigliato del reiterato rifiuto opposto alla mia candidatura chiese: «Ma insomma, che cosa avete da ridire contro questo progetto?» — Silenzio. All’EHESS, più tardi, risate grasse scossero l’assemblea quando il mio referente si permise di annunciare: «In qualche modo, la candidata vuole aprire il sesso…». Una candidata donna, sommata a un argomento di ricerca «femminista» che, in più, criticava direttamente la concezione del «sesso» nelle scienze sociali, era un grande «pericolo» per le commissioni. Anche per i candidati: ho sentito dire che uomini che portano avanti ricerche in senso femminista cominciano ad avere qualche difficoltà con l’università… Si troverà nel libro di Michéle Le Doeuff, L’Étude et le rouet (Seuil, Paris 1989), una quantità di dettagli sulla composizione e sul funzionamento delle commissioni, principalmente maschili, delle grandi istituzioni. Si veda anche il suo articolo Gens de sciences bi: le mauvais genre dans l’éprouvette («Nouvelles Questions Féministes», 15, 2, 1993) per esempi precisi dell’ostracismo del mondo accademico nei confronti delle ricerche femministe. E, di Judith Ezekiel, si veda Pénurie de ressources ou de reconnaissances? Les études féministes en France («Nouvelles Questions Féministes», 15, 4,1994). 

[12] D’ora in avanti spesso designato come «il Candidato», per tentare di attenuare «l’effetto bourdieu» [N.d.T.: in minuscolo nell’originale].

[13] Si veda in particolare la sua raccolta di articoli pubblicati tra il 1978 e il 1993: Masculin/féminin. La pensée de la différance, Odile Jacob, Paris 1996; trad. it. di Barbara Fiore, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari 1997.

[14] Si veda la sua raccolta di articoli dal 1970 al 1978: L’Ennemi principal. I – Économie politique du patriarcat (Syllepse, Paris1998).

[15] Una parte dei cui lavori sul pensiero naturalista sono stati riuniti in Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de Nature (1992), articoli tra il 1977 e il 1990; e in Racism, Sexism, Power and Ideology (1995) [trad. it. di Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli, Valeria Ribeiro Corossacz, Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, ombre corte, Verona 2020]. Nella sua opera del 1972, L’Idéologie raciste. Genèse et language actuel, Colette Guillaumin integrava già i sessi nello studio dei meccanismi di naturalizzazione e di razzizzazione.

[16] La presenza del nome di Tabet nell’indice, proprio come quella di Èchard, Journet, Michard e Ribéry non deve illudere. Non si tratta di un riferimento preciso ai loro articoli, ma del semplice fatto che il riferimento bibliografico più preciso all’opera collettiva L’Arraisonnement des femmes comporta, correttamente, i nomi delle co-autrici. L’apprezzamento (apparentemente favorevole) che Bourdieu manifesta di sfuggita (p. 47, nota 65; trad. it. p. 52) per questo libro è d’altronde singolarmente sfasato in rapporto al suo contenuto e ai suoi apporti teorici. È particolarmente curioso, per qualcuno che si interessa al simbolico, che non venga fatta menzione della brillante dimostrazione dei meccanismi inconsci del linguaggio per quanto concerne le categorie di sesso in testi «scientifici» condotta dalle socio-linguiste Claire Michard e Claudine Ribéry: Énonciation et effet idéologique. Les objets de discours “femmes” et “hommes” en ethnologie, in N.-C. Mathieu (dir.), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes, Editions de l’EHESS, Paris 1985, pp. 147-167.

[17] Pierre Bourdieu, Reproduction interdite. La dimension symbolique de la domination économique, «Etudes rurales», 113-144, 1989, pp. 15-36.

[18] DOM, p. 51, nota 70 [trad. it. p. 56]; corsivo mio per sottolineare lo stile impaurito.

[19] Bourdieu polemizza da molto tempo contro Lévi-Strauss a proposito delle strutture di parentela, si veda per esempio Esquisse d’une théorie de la pratique, preceduto da Trois études d’ethnologie kabyle (1972) [trad. it. di Irene Maffi, Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Raffaello Cortina, Milano 2003], ma non sembra essersi interessato al suo articolo sulla famiglia.

[20] Gayle Rubin, The Traffic in Women. Notes on the “Political Economy” of Sex, in Rayna Reiter (ed.), Toward an Anthropology of Women, Monthly Review Press, New York 1975, pp. 157-210. Questo articolo è stato appena tradotto (1998) con il titolo L’économie politique du sexe: transactions sur les femmes et systèmes de sexe/genre in occasione della Giornata di studio organizzata da Nicole-Claude Mathieu su «Lévi-Strauss e le teorie femministe: convergenze e divergenze», che si è tenuta il 16 gennaio 1999 a Jussieu e inaugurava una serie di Giornate su «Le teorie femministe: critiche, prestiti, rotture».

[21] Si veda Gail Pheterson, The Prostitution Prism, Amsterdam University Press, Amsterdam 1996, p. 89, raccolta di articoli apparsi tra il 1983 e il 1995 (Traduzione francese aumentata 2001).

[22] Cronologia…1 — 1985: Nicole-Claude Mathieu, «Quand céder n’est pas consentir. De la conscience dominée des femmes et de quelques-unes de leurs interprétations en ethnologie», in Nicole-Claude Mathieu (a cura di), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes; 2 — 1987: Recensione di questo libro di Jeanne Favret-Saada: «L’arraisonnement des femmes», Les Temps Modernes; 3 — 1991, ripubblicazione dell’articolo di Nicole-Claude Mathieu nella sua raccolta L’Anatomie politique. Catégorisations et idéologies du sexe, Côté-femmes éditions, «Recherches», Paris.

[23] Uno dei suoi articoli (1989) è ben sottotitolato «La dimension symbolique de la domination économique».

[24] Notiamo che il Candidato, che si considera ormai l’illustratore, per non dire lo scopritore, della «costruzione sociale del sesso» (titolo di un’altra e quasi analoga versione del suo articolo di ACT, anch’essa pubblicata nel 1990 in Reherches sur la philosophie et le langage, tome XII) — idea difesa da trent’anni dalle femministe radicali, fra le altre tramite la nozione di classi di sesso (nel senso marxiano della classe) — utilizzava ancora il termine sociologico-biologico di «classi sessuali» nel 1980 ne Il senso pratico (p. 230, nota 27; trad. it. p. 208), libro a cui non cessa di rinviarci ne Il dominio maschile. Torneremo su questa nota, a fronte della quale certi argomenti de Il dominio…presentano una regressione.

[25] «Interloquire (1450). I. Interrompere (un affare, un processo) attraverso un giudizio interlocutorio». — «interlocutorio (1283). Si dice di giudizi preliminari che deliberano su una misura istruttoria o di grazia pregiudicando lo sfondo della domanda». — «Pregiudicare. II Prendere una decisione provvisoria su (qualcosa), lasciando prevedere il giudizio definitivo» (Le Robert).

[26] A tal proposito, ricordiamo che Virginia Woolf, come tante bambine e ragazze, ebbe a subire gli assalti sessuali dei suoi fratellastri: Gerald quando aveva sei anni (lui ne aveva diciotto), e George, intorno ai vent’anni (lui era molto più grande). Quest’ultimo fu anche un tiranno in famiglia, al pari del padre di Virginia. Vedere fra le altre Phyllis Rose, A Woman of Letters: The Life of Virginia Woolf, Oxford University Press, Oxford 1978 (trad. it. di Cristina Bertea, Virginia Woolf, Editori Riuniti, Roma 1980).

[27] Vedere il volantino «Justice patriarcale et peine de viol» («Giustizia patriarcale e pena di stupro»), riprodotto in Alternatives, n. 1, «Face-à-femmes», 1977.

[28] Vedere Paola Tabet, Fertilité naturelle, reproduction forcée (1985) e, per uno studio in Francia, Hugues Lagrange e Brigitte Lhomond (a cura di), L’Entrée dans la sexualité, La Découverte, «Recherches», Paris 1997.

[29] L’autore aggiunge «che circolano dal basso verso l’alto». Può darsi che pensi alla Cabilia o al Béarn, tuttavia non è inutile segnalare che in alcune società stratificate, le donne «circolano» dall’alto verso il basso nello scambio matrimoniale, e non ne sono meno dominate.

[30] È anche ciò che rimproveravo a Maurice Godelier nel suo impiego della vecchia idea di «consenso dei dominati» a proposito delle donne nel suo libro La Production des grands hommes. Pouvoir et domination masculine chez les Baruya de Nouvelle-Guinée, Fayard, Paris 1982. Vedere Nicole-Claude Mathieu, Quand céder n’est pas consentir… (1985).

[31] Per non parlare dell’assenza di equivalenza tra circoncisione ed escissione sul piano fisico e psicologico, ma anche mitico-rituale. Vedere Nicole-Claude Mathieu, Relativisme culturel, excision et violences contre les femmes, in Sexe et race: Discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle, Revue du CERIC, Paris 1994b.

[32] Vedere Nicole-Claude Mathieu, Études féministes et anthropologie, in P. Bonte, M. Izard (dir.), Dictionnaire de l’ethnologie et de l’anthropologie, PUF, Paris 1991.

[33] Vedere fra le altre la citazione riportata infra, alla nota 60.

[34] Per una storia e una presentazione delle differenti analisi critiche femministe fino al 1985, vedere Nicole-Claude Mathieu, Critiques épistémologiques de la probématique des sexes dans le discours ethno-anthropologique, Rapport pour l’UNESCO, Réunion internationale d’experts: “Réflexion sur la problématique féminine dans la recherche et l’enseignement supérieur”, Lisbonne, 17-20 sept. 1985, ora in Ead., L’anatomie politique. Catégorisations et idéologies du sexe, Éditions iXe, Donnemarie-Dontilly 2013, pp. 69-118 (trad. it. di Susanna Lazzarini, Critiche epistemologiche sulla problematica dei sessi nel discorso etno-antropologico, «DWF», 10-11, 1989, pp. 8-54).

[35] Vedere la rubrica Chroniques du sexisme ordinaire apparsa su Les Temps Modernes dal dicembre 1973 al novembre 1983 (pubblicazione parziale per Seuil, nel 1979).

[36] Il gruppo «Psychannalyse et Politique» e le sue edizioni, Des Femmes. Avendo sufficiente capitale economico per pubblicizzarsi all’estero (specialmente negli Stati Uniti, negli ambienti letterari) dove si è fatto passare con successo per «il» femminismo francese, si dichiarava antifemminista all’interno delle frontiere nazionali e fu in effetti molto rapidamente in rottura politica reciproca con l’insieme del movimento, fino al punto di tentare di cancellarne l’esistenza appropriandosi giuridicamente della sigla MLF. Vedere fra le altre Chroniques d’une imposture. Du Mouvement de libération des femmes à une marque commerciale, edito dall’associazione «Mouvement pour les Luttes Féministes», Voix Off, Paris 1981. Vedere anche Françoise Picq, Libération des femmes. Les Années mouvement, Seuil, Paris 1993.

[37] Mille scuse per usare il noi e non seguire, in questo modo, la lezione che il Candidato «ci» impartisce a p. 123, nota 4 [trad. it. p. 133]: «Rivendicare il monopolio di un oggetto qualsiasi (anche attraverso il semplice uso del “noi” che ha corso in certi scritti femministi)…» (corsivi miei), vedere infra, nota 53.

[38] Sulla differenza di linguaggio, e quindi di costruzione d’oggetto, tra ricercatori uomini e ricercatrici femministe, vedere Claire Michard, Mouvement de libération des femmes et affrontement discursif entre auteurs scientifiques, «Journal des anthropologues», 45,1991, pp. 53-65.

[39] Michèle Causse, L’Interloquée, Les Oubliées de l’oubli, Dé/générée. Essais, Trois guinées, Laval 1991, p. 15.

[40] Lui che, all’uscita del Secondo sesso, aveva detto di sapere tutto ormai sulla vagina della signora de Beauvoir. Vedere Ingrid Galster (ed.), Le ‘Deuxième Sexe’ de Simone de Beauvoir,  Presses de l’Université Paris-Sorbonne, Paris 2004, p. 16, nota 44.

[41] Virginia Woolf, La Promenade au phare (1927), citato infra come V. W. nell’edizione tascabile 1983 [trad. it. di Nadia Fusini, Al faro, Feltrinelli, Milano 2017].

[42] Ciò che, senza talento letterario, avevo definito la fatica mentale e fisica delle donne. A tal proposito, diverse pagine, magnifiche, di Al faro sono consacrate a descrivere il lavoro e la fatica estrema di due governanti che devono pulire e riaprire la grande casa in riva al mare, abbandonata per dieci anni, dopo la morte della signora Ramsay. È un caso? Certo, tutto ciò permette a Woolf, così attaccata alle cose, di parlare dei mobili, degli armadi, della biancheria, delle imposte, della ruggine, etc., ma niente le imponeva di farlo in questo modo. «Era piegata dalla stanchezza», dice anche Virginia Woolf della signora MacNab (V.W, 1983, p. 178). [Nella traduzione italiana, p. 125: «Scricchiolava, gemeva»].

[43] Le ragazze non sono (molto) presenti in quest’ultimo campo, se non per la soddisfazione erotica maschile.

[44] Altrove (Quand céder…, 1985) ho trattato a lungo delle numerose contraddizioni che mettono le donne in posizione schizofrenica. Per esempio, tra cedere alle pressioni sessuali maschili ritenendosi libera per poi farsi trattare da puttana e non cedere a quelle pressioni per poi farsi trattare da, indovinate cosa. Della mia giovinezza, accanto alla donna rasata, nuda e messa alla gogna del villaggio «liberato» durante la Liberazione, ricorderò la Costa Brava e quel campeggio misto di studenti alla fine degli anni Cinquanta. Una delle ragazze era rinomata per la sua disponibilità sessuale. Alla fine della vacanza, fu incoronata (indovinate da chi) regina del campeggio. Pregata di salire sul podio, sorrideva tutta felice. Poi la vidi barcollare fisicamente, quando (indovinate chi) intonarono: «Oh la puttana / vai a lavarti il culo / sudiciona…». Riprese subito l’equilibrio e rimase dignitosamente dritta.

[45] Mia nonna, operaia dall’età di 13 anni, nel 1900, nelle fabbriche tessili del Nord (nel momento della distruzione dei piccoli contadini e della loro spaventosa incorporazione nell’industria), diceva, al tempo stesso, che «erano necessari» dei padroni per «dare» lavoro agli operai e parlava delle umiliazioni subite ad opera dei borghesi e dei preti e rivendicava la fierezza di ciò che secondo lei era la sua famiglia, «persone perbene, tanto quanto le altre».

[46] Vedere Moi, Phoolan Devi, reine des bandits, Fixot, Paris 1996; precisiamo che, fatta con la registrazione al magnetofono e letta a Phoolan Devi dopo la trascrizione, è l’unica biografia da lei approvata). E Taslima Nasreen, Enfance, au féminin, Stock, Paris 1998.

[47] Statistiche dell’ospedale di Algeri nel 1991, su 889 tentativi di suicidio: 20,4% di giovani uomini e 79,6% di giovani donne, in Rapporto nazionale della rete FEHLA, Conferenza preparatoria per l’Africa (Dakar, 1994) in vista della Conferenza mondiale delle donne di Pechino, 1995; citato da WLMUL (1996, p. 54).

[48] Vedere anche WLMUL (1998).

[49] Prima sotto copertura di qualcun’altra, poi facendo il mio nome (vedere supra I e nota 29).

[50] Citato in Jean Laplanche e Jean-Baptiste Pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, «Conscience (psychologique)». 3e édition, 1971; trad. it. di Luciano Mecacci e Cynthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, tomo I, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 113.

[51] Occorre ricordare che ci sono femministe che non hanno trovato imbarazzante riflettere contemporaneamente sulla coscienza e la resistenza e sull’iscrizione sociale nel corpo? Vedere per esempio Sande Zeig, The actor as activator: deconstructing gender through gesture», o Colette Guillaumin, Le corps construit.

[52] Le Sense pratique, chapitre VIII: «Les modes de domination», p. 230, n. 27; trad. it di Mauro Piras, Il senso pratico, Armando, Roma 2005, pp. 208-209.

[53] Tralascio, ma non completamente, i suoi piagnistei e il digrignare i denti per il «monopolio» che le femministe si arrogano, perché, figuratevi, «si investono dell’autorità assoluta costituita dall’ “esperienza della femminilità”» e gli impediscono (?), a lui, di esprimersi democraticamente: «Rivendicare il monopolio di un oggetto qualsiasi (anche attraverso il semplice uso del “noi” che ha corso in certi scritti femministi) in nome del privilegio cognitivo che si suppone sia concesso dal semplice fatto di essere al contempo soggetto e oggetto, e più precisamente, dal fatto di avere vissuto in prima persona la forma specifica della condizione umana che si tratta di analizzare scientificamente, significa introdurre nel campo scientifico una difesa politica dei particolarismi che autorizza il sospetto a priori, e mettere in discussione l’universalismo che, soprattutto attraverso il diritto di accesso a tutti gli oggetti, è uno dei fondamenti della Repubblica delle scienze». (DOM, p. 123, nota 4; corsivo mio, evidentemente; trad. it. p. 133).

[54] Claude Lévi-Strauss, Les Structures élémentaires de la parenté (première édition, 1949), 1967, p. 569; trad. it. di Alberto Mario Cirese e Liliana Serafini, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 635-636.

[55] Notiamo tuttavia di passaggio che il vantaggio dell’opinione di Lévi-Strauss su quella di Bourdieu è che il primo ci riconosce la qualità di «produttrici di segni». Forse saremmo allora capaci di produrre del simbolico e non solo di incorporarlo in quanto «agenti passivi».

[56] Occorrerebbe non dimenticare neppure la considerevole discesa sociale delle donne divorziate, anche quando si sono sposate all’interno della stessa classe.

[57] Se si considera non già ciascun individuo/a che ritrova un partner, ma l’insieme disponibile dei partner di sesso opposto, la differenza temporale è oggettivamente legata allo scarto di età tra partner maschili e femminili, gli uomini unendosi a compagne più giovani. Il meccanismo è lo stesso che nella poliginia.

[58] Un donna sposata in regime di comunità dei beni e totalmente derubata dal marito truffatore mi ha confidato, dopo il divorzio, che in caso di nuovo matrimonio avrebbe ripreso quel regime perché «è una questione d’amore». Non l’ho vista risposarsi.

[59] Se nei meccanismi di sfruttamento delle classi povere da parte delle classi ricche o della classe schiava da parte della classe dei padroni si realizza anche, è ben noto, lo sfruttamento sessuale delle donne, questo non costituisce una parte integrante della definizione funzionale di queste classi. 

[60] Pascale Noizet, L’Idée moderne de l’amour. Entre sexe et guerre: vers une théorie du sexologème, Editions Kimé, Paris 1996. Vedere anche la recensione di questo libro di Danielle Charest nella rivista Mots/Les langages du politique, 1996.

[61] Certe riviste dette femminili fanno la stessa cosa, mi sembra, mescolando una dose di femminismo con una dose (più forte) di orientamenti «tradizionali».

[62] La Promenade au phare, p. 139-140, maiuscoletto mio; trad. it. p. 94.

[63] La «dotta ignoranza», formula di Pierre Bourdieu, si riferisce alla verità del sapere pratico dissimulata sotto il discorso esplicativo che un agente può darne; «…questa dotta ignoranza non può che dar luogo a un discorso dell’ingannatore ingannato […]» (Esquisse d’une théorie de la pratique, p. 202).

[64] Christiane Rochefort, «Définition de l’opprimé», presentazione della traduzione francese (1971) di Manifesto SCUM di Valerie Solanas, trad. it. di Deborah Ardilli, Definizione dell’oppresso, in Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), a cura di D. Ardilli, VandA-Morellini, Milano 2018, pp. 287-288.

6 dicembre 1975

Femministe ed estrema sinistra nell’Italia degli anni Settanta

6 dicembre 1975. 20.000 donne arrivano a Roma per una manifestazione sull’aborto. I giovani del servizio d’ordine di Lotta Continua, guidati da Erri De Luca, tentano di sfondare il corteo in nome dell’unità di classe. La sera stessa le donne di Lotta Continua invadono la riunione del Comitato nazionale e accusano di fascismo i compagni. Il giornale dell’organizzazione glissa e l’indomani titola: “20.000 donne da tutta Italia per il loro diritto alla vita, per la morte di questo governo”. Il 12 dicembre interviene Adriano Sofri per ricordare la chiave tutta antifascista della manifestazione contro gli assassini del Circeo e fare di quel crimine, che a suo dire “appartiene tutto intero alla borghesia e alla sua oppressione”, un richiamo di unità.

Sempre in nome dell’unità di classe, nel luglio del 1972, i militanti del Potere Operaio romano avevano brutalmente interrotto il primo seminario separatista sull’occupazione femminile organizzato da Lotta Femminista presso la facoltà di magistero dell’Università di Roma, suggellando l’incompatibilità, anche fisica, tra le ragioni del neofemminismo e quelle della sinistra extraparlamentare. Straordinaria, al riguardo, la testimonianza di Vania Vecchi (militante modenese di Lotta Femminista) sul pestaggio di Roma:

“Eravamo là dentro tante tante donne, in questa atmosfera anche di festa, perché quando ci si vede tra tante persone che vengono da tanti posti diversi con delle idee in testa in comune… Quando si entrava bisognava passare in mezzo a due file di ragazzi grandi e grossi, che mostravano il pugno, inveivano e io ancora non avevo capito chi fossero, dopo, quando siamo là dentro, c’è tutta una vetrata enorme, io tra l’altro ero anche abbastanza vicina. A un certo punto si rompono le vetrate e cadono dei pezzi di ghiaccio lunghi così e ci piovevano addosso… Sei o sette ne hanno tirati, roba da cinema. Puoi figurarti, le urla, il casino, il fuggi fuggi. Questi ci assediavano dentro la sala, dopo aver buttato il ghiaccio erano venuti tutti davanti alla porta. Noi per forza dovevamo passarci in mezzo e alcune dicevano che ci avrebbero picchiato. Dissero che l’unica era uscire tutte assieme e una delle Busatta, che erano come le katanga delle femministe, si era cavata le scarpe e le usava come arma. È stata lei che ha aperto l’uscio con le scarpe in mano, e da lì siamo uscite tutte a valanga… In effetti loro menavano, siamo passate in mezzo come succede nei ‘corridoi’ della polizia, tra due ali di deficienti grandi e grossi che urlavano e cantavano l’Internazionale. Io ero talmente allibita che non correvo neanche, davanti a me una signora che avrà avuto quarant’anni è stata presa per la borsa e trascinata nel corridoio e presa a calci per 5-6 metri. C’è stata una vera e propria battaglia e io non avevo capito che quelli erano di Potere Operaio, pensavo che, essendo Roma una città in cui ci sono tanti fascisti, fossero arrivati loro. Alla fine mi ricordo che sono sfilata davanti a ‘sti omaccioni con le loro ragazze di Potere Operaio, se le erano portate, e io, siccome cantavano col pugno chiuso Bandiera rossa e l’Internazionale, a quel punto ho capito che erano i compagni di Potere Operaio e, nel mio sbalordimento e nella mia ingenuità, ho detto: ‘ma ragazzi, anch’io sono una compagna’ e due o tre hanno messo davanti le loro donne dicendo: ‘No, queste sono vere compagne, tu sei una femminista’, come dire ‘sei una merda’, per cui me ne sono andata da sola davanti a questa curva da stadio che intonava l’Internazionale col pugno chiuso alzato”.

(cit. in Deborah Ardilli e Marcella Farioli, “Crisi dell’emancipazionismo e critica del modello emiliano: Lotta femminista a Modena“, in Modena e la stagione dei movimenti. Politica, lotta e militanza negli anni Settanta, a cura di Alberto Molinari, Editrice Socialmente, Bologna 2018).

«La passione secondo Wittig»

di Christine DelphY*

Ringraziamo Christine Delphy per averci nuovamente permesso di tradurre uno dei suoi scritti. La scelta questa volta è caduta su «La passion selon Wittig», apparso sulle colonne di «Nouvelles Questions Féministes» nel 1985, a ridosso della pubblicazione di Virgile, non di Monique Wittig. Nell’intervallo di tempo trascorso da allora la letteratura critica sulla scrittrice francese è lievitata in volume, ma è su questo breve testo di Delphy che occorre tornare per ritrovare, prima ancora delle tesi, lo spessore auto-coscienziale del «movimento» che ha animato la ricerca teorica, letteraria e politica di Wittig. Perché «il meno citato e il più rimosso dei suoi romanzi» (Rosanna Fiocchetto) si presti particolarmente bene allo scopo, è una questione che rinviamo alla curiosità di chi vorrà proseguire con la lettura, sotto la guida di un’interprete acuta come Delphy.

Lena Vandrey, Monique Wittig oder die Krabbe im Sand

***

Quasi contemporaneamente, questa primavera, è stato pubblicato l’ultimo libro di Monique Wittig, Virgile, non, è stata rappresentata la sua ultima pièce, Le voyage sans fin, al teatro del Rond-Point a Parigi, e Vlasta le ha dedicato un numero speciale. Quest’ultimo include due testi inediti di Wittig, testi e riproduzioni di quadri di Lena Vandrey e quattro analisi dei differenti aspetti dell’opera di Wittig, della quale viene fornita anche una bibliografia completa. Queste analisi provengono tutte da ricercatrici e accademiche femministe nord-americane e rappresentano soltanto una piccola parte dei lavori dedicati allo studio di Monique Wittig negli Stati Uniti.

In effetti, sebbene tutti i libri di Wittig siano ben noti alle femministe francesi, finora non sono stati oggetto di studio. Ritardo delle ricercatrici femministe francesi? Indubbiamente, ma anche preferenza, in questo paese, per l’ écriture féminine, che ha suscitato adepte e glosse interpretative. Anche negli Stati Uniti Cixous, Kristeva e Irigaray, tra le altre, vengono studiate e per di più in quanto femministe, il che è per lo meno sconcertante nel caso delle prime due, che proclamano urbi et orbi la propria distanza dal femminismo. Ma almeno Wittig non è dimenticata, anche se talvolta, per effetto di un controsenso al tempo stesso assoluto e inesplicabile, viene messa dalle sue commentatrici nello stesso sacco delle sostenitrici della neo-femminilità che lei stessa denuncia, le apostole della differenza che le danno il voltastomaco, le inventrici della «scrittura di donna» che deride.

Hélène Wenzel, per parte sua, nel «discorso radicale di M. Wittig», una delle analisi pubblicate su Vlasta, non commette questo errore. Wenzel vede chiaramente che l’analisi femminista radicale che è sottesa all’opera letteraria di Wittig, e che è esplicita nei suoi testi teorici, è agli antipodi della corrente della neo-femminilità (o «femminitudine»). Vede anche i legami tra queste posizioni divergenti sulla subordinazione delle donne e la divergenza di posizioni sul lesbismo: Cixous e Psychanalyse et Politique alias «Des femmes» alias il marchio depositato MLF rifiutano il termine «femminista», come rifiutano il termine «lesbica», mentre Wittig li rivendica entrambi. Altre correlazioni che non vengono menzionate dalle autrici di questo numero sono invece significative.

Il secondo libro di Wittig, Les guerrillères (Minuit, 1969) [1], è stata una tappa importante del movimento di liberazione delle donne. Apparve nel 1969, quando Wittig faceva già parte di un gruppo femminista dal 1968. A differenza delle autrici della neo-femminilità, Wittig non è soltanto una scrittrice: è sempre, fin dal principio, una militante. La sua opera letteraria non è separata dalla teoria, né la teoria dall’azione. Se i piccoli gruppi femministi, che esistevano dal 1968, nel 1970 si aggregano per fondare il movimento di liberazione delle donne, è in gran parte grazie a un articolo che Wittig ha scritto con altre tre donne, Pour un mouvement de libération des femmes, e che l’Idiot internationale pubblica nel maggio 1970 sul numero 6, con il titolo Combat pour la libération de la femme (sic) [2]. Ora, questo articolo è stato scritto, poi pubblicato, contro il parere del gruppo di cui Wittig faceva parte, formato da altre quattro donne tra cui — già — Antoinette Fouque, che due anni più tardi formerà il gruppo «Psychanalyse et Politique». Non avendo potuto impedire la creazione del movimento nel 1970, Fouque lo rovinerà propagandando dall’interno, grazie a fondi di origine sconosciuta che finanziano una potente casa editrice («Des femmes»), la linea reazionaria della neo-femminilità — lavoro di sabotaggio che culminerà nel 1979 con la registrazione come marchio commerciale della dicitura «movimento di liberazione delle donne» e della sigla MLF.

Gille e Monique Wittig nel 1974. Foto di Irene Bouaziz

Wittig, presente fin dalla creazione del movimento, partecipante alla sua costruzione, sarà anche una delle fondatrici delle Féministes révolutionnaires, quindi delle Gouines Rouges, il primo raggruppamento di lesbiche (all’epoca si diceva ancora «omosessuali» e la terminologia ha grande importanza) all’interno del movimento. In seguito partecipa per due anni, dagli Stati Uniti dove risiede, alla redazione di Questions féministes, dove pubblica una magnifica «utopia», Un jour mon prince viendra (Q.F. n. 2) e due testi teorici importanti, La pensée straight (Q.F. n. 7) e On ne naît pas femme (Q.F. n. 8) [3]. Quest’ultimo articolo, benché non sia stato all’origine della scissione del collettivo di Q.F. e benché non abbia nemmeno ispirato direttamente il movimento delle «lesbiche radicali» che fu la causa immediata della rottura, tuttavia conteneva già i germi della posizione separatista, il che spiega la posizione che, all’epoca, Wittig prese nel corso della disputa.

Ma per quanto si possano discutere le conclusioni politiche che le separatiste traggono dall’analisi femminista radicale, per quanto si possano giudicare false, o quanto meno goffe, asserzioni come «una lesbica non è una donna» che furono rimproverate a Wittig, si deve pure ammettere che la critica dei presupposti eterosessuali sottesi a molte analisi femministe — e, a maggior ragione, non femministe — costituisce un apporto essenziale alla teorizzazione femminista, e si deve ammirare il percorso personale, intellettuale e politico di Wittig. Molte scrittrici hanno fatto sapere (o hanno lasciato che si sapesse) di essere «omosessuali», ma Wittig è stata la prima — e, ad oggi, l’ultima — ad avere collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro del lavoro di scrittura. Sarebbe troppo lungo argomentarlo, perciò mi accontenterò di affermare quanto segue: la maniera in cui Wittig integra, o piuttosto inventa, il lesbismo è unica negli annali della letteratura francese.

Il pubblico — il vero pubblico degli scrittori, cioè il piccolo mondo dei critici — non si è ingannato: ha fiutato la sovversione e ha smesso di parlare delle opere di Wittig non appena queste hanno iniziato a intitolarsi Les corps lesbien e Brouillon pour une dictionnaire des amantes [4]. Da pupilla — giovane autrice geniale dell’Opoponax (1964), Premio Médicis [5] — della classe letteraria francese Wittig è diventata, in pochi anni, una paria in quel mondo che fa e disfa le carriere letterarie. La messa al bando da parte dell’establishment sanziona, ma misura anche con grande esattezza, l’importanza del ruolo svolto da Wittig nella creazione del movimento femminista e nella considerazione della dimensione lesbica. Ancora una volta, il modo in cui ella introduce questa dimensione può essere soggetto a cauzione e a discussione, ma il fatto che i progressi della teoria femminista passino attraverso la decostruzione degli schemi di analisi eterosessuali che informano implicitamente la nostra visione del mondo è indubitabile. Il fallimento del movimento (considerato globalmente) nel realizzare questa decostruzione, d’altra parte, non ha soltanto conseguenze teoriche; in effetti, come non collegare l’insufficienza della posizione femminista «standard», che integra le lesbiche su una base liberale, come casi sociali, e la situazione con cui facciamo i conti oggi, ovvero l’alienazione delle nuove generazioni di lesbiche dal movimento femminista?

Ma forse l’apporto più duraturo di Wittig, nel senso che è quello che rimarrà nella storia perché richiede un talento anche peggio distribuito del coraggio politico, consiste nell’avere, se non inventato il genere letterario, scritto le forme più perfette di utopia femminista. Nel numero 9/10 di N.Q.F. dicevo che «le utopie femministe, quando sono riuscite, sono oggetti al tempo stesso molto belli e molto utili», facendo l’esempio del Brouillon. Il ruolo dell’utopia nella scrittura rivoluzionaria certamente è già stato studiato. Utopia e teoria sono le due facce di una stessa ricerca: potremmo dire che la teoria è la faccia, o la fase, negativa dell’analisi di ciò che è, e l’utopia è la faccia, o la fase, positiva. Quando si tengono in considerazione le funzioni complementari dell’utopia e della teoria, l’opposizione fra ragionamento e immaginazione viene meno. Perché per contestare ciò che è, bisogna avere un’idea di ciò che potrebbe essere: occorre dell’immaginazione anche per elaborare la teoria a prima vista più «arida»; e, viceversa, è possibile immaginare un altro mondo soltanto a partire da un’analisi delle carenze del nostro. E, tuttavia, l’utopia è un bene più raro della teoria. Forse perché la teoria consiste soprattutto nella critica, e perché «la critica è facile», mentre l’utopia richiede arte, e «l’arte è difficile»? Ad ogni buon conto, l’utopia è altrettanto necessaria della teoria; quest’ultima dice: «le cose non sono necessariamente così» («It ain’t necessarily so» — Porgy and Bess), ma l’utopia lo mostra. La teoria parla astrattamente di altre possibilità, l’utopia dà a vedere la realizzazione di una di queste possibilità, ed è la cosa che ci convince meglio, o più rapidamente, della contingenza del nostro mondo. Se Les guerillères restano una pietra miliare nella storia del femminismo e della letteratura è perché Wittig ha fatto precisamente questo: vi descrive nel dettaglio gli odori, i colori, i rumori, i fiori di un mondo, i vestiti, i movimenti, i sentimenti di esseri che non esistono e non sono mai esistiti, come se li avesse visti, e questa è la definizione esatta dell’utopia. Non è stupefacente che quest’opera abbia riempito di ammirazione, ma soprattutto d’ispirazione, tante donne, fra cui Lena Vandrey, che nello stesso periodo aveva cominciato a dipingere la serie di giganti selvagge intitolata Cycle des amantes imputrescibles, una parte della quale è riprodotta in questo numero di Vlasta. Vandrey ha realizzato anche le scenografie e i costumi della pièce Le voyage sans fin e questa, a propria volta, ha ispirato una nuova serie di quadri, la Féerie pour Quichotte, anch’essa riprodotta in Vlasta. È una cosa buona e bella che Wittig e Vandrey, che si sono ispirate e stimolate reciprocamente per quindici anni, fornendo ciascuna a proprio modo un contributo importante alla creazione di un universo poetico totalmente nuovo, epico e femminista, siano riunite in questo numero. Forse la visione di queste incorruttibili darà origine, a propria volta, a una nuova razza di donne, anche loro «immarcescibili»?

In Virgile, non (Minuit, 1985) [6] due personaggi, Wittig e la sua guida Manastabal percorrono l’inferno e provano a farne uscire alcune «anime dannate». Raggiungono il paradiso, là dove gli angeli cantano «bella cena della sera», soltanto nell’ultimo capitolo e dopo molte scene di orrore. «Donne» e «uomini» sono le due parole assenti dal testo, per lo meno nel loro senso sessuato. Ma la parabola è chiara: le anime dannate, che sono «esse», vengono perseguitate, tenute al guinzaglio, confinate, stuprate, mutilate da individui dai pronomi («egli», «essi») maschili. I diversi luoghi dell’inferno, o meglio le diverse scene di tortura, sono soprattutto allegorie — talvolta a malapena allegoriche, tanti sono gli elementi reali, descrittivi, che vi sono mescolati — dell’oppressione delle donne da parte degli uomini. Si tratta dell’oppressione delle donne nella, e per mezzo della, eterosessualità. Alla quarta pagina un’anima dannata prende la parola (tra parentesi) e ne approfitta per insultare Wittig, trattandola da «lesbica repellente» e anche «puzzolente»; alla quarta pagina inizia il dialogo tra «quella che dice di non esserlo» e «quella che lo è», ma preferisce «farsi fottere, scopare, sbattere, trombare da un nemico che ha quel che serve, piuttosto che da te che non ce l’hai». Si tratta per altro di uno dei modi — l’innocente Wittig lo apprenderà nel corso di questo viaggio iniziatico — con cui «gli individui», alias «i padroni» o «i cacciatori» impediscono alle anime dannate di fuggire: instillando in loro la paura delle lesbiche dal corpo ricoperto di scaglie che le attendono alle porte dell’inferno per fare subire loro sevizie ancora peggiori di quelle inflitte dai «padroni».

Se ci si arresta a questa lettura, si può dire che Virgile, non apporta un messaggio semplicistico e, oltretutto, poco originale. Ma c’è molto di più — e non parlo qui della rinomata bellezza, propriamente letteraria, dello stile di Wittig. In effetti, non è un caso se è proprio una figura di stile a farci visitare l’inferno al seguito non di uno, ma di due personaggi; perché, per tutto il libro, questi personaggi parlano, commentano le scene che vivono, e si parlano. Ed è in questo dialogo che risiede l’energia drammatica del libro, il suo vero movimento, che non è contenuto né nella descrizione statica dei cerchi dell’inferno, né nel messaggio relativo all’eterosessualità che, come abbiamo visto, viene fornito subito.

Fin dall’inizio Manastabal corregge gli errori più grossolani di Wittig che, nella sua foga, metterebbe in pericolo la vita di entrambe senza che questo comporti un beneficio per le anime già spacciate. Manastabal non le insegna soltanto a proteggersi, a venire a patti con l’inferno, a nascondere il fucile, ma anche a preferire l’efficacia allo stile: per esempio, a «riscattare le anime sottobanco». Ma soprattutto, ella appare nel corso delle pagine come la guida classica dei romanzi di iniziazione: il direttore di coscienza che dissimula la propria autorità morale con una tecnica maieutica e che, d’altronde, la nasconde male, perché a p. 38 rimprovera a Wittig la sua «mancanza di etica verso le anime in pena» e le ricorda bruscamente che non ha «alcun diritto di schiacciare le anime con il suo giudizio…». «Tu puoi rallegrarti», le dice Manastabal, «dieci volte, e non una, di avere disertato e di essere una schiava fuggitiva. Tuttavia finché si ha un simile privilegio, è una misera esibizione servirsene per vessare ancora di più le sfortunate creature che ne sono prive».

Come sono lontane, queste frasi di Manastabal, dal discorso separatista che abbiamo conosciuto, e addirittura contrarie ad esso! Potremmo dire che, in Virgile, non, il discorso separatista è rappresentato dal personaggio di Wittig, mentre il personaggio di Manastabal rappresenta la modifica, la revisione di quel discorso. Si potrebbe anche dire che il personaggio di Wittig incarna l’impostazione lesbica radicale (o separatista), mentre quello di Manastabal incarna l’impostazione femminista. Si potrebbe dire, ancora, che entrambe simboleggiano l’ambivalenza di ogni lesbica nei riguardi dell’eterosessualità. Forse si potrebbe addirittura sostenere che ciò che viene messo in scena dalla loro dualità e dal loro dialogo è la lacerazione di ogni coscienza femminista di fronte all’oppressione delle donne. In effetti, non sono soltanto le lesbiche a oscillare senza posa, davanti allo spettacolo delle atrocità subite, tra solidarietà con le vittime e disprezzo per la loro passività reale o immaginata: ogni donna che ha rifiutato una certa — precisa — oppressione è, di fronte a quella che continua a sostenerla, torturata da questa domanda: «davvero non ha altra scelta?», è divisa tra condanna e compassione. E se oscilla tra questi due atteggiamenti è perché esita tra due possibili risposte alla domanda «perché non si ribella?», che bilancia tra l’ipotesi della complicità delle vittime e l’ipotesi della loro non-libertà assoluta.

Il dialogo tra Wittig e Manastabal traduce esattamente questo doppio movimento della coscienza. Laddove Wittig si indigna per la passività delle anime, Manastabal mostra le catene materiali. Ma Manastabal si spinge ancora più in là. Ella non si limita all’unico criterio etico «Non giudichiamo dalla nostra posizione privilegiata», che in fin dei conti implica un’esteriorità. Quando Wittig dice (p. 86): «Tendo sempre a pensare… che solo un certo grado di istupidimento può spiegare perché si resta all’inferno», Manastabal le ritorce contro: «Sono convinta… che le più grandi intelligenze umane si trovano tra le anime dannate… quando esse sono consapevoli di ciò che sta accadendo, vengono sfidate a esercitare questa intelligenza attraverso tutte le leggi che governano il loro mondo». Anche qui, che movimento! In effetti si passa da un atteggiamento eticamente corretto, ma glaciale, di tolleranza, a una comprensione. Allo stesso modo Manastabal non considera le azioni delle anime dannate come puramente determinate dalle necessità della sopravvivenza in un mondo ostile: è lei a spiegare a Wittig che questo spettacolo è orrendo, perché le anime dannate arrivano a suicidarsi reciprocamente piuttosto che lasciarsi uccidere, a mostrare in questo gesto, a una Wittig che vi scorge soltanto morte, la rivolta dello spirito. Alla fine non solo lo spirito, ma lo spirito di rivolta, l’ambivalenza della coscienza femminista che le osserva, vengono attribuite alle anime stesse. Ciò che viene mostrato dalla descrizione di alcune anime che sono «bicefale…con le teste che ballonzolano ora in avanti, ora all’indietro, e i corpi che seguono una direzione ora dorsale, ora frontale… secondo i bisogni, le loro braccia e gambe possono piegarsi sia in avanti, sia all’indietro, poiché i gomiti e le rotule sono reversibili…le teste sono come quelle di Giano, due in una, l’una girata verso il passato, l’altra verso il futuro» (p. 83), è che le anime sono tormentate tanto quanto le loro salvatrici dal doppio volto: che appartengono alla stessa specie.

Siamo lontane dalla condanna separatista, e anche dalla condiscendenza della posizione «etica»; le anime dannate dell’inferno sono identiche agli angeli del paradiso. È un lungo cammino quello che è stato percorso, dall’incomprensione iniziale di Wittig per quelle che vuole salvare, alla confessione di Manastabal: «Non lo nego, è quasi passione quella che provo per l’intelligenza alle prese con se stessa e che non molla». La necessità di percorrere questo cammino, l’affermazione che si tratta di una via crucis, o di un viaggio negli Inferi, sono — ai miei occhi — il vero messaggio di Virgile, non, il suo vero dramma, cioè il suo vero movimento. Di questo movimento si potrebbe dire che è precisamente il movimento oscillatorio e incerto di ogni donna verso tutte le altre. Ma reintegrando in questo modo Wittig in una sorellanza universale, nel migliore dei casi illusoria, nel peggiore sgradevolmente tiepida, non rischiamo di fare dell’ecumenismo a buon mercato? E per di più alle spalle di quel dramma (questa volta nel senso di tragedia) particolare costituito dal dialogo tra sorde che è il dialogo tra lesbiche ed eterosessuali? Si danno in definitiva  — ed è un altro modo di porre la domanda — un cambiamento di posizione in Wittig, come pure un’esplicitazione dell’appello che risuona nelle prime pagine, e formulato più avanti nel libro, in un modo che è stato incompreso o anche platealmente frainteso? Alcune l’hanno messa in croce per avere scritto: «Ci prendono le donne», credendo che lei si ponesse come loro proprietaria putativa, mentre probabilmente, e senza dubbio, Wittig esprimeva la denuncia della lesbica di essere invisibile per le altre donne; se si può «gustare una certa dolcezza nella loro stizza, nel loro risentimento», non è perché il dolore dovuto al fatto che «non una di voi mi guarda» è tanto forte da preferire l’odio all’indifferenza? E la passione di Manastabal — la guida per le anime dannate non era forse già l’amore deluso di Wittig — la — femminista per tutte le donne? Comprese quelle che le «tagliano la strada» (p. 15), che preferiscono a colei che le ama i «cacciatori» e che, ed è la cosa più crudele, non sarà nemmeno confutata — l’accusano di volere, anche lei, «fotterle, scoparle, sbatterle», in breve la confondono con il nemico.           

NOTE

* C. D., «La passion selon Wittig», «Nouvelles Questions Féministes», 11-12, 1985, pp. 151-156.

[1] Le guerrigliere, trad. it. di Ana Cuenca, “Lesbacce incolte”, Bologna 1996 (seconda edizione 2019).

[2] Per un movimento di liberazione delle donne, trad. it. di Deborah Ardilli, in Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), a cura di D. Ardilli, VandA-Morellini, Milano 2018, pp. 231-251.

[3] Il pensiero eterosessuale e Non si nasce donna, trad. it. di Federico Zappino, in Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale, a cura di F. Zappino, ombre corte, Verona 2019, pp. 42-53 e pp. 29-41.

[4] Il corpo lesbico, trad. it. di Christine Bazzin e Elisabetta Rasy, Edizioni delle Donne, Roma 1976; (con Sande Zeig) Appunti per un dizionario delle amanti, trad. it e cura di Onna Pas, Meltemi, Milano 2020.

[5] L’Opoponax, trad. it. di Clara Lusignoli, Einaudi, Torino 1966.   

[6] Virgile, non, trad. it. di Rosanna Fiocchetto, Il Dito e la Luna, Milano 2005.

Solidarietà a Marcella Campagnano. Marketing “femminista” e soppressione della voce.

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Quello che ho da dire lo dico da sola
Chi ha detto che hai giovato alla mia causa?
Io ho giovato alla tua carriera

Chi ha detto che il potere non lo conosci?
“Occuparsi di” è arroganza intellettuale
Più ti occupi della donna e più mi sei estranea

io dico io, Secondo Manifesto di Rivolta Femminile, 1977

Manastabal dialoga con Marcella Campagnano, autrice del ciclo fotografico L’invenzione del Femminile: Ruoli (1974). Nel gennaio 2018 abbiamo conosciuto Marcella alla Libreria delle Donne di Milano durante la presentazione di Trilogia SCUM di Valerie Solanas. Per l’occasione Marcella ci mostrò una cartolina autografa di Solanas da lei ricevuta nel 1977.

A partire da agosto 2020 il nome di Marcella viene associato – a sua insaputa – alla campagna pubblicitaria internazionale della nuova collezione Dior su diverse testate e riviste di moda, italiane e straniere. Il nostro dialogo con lei era iniziato prima di questa impropria associazione, in vista di un articolo che si sarebbe dovuto intitolare L’invenzione del femminile: Marcella Campagnano e la fotografia femminista. Alla luce di quanto accaduto, tuttavia, ci preme lasciare la parola alla fotografa sull’esproprio che ha subito. La questione, d’altronde, non riguarda soltanto Marcella: come ha ricostruito Elvira Vannini nel suo articolo L’arte femminista non è un brand Dior (2 marzo 2020), già da qualche tempo l’industria della moda parassita il femminismo, appropriandosi di citazioni fuori contesto e di figure storiche della seconda ondata (Carla Lonzi, Robin Morgan) per ricavarne profitto. La collezione prêt-à-porter autunno-inverno di Dior, disegnata dalla Direttrice Creativa Maria Grazia Chiuri, è presentata sul sito della maison (dotata anche di un “Ufficio di Gender Studies“) come “espressione di una visione spiccatamente femminista”: le fotografie delle modelle, realizzate da Paola Mattioli, ricalcano in sedicesimo la famosa serie di immagini, intitolata Ruoli, che Marcella creò nel salotto di casa insieme alle donne del suo gruppo di autocoscienza, in un momento storico di effervescenza politica collettiva. Diverse riviste di moda pubblicizzano l’operazione di Dior come un “omaggio” alla “feminist icon” Marcella Campagnano.

Scrive Marcella:

“So di aver progettato e strutturato (1974) un’immagine ironica e critica, riferita alla complice subalternità, consapevole o meno, che la figura femminile offre, da migliaia d’anni in tutte le culture, alla degustazione maschile. Questo fenomeno oggi si chiama moda. Marcella Campagnano non ha, comunque, nulla a che fare con la campagna pubblicitaria della Dior che si nutre di isolate figure femminili in campo neutro.”

MANASTABAL: Il ciclo fotografico L’invenzione del Femminile: Ruoli, comincia nel 1974. In un’intervista rilasciata a Marco Scotini su Flash Art hai parlato di quel lavoro come di un «teatro dell’esperienza», un modo per registrare «la mobilitazione spontanea, partecipata ed entusiastica di decine di amiche che, in quei giorni, si prestavano allegramente a un gioco di svelamento del proprio essere al mondo, di cui ognuna di noi coglieva la sotterranea induzione da parte di modelli maschili, che da secoli suggeriscono e guidano la nostra possibile o improbabile identità femminile». In qualche modo suggerisci che, al di là dell’apparente variabilità delle identità femminili, resta invariata la “regia” patriarcale che presiede al loro rinnovamento, e addirittura lo sollecita; e parli di una disponibilità diffusa da parte delle tue amiche, evidentemente debitrice della pratica dell’autocoscienza, a fare i conti con la pressione sotterranea esercitata da questa “regia” patriarcale. Come è nata l’idea di Ruoli?

MARCELLA: Fin dai primi anni Sessanta, durante i miei studi all’Accademia, iniziava in tutte/i noi quel processo di revisione critica che toccava ambiti del vivere e del sapere che, fino ad allora, si erano mantenuti come modelli e luoghi di comunicazione sociale. La nuova richiesta, rivolta anche alla Pittura, ha legittimato, poi, quel percorso che porterà a critiche radicali come quella che condurrà alla nuova coscienza femminista. La Pittura nella sua grandezza, era, pur tuttavia, uno dei celebrati strumenti dell’agire maschile.

Picasso e Duchamp erano gli estremi di una vicenda che poneva le figure di donne artiste in posizione subalterna e ripetitiva. La consapevolezza di tale stato mi spinse a cercare strumenti altri, meno contaminati e coinvolti in questo confronto che improntava tutti i saperi del XX secolo. La Fotografia emancipava da quella eterna ricerca del segno soggettivo per cui, dal Rinascimento in poi, si davano battaglia i grandi autori della Storia dell’Arte. Passando dalla pittura alla fotografia sentivo di accumulare dati della realtà sociale (femminile) che “avrebbero reso superflui tutti i commenti, o anche i giudizi” (S. Sontag).

Donne. Immagini, testo di Lidia Campagnano, Collana “Donne contro”, Milano, Moizzi Editore 1976

MANASTABAL: Prima di Ruoli, negli anni Sessanta, hai realizzato la serie “Donne per la strada” (confluita in Donne. Immagini, 1976), donne “qualsiasi”, di ogni età, fotografate per le vie di Milano. Queste donne sembrano colte durante le attività quotidiane, forse la spesa, o delle commissioni: come hai detto altrove, “una vita milanese che non fa notizia”. Uno sguardo femminista, oggi come allora, può cogliere quanto di politico vi sia in quel soggetto (la vita quotidiana delle donne in una società patriarcale), e anche nel modo in cui è rappresentato attraverso la tua fotografia: le protagoniste rivolgono lo sguardo all’obiettivo e in quello sguardo si percepisce una relazione con la fotografa. Non si tratta di scatti “rubati” come spesso accade nella tradizione della fotografia (maschile) nello spazio pubblico, quella che va “a caccia” di volti o situazioni da catturare di nascosto, con il distacco di chi dirige la lente su un oggetto. Come sei arrivata a uscire dalle mura dell’Accademia e a interessarti al quotidiano delle donne?

MARCELLA: L’Accademia cominciava ad allontanarsi e non rispondeva più agli interessi di Marcella che, definitivamente si stacca dai percorsi indotti. È la città, questo grande contenitore di luoghi, figure e relazioni umane, che si propone ormai come affascinante enigma da affrontare e sciogliere decostruendo l’impianto che, da tempo indicibile, si era accumulato. Senza cercare particolari atteggiamenti e significati, ha cominciato a registrare con la massima obiettività, (quasi impersonalità) queste figure del vivere quotidiano che non avevano mai avuto rilievo e risposta. Erano le “invisibili” relegate a quella coazione a ripetere del quotidiano che, attraverso consapevolezza e analisi femministe, troveranno un riconoscimento irreversibile.

Nella pratica: noi stesse.

È il momento in cui, di fatto e concretamente, Marcella incontra delle illuminazioni che potrebbero anche separarsi da quello che si era ritenuto artistico. La posta in gioco era ormai ben più importante.

MANASTABAL: «In una società femminile l’unica Arte, l’unica Cultura sarà l’esistenza di femmine insolenti, stravaganti, scatenate, capaci di ricavare piacere l’una dall’altra e da qualsiasi altra cosa nell’universo»: sono le parole con cui Valerie Solanas conclude il paragrafo “Grande Arte” e “cultura” di Manifesto SCUM (1967). Ti riconosci in una posizione come questa, che sfocia in sostanza nel rifiuto dell’arte in quanto sistema di alienazione delle donne?

MARCELLA: Mi piacciono davvero queste parole di Valerie Solanas, e contemporaneamente a lei, che allora non conoscevo, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, all’uscita dall’Accademia, ho sostenuto, soprattutto con le mie amiche aspiranti artiste, che l’Arte come lo stesso linguaggio comune, sono il prodotto degli interessi vitali e di scambio del mondo maschile. L’Arte si trascina esausta fino ai giorni nostri (industrializzazione, tecnologia, Duchamp). L’oggetto d’arte, da valore intrinseco diventa valore d’esposizione; è per questo che io azzardo che noi donne dovremmo espandere, lievitare, in modo IMPREVEDIBILE, non ancora formulato. Non una nuova forma d’arte, un nuovo “ismo”.
Altro, altro, come sentiamo di essere.

MANASTABAL: Di recente, in un messaggio alle amiche, hai manifestato insofferenza verso quei galleristi che vorrebbero convertire il tuo lavoro in valore di mercato, attraverso la procedura dell’esposizione. «Il mio lavoro non è nato per i muri delle gallerie, ma per un’apertura e un dialogo collettivo», hai detto. In fondo, la maison Dior, che si è appropriata anche di Carla Lonzi le cui parole figurano su un modello di t-shirt (€ 620 l’una), non si è comportata con te diversamente dai galleristi a cui ti riferivi… Sembra che il mito dell’inclusione prenda il posto della liberazione.

Nel caso di Dior, colpisce il fatto che non solo ti abbiano lasciata all’oscuro dell’operazione – presentata come un “omaggio” a un’“icona femminista” – ma si siano completamente disinteressati al tuo parere in merito…

MARCELLA: A proposito dell’intervista di Maria Grazia Chiuri su Vanity Fair, l’intelligenza tattica e iperprofessionale della direttrice creativa delle linee femminili della maison Dior non scalfisce davvero la ragion d’essere di questa straordinaria MULTINAZIONALE con estesa rete di licenze e royalties. Naturalmente tutta la fatica e il lavoro manuale di tante confezionatrici che costruiscono lo splendore e le preziosità che poi ammiriamo nelle sfilate di Parigi, Milano, New York, resta solitamente occultato.

Il nome di CARLA LONZI e la maison Dior vengono ancora una volta assimilati in un’operazione scontatamente e volgarmente promozionale e pubblicitaria. La cosa si trascina da tempo e pretende di dare la mediocre misura di quello che tutte noi abbiamo sempre ritenuto, invece, un ineffabile volo.

Io non ho più parole. Resto sommessamente in ascolto delle vostre.

MANASTABAL: Dicevi che il tuo lavoro è nato per un’apertura e per un dialogo collettivo. In quali forme ti piacerebbe venisse portato avanti questo dialogo?

MARCELLA: Quello che, stentatamente, ho cercato di dirvi, per me, si raccoglie nell’ormai dilagante espressione (una sintesi di cui vi sono davvero riconoscente): “l’inclusione prende il posto della liberazione”. Non lasciamo, però, che la parola confonda le nostre umane intenzioni. A ottant’anni sono ormai subissata da immagini, ipotesi, finte verità che, potendo, io stessa avrei potuto cavalcare, ma cinquant’anni fa mi sono obbligata a restituire quello che ritenevo un estremo barlume di verità.

Quello che vorrei venisse portato avanti è TUTTO DA INVENTARE nello SCAMBIO COLLETTIVO.

Marcella parla del suo lavoro L’invenzione del femminile: Ruoli (intervista ripresa nel maggio 2019)


Sesso e razza: formazioni immaginarie materialmente efficaci

Dialogo su Colette Guillaumin con Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz

 

COLETTE GUILLAUMIN, 14 giugno 1997, Giornate di studio ANEF, Reid Hall Center, Parigi.

Colette Guillaumin (1934-2017) è stata una sociologa femminista e antirazzista francese. Ricercatrice presso il CNRS a partire dal 1962, nel 1969 discute una tesi in sociologia intitolata Un aspect de l’alterité sociale. L’idéologie raciste. A partire da questo lavoro si svilupperà, tre anni più tardi, la monografia L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel, un contributo pionieristico al dibattito delle scienze sociali sul razzismo. Fra il 1969 e il 1972, Guillaumin partecipa al Laboratorio di sociologia del dominio insieme a Nicole-Claude Mathieu, Colette Capitan e Jaques Jenny. Dal 1977 al 1980 fa parte del collettivo di Questions féministes, la rivista del femminismo materialista francofono fondata da Christine Delphy, Colette Capitan Peter, Emmanuelle de Lesseps, Monique Plaza e Nicole-Claude Mathieu, a cui si unirà anche Monique Wittig a partire dal 1978. Sulle colonne di Questions féministes Guillaumin pubblica in due parti l’importante articolo Pratique du pouvoir et idée de nature, successivamente ripreso all’interno del volume Sexe, race e pratique du pouvoir. L’idée de nature, che include scritti composti fra il 1977 e il 1992. Nel 1981 è fra le fondatrici, insieme a Léon Poliakov, della rivista Le genre humain.

In occasione dell’edizione italiana di Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de nature, pubblicata da ombre corte nel 2020 con il titolo Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, abbiamo posto qualche domanda a Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz, traduttrici e curatrici del volume.

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MANASTABAL: Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura (ombre corte, 2020) arriva sette anni dopo Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia (Alegre, 2013), l’antologia dedicata al femminismo materialista francofono curata da Sara e Vincenza, a cui anche Valeria ha contribuito con la sezione dedicata a Nicole-Claude Mathieu. La versione italiana di questa raccolta di saggi a firma di Colette Guillaumin si inserisce, quindi, in un cantiere di traduzione e di riflessione avviato già da tempo. Nel periodo trascorso da allora, a vostro giudizio, si sono create condizioni più favorevoli per la ricezione del femminismo materialista in Italia?  

SARA: Stando alla mia esperienza di militante (e) ricercatrice con mezzo piede in Italia, mezzo in Francia, mezzo dentro l’Università e mezzo fuori, non posso che rispondere positivamente e rallegrarmene. Sì, il femminismo materialista suscita oggi più interesse nel nostro paese: è più letto, più studiato, più tradotto e, soprattutto, più usato come strumento di analisi per comprendere il funzionamento della dominazione sociale. Il lavoro di analisi e di traduzione pubblicato sul vostro Manastabal è per me una delle più convincenti forme di esistenza di questo rinnovato e approfondito interesse. Penso anche alle numerose recenti iniziative editoriali (quattro traduzioni di tre opere di Wittig, la traduzione di Deborah Ardilli dell’ultimo libro di Delphy), ai progetti in cantiere (la traduzione de L’ideologia razzista di Guillaumin, un libro di Eva Feole su Wittig e il linguaggio come arma). Penso, inoltre, a una serie di atelier organizzati da collettivi militanti in diverse occasioni (il Campo femminista e lesbico di Agape, le giornate Lesbicx), penso al rigoroso lavoro di ricerca condotto da studiose come Silvia Nugara e ai dialoghi intessuti con più giovani ricercatrici e militanti femministe antirazziste come Marie Moise. Credo che tale risultato sia l’esito del lavoro paziente e testardo di ognun* di noi, delle occasioni di scambio e confronto che personalmente e collettivamente abbiamo costruito e costruiamo. Nonostante questa nota positiva, non posso però non constatare (e deplorare) la quasi totale assenza tra le categorie analitiche impiegate in Italia nel campo delle scienze sociali, o in quello militante, del concetto di «gruppi minoritari» forgiato dalle femministe materialiste per pensare i gruppi inferiorizzati e naturalizzati secondo diversi assi di gerarchizzazione (il sesso, la razza, la classe, l’età, la validità fisica o psichica). Lo stesso vale per il contestuale permanere, nelle analisi che si vogliono femministe o queer, di categorie naturalistiche come quella di «differenza sessuale», per non parlare del successo che continua a mietere quella grande fabbrica di pensiero eteronormativo che è la psicoanalisi. Detto altrimenti, nonostante questo miglioramento nella ricezione del pensiero femminista materialista, le resistenze intellettuali, politiche, ma anche «affettive» alla diffusione di un paradigma teorico che pensa gli uomini e le donne come classi – ovvero come gruppi costruiti naturalizzati e antagonisti – restano fortissime proprio per gli interessi e i privilegi che una tale analisi va a rendere visibili e a toccare.

VALERIA: Nell’ambito femminista, le esperienze, le pratiche e le riflessioni sono costantemente in movimento, in trasformazione, anche se non sempre è facile registrarle, spesso ne perdiamo anche memoria collettiva essendo in molti casi un lavoro che non lascia traccia in documenti scritti. Sì, mi pare che negli ultimi anni ci siano stati dei cambiamenti, delle aperture che possiamo ricondurre a diversi fattori di lunga durata. La maggior circolazione negli anni Duemila del pensiero queer, una vera e propria galassia, ha dato spazio tra le più giovani a un’autrice come Wittig, anche se non inserita nel contesto del femminismo materialista francofono (Tabet, Mathieu, Guillaumin, Delphy, Wittig), quindi forse in modi in cui non ci si focalizzava sul dialogo tra queste autrici. Alcune giovani sono andate in Francia per studio o per altri motivi e lì hanno scoperto le FMF (femministe materialiste francofone). Una volta tornate in Italia hanno riportato dentro le lotte femministe, in particolare penso a Non una di meno, la radicalità di questo pensiero e visione del mondo. Alcune discussioni sull’uso della nozione di razza credo vadano viste anche in questa direzione, approcci politici diversi su come usare questa parola in una lotta femminista antirazzista. Partendo proprio dal lavoro Guillaumin, penso che la parola razza oggi possa essere impiegata per nominare il rapporto sociale che l’ha prodotta, il razzismo. Rimane il fatto che ancora in poche conoscono il FMF, per la mancanza di traduzione, ma forse anche perché leggere i testi di queste autrici è una sfida per tutte noi ad assumere una prospettiva antiessenzialista con cui osservare tutti gli ambiti della nostra vita. Significa vedere con nuovi occhi le relazioni affettive, professionali, di militanza, assumere una radicalità costante e rinnovata nel tempo. Capita che le studentesse che leggono nei miei corsi Tabet, o le donne che incontro quando presento il pensiero femminista materialista, mi dicano che è una lettura che ha un forte impatto su di loro.

Ci sono discussioni molto dense, in cui sarebbe bello inserire anche il FMF. Penso per esempio al recente dibattito che si è sviluppato sul lavoro di cura nel contesto dell’attuale crisi sanitaria da Covid-19, e le sue importanti connessioni con le questioni poste dall’analisi femminista dell’antropocene. Mi pare che questa importante riflessione potrebbe essere ancora più contundente e politicamente efficace se riuscissimo a integrarvi le analisi delle femministe materialiste sul lavoro domestico. Infine, in ambito accademico mi pare che le cose fatichino di più a muoversi. In questo contesto occuparsi di, o produrre, analisi femministe non è facile: è decisamente più accettato usare o identificare la propria produzione con il termine genere, mentre ricordo che le FMF preferiscono impiegare la nozione di sesso inteso come costrutto sociale, con l’obiettivo di denaturalizzare completamente i rapporti sociali tra uomini e donne. Inoltre il nostro sistema è molto rigido per quanto riguarda i confini disciplinari, e il sapere femminista è invece interdisciplinare. In questo contesto speriamo che questa traduzione apra nuovi spazi di formazione e riflessione.

VINCENZA: È una questione un po’ complicata. Da un certo punto di vista mi sembra di sì, il clima è in parte cambiato. Da una parte, grazie all’intensificarsi degli scambi e alla mobilità per motivi di studio e ricerca di molte verso la Francia, seguendo anche stimoli dati da quanto man mano alcune di noi facevano circolare qui in Italia, e che hanno facilitato la «scoperta» dell’esistenza di un femminismo altro rispetto a quello che per decenni passava qui in Italia come «femminismo francese» (Irigaray eccetera). Dall’altra, c’è stata anche una moltiplicazione delle pubblicazioni, e queste hanno favorito una maggiore circolazione e discussione nel nostro paese degli assunti teorici del femminismo materialista francofono. Penso in particolare, ad esempio, a Le dita tagliate di Paola Tabet (Ediesse, collana sessimo&razzismo, 2014), in cui l’autrice riprende temi e analisi della sua ricerca antropologica sul dominio esercitato dalla classe degli uomini su quella delle donne portata avanti sin dagli anni Settanta (alcuni degli scritti più significativi di questo percorso sono pubblicati in La construction sociale de l’inégalité des sexes. Des outils et des corps, Paris, L’Harmattan, 1998), ma restata a lungo pressoché sconosciuta in Italia. O ancora le recenti traduzioni degli scritti teorico-politici di Monique Wittig (Il pensiero straight e altri saggi, volume nato, come ricorda Silvia Nugara nella recensione pubblicata da «il manifesto», da un lungo percorso di discussioni condivise di varie soggettività poi riunitesi nel collettivo La Lacuna, e il contemporaneo volume Il pensiero eterosessuale curato da Federico Zappino). O, last but not least, la traduzione di Deborah Ardilli per ombre corte del volume Per una teoria generale dello sfruttamento. Forme contemporanee di estorsione del lavoro di Christine Delphy, come anche il lavoro di traduzione/riflessione/diffusione che portate avanti con questo stesso vostro sito. E gli effetti si avvertono sia in ambito «militante» che, seppure in misura minore (come conseguenza della situazione dell’università italiana in termini di accesso, possibilità, eccetera), in ambito accademico grazie al lavoro di quante valorizzano all’interno delle loro ricerche, come anche dei loro corsi, il lavoro delle femministe materialiste francofone (per restare «tra noi» si veda tra le altre il lavoro svolto da Valeria all’Università di Modena). Detto questo, è innegabile che la strada da compiere sia ancora molto lunga. Ad esempio, seppure non si possa più parlare di una vera e propria «egemonia» del femminismo detto «della differenza» come negli anni Ottanta e buona parte dei Novanta, credo che permangano ancora i residui, anche nell’ambito degli studi femministi (di «genere» o di «sesso», come direbbero le «nostre»), di un pensiero «naturalista», non ancora compiutamente antiessenzialista.

MANASTABAL: A caratterizzare la riflessione di Guillaumin è l’approccio sociologico all’idea di razza. Potete chiarire di che cosa si tratta e in che senso questa decostruzione della razza si presta a essere estesa a tutti i gruppi istituzionalmente rivestiti del marchio biologico?

VALERIA: Il lavoro di analisi di Guillaumin sulla razza e sull’ideologia che la sottende, L’Idéologie raciste (1972), è la sua prima opera (la sua tesi dottorato), a cui è utile tornare per comprendere il suo metodo di lavoro. In esso Guillaumin fa una storia e una sociologia della formazione dell’idea di razza e delle idee che hanno interagito con la sua nascita (si pensi, per esempio, all’idea moderna di «ereditarietà»). Che cosa è la razza nella sua analisi? L’invenzione di una categoria naturalistica. Guillaumin decostruisce la definizione corrente della nozione di razza (gruppo naturale), dimostrando allo stesso tempo come questa nozione sia reale, materiale, prodotta da determinati rapporti sociali di potere e oppressione (il razzismo). È forse proprio in questo approccio in cui insieme si decostruisce il nucleo sentito come vero dell’idea di razza (la natura), e al contempo si riconosce la materialità dell’oppressione che essa incarna (il razzismo), che ritroviamo un’analisi imprescindibile per la comprensione dell’emersione storica di quei gruppi istituzionalmente rivestiti del marchio biologico, in primis i sessi. Il saggio sul sistema dei marchi è appassionante (Razza e Natura), proprio perché ci permette di capire come viene prima il rapporto sociale e poi un marchio che lo rappresenta isolandolo dalla sua origine sociale. Oggi si pensa: sono neri, per questo sono stati schiavizzati, e oggi discriminati. Ma invece viene prima il rapporto di oppressione e sfruttamento di un gruppo che casualmente era nero, e poi la legittimazione di tale oppressione con un marchio sentito come biologico, il colore della pelle. Il colore della pelle «secerne» la nostra posizione sociale: questa è una visione essenzialista del mondo, in cui si negano i rapporti materiali.

VINCENZA: Negli anni (primissimi anni Sessanta) in cui Guillaumin comincia la sua ricerca sulla «razza» si credeva ancora nella realtà delle «razze», e che solo successivamente queste, naturalmente presenti, subissero un processo di gerarchizzazione (il razzismo), a causa dell’ostilità e dell’aggressività tra gruppi. Le «razze» erano quindi considerate delle categorie concrete, naturali e a-storiche, che precedevano il razzismo costituendone di fatto il fondamento. Guillaumin opera una rottura radicale di questa prospettiva (rottura che innova completamente anche lo stesso approccio della disciplina sociologica, che all’epoca non era quella che consociamo oggi), problematizzando la «razza» come il prodotto e non come il supporto del razzismo. In questo modo Guillaumin fa emergere il carattere socialmente costruito della categoria di razza, un’«invenzione» sociale, storica, economica e politica che trasforma alcune caratteristiche fisiche, come il colore della pelle, in «marchi naturali», atti a sostenere processi di categorizzazione e gerarchizzazione e a giustificare i rapporti di potere e dominio come fondati in «natura». In questo modo ci vengono offerti gli strumenti per la comprensione del rovesciamento da causa ad effetto attraverso cui operano le diverse forme di oppressione, e quindi anche il sessismo. Un approccio talmente radicale – nel suo contemporaneo innovare completamente il quadro teorico, ma anche anticipare temi che diverranno di cruciale importanza negli anni a venire, come il carattere relazionale di razzismo/sessismo, o la necessità di considerare in questo processo il ruolo del gruppo dominante – che spesso mi meraviglio (e non sono la sola) di quanto, ancora oggi, Guillaumin sia così poco studiata e citata, o citata «male», in particolare nell’ambito degli studi su razza/razzismo.

SARA: A partire dagli anni Sessanta Colette Guillaumin ha elaborato una definizione sociologica della razza intesa come una categoria che è il prodotto storicamente determinato del razzismo, a sua volta da lei definito come un sistema coeso di strutture sociali e mentali di inferiorizzazione, sfruttamento e alterizzazione di un gruppo (i bianchi) su un altro (i non-bianchi). Si tratta di una categoria che non ha alcuna validità biologica, ma che, da un lato, produce effetti sociali feroci e mortiferi e, dall’altro, innerva la società tutta intera. Per riprendere i termini di Guillaumin, la razza è una «formazione immaginaria materialmente efficace» che «è dappertutto». Oltre a ridefinire la razza (e il razzismo), Guillaumin ne indaga il modus operandi. Se per il senso comune il colore della pelle è supposto precedere e giustificare l’esistenza di diversi gruppi che occupano posti differenti nella gerarchia sociale – le persone bianche e le persone non-bianche –, per Guillaumin (e lo stesso vale per le altre femministe materialiste) è un marchio che non sarebbe socialmente pertinente in assenza del rapporto sociale di dominazione che lega i due gruppi in presenza. La teoria di Guillaumin rende così possibile esprimere «la verità e la menzogna» della categoria di razza e capire che la verità – l’esistenza di un gruppo – nutre la menzogna – il fatto che si tratti di un gruppo naturale. Le sue definizioni di razza, razzizzazione e razzismo sono state riprese nel corso degli anni da divers* ricercator* o collettivi antirazzisti. Il diffondersi di un tale approccio costruttivista alla categoria di razza e a una forma di antirazzismo che impiega tali nozioni ha scatenato in questi ultimi anni e in numerosi paesi, in primis in Francia, violentissimi attacchi tanto nel campo politico che nel campo accademico e mediatico.

MANASTABAL: L’esigenza di demistificare l’approccio essenzialista alla realtà sociale, come avete sottolineato tutte e tre, è uno dei moventi fondamentali della riflessione di Guillaumin e, più in generale, del femminismo materialista francofono. Per altro verso, dobbiamo constatare che è raro imbattersi in esplicite e orgogliose rivendicazioni o auto-attribuzioni di essenzialismo. Quello che stiamo maneggiando, in altri termini, è un epiteto delegittimante che circola con grande facilità nel dibattito teorico e politico interno ai movimenti femministi, tanto che nemmeno il femminismo e il lesbismo materialista sono stati risparmiati da questa accusa. Potremmo ricordare, per limitarci a un caso famoso, la requisitoria di Judith Butler nei confronti di Monique Wittig in Questioni di genere. Ma vale la pena segnalare pure l’obiezione contro cui regolarmente urta il ricorso a una categoria come quella di «classi di sesso», e cioè che la (innegabile) mancanza di omogeneità interna del gruppo minoritario «donne», al pari della (innegabile) mancanza di omogeneità interna del gruppo dominante «uomini», renderebbe «essenzialista» — e dunque illegittima, arbitrariamente generalizzante, nemica della complessità, «ideologica», se non addirittura subalterna al pensiero patriarcale — la pretesa di concepirli come classi antagoniste. Quali strumenti ci offre Guillaumin per inquadrare, valutare, ed eventualmente confutare, un’obiezione come questa?

SARA: Rispetto alla prima osservazione che formulate, mi sento di dire che, se è vero che la rivendicazione essenzialista è poco diffusa nel campo delle scienze sociali, o in quello dei movimenti minoritari, le eccezioni non mancano. Penso, da un lato, alle analisi di pensatori come Norman Ajari che affermano la necessità dell’uso della nozione di essenzialismo nella definizione delle identità dei gruppi razzizzati e, dall’altro, a tutte le argomentazioni essenzialiste che avanzano (appena appena) mascherate. Mi riferisco a tutte le prospettive teoriche o politiche destoricizzate e psicologizzanti che usano categorie quali «differenza sessuale», «femminile», «maschile», «materno», «paterno», «uomo», «donna», «bianco», «nero» come fossero dati di natura, o che impiegano altre nozioni direttamente prelevate dalla dottrina psicoanalitica, in particolare, nella sua versione lacaniana («il Nome del Padre», «il Fallo», «l’Edipo», «la Castrazione»). Per non palare, poi, dei presupposti funzionalisti, culturalisti, biologizzanti, ergo pseudo-materialisti, di molte delle analisi ancora prodotte nel campo delle scienze sociali che, non interrogando il rapporto di potere sociale e storico alla base della costituzione dei gruppi sociali, comportano, ciascuna, una forma assai poco residuale di pensiero naturalista.

Venendo, ora, allo specifico oggetto della vostra domanda, mi pare che, per comodità, possiamo distinguere due ordini di argomentazioni, non di rado usate congiuntamente dai detrattori e dalle detrattrici dell’approccio femminista materialista. Le femministe materialiste teorizzano il rapporto di appropriazione che a loro giudizio costituisce le classi di sesso e lo considerano come il fattore esplicativo delle disuguaglianze di potere tra uomini e donne. Secondo il primo degli argomenti che criticano questo approccio, dire che le donne sono una classe significa essenzializzarle. Questa obiezione mi pare patentemente auto-contraddittoria. Sappiamo come il concetto di classe sia stato costruito, da Marx in poi e nella differenza delle teorizzazioni, come totalmente antinomico a quello di gruppo naturale: una volta distrutto il rapporto sociale che costituisce i gruppi secondo un dato asse di dominazione – il capitalismo, il sistema patriarcale, il sistema razzista – le corrispondenti classi spariscono. Purtroppo siamo ben lontani da questo esito, ma il fine utopistico di una teoria che si vuole strumento di lotta non la rende per questo meno pertinente o meno necessaria. Stando al secondo tipo di critiche, dire che le donne sono una classe vuol dire negare che il gruppo delle donne è attraversato da altre forme di dominazione (di classe sociale, di razza, di sessualità, e così via). Anche qui, la confusione logica è evidente: perché mai affermare l’esistenza di una classe, anzi, per essere precis*, di due classi, che, repetita iuvant, sono costituite da un rapporto sociale, che sono antagoniste e interdipendenti, implicherebbe la loro omogeneità? La classe capitalistica e la classe lavoratrice non esistono perché eterogenee al loro interno? «Uomo», «donna», e così vale per «bianco», «nero»: si tratta di categorie politiche naturalizzate. La vostra domanda è tanto pertinente quanto utile perché permette di esplicitare una componente dell’approccio femminista materialista di cui si parla ancora meno del poco di cui si discute di questo paradigma. L’analisi femminista materialista non è riducibile ad un approccio analogico tra dominazione di sesso e dominazione di razza. Affermare che i gruppi di sesso e i gruppi di razza sono costituiti, ciascuno, da un rapporto sociale specifico, e che le categorie di razza e di sesso funzionano in modo analogico (reificazione, alterizzazione e naturalizzazione dei gruppi oppressi), non significa che i diversi gruppi non siano eterogenei al loro interno. Al contrario, queste teoriche affermano che occorre prendere in considerazione gli altri rapporti sociali che caratterizzano uomini e donne, bianchi e non bianchi e studiarne «i legami organici» (come dicono Guillaumin e Danielle Juteau), le modalità di «intreccio» (come dice Jules Falquet), di «intersezione» (come dice Sylvia Walby). Ma ciò non significa ridurre l’oppressione delle donne a questi altri rapporti sociali e, ancor meno, evacuare il meccanismo centrale della produzione delle classi di sesso, che rimanda a due gruppi antagonisti i quali, nelle relative differenze, condividono situazioni ed esperienze di potere (per gli uni) o di non-potere (per le altre) comuni.  Guillaumin analizza questa «coesistenza dell’indissociabile omogeneità ed eterogeneità della classe delle donne» – l’espressione è di Danielle Juteau – in numerosi passaggi di Sesso, razza e pratica del potere, ma anche in un articolo meno noto intitolato La confrontation des féministes en particulier au racisme en général. Remarques sur les relations du féminisme à ses sociétés. Guillaumin mostra, da un lato, che il sistema di oppressione delle donne ha modi di estrinsecazione altri che capitalistici e altri che privati e, dall’altro, che esso si dispiega attraverso forme di appropriazione tanto collettiva che privata che producono diverse contraddizioni e posizionamenti all’interno di una stessa classe di sesso. Altra questione ancora è il rapporto tra appartenenza ad una classe di sesso, coscienza di classe e margine di manovra individuale (su cui Delphy ha scritto), o quella delle lesbiche come «transfughe» della classe di sesso-donne (su cui Wittig ha scritto) o, ancora, quella delle «trasgressioni di sesso attraverso il genere» (su cui Mathieu ha scritto)…

VINCENZA: Concordo con quanto sottolineate, ovvero che l’accusa di «essenzialismo» circola oggi con una certa «disinvoltura» nel dibattito teorico/politico, fino a colpire paradossalmente anche approcci caratterizzati da un pensiero radicalmente anti-essenzialista come quello teorizzato dal femminismo materialista francofono (e specifico francofono vista l’emergenza, negli ultimi anni, di altre correnti femministe e queer che si definiscono, o sono definite, «materialiste»). Penso che questo paradosso vada necessariamente collocato in un quadro complesso, in cui l’«accusa» di essenzialismo viene mossa da (e contro) realtà e soggettività molto diverse sia per il tipo di «posizionamento» che per gli strumenti e (gli scopi) teorici e politici messi in campo. Del resto, come notavo in una delle risposte precedenti, è innegabile che ancora oggi persistano, anche all’interno degli studi di genere/femministi e nella teoria e pratica politica di diversi gruppi minoritari, residui di un approccio/pensiero che possiamo definire essenzialisti. Residui che si manifestano però – molto spesso – in forme non solo meno esplicite, ma anche non immediatamente sovrapponibili a quelle ampiamente discusse e tematizzate criticamente in passato. Lo stesso concetto di «essenzialismo», del resto, è stato negli ultimi anni reinterpretato in forme inedite, penso ad esempio all’«essenzialismo strategico» come «errore necessario» proposto da Gayatri Chakravorty Spivak in un saggio del 1990, una mossa contingente attraverso cui alcuni gruppi subalterni hanno potuto utilizzare criticamente determinate contrapposizioni binarie (uomo/donna, omosessuale/eterosessuale, Primo/ Terzo mondo…) per rendere visibili rapporti di potere e dominio. Un quadro quindi complesso in cui si scontrano istanze teoriche e politiche diverse, che hanno effetti diversi e richiedono da parte nostra risposte e spiegazioni molto differenti. Da una parte vanno collocate quelle che, a mio parere, sono le forme più esplicite (e preoccupanti) dell’utilizzo dell’accusa di essenzialismo, ovvero quelle che vengono agite, a vari livelli e in diversi ambiti disciplinari e/o politici, con lo scopo palese di delegittimare le lotte e le teorizzazioni delle/dei subalterni, e quindi invisibilizzare in un solo colpo il carattere sistemico dei rapporti di dominio e i privilegi dei gruppi dominanti. Nelle loro espressioni più rozze queste forme si caratterizzano anche per l’invenzione/utilizzo di alcuni di quegli pseudo-concetti che Sara evoca nella sua parte di introduzione al volume («razzismo anti-bianchi», «sessismo anti-uomini» o «eterofobia»). Dall’altra, fattori molto diversi mi sembrano invece caratterizzare (alcune) delle critiche e delle «accuse» di «essenzialismo» che si sono espresse all’interno del dibattito teorico/politico nei confronti del femminismo materialista francofono. Critiche che – anche quando palesemente infondate e/o basate su una lettura approssimativa dei testi – ho sempre trovato estremamente stimolanti. Danno infatti la possibilità di verificare, sul terreno concreto della teoria e della pratica politica femminista, le questioni ancora «oscure» in un corpus concettuale molto complesso come quello del femminismo materialista, ovvero cosa è necessario esplicitare e/o spiegare, come stiamo facendo in questa intervista, per far emergere la radicalità di questo pensiero, la sua attualità e l’utilità di farlo dialogare anche con altri quadri concettuali come quelli dei femminismi postcoloniali e intersezionali. In questa prospettiva la categoria di «classi di sesso» è indubbiamente stata, fin dagli anni Settanta (ad esempio si vedano le critiche mosse da Michèle Barrett e Mary McIntosh a Christine Delphy nel saggio del 1979), quella che ha suscitato i maggiori malintesi poiché interpretata come una categoria «omogeneizzante» e che non darebbe conto, fino a invisibilizzarle, delle divisioni esistenti tra donne in virtù della loro appartenenza a diverse classi sociali e/o gruppi «razziali». Quello che sfugge è che la teorizzazione del gruppo sociale delle donne e del gruppo sociale degli uomini, che sono configurate come classi antagoniste, non implica affatto che vi sia una omogeneità all’interno di ogni classe (classi che sono invece pensate come eterogenee al loro interno, in quanto implicate in altri specifici, e connessi, rapporti sociali di dominio), ma piuttosto mira  a far emergere il rapporto di appropriazione, collettiva e privata, dell’intera classe delle donne da parte dell’intera classe degli uomini o, per dirla con le parole di Guillaumin, «l’atto di forza permanente attraverso cui si dispiega l’appropriazione della classe delle donne da parte della classe degli uomini» (dal saggio Pratica del potere e idea di Natura). L’incomprensione su questo punto cruciale è determinante anche per l’altra obiezione spesso rivolta al femminismo materialista francofono, ovvero il presunto approccio in termini «analogici» al rapporto sesso/razza. Un’obiezione che è stata tra l’altro al centro dell’acceso dibattito innescato, come ricordate, dalla famosa requisitoria di Judith Butler contro Monique Wittig in Gender Trouble e alla quale fece seguito l’altrettanto famosa contro-requisitoria di Teresa De Lauretis. Nonostante l’uso frequente e diversificato della forma analogica nell’opera (teorica ma anche soprattutto letteraria) di Wittig meriterebbe di essere maggiormente valutato e contestualizzato (per una ricostruzione del dibattito il saggio di Stéphanie Kunert, L’analogie «sexisme/racisme»: une lecture de Wittig), così come su un piano diverso si colloca, e andrebbe quindi discusso e collocato, l’uso dell’analogia sesso/razza in alcuni dei testi di Christine Delphy dei primi anni Settanta, anche su questo nodo fondamentale Guillaumin ci offre, come abbiamo sottolineato nell’introduzione, strumenti preziosi non solo per «smontare» o tematizzare questa e altre obiezioni, ma anche e soprattutto per comprendere come i diversi rapporti sociali (di classe, razza, sesso…) si producono (e operano) simultaneamente e organicamente, e quindi indicarci anche le modalità per combatterli.

VALERIA: Grazie per la domanda, molto utile poiché è un commento o critica che spesso è rivolta al femminismo materialista francofono e al concetto di classe di donne. Definire le donne come una classe non implica cancellare le esperienze diverse che ciascuna di essa fa del sessaggio e di altre forme di oppressione. Quando uso la categoria classe di donne, sto mettendo in evidenza che le donne esistono come gruppo nel rapporto sociale con gli uomini, che a loro volta costituiscono una classe proprio nel rapporto sociale con le donne. Il fatto di appartenere alla classe delle donne è comprensibile solo ed esclusivamente se consideriamo il rapporto sociale che mi produce come donna, ovvero il rapporto sociale di sesso. Ed è qualcosa che ci accomuna, anche se non costituisce di per sé un terreno di lotta comune. Non esistono donne, né uomini, al di fuori di questo rapporto sociale, la categoria donna non precede il rapporto sociale tra i sessi, ma ne è il prodotto, il risultato di una forma specifica di appropriazione collettiva e individuale, materiale e ideologica, il sessaggio. Questo approccio non cancella e non può cancellare le altre esperienze di oppressione che le donne fanno nella loro vita materiale, e quindi anche nei rapporti tra donne, come il razzismo, l’oppressione di classe e in base alla sessualità. Proprio perché non esiste di per sé una categoria «donne» a cui apparteniamo prima dei rapporti sociali materiali che viviamo con gli uomini, non può esserci un’identità essenzialista della classe «donne». Ribalterei così l’accusa di essenzialismo rivolta alla categoria classi di sesso. Nel leggere Guillaumin noi ci immergiamo completamente nell’approccio materialista e quindi riconosciamo che non c’è omogeneità interna al gruppo «classe di sesso», ma c’è un rapporto sociale e storico che ci produce come donne, e che questo rapporto sociale co-esiste con altri rapporti di oppressione basati sulla razza, sulla classe e sessualità. Questo approccio comporta riconoscere che le donne possono avere interessi diversi. E questo tra l’altro significa riconoscere, nel dialogo tra donne, che per alcune l’oppressione di razza possa essere riconosciuta come più pressante e violenta nella propria vita. È in questo modo che è possibile un riconoscimento reciproco e porsi la questione delle alleanze tra donne. A questo proposito, la femminista decoloniale afro-domenicana Ochy Curiel, fine lettrice di Guillaumin e delle altre femministe materialiste, riflettendo sulle difficoltà di alcune a considerare insieme le discriminazioni di razza, sesso e orientamento sessuale, ricorda come «quando appare la resistenza ad abbordare questo tipo di discriminazione (quella per orientamento sessuale, n.d.t.), in connessione con l’elemento ‘razziale’ e di genere, la discussione gira attorno alla questione di sapere se noi siamo per prima cosa nere, donne o lesbiche» (Pour un féminisme qui articule race, sexe et classe, «Nouvelles questions féministes», 20, 3, 1999). Credo che la categoria di sessaggio, insieme al lavoro di Guillaumin sul razzismo, ci permettano di guardare alla materialità delle condizioni di esistenza, ai rapporti sociali come la matrice dei gruppi che vediamo come naturali, e quindi a non fossilizzarci su cosa viene prima, ma a vedere ciò che li produce. Nel 1998 Guillaumin ha partecipato a un convegno dell’Association Nationale des Études Féministes, dal titolo Les féministes face à l’antisémitisme et au racisme. Il testo del suo intervento offre una riflessione, ancora attuale, su femminismo e altri movimenti di gruppi minoritari (nei rapporti di potere), e sul rapporto tra movimento femminista a movimenti antirazzisti. In questa riflessione, Guillaumin ricorda che non sono le donne ad essere differenti: ciò infatti implicherebbe l’idea che esista una categoria «donne» in sé, negando che le donne esistono solo nel rapporto sociale con gli uomini, e che gli uomini sono a loro volta immersi in rapporti di potere. Ad essere differenti sono le possibilità materiali in cui vivono le donne, che comportano scelte concrete certamente differenti.

MANASTABAL: Al pari delle altre teoriche femministe materialiste, Guillaumin punta a costruire una teoria generale del dominio sociale e della sue razionalizzazioni ideologiche. L’approccio materialista permette, in altri termini, di analizzare il dominio razzista e il dominio patriarcale a partire da meccanismi che operano in maniera analoga in entrambe le configurazioni, per esempio quello che presiede alla naturalizzazione dei gruppi dominati. Per altro verso verifichiamo quotidianamente, anche negli ambienti progressisti, la resistenza a prendere sul serio le analogie: chi non ha difficoltà a caratterizzare come integralmente sociale e antagonistica la relazione fra bianchi e non bianchi all’interno delle società occidentali, può averne invece moltissime a rappresentarsi negli stessi termini quella fra uomini e donne. Allo stesso modo, chi non ha alcuna difficoltà a interpretare in termini materialisti lo sfruttamento salariale recalcitra a estendere la considerazione materialista a quello domestico. Come si spiega secondo voi il fatto che, quando è in gioco il rapporto sociale di sesso, il residuo ideologico del naturalismo non manca di esercitare il proprio influsso?  

VINCENZA: Come mostrano mirabilmente gli scritti di Guillaumin, così come quelli delle altre femministe materialiste francofone, la credenza nella «naturalità» dei rapporti di dominio che legano la classe (dominante) degli uomini a quella (dominata) delle donne, ha uno dei suoi punti di forza nella sua assoluta pervasività, che investe cioè ogni ambito ed espressione dell’esistenza e in questo senso alcuni dei saggi contenuti nel volume Sesso, razza e pratica del potere sono assolutamente  illuminanti. Tuttavia, e soprattutto a così tanti anni di distanza, è legittimo chiedersi perché, anche in quei contesti che definite «progressisti», e dove la comprensione del meccanismo che presiede alla naturalizzazione dei gruppi dominati ha portato a leggere in termini di rapporti sociali i conflitti di classe e il razzismo, questo non funziona ancora oggi con i rapporti sociali di sesso. Posso solo provare ad abbozzare una risposta, a partire anche dalla constatazione che storicamente, prima dell’emergenza del movimento femminista in particolare materialista, il concetto di «sesso», ha sempre avuto, nel pensiero politico contemporaneo, uno statuto molto diverso da quello di «classe». È anche una questione di tempi: come ci ricorda Paola Tabet in Le dita tagliate, ci sono voluti secoli prima di giungere, ad esempio, ad analisi materialiste dei rapporti di classe. In seguito la predominanza della classe come categoria di analisi è stata molto forte in una larga parte dei movimenti degli anni Settanta e questo ha contribuito all’instaurarsi di una sorta di «gerarchia» delle lotte, in cui quella delle donne era vista come «secondaria». Anche la categoria di «razza» ha avuto a lungo uno statuto «debole» (simile, anche se con traiettorie diverse, a quello di «sesso») e ha cominciato ad acquisire una certa legittimità e diffusione come categoria analitica solo a partire dagli anni Sessanta-Settanta (sulla spinta soprattutto delle lotte anti-coloniali, del «potere nero» negli USA e, per quanto concerne la storia delle donne, grazie alle lotte e agli scritti dei femminismi neri, decoloniali e diasporici). Per la categoria di «sesso» – ovvero la comprensione del rapporto tra i sessi come rapporto sociale e non come dato naturale – le resistenze sono state, e sono tuttora, molto più tenaci, anche se possiamo sperare in un progressivo cambiamento di prospettiva, grazie all’apporto decisivo del femminismo materialista francofono. Al momento è per certi versi sconcertante quanto suoni ancora attuale talvolta, a cinquant’anni di distanza, l’amara constatazione delle autrici di Combat pour la libération de la femme (1970), tra le quali Monique Wittig:

Ci sentiamo sempre dire che la nostra lotta è un «problema secondario». Molto rari sono coloro che ci accordano altrettanta importanza che a quella dei neri negli Usa oppure a quella dei lavoratori immigrati qui […]. D’altronde cosa rappresenta la nostra lotta per loro? Lotta domestica, lotta prosaica, lotta di serve …

Questo anche perché il gruppo sociale delle donne, pur nelle «differenze» (da intendersi, in primo luogo, come diseguaglianze) che posizionano ogni singola donna lungo diversi assi di differenziazione – «razza», «classe», sessualità, età … – nel contesto sociale, economico e politico (e ognuna rispetto all’altra), sono un gruppo trasversale a tutti gli altri gruppi sociali. E questo le espone maggiormente ai meccanismi di appropriazione, sfruttamento e subordinazione da parte del gruppo sociale degli uomini nel suo insieme. Questo avviene, come ci mostrano le femministe materialiste, in tutti gli ambiti, dal piano collettivo a quello cosiddetto «privato». Ben pochi uomini, anche «progressisti», sono disponibili a rinunciare al proprio privilegio e a molti continua ad apparire come normale, naturale, che l’insieme delle attività domestiche e di cura siano svolte dalle donne, o gratuitamente (come madri, mogli, compagne, figlie…) o come lavoratrici sotto-pagate, via anche la progressiva e massiccia razzializzazione di questo tipo di lavoro.

SARA: Direi che sono proprio i testi delle femministe a offrire i migliori elementi di risposta alla vostra più che pertinente domanda. Queste teoriche si sono ampiamente interrogate sulla forza e la pervasività della credenza naturalista secondo la quale uomini e donne sarebbero gruppi naturali e naturalmente complementari. Nella relativa differenza dei concetti forgiati e utilizzati dall’una o dall’altra di queste pensatrici, la risposta è convergente: l’oppressione materiale subita dalla classe delle donne da parte della classe degli uomini è sostenuta e incoraggiata da un sistema categoriale, discorsivo, ma anche percettivo che inculca nelle teste, negli automatismi motori e linguistici la credenza «dura come il cemento», scrive Guillaumin, nell’esistenza di una «natura» differente e complementare per gli uomini e per le donne e la iscrive nelle istituzioni, nelle strutture sociali che definiscono la trama del mondo in cui viviamo. La doppia forma di esistenza di questa credenza naturalista – una forma oggettivata, nelle cose, e una forma soggettivata, nelle teste, nei corpi – e la complicità sotterranea che lega l’una forma all’altra spiegano la forza di questa credenza. A proposito della pervasività dell’ideologia naturalista, Wittig conia la nozione di «pensiero straight» che opera attraverso la destoricizzazione e la naturalizzazione delle bicategorizzazioni «uno/altro», «referente/differente», «uomo/donna», «bianco/nero». Delphy parla del genere come di una «cosmologia» e, nel suo inconfondibile stile fatto di rigore e ironia, si chiede senza gli uomini e le donne come si potrebbe mai fare? «Non ci sarebbe né alto, né basso, né sole, né luna, né, ça va sans dire, amore: l’umanità stessa sarebbe in pericolo». Mi piace ricordare qui che un sociologo caro a Guillaumin e a Delphy, Erving Goffman, in un breve folgorante testo del 1977, The Arrangement between the Sexes, aveva definito il genere come il «vero oppio dei popoli» (naturalmente il genere come insieme di strutture sociali che naturalizzano i gruppi di sesso, e non il genere come concetto che fa vedere come tale naturalizzazione operi). Basta guardarsi attorno, come non essere d’accordo?

VALERIA: Guillaumin è attenta a non affermare che ci sia una pura analogia tra oppressione razzista e patriarcale, ben consapevole dei rischi di questa affermazione, ma, come dite voi, proprio perché osserva i rapporti sociali nella loro materialità, riconosce come le oppressioni di razza e sesso si producano e si legittimino attraverso una certa idea di natura. Guillaumin analizza i processi di naturalizzazione di rapporti sociali di razza e sesso, che non vengono assunti in quanto tali, soprattutto dal gruppo dominante. Per riprendere la vostra domanda, credo che una risposta possa essere trovata nella difesa del privilegio da parte del gruppo dominante, in questo caso gli uomini. Il naturalismo permette di accettare confortevolmente, di non mettere in discussione la propria posizione dominante in rapporti nell’ambito domestico, professionale, ma anche nella militanza. Ammettere che si è dentro un rapporto di potere strutturale e che se ne traggono i vantaggi è qualcosa che non si vuole fare, poiché potrebbe aprire un varco per dei cambiamenti: occuparsi di lavori meno gratificanti, avere meno tempo per sé, parlare di meno, occupare meno spazi di potere, ascoltare e legittimare il punto di vista delle e degli oppressi. Si tratterebbe di riconoscere l’insieme dei rapporti sociali di sesso, e andare oltre l’orizzonte individuale, con il classico «io a casa lavo i piatti, ecc.». Questa resistenza a estendere l’analisi materialista ai rapporti sociali di sesso è una tappa di un processo lungo di trasformazione. Noi continueremo a leggere Guillaumin, ora anche in italiano, e altre autrici, per smontare questo approccio naturalista. 

MANASTABAL: Una delle implicazioni più importanti del discorso di Guillaumin è costituita dalla rottura con quel tenace assunto di senso comune secondo cui razzismo e sessismo sarebbero definiti anzitutto, se non esclusivamente, dall’ostilità dei dominanti verso gruppi oggettivamente differenti: in una parola, dalla paura e dal rigetto dell’alterità. Sempre in base a questo assunto, la promozione e la valorizzazione delle «differenze», per esempio nei contesti scolastici, rappresenterebbero l’antidoto alla riproduzione di assetti gerarchici lungo gli assi della razza e del genere. Che cosa replicherebbe Guillaumin a questa enfatica volontà di celebrare le «differenze»? 

VINCENZA: Su questo punto Guillaumin è nei suoi testi, a partire da L’idéologie raciste, estremamente chiara. Se il suo approccio rompe radicalmente con la visione di razzismo e sessismo come generati da sentimenti di ostilità/aggressività/paura del gruppo dominante nei confronti dei soggetti dominati, parimenti mette in evidenza come sovente i processi di alterizzazione/subordinazione all’opera nei rapporti di dominio si appoggiano anche sull’esaltazione e sulla celebrazione di determinate qualità che sarebbero specifiche del gruppo dominato. Per il sessismo pensiamo per esempio alla celebrazione delle cosiddette virtù femminili, in primis quelle «materne», e per il razzismo l’enfasi posta sulla presunta superiorità o maggiore «bravura» dei/delle neri/e nello sport, nel canto o nella danza, come anche alcuni processi di estetizzazione razzializzata della bellezza e dei corpi. Queste forme celebrative non scardinano i rapporti gerarchici e di potere, ma anzi li rafforzano e li riproducono. Per quanto concerne la promozione e valorizzazione delle «differenze» nei contesti scolastici, indicazioni preziose ci vengono anche dalla ricerca sulla percezione della «razza» nelle/nei bambine/i di Paola Tabet, confluita poi nel volume La pelle giusta (Einaudi, 1997), come anche dal libro curato dalla stessa Tabet con Silvana Di Bella, Io non sono razzista ma … Strumenti per disimparare il razzismo (Anicia, 1998). Nelle riflessioni di Tabet notevole è il distacco critico dalle riduzioni del razzismo alla questione della comunicazione-conoscenza tra culture che informano numerose esperienze di educazione interculturale nelle scuole. Non solo per i rischi impliciti all’assunzione della «differenza culturale» come un dato primo (gli anni in cui Tabet scriveva questo testo erano quelli in cui emergeva con forza, anche qui in Italia, il cosiddetto neorazzismo), ma anche perché la mancanza di uno sguardo più ampio sulle dissimmetrie di potere economico e politico che caratterizzano l’insieme dei rapporti sociali può contribuire a falsare il problema, e concorrere a riprodurlo. Piuttosto, credo che molto si possa fare a livello educativo/scolastico lavorando sui libri di testo per offrire nuovi modelli identificativi non «stereotipati» e/o vittimizzanti e approfondimenti su questioni spesso lasciate ai margini (o affrontate dal punto di vista dei dominanti), come la storia del colonialismo italiano o la storia delle donne/dei femminismi. Importante sarebbe poi offrire agli/alle insegnanti (con corsi di formazione o altro) quell’insieme di strumenti teorici e metodologici utili per affrontare questioni cruciali quali il privilegio, la bianchezza, i rapporti di dominio. 

VALERIA: Difficile domanda, posso dirvi come rispondo io usando Guillaumin. Intanto Guillaumin è imprescindibile proprio per la sua descrizione di come il nucleo del razzismo e del sessismo, non è l’ostilità verso «altri diversi», poiché il rapporto di oppressione si produce anche attraverso altri meccanismi che sono per esempio la valorizzazione restrittiva che permette di riprodurre efficacemente sistemi di oppressione. Guillaumin ci chiama a riflettere su cosa è la differenza, chi definisce chi è differente, e differente da chi? (si veda Questione di differenza). Con queste domande diventa chiaro che celebrare le differenze, parlare di alterità, non è una strategia efficace di lotta contro i rapporti di oppressione basati sulla razza o il sesso. E soprattutto con queste domande Guillaumin nomina il Referente, il gruppo socialmente definito bianco, che non si vede o si pone come neutro, come elemento centrale per comprendere come si riproduce il razzismo. I bambini e giovani delle scuole italiane non hanno bisogno della valorizzazione della cucina marocchina, ma di qualcuno che li aiuti a discutere insieme dei rapporti di potere che vedono e vivono quotidianamente e di quelli del passato, hanno bisogno che i docenti bianchi propongano narrazioni in cui gli oppressi (quel magma che viene definito con «migranti/immigrati») siano soggetti, individui attivi, e non solo vittime passive o individui pericolosi. Mediamente in Italia i docenti credono che non esista razzismo nel nostro paese, o che i bambini non possono essere razzisti perché non sanno quello che dicono: questa visione è parte del problema, siamo già nella logica razzista che nega che esiste razzismo, e che rifiuta di vedere che i bambini riproducono quello che vivono attorno a loro (si veda lo splendido lavoro di Paola Tabet, La pelle giusta). Per il sessismo, la situazione più frequente è una vaga idea di pari opportunità (in Italia trattiamo allo stesso modo bambini e bambine) alla cui base vi è la convinzione che se alla fine alle bambine piace stare più con le bambine, allora vuol dire che è «naturale». Offrire la possibilità ai bambini di giocare con le bambole non cambia i rapporti sociali di sesso. In questo momento storico, c’è poco spazio e legittimità per discutere con i docenti e per preparare i docenti ad altri modi di affrontare il razzismo e il sessismo, che appunto mettano in discussione l’idea di natura come fulcro dei gruppi sociali di uomini e donne, bianchi e neri.

SARA: Che il razzismo (il sessismo) non si possa limitare all’espressione di ostilità è una delle principali conseguenze delle analisi proposte da Guillaumin ne L’idéologie raciste, il testo citato in precedenza da Vincenza (ne riuscirà a breve una riedizione dopo quella del 2001). Nel corso di tutto il suo lavoro, Guillaumin mostra come la celebrazione de la-differenza che sarebbe propria di specifici gruppi sia un’altra forma attraverso la quale si produce l’inferiorizzazione e l’alterizzazione dei gruppi socialmente oppressi. Qualunque forma di rivendicazione de la-differenza è, pertanto, a suo giudizio funesta politicamente perché rafforza quell’ideologia naturalista che sostiene l’oppressione materiale dei gruppi subordinati. Ma Guillaumin insiste anche su un secondo aspetto. Non solo il razzismo non si limita alle manifestazioni individuali di odio, comprendendo forme di celebrazione differenziale e compensatoria dei dominati, ma il razzismo opera al di là delle mere volontà individuali. Si tratta di un sistema che gerarchizza e naturalizza due gruppi asimmetrici in termini di potere. Questo sistema attraversa e intacca le diverse strutture sociali e mentali che definiscono il mondo sociale in cui viviamo. Una tale prospettiva ha una duplice conseguenza in termini analitici e politici. Da un lato, mostra la non pertinenza di nozioni quali «razzismo anti-bianchi», «razzismo anti-uomini» o «eterofobia» usati oggi da alcuni degli attori e dei gruppi che attaccano i saperi e le lotte minoritarie. Dall’altro, permette di rendere visibile che i gruppi dominanti secondo i diversi assi di categorizzazione (razza, genere, sessualità), benché eterogenei al loro interno, godono di un sistema di privilegi che corrisponde al sistema di privazioni dei gruppi oppressi. Nel saggio Pratique du pouvoir et idée de nature pubblicato nel 1978 su Questions féministes, Guillaumin scrive: «si dice dei Neri che sono neri rispetto ai Bianchi, ma i Bianchi sono solo bianchi. Non è, tra l’altro, affatto certo che i Bianchi siano di un qualsivoglia colore». I bianchi non fanno parte delle «persone di colore»: «il bianco», il referente, non ha colore. Analogamente, nella designazione dell’appartenenza di sesso, la categoria differenziale è quella di «donna». «L’uomo» («l’eterosessuale») è il non-detto, l’implicito delle categorie sessuali. Guillaumin enuncia, così, il vantaggio strutturale dei dominanti: l’essere bianchi – lo stesso vale per l’essere uomini, l’essere eterosessuali – rimanda al sistema normativo in vigore ovvero ad un sistema di privilegi materiali e simbolici che non si pensa, né vede come tale, ma si dà come «normalità», «natura», «universale».

MANASTABAL: Tradurre significa anche forzare la lingua di arrivo introducendo termini nuovi, non ancora consacrati dall’uso. Nel caso di Guillaumin spicca il conio sexage, che voi avete scelto di rendere in italiano con «sessaggio». Potete spiegare a chi ci legge che cos’è il sessaggio? In quale misura, a vostro parere, questo concetto si presta ad analizzare le dimensioni attuali della subordinazione patriarcale delle donne? Qualche esempio?

SARA: Al momento dell’ideazione e della preparazione di Non si nasce donna che proponeva, insieme a brevi introduzioni al pensiero delle femministe materialiste, alcune traduzioni dei loro articoli, ho avuto la possibilità e il privilegio di discutere con Mathieu, Guillaumin e Delphy. Molti degli scambi riguardavano l’importanza che ognuna di loro attribuiva alla traduzione. Una tale attenzione al linguaggio non stupisce coloro che conoscono i testi di queste teoriche. Una parola non è mai usata a caso o fuori posto. Figuriamoci un concetto. Non è difficile capire il perché: per queste teoriche il linguaggio è un’arma a doppio taglio. Da un lato, è un vettore di oppressione (pensiamo semplicemente al fatto che nella gran parte delle lingue parlate non si può non dire il sesso), dall’altro è uno strumento di possibile emancipazione quando è reinvestito dai soggetti minoritari per nominare e far vedere forme di dominazione invisibili in assenza della teorizzazione minoritaria. Una dei celebri passaggi de Les Guérillères di Wittig afferma che «ogni parola deve essere passata al vaglio». Nicole-Claude Mathieu ha scelto questa frase come esergo del primo tomo de L’anatomie politique. Tradurre i concetti cercando di restituire al meglio il rigore con cui erano stati elaborati e di rendere la loro portata epistemologica è stato il nostro imperativo durante la realizzazione del libro. Nel caso del concetto di sexage la scelta è stata semplice. È Guillaumin a creare in francese il neologismo sexage, coniato per vicinanza e assonanza coi termini esclavage (schiavitù) e servage (servaggio), per esprimere il rapporto di classe che lega quella degli uomini a quella delle donne. Si tratta di un rapporto di reificazione, di alterizzazione, di appropriazione. Non c’è, pertanto, mai stato alcun dubbio (nemmeno per Guillaumin, tra l’altro): «sessaggio» rendeva in italiano il sexage francese. Tra i «mezzi concreti» attraverso cui il sessaggio si dispiega, Guillaumin e, più in generale, le femministe materialiste individuano diverse istituzioni e processi e ne analizzano il funzionamento. Tra di essi: il lavoro domestico, il contratto di matrimonio, i processi di socializzazione infantile, la rigida sessualizzazione dello spazio (privato e pubblico), l’accudimento materiale ed emotivo degli individui più deboli in seno alla famiglia o alla società, il sotto-equipaggiamento tecnologico delle donne rispetto agli uomini, l’uso della violenza psicologica o fisica da parte della classe degli uomini contro le donne per soggiogare o anche solo per intimidire e ridurre al silenzio ciascuna donna e per esprimere i diritti di proprietà che ciascun uomo può vantare sulla classe delle donne.

VINCENZA: Sì, tradurre è anche «forzare» la lingua di arrivo, che è anche un’enorme responsabilità vista l’attenzione che storicamente tutti i gruppi minoritari (nel senso datole da Guillaumin) hanno dato al linguaggio in quanto terreno non «neutro», che riflette, veicola e riproduce i rapporti di dominio. Sono note, e citatissime, in questo senso le pagine che bell hooks dedica al linguaggio come «luogo di lotta» (in uno dei saggi da poco riediti tra l’altro da Tamu Edizioni). Non è un caso che la produzione militante e teorica dei movimenti degli ultimi decenni, da quelli femministi a quelli lgbtqi, dai movimenti postcoloniali a quelli decoloniali, sia caratterizzata anche dalla produzione di neologismi, necessari per nominare e dare «corpo» a nuovi concetti e pratiche, per autorappresentarsi e autodefinirsi fuori dalle logiche anche linguistiche di dominio. Nelle femministe materialiste questa attenzione al linguaggio è fortissima, come emerge chiaramente dai loro testi, coniugandosi, come hanno potuto sperimentare direttamente quante di noi hanno avuto la preziosa possibilità di un confronto anche solo con alcune di loro, a quel rigore estremo che viene dalla consapevolezza di esprimere (e restituire) un tipo di approccio che rompe radicalmente gli schemi analitici precedenti. Per venire al termine sexage coniato da Guillaumin per indicare il rapporto di appropriazione da parte del gruppo sociale degli uomini della classe delle donne, la traduzione con sessaggio ci è sembrata valida (nonostante l’esistenza del termine in italiano per indicare altro) pur se non mantiene e restituisce del tutto, come in francese sexage, l’assonanza con, e l’insieme di significati veicolati da, i termini esclavage (schiavitù) e servage (servaggio). Abbiamo comunque ritenuto, ad ogni occorrenza del termine, di rinviare a scanso di equivoci (e a maggior ragione visto che si tratta di una raccolta di saggi che possono anche essere letti separatamente e non necessariamente nella loro sequenza di pubblicazione), alla pagina in cui Guillaumin nomina per la prima volta il neologismo dandone spiegazione. All’interno del volume Guillaumin offre molteplici esempi, tra l’altro in una continua connessione con il lavoro delle altre femministe materialiste, degli ambiti e dei meccanismi attraverso i quali opera questa appropriazione della classe delle donne da parte della classe degli uomini, un’appropriazione che investe sia la dimensione «fisica» che quella «mentale», e che opera sia sul piano individuale/privato che collettivo/pubblico. E nonostante i progressi dovuti alle mobilitazioni femministe di questi ultimi decenni (anche a partire da quelle portate avanti dalle femministe materialiste, che oltre che delle teoriche sono state, vale la pena ricordarlo, anche delle militanti impegnate in prima persona nel movimento femminista delle anni Settanta e oltre), il sessaggio, in varie forme, permane ancora oggi, come del resto abbiamo potuto osservare chiaramente, ad esempio, per quanto concerne l’ambito del lavoro domestico e di cura, nella crisi generata dalla pandemia Covid-19 in questi mesi.

VALERIA: Il lavoro sulla lingua è uno dei tratti più contundenti nella produzione delle femministe materialiste, penso non solo ovviamente a Wittig, ma anche a Mathieu, all’assidua attenzione nella scelta delle parole nelle sue analisi. Al pari di Sara e Vincenza, ho avuto l’immenso piacere di discutere con Mathieu, Guillaumin e Tabet e in questi incontri tutte scavavano nella lingua per trovare il modo di esprimere al meglio ciò che si esaminava. Si potrebbe suggerire che, di fronte alla negazione e/o invisibilizzazione di un rapporto di oppressione, il conio di nuovi termini può aiutare a vederli, a nominare quello che viviamo quotidianamente (sappiamo quanto è importante nominare, e farlo collettivamente). Il sessaggio è un rapporto sociale di appropriazione fisica da parte della classe degli uomini della classe delle donne, del loro corpo inteso come unità produttrice e riproduttrice della forza lavoro. Ora, oggi questa nozione può sembrare dissonante, soprattutto per gli uomini, perché si pensa che siamo meno appropriate rispetto alle nostre madri o nonne, o che non lo siamo affatto. Non è necessario negare i cambiamenti e i miglioramenti, per osservare il quadro attuale con uno sguardo attento e riconoscere come si riproducono queste forme di appropriazione pur in condizioni di maggior autodeterminazione per le donne rispetto al passato. Innanzitutto dobbiamo andare oltre a una visione individuale e osservare la società nel suo insieme, per poi anche osservare i casi individuali collocati in una struttura più ampia. Un esempio di sessaggio lo abbiamo avuto durante il lockdown: nel lavoro accademico, a livello globale, è brutalmente diminuito il numero di articoli proposti da donne alle riviste, mentre è aumentato quello proposto da uomini, ovvero quando vengono meno i servizi sociali come la scuola o il supporto di altre donne, il lavoro domestico e riproduttivo ricade tutto sulle donne. Si è trattato di una forma di appropriazione della forza lavoro delle donne, del loro intero corpo, inclusa la loro capacità di essere compagne intellettuali con cui ci si confronta sulla proposta di articolo. E questa appropriazione è successa in modo «naturale», per molti/e in modo che sembra «automatico». Oppure se vogliamo guardare l’Italia, un esempio di sessaggio è l’appropriazione del corpo riproduttivo delle donne, con lo svuotamento della legge 194 e la conseguente difficoltà ad interrompere una gravidanza in sicurezza nel servizio pubblico. Alle donne è di fatto impedito di autodeterminarsi, di decidere del proprio corpo, in questo senso il passaggio sulla pillola RU486 di questa estate è importante. Lo svuotamento della 194 va di pari passo con la richiesta di fare più figli o di fare figli tout court. La mancanza di uno stato sociale che offra alle persone anziane soluzioni dignitose per vivere e curarsi, è una forma di sessaggio, poiché la cura di queste persone ricade sulle donne, che siano interne alla famiglia, o esterne ad essa e a pagamento. Ma voglio ricordare che la caratteristica del sessaggio non è solo l’appropriazione sul piano materiale, poiché essa è sempre accompagnata dall’appropriazione psicologica sul piano individuale, sia nei termini di lavoro mentale, sia nei termini di ideologia. Cosa vuol dire? Che noi crediamo che sia naturale, innato, questo tipo di rapporto, che sia l’unico possibile, o anche che sia giusto così, e invece non è l’unico possibile! Leggere Guillaumin è una boccata d’aria per dirci insieme che questo non è l’unico modo di vivere le relazioni tra quei gruppi che abbiamo imparato a considerare naturali, uomini e donne, ma che naturali non sono.

Mi piace pensare che questa traduzione permetta di far entrare in dialogo il lavoro di Guillaumin con quello di tante altre femministe che oggi innervano la riflessione femminista in Italia, e con quello di autrici ancora poco note, penso alle femministe decoloniali, ricordando che in America latina la traduzione di Guillaumin e di altre FMF è arrivata ben prima di qui, forse anche per la radicalità delle lotte delle donne razzizzate in questa regione.

MANASTABAL: In Questione di differenza, uno dei saggi già citati da Valeria, Guillaumin non risparmia critiche pungenti ai gruppi minoritari che riducono la propria politica a gesti di «rivendicazione culturale» e ostentano un’indifferenza sdegnosa per il potere che comunque non hanno, bollando questo atteggiamento come una «reazione di fuga». A ben vedere non si tratta di osservazioni isolate, o estranee alla sensibilità di altre animatrici del collettivo di Questions féministes: già nel 1970 Delphy concludeva l’articolo Il nemico principale sostenendo che il movimento di liberazione delle donne avrebbe dovuto prepararsi per una lotta «rivoluzionaria», intendendo dire che la distruzione del sistema di produzione e riproduzione patriarcale non si sarebbe compiuta senza «presa del potere politico». Si tratta di una prospettiva sicuramente anomala rispetto a quella abbracciata da tradizioni femministe più consolidate nel nostro paese: una prospettiva distante sia dal proposito (lonziano, per capirsi) di muoversi su un piano totalmente altro rispetto a quello del potere, sia dall’idea che restituire potere alla dominate equivalga a istituire quote rosa, sfondare tetti di cristallo o distribuire cariche di prestigio a una frazione privilegiata di donne chiamata a cogestire l’esistente. Ora, a decenni di distanza, e in una fase in cui la memoria storica è stata azzerata, alla cultura egemone riesce sin troppo facile ironizzare sullo slancio rivoluzionario che motivava l’appello alla «presa del potere politico», a maggior ragione se declinata in chiave femminista. Altrettanto facile, per la cultura egemone, è indulgere nella sopravvalutazione dell’effettivo potere sociale dei gruppi minoritari, grazie all’uso disinvolto di concetti come empowerment ed agency. Resta il fatto che un meccanismo sociale di appropriazione materiale e ideologica delle donne come quello ricapitolato dal concetto di sessaggio si è dimostrato relativamente invulnerabile alle rivendicazioni culturali delle minoranze. E dunque, come si disarmano gli appropriatori? Il dominante, dice Guillaumin, teme più di tutto l’eventualità dell’«autonomia concreta» delle dominate: come si costruiscono, collettivamente, «la ricerca e l’acquisizione dei mezzi pratici e concreti dell’indipendenza»?      

VALERIA: È una questione complessa, e, a partire dalla mia esperienza, anche come antropologa femminista, la risposta non credo possa essere una sola, non esiste una sola formula, ma tante pratiche che funzionano a seconda dei contesti e dei momenti, e che contribuiscono ad acquisire i mezzi pratici e concreti dell’indipendenza. Se penso alle proposte di legge elaborate da Marielle Franco, consigliera comunale nera, socialista, femminista, madre, lesbica e abitante delle favelas uccisa a Rio de Janeiro nel marzo del 2018, riconosco proprio questo tipo di azione politica che cerca di produrre un’autonomia concreta, in particolare delle donne nere, lesbiche, madri, abitanti delle periferie. Il fatto di essere eletta e di entrare nel consiglio comunale, uno spazio bianco, maschile ed eterosessuale, con un progetto politico di riconoscimento delle lotte portate avanti dalle lesbiche, dalle donne nere delle periferie è stato un atto dirompente, che ha prodotto la sensazione di un attacco al potere, in tutte le sue vesti. La sua presenza in quello spazio è stata percepita come un’azione volta a disarmare gli appropriatori, e questo elemento certamente va considerato quando pensiamo alle motivazioni dietro alla sua uccisione (sul piano giudiziario si sa ancora molto poco). La sua traiettoria politica, la sua vita è stata spezzata anche dalla violenza maschile, associata ad altre forme di violenza come il razzismo e la lesbofobia, proprio nel momento in cui lei esercitava un’autonomia concreta per i gruppi che rappresentava. La sua traiettoria ci ricorda anche che lei è parte di una lunga storia, un punto in una lotta che l’ha preceduta e che continua, che oggi per esempio vede tante nuove donne nere e lesbiche presenti in spazi istituzionali bianchi, maschili e eterosessuali in cui portano avanti azioni politiche concrete per rendere le donne, le donne nere e povere meno dipendenti e meno appropriate. Tuttavia la traiettoria di Marielle Franco e di altre donne e trans nere oggi presenti nelle istituzioni brasiliane, non può essere ricondotta a qualcosa di simile alle quote rosa. Questo perché dietro alla singola, c’è un lavoro collettivo, una pratica condivisa di lotte che sono dirette a combattere l’appropriazione, che Marielle Franco ha saputo restituire, con un’incredibile capacità analitica e comunicativa, come appropriazione su più piani: come donne, nere, lesbiche, abitanti delle periferie. Non credo che gli appropriatori si disarmino solo con le leggi, anche se esse sono necessarie. L’esercizio dell’autonomia concreta, l’autonomia economica delle donne, delle lesbiche, è costantemente sotto attacco e solo un progetto collettivo può creare delle fratture in sistemi solidi come la dominazione degli uomini. Se pensiamo a come la sessualità sia uno spazio politico di oppressione delle donne, per esempio riprendendo il lavoro di Tabet sullo scambio sessuo-economico (disponibile in italiano), capiamo come si produce l’appropriazione e la dipendenza, tra l’altro non solo nelle società occidentali, e come servano trasformazioni strutturali. In Italia, la rivendicazione per un reddito per l’autodeterminazione, portata avanti da diversi gruppi femministi, tra cui Amatrix e oggi Non una di meno, è una tappa per esercitare la propria indipendenza, per uscire dalla famiglia.

SARA: Il ragionamento di Delphy mi pare cristallino e coerente: le donne non sono né un gruppo naturale, né un club che federa le portatrici di una data forma di «alterità» o «differenza». Le donne sono una classe oppressa, ovvero un gruppo costituito da un dato sistema di oppressione. Tale oppressione permea tutte le strutture sociali (in questo senso, è un sistema) e, come lo mostrano bene le analisi di Guillaumin e Wittig a proposito della pervasività del senso comune eteronormato, è incorporata quale fosse una «seconda natura» negli automatismi categoriali e motori dei membri delle due classi di sesso. La «liberazione» della classe (di sesso) oppressa necessita, dunque, la contestuale realizzazione di due condizioni: la distruzione delle basi materiali e simboliche su cui si fonda la nostra società – il che non è proprio un’inezia da realizzare –  e la perdita da parte della classe degli oppressori degli smisurati poteri e privilegi che essi detengono – idem come sopra. Come ciò può avvenire? Occorre fare una rivoluzione, e una rivoluzione si fa… facendo la rivoluzione, dice Delphy. Detto altrimenti, la rivoluzione si fa – cito Delphy – «non prendendo un aperitivo insieme», ma prendendo insieme il potere politico. Leggendola, e leggendo le altre femministe materialiste, si capisce bene il fatto che tali teoriche pensino il potere politico tanto nel senso proprio, quanto nel senso più largo del termine. Basti pensare alla loro visione teorica e alla loro pratica politica del diritto come arma (pensiamo, ad esempio, all’engament di Delphy per l’adozione della legge che ha autorizzato l’interruzione volontaria di gravidanza, o quella per la criminalizzazione dello stupro, o quella per la «parità in politica» da lei difesa come strumento di «affirmative action»). Lungi dal produrre per le donne e, più in generale, per i soggetti minoritari una reale uguaglianza «in termini di poter fare o di poter dire», «l’acquisizione di un dato statuto giuridico» rappresenta – sto citando Guillaumin –  una fondamentale «rottura della soglia percettiva» che produce per il soggetto minoritario un «nome reale e irrevocabile: ciò che il diritto nomina esiste». Le conquiste giuridiche da parte dei gruppi minoritari, pertanto, danno vita per queste teoriche non solo a una maggiore uguaglianza formale (che è già qualcosa), ma anche a una «resistenza nuova» nei confronti dei dispositivi ideologici – religiosi, morali, (pseudo)scientifici – e materiali che contribuiscono pesantemente all’inferiorizzazione dei gruppi minoritari. In altre parole, la rivoluzione deve essere declinata in tutti i modi in cui si declina il sistema dell’oppressione e investire tutte le strutture sociali e le categorie mentali. Come scrive Delphy nel lungo saggio che apre L’ennemi principal: penser le genre, la lotta femminista e, più in generale, la lotta minoritaria rivela l’esistenza di una serie di gerarchizzazioni sociali che per il senso comune sono considerate essere frontiere «naturali», «evidenti», quindi intoccabili: quella tra uomini e donne, tra eterosessuali e non-eterosessuali, tra pubblico e privato… La lotta femminista e, più in generale, la lotta minoritaria è, pertanto, una lotta che mira a distruggere l’efficienza del sistema di dominazione che ha costituito il gruppo minoritario. Per queste pensatrici la lotta rivoluzionaria minoritaria è, pertanto, ad un tempo, lotta politica situazionale – spostamento delle frontiere, diversa inclinazione delle gerarchizzazioni – e lotta politica utopica che immagina una loro sparizione. In tale ottica, i gruppi minoritari non sono né un’«illusione da dissipare» per via di «integrazione» o di «assimilazione», né una «natura a parte», sempre e comunque «differente» e «marginale». L’«assimilazionismo» e il «marginalismo» sono per queste teoriche due forme equivalenti di disfattismo politico che non intaccano né il principio di visione e di divisione sessista ed eteronormativo che regge la pratica del potere, né il rapporto sociale che produce gli uomini e le donne come gruppi naturali e naturalmente complementari.

VINCENZA: Prima di provare a rispondere alla domanda, una piccola nota. Mi sembra che la prospettiva di una lotta femminista «rivoluzionaria» nei termini tratteggiati da Delphy nel saggio che citate (tra l’altro uno dei pochi a essere stato tradotto in Italia, e in ben due traduzioni diverse, poco tempo dopo la sua pubblicazione in Francia) non sia del tutto «anomala» se confrontata (pure nelle diversità di approcci e quadri concettuali proposti) con alcune delle elaborazioni e pratiche politiche portate avanti da alcuni gruppi femministi italiani degli anni Settanta, molto lontane da quelle che giustamente definite le «tradizioni femministe più consolidate nel nostro paese». Erano infatti esperienze che si muovevano intrecciando e tenendo insieme i due piani, ovvero sia quello «rivendicativo» e quindi di negoziazione con lo Stato e le sue leggi — dalle lotte per il diritto all’aborto libero e gratuito alla richiesta di un salario per il lavoro domestico/contro il lavoro domestico —, che della lotta autonoma, per la totale rimessa in discussione delle strutture sociali che sostengono l’appropriazione materiale e ideologica delle donne. Quindi anche con delle «assonanze» (nonostante differenze non da poco sul piano analitico) con la traiettoria politica delle femministe materialiste francofone, molte delle quali sono state, come sappiamo, anche militanti della prima ora nel Mouvement de libération des femmes, impegnate nelle lotte per i diritti delle donne (ad esempio Christine Delphy e Monique Wittig sono tra le firmatarie di quello che è noto come le manifeste des 343 del 1971), e di altri gruppi minoritari. Quindi non c’è, da parte delle femministe materialiste un rifiuto del piano dei diritti formali/giuridici, ma piuttosto la consapevolezza che sono nello stesso tempo necessari e non sufficienti. Come sottolinea infatti Guillaumin in Questioni di differenza la conquista di determinati diritti (e tra gli esempi cita la conquista dell’indipendenza giuridica dei paesi colonizzati o dei diritti civili da parte degli afro-americani) non ha storicamente prodotto automaticamente un’uguaglianza «reale». Anche noi donne, scrive ancora Guillaumin, abbiamo legalmente diritto allo stesso salario degli uomini, ma nella realtà non abbiamo lo stesso salario. Ma questo non equivale a dire che le lotte per i diritti siano inutili, sono anzi necessarie per (e cito quasi integralmente):

1) la presa di coscienza del carattere politico della situazione dei dominati 2) la dimostrazione ai dominanti dell’esistenza dei dominati 3) e per gli interessi pratici reali conseguenti all’applicazione di ciò che era stato ottenuto e per le possibilità di altre lotte che queste tappe implicavano.

Quindi, i diritti, le leggi servono ma non bastano, poiché non sufficienti per smantellare le strutture di potere che determinano l’appropriazione materiale e ideologica delle donne e degli altri gruppi minoritari. Ma quindi, per provare finalmente a rispondere alla vostra domanda, come possiamo trovare e costruire i mezzi pratici e concreti per una reale indipendenza? Penso che oggi questa strada vada cercata, individualmente e collettivamente, in due direzioni strettamente connesse. Da una parte penso sia fondamentale, costruendo alleanze transnazionali con altre soggettività oppresse, continuare a lottare sia per l’ottenimento di quei diritti fondamentali di cui in tante/i sono oggi ancora prive/i, sia per difendere quei diritti già ottenuti (faticosamente tra l’altro) ma oggi sotto attacco. Dall’altra penso che a partire dalla «coscienza esatta del posto che si occupa nella società», ognuna/o di noi, individualmente e collettivamente, possa e debba continuare a «pensare» nuove modalità/mezzi concreti per scardinare nelle fondamenta le strutture sociali, materiali e ideologiche alla base della dominazione nelle sue varie forme (un esempio mi sembra essere la risignificazione della modalità classica dello sciopero messa in opera con lo sciopero globale delle donne), perché come scrive Guillaumin a proposito degli effetti teorici della collera delle oppresse (e di altre soggettività minoritarie), «pensare è già modificare. Pensare un fatto è già modificare questo fatto».

Christine Delphy a 50 anni dalla nascita del MLF

 

Parigi, 26 agosto 1970: in Francia debutta il movimento di liberazione delle donne.

Christine Delphy (1941), femminista materialista, sociologa, tra le fondatrici del Mouvement de Libération des Femmes nel 1970, co-fondatrice nel 1977 di Questions féministes, la rivista diretta da Simone De Beauvoir, a cui partecipano anche Monique Wittig, Colette Guillaumin e Nicole-Claude Mathieu, e di Nouvelles Questions féministes nel 1981.

Traduzione dell’intervista a Christine Delphy apparsa su Le Monde, 23 agosto 2020, di Mailis Rey-Bethbeder.

26AGOSTO

Cinquant’anni dopo aver partecipato alla sua primissima azione, la sociologa ritorna sulla storia del Movimento di liberazione delle donne, che ha co-fondato, e sulle lotte che bisogna ancora combattere, in particolare contro le violenze sessuali.

Militante femminista ed ex ricercatrice al CNRS, Christine Delphy è stata una delle fondatrici del Movimento di Liberazione delle donne (MLF) nel 1970 e da allora non ha mai smesso di impegnarsi nella lotta per l’uguaglianza tra i sessi. Nel 2011 cura Un troussage de domestique (Syllepse) in cui analizza le reazioni all’arresto e al rinvio a giudizio di Dominique Strauss-Kahn, e co-firma nel 2019 L’exploitation domestique (Syllepse), nel quale scrive che la condivisione dei compiti domestici non esiste. A settantanove anni l’autrice non ha perso nulla della sua postura militante ed elogia le giovani femministe di oggi, che “hanno una gran faccia tosta” e “non hanno più alcuna paura, alcuna inibizione, di fronte agli uomini”.

Il 26 agosto 1970 ti trovavi sotto l’Arco di trionfo. Con otto compagne avete deposto una corona di fiori in omaggio alla “moglie del milite ignoto”, ancora più ignota del marito. Questa azione punta il dito contro l’invisibilizzazione delle donne nella società e segna la creazione del MLF. Cinquant’anni più tardi che cosa ricordi di quella giornata? 

Quando abbiamo saputo che ci sarebbe stata questa giornata negli Stati Uniti (il 26 agosto 1970 le americane del Women’s Liberation Movement prevedevano di commemorare a New York i cinquant’anni della loro conquista del diritto di voto, manifestando per l’uguaglianza tra uomini e donne e contro il “dovere coniugale”), abbiamo deciso di fare qualcosa. Siamo state aiutate da una giornalista grazie alla quale quella piccola manifestazione ha avuto un’eco su L’Aurore. Nel mese di agosto non succedeva niente, dunque i giornali avevano difficoltà a riempire le pagine.

Eravamo nove, otto reggevano quattro striscioni e io tenevo la corona di fiori. Abbiamo attraversato la Place de l’Etoile che conduceva fino al monumento. Quando siamo arrivate un poliziotto si è lanciato verso di me e mi ha portata, insieme alle mie compagne, in un posto di polizia situato dentro una delle basi dell’Arco di trionfo. Siamo state malmenate e spinte dentro. Mi ha colpita l’osservazione del commissario di polizia: “Non vi vergognate?” ci ha detto. Siamo passate per tre posti di polizia diversi e siamo state liberate circa tre ore dopo la nostra azione, che era iniziata verso mezzogiorno. Eravamo molto cariche e allegre. Chiuse in una piccola cella, ci siamo messe a cantare canzoni da gite estive, i poliziotti erano esasperati. Non sapevano assolutamente cosa fare di noi, non capivano. Alcuni si sentivano insultati dallo striscione “Un uomo su due è una donna”: credevano che li trattassimo da omosessuali. C’è molta malafede in questo, ma è perché non erano abituati ad essere criticati.

Da quanto tempo all’interno di quel gruppo esistevano riflessioni sul femminismo prima di quell’azione? 

Eravamo un piccolissimo gruppo di giovani, professoresse, ricercatrici… È stata Jacqueline Feldman (ricercatrice in Fisica teorica e Matematica applicata alle scienze sociali, co-fondatrice del FMA, che stava prima per Féminine Masculine Avenir, poi per Féminisme Marxisme Action) a introdurmi in quel collettivo durante gli eventi del maggio 1968. Organizzavamo delle riunioni alla Sorbona occupata. C’erano molte persone interessate, avevamo raccolto i nomi di una quarantina di persone, quasi metà delle quali uomini. Dopo ci furono le vacanze e tutti se ne andarono.

Ci siamo ritrovati in autunno, ma eravamo già molti meno. Gli uomini che venivano alle nostre riunioni hanno cominciato a diradarsi, come anche alcune donne. Ciò fece sì che all’inizio del 1970 non fossimo più di quattro. All’epoca esistevano altri gruppi di donne, come quello guidato da Antoinette Fouque (che in seguito ha registrato il marchio MLF, dando luogo a disaccordi e alla disgregazione del movimento). Dopo questa azione all’Arco di trionfo, una volta finita l’estate, abbiamo tenuto delle riunioni alle Belle Arti, e ha cominciato ad affluire un numero maggiore di donne.

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Quali erano le vostre rivendicazioni principali?

Non avevamo “rivendicazioni principali”. In quelle grandi riunioni alle Belle Arti si procedeva in tutte le direzioni. Con Anne Zelensky (professoressa e co-fondatrice del FMA), avevamo deciso di militare per il diritto all’aborto, mentre molte altre non volevano saperne. Alcune dicevano che non era sufficiente. La mia posizione era che non si poteva fare tutto nello stesso momento. Bisognava arrivarci per tappe. Pensavo anche che sarebbe stato più facile affrontare quell’argomento perché molte persone, in Francia, erano favorevoli. Molte famiglie avevano dovuto farci i conti. Esistevano gli aborti illegali e l’unico risultato era l’esistenza di donne che ne morivano.

Credo sia stato uno degli argomenti principali di Simone Veil, che aveva ricevuto tutti gli insulti immaginabili, compreso quello di “nazi”, quando aveva difeso la sua legge (per la legalizzazione dell’aborto, promulgata il 17 gennaio 1975). È stata ammirevole e noi alla fine abbiamo vinto. Il punto su cui eravamo d’accordo è che non volevamo uomini nelle nostre riunioni alle Belle Arti. Tuttavia, ogni quindici giorni, si presentava un giovane uomo. Parlava davanti a duecento donne e non lo turbava minimamente dirci quale fosse la verità, “insegnarci”.

È un esempio di quello che oggi potremmo chiamare “mansplaining”… 

Era molto diffuso allora. Quel che succede oggi è che giustamente viene denunciato. È questo che trovo straordinario.

Secondo te quali progressi ci sono stati da allora?

Ce ne sono stati alcuni. Per esempio per quanto riguarda l’aborto, il matrimonio per tutti e per tutte, ci sono stati dei cambiamenti. È certo, per esempio, che il lesbismo e l’omosessualità in generale non sono più condannati come lo erano cinquant’anni fa. Ci sono anche più donne nell’ambiente sportivo che rivendicano il proprio posto, anche se alcune sono molto maltrattate, molestate e stuprate dai loro allenatori.

Quali sono le nuove lotte femministe?

È passato tanto tempo. Sono co-redattrice di Nouvelles Questions féministes (rivista che esce dal 1981), e con delle amiche del comitato di redazione ci siamo dette che sarebbe bello fare un numero speciale sulle giovani femministe. Perché quel che vedo è che ci sono moltissime giovani femministe e che hanno una gran faccia tosta. Non hanno più alcuna paura, alcuna inibizione di fronte agli uomini, scendono per le strade. Le trovo straordinarie. Penso soprattutto alle mobilitazioni contro le violenze sessuali, contro le violenze in generale. Non hanno timidezza su questo. Se paragonate quello che dicono oggi con quello che dicevamo noi prima… c’era ancora un tabù. Bisogna anche dire che soltanto l’1 % degli stupratori viene perseguito. È molto poco. È stato necessario spostare la colpa sullo stupratore e non sulla stuprata, e questo è un enorme cambiamento. È come se cambiaste il vostro vestito, rivoltate tutto. È molto difficile da fare.

C’è sempre un certo grado di progresso ma ci sono sempre anche, se non degli arretramenti, dei periodi minacciosi per il femminismo. In questo momento l’aspetto che riceve maggiore attenzione sono le violenze contro le donne. Ma ci sono molti altri argomenti. Non esiste un unico problema. Le persone discutono spesso di quali siano le priorità, ma a mio parere non esiste priorità. Vale a dire che l’oppressione delle donne in generale ricopre moltissimi aspetti. Ci si chiede da dove cominciare. In realtà, bisogna cominciare da tutto. Le persone vorrebbero che le femministe rimanessero garbate. Ma io spero che non rimangano tali. Essere garbata, in questa società, non serve assolutamente a nulla.

Che cosa pensi del movimento #metoo?

Trovo che sia stato molto ben fatto. Penso che sia stato un gran bene che delle donne che non erano in nessun gruppo femminista si siano riconosciute in quel movimento. Ciò ha dato loro l’opportunità di denunciare quello che avevano subìto. Di prenderne coscienza. Ci sono diversi modi per impadronirsi di un tema, per esempio i manifesti incollati a Parigi per puntare il dito contro i femminicidi. È una cosa che prima non si faceva, ma è una buona cosa, che dà sui nervi ai maschilisti. E poi, per altro verso, c’è stata l’invenzione di nuove parole: non si diceva “maschilisti” prima.

“Mansplaining”, femminicidio, maschilista… queste nuove parole permettono di apportare del concreto, di dare un nome a fenomeni di cui le donne sono vittime…

Certamente, e questo permette di introdurre nuovi concetti. Il temine “femminicidio” esisteva nei paesi ispanofoni, ma ci ha messo del tempo a generalizzarsi. Le donne si sono riconosciute in quella parola. Ci sono nuove parole perché ci sono nuove cose che vengono denunciate e che prima non lo erano.

Oggi che cosa resta del MLF? 

Quel che resta del MLF è un gran numero di gruppi che si sono formati su temi che noi non avevamo affrontato, perché non avevamo osato, credo. In che modo denunciare la molestia sessuale è una cosa nuova. Noi non vedevamo il modo di attaccarla, come se non fosse abbastanza grave, come se fosse una fatalità e non potessimo farci niente.

Che cosa resta da fare?

L’unica cosa da fare è continuare la lotta.

 

La banalità del maschio. Louis Althusser ha ucciso sua moglie, Hélène Rytmann-Legotien, che voleva lasciarlo.

Il 16 novembre 1980 il filosofo Louis Althusser strangola la moglie Hélène Rytmann-Legotien, che nelle settimane immediatamente precedenti aveva manifestato l’intenzione di lasciarlo. Tre mesi dopo, grazie alla fitta rete di protezione sociale che circonda l’assassino, un’ordinanza di non luogo a procedere ne decreta lo stato di non responsabilità giuridica, risparmiandogli la comparizione in tribunale e il carcere. All’autobiografia, scritta nel 1985 e pubblicata postuma nel 1992, il filosofo affida il racconto del «dramma nel quale è stato letteralmente scagliato dall’incoscienza e dal delirio», accreditando con il peso della propria firma una lettura dei fatti vittimistica e psicologizzante, orientata in definitiva a scagionarlo da ogni responsabilità. La continuità fra l’interpretazione del proprio gesto offerta da Althusser e il tenore del discorso diffuso dai media sulla violenza femminicida è il tema del saggio dello studioso Francis Dupuis-Déri, che presentiamo qui in traduzione italiana. Il caso Althusser, nient’affatto eccezionale, va inquadrato come un «rivelatore sociale»: non soltanto la vittima cade nell’oblio, sommersa dal discorso del suo carnefice, ma il femminicidio diventa addirittura, per l’assassino e per il gruppo sociale a cui appartiene, un’occasione favorevole al rilancio del proprio prestigio e del proprio valore. 

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© Tatiana Istomina, Philosophy of the Encounter, 2016-2017

di Francis Dupuis-Déri*

Ricordo la mia insistente domanda: com’è possibile che abbia ucciso Hélène? (Louis Althusser [1992] 1994: 286; trad. it. 1992: 272)

Hélène Rytmann nasce a Parigi nel 1910 in una famiglia ebraica. La sua giovinezza è segnata da due drammi importanti: a tredici anni, dietro raccomandazione del medico, ha somministrato una dose mortale di morfina al padre malato di cancro per mettere fine ai suoi giorni, l’anno successivo ha fatto lo stesso per la madre. Membro del partito comunista dal 1930, partecipa alla Resistenza nella regione di Lione durante la Seconda guerra mondiale, conosciuta all’epoca con il nome di Hélène Legotien (nome che riprenderà per firmare alcuni testi e che io stesso utilizzerò nel corso di questo intervento). Più tardi incontra un filosofo che insegna all’École normale supérieure, Louis Althusser, lui stesso membro del partito, con il quale avrà una relazione per una trentina d’anni.

All’inizio della guerra fredda, Legotien milita nel movimento per la pace (di obbedienza sovietica), prima di essere espulsa dalle fila del partito dai suoi compagni, che la accusano di hitlero-trotskismo, o di essere stata al soldo della Gestapo, o dell’Intelligence Service. Per ammissione stessa di suo marito, anche lui voterà per la sua espulsione (Althusser [1992] 1994: 228; trad. it. 1992: 213).

La notorietà di Althusser si consolida, ma il filosofo è psicologicamente molto instabile, al punto da essere spesso ospedalizzato. Legotien, allora, doveva rispondere alle domande di molti amici e molte amiche che si preoccupavano dello stato di salute di suo marito, ma che non si interessavano mai a lei, cosa che ella viveva come un’«ingiustizia intollerabile» (Althusser [1992] 1994: 275; trad. it. 1992: 261).

Althusser assassina Legotien il 16 novembre 1980, verso le nove del mattino, nel loro appartamento all’École normale supérieure.

Sulla scena pubblica si impone subito la tesi della follia per spiegare il caso. Ogni analisi sociologica o politica, per non dire femminista, è rimossa.

È precisamente di questo discorso pubblico, che ha l’effetto di discolpare l’assassino, che mi occuperò qui. La ricerca proposta si fonda su un’analisi incrociata delle affermazioni dell’assassino, che si è espresso diffusamente sui propri moventi nella sua autobiografia (L’avvenire dura a lungo), e dei punti di vista presentati in articoli apparsi su giornali e riviste dopo il delitto e dopo la pubblicazione dell’autobiografia. All’interno di questo corpus si mescolano discorsi di giornalisti, di editorialisti, di cronisti e di intellettuali, il più delle volte uomini, così come di psicologi e di psichiatri, per esempio nel quadro di interviste. L’analisi presentata qui riguarda una selezione di testi scelti per la loro pertinenza nel quadro di questa ricerca, senza pretese di esaustività, prendendo spunto dai lavori di Vania Widmer, la quale ha proposto, a propria volta, un’analisi dei discorsi mediatici relativi al «crimine di Althusser» [1].

L’obiettivo non è quello di distinguere o di comparare i diversi registri discorsivi [2], ma di mostrare che essi esprimono in maniera unanime un’identica certezza, cioè che il delitto deve essere spiegato con la psicologia dell’assassino, il che ha l’effetto di spoliticizzare il caso, ovvero di discolpare l’assassino stesso. Così, dopo aver presentato alcuni strumenti di analisi sviluppati da femministe specialiste dei discorsi pubblici sulle violenze maschili contro le donne, verrà ricordato il contesto sociale nel quale il delitto ha avuto luogo, quindi verranno presentati più dettagliatamente i discorsi di psicologizzazione e vittimizzazione dell’assassino, per discutere infine della rete di protezione e solidarietà maschile che è stata messa in campo a beneficio dell’omicida.

Nel corso della discussione emergerà che questo caso agisce come un «rivelatore» sociale (Delphy 2011: 7), perché ritornare su questo crimine e sui discorsi pubblici relativi ad esso permette di mettere in luce le «tattiche di occultamento» (Romito 2006) della violenza maschile contro le donne, al tempo stesso individuale e collettiva.

Delucidazioni femministe

Prima di discutere del caso e delle sue conseguenze, torniamo ai lavori delle femministe che hanno analizzato i discorsi sulle violenze degli uomini contro le donne. I loro studi sulla rappresentazione mediatica dei «drammi coniugali» o dei «crimini passionali» permettono di identificare alcune regolarità, in particolare per quanto riguarda le spiegazioni offerte. Una presentazione sintetica delle ricerche realizzate nel contesto anglosassone (Guérard, Lavender 1999) indica che il tema principale del racconto mediatico in genere è l’uomo che uccide la moglie o la ex-moglie, mentre la vittima occupa un posto marginale, anche se spesso è ritenuta responsabile della propria morte, mentre, contestualmente, la responsabilità dell’assassino viene minimizzata. Ogni caso è trattato separatamente dai media, cioè come un evento isolato, il che impedisce di vedere che la violenza omicida maschile è un fenomeno sociale (i giornalisti non evocano casi simili, anche quando ce ne sono diversi a cui vengono dedicati degli articoli nella stessa edizione di un giornale o con un intervallo di pochi giorni). Tra le spiegazioni che permettono di minimizzare la responsabilità dell’assassino, notiamo la volontà della sua compagna di lasciarlo e la depressione. Fatto interessante: tutti questi elementi si ritrovano nei discorsi mediatici che trattano del delitto di Legotien da parte di suo marito, ma anche nell’autobiografia firmata dall’assassino.

Un altro studio (Houel, Mercader, Sobota 2003), dedicato specificamente alla Francia, ha ugualmente permesso di constatare che, nella maggior parte dei casi, i giornalisti spiegano i cosiddetti «crimini passionali» con un «ragionamento psicologico, ovvero psicopatologico», soprattutto quando l’assassino è un uomo di classe media e «bianco». I giornalisti avanzano invece delle spiegazioni socioculturali quando si tratta di un uomo di origine straniera, in particolare un musulmano (Houel, Mercader, Sobota 2003: 9, 103 sgg.). Diverse femministe esperte di violenze maschili contro le donne hanno dimostrato che i discorsi pubblici, compresi quelli delle autorità, hanno la tendenza a rimuovere ogni riferimento ai rapporti sociali di sesso, atteggiamento che partecipa a un «processo di spoliticizzazione» (Lieber 2008: 175).

Nel loro studio, Annick Houel, Patricia Mercader e Helga Sobota (2003: 104-105) distinguono due tipi di «teorizzazioni psicologiche»: o «i criminali sono oggetto di una sorta di diagnosi», o le cause «sono ricercate nell’infanzia dei criminali», in particolare dal lato del padre assente o violento e della madre dominante. Ancora una volta, i discorsi pubblici diffusi dai media sul delitto di Legotien corrispondono bene a questo schema, esattamente come il racconto fornito dall’assassino nella sua autobiografia.

Per cogliere meglio il significato politico dei discorsi relativi al delitto perpetrato da Althusser, meritano attenzione le riflessioni di Mélissa Blais e Patrizia Romito. Blais (2009) ha analizzato i discorsi mediatici sull’attentato antifemminista al Politecnico di Montréal, il 6 dicembre 1989. Ha constatato che i media presentavano il terrorista [3] prima di tutto come un folle, anche se questi aveva chiarito molto esplicitamente le proprie motivazioni politiche, cioè antifemministe. Questo giovane uomo ha ucciso quattordici donne (tredici studenti e un’impiegata amministrativa) al Politecnico, dopo aver dichiarato: «odio le femministe». Si è suicidato sul posto e i poliziotti gli hanno trovato addosso una lettera-manifesto nella quale il terrorista si abbandonava a questa previsione: «Anche se sui media mi attribuiranno l’epiteto di Tiratore Folle, io mi considero un erudito razionale». In effetti è stato immediatamente designato come «folle assassino» dai media. Per parte sua, Althusser ha dispiegato molte energie per presentarsi come folle, e dunque irresponsabile del delitto, mentre era riconosciuto come un erudito razionale.

Romito (2006) ha studiato in modo più generale le «tattiche di occultamento» della violenza maschile contro le donne. La studiosa identifica la «psicologizzazione» come una delle tattiche più correnti ed efficaci di occultamento delle violenze maschili contro le donne. Questa tattica, che costituisce un «rifiuto dell’analisi politica» (Romito 2006: 137; si veda anche Hanmer 2012 [1977]: 100), rende difficile inquadrare questi assassinii nell’ambito di una logica sociopolitica, anche se le statistiche sono molto chiare a questo riguardo:

La psicologizzazione è dunque, in sostanza, una tattica di spoliticizzazione, incaricata di mantenere lo status quo e di rafforzare il potere dominante. […] Psicologizzare può servire anche a decriminalizzare una simile azione (Romito 2006: 122-123, corsivo nel testo).

Anche Blais (2009: 77 sgg.) ha chiarito in che modo la psicologizzazione dell’assassino del Politecnico sia stata ripresa dai media, persino da psicologi e psichiatri che non avevano incontrato l’assassino, né consultato la sua cartella medica. Blais dimostra che questa psicologizzazione ha avuto l’effetto di trasformare il «folle assassino» in vittima (è malato, sofferente) e di deresponsabilizzarlo (la causa è la follia, o ciò che ha causato la follia, ossia probabilmente il femminismo e le femministe). Le riflessioni di Blais e Romito si uniscono a quelle della femminista britannica Jalna Hanmer, presentate nel primo numero di Questions féministes nel 1977. Hanmer precisava che la sfida, nell’analisi delle violenze maschili, non è necessariamente «la spiegazione dell’atto individuale: la nostra principale preoccupazione è il significato, a livello sociale strutturale, della violenza degli uomini contro le donne» (Hanmer 2012 [1977]: 94).

Il contesto sociale del delitto

Del delitto di Legotien per mano di suo marito abbiamo soltanto il racconto dell’assassino. L’autobiografia scritta da questi a metà degli anni Ottanta e pubblicata nel 1992, due anni dopo la sua morte per cause naturali, si apre così:

Così come ne ho serbato intatto e preciso il ricordo fin nei minimi particolari […] ecco la scena del delitto tale e quale l’ho vissuta. D’un tratto sono ritto, in vestaglia, ai piedi del letto nel mio appartamento dell’École normale. […] Di fronte a me Hélène: sdraiata sulla schiena, anche lei in vestaglia. […] Inginocchiato vicinissimo a lei, chino sul suo corpo, le sto massaggiando il collo. […] Sento una grande stanchezza ai muscoli degli avambracci: lo so, massaggiare mi fa sempre dolere gli avambracci. Il volto di Hélène è immobile e sereno, i suoi occhi aperti fissano il soffitto. E d’improvviso resto attanagliato dal terrore: […] so che di strangolamento si tratta. Ma come? Mi alzo e urlo: ho strozzato Hélène! Mi affanno, e in preda a un panico profondo, […] mi dirigo, sempre correndo, verso l’infermeria dove so di trovare il dottor Étienne […]. Continuando a urlare, salgo a quattro a quattro le scale del medico: «Ho strozzato Hélène!» (Althusser [1992] 1994: 34; trad. it. 1992: 21-22).

Catherine A. Poisson (2008) e Vania Widmer (2004) hanno dedicato studi approfonditi a questo racconto e ne concludono che la narrazione è minata da un problema importante: «Althusser è assente dal delitto. Il delitto si svolge senza di lui» (Widmer 2004: 13). Ha ammazzato sua moglie, poi ha avuto una sorta di assenza, quasi una fantasticheria, e quando riprende coscienza, Legotien è morta. Il racconto riprende elementi discorsivi che si ritrovano nei media quando si tratta di «crimini passionali»: «i termini scelti tendono a descrivere questo momento [il delitto] come un accidente, come l’accidente di un essere assoggettato al disorientamento e non soggetto del proprio crimine» (Houel, Mercader, Sobota 2003: 129).

Nella sua autobiografia di più di trecento pagine, Althusser racconta la sua storia personale per spiegare il suo delitto. Egli suggerisce che il crimine si spiega mediante istanze psicologiche e psicoanalitiche, rimuovendo ogni riferimento alla politica sessuale e al femminismo. Ora, questo delitto non costituisce un evento eccezionale, in particolare se lo si colloca nel quadro del sistema patriarcale in Francia, laddove ha avuto luogo. In effetti, le femministe hanno dimostrato che la violenza maschile contro le donne è un fenomeno sociologico, oltre a essere oggetto di importanti mobilitazioni femministe, anche all’epoca in cui è avvenuto il delitto.

Dopo Maryse Jaspard (2005: 11-13), Alice Debauche e Christelle Hamel (2013: 5) hanno ricordato che la denuncia delle violenze maschili contro le donne è stata «una delle questioni più importanti sollevate dal movimento femminista degli anni Settanta. […] La denuncia delle diverse forme di violenza verso le donne fu oggetto di molte manifestazioni e numerosi scritti militanti — manifestazioni notturne, processo politico, etc.». L’assassinio di Legotien da parte del marito, filosofo marxista e militante comunista, ha luogo dunque dopo un decennio di mobilitazione femminista sul tema delle violenze maschili contro le donne. Questo celebre filosofo che insegnava a molte future vedettes intellettuali (Étienne Balibar, Regis Debray, Michel Foucault, Bernard Henry-Lévy, Jacques Rancière) e che frequentava personalità celebri (Paul Éluard, Jacques Lacan) sembra avere totalmente ignorato — se ci si basa sulla sua autobiografia — il femminismo, sia come movimento sociale che come teoria. Mobilitare l’analisi femminista permette tuttavia di ricordare il significato sociologico e politico del delitto, perché «il privato è politico», di elaborare una lettura critica della spiegazione avanzata dall’assassino stesso e dai suoi alleati e di ricordare che la protezione sociale di cui ha beneficiato l’assassino non è eccezionale quando celebrità maschili uccidono o stuprano delle donne.

In media ogni due giorni in Francia un uomo uccide la moglie o la ex-moglie. Legotien è una di queste donne assassinate. Si tratta di un fenomeno sociale, caratterizzato da una certa regolarità. D’altra parte, i dati sono pressoché costanti da più di vent’anni in Francia e in altri paesi, come in Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna e altrove. Già nel 1977 Questions féministes ricordava che le violenze maschili contro le donne avvengono spesso nel quadro di una relazione di coppia (Hanmer 2012 [1977]: 98-99). Circa un terzo di questi assassinii di donne [4] avvengono in situazione di separazione o di separazione annunciata. L’uomo decide di uccidere la moglie o la ex moglie, anziché accettare che lei lo lasci e si emancipi dalla relazione. Secondo lo stesso assassino, Legotien gli aveva detto che voleva lasciarlo qualche giorno prima che lui la uccidesse. Nell’autobiografia Althusser ([1992] 1994: 165; trad. it. 1992: 152) sottolinea con affermazioni per lo meno equivoche il proprio rifiuto di permettere alla moglie di lasciarlo: «le fughe violente di Hélène, che non potevo sopportare […] erano per me altrettante minacce di morte (e si sa quale rapporto attivo io abbia sempre intrattenuto con la morte)».

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“Lei lo lascia, lui la uccide”

L’assassino si presenta come vittima della donna che ha ucciso, e che avrebbe minacciato la sua sopravvivenza di uomo. Questi discorsi concordano con le osservazioni delle specialiste di omicidi coniugali, le quali indicano che «la motivazione invocata più spesso dagli uomini che hanno commesso un omicidio coniugale è l’incapacità di accettare la separazione coniugale». Gli assassini affermano di non potere «tollerare la perdita della coniuge e […] di vivere il lutto della relazione» (Lefebvre, Lévéillée 2011: 12). Nell’autobiografia Althusser si spiega in questo modo:

Non so quale tipo di vita imponessi a Hélène (e so d’essere stato davvero capace del peggio), ma lei dichiarò con una risolutezza che mi atterrì di non potere più vivere con me, che io ero per lei un “mostro” e che voleva lasciarmi per sempre. Si mise ostentatamente in cerca di un alloggio, ma non riuscì a trovarne uno subito. Adottò allora disposizioni pratiche per me insostenibili: mi lasciava in mia presenza, nel nostro appartamento. Si alzava prima di me e spariva tutto il giorno. Se le capitava di restare a casa, rifiutava di parlarmi e perfino di incontrarmi. […]  avevo sempre provato un’angoscia intensa all’idea di essere abbandonato, e soprattutto da lei, ma quell’abbandono in mia presenza e a domicilio mi sembrava più insopportabile di qualsiasi altra cosa. (Althusser [1992] 1994: 278-279; trad. it. 1992: 264-265).

La situazione pareva drammatica, dato che aggiunge: «Mi disse che la sua sola via di scampo, dato il “mostro” che ero e la sofferenza disumana che le imponevo, era uccidersi» (Althusser [1992] 1994: 279; trad. it. 1992: 265). Secondo l’assassino, Legotien gli avrebbe persino chiesto di aiutarla uccidendola. In quel periodo la coppia era totalmente isolata, al punto che non rispondeva più al telefono né al campanello. Non rispondeva più nemmeno alle telefonate del terapeuta che seguiva indipendentemente Legotien e Althusser e che provava a contattarli, poiché sapeva della crisi della coppia, o per lo meno a contattare Althusser, per il quale si era dato da fare affinché venisse ospedalizzato.

Gli specialisti dibattono per stabilire se gli uomini che commettono omicidi coniugali siano partner intrinsecamente violenti, o se un partner mite possa improvvisamente passare all’atto e uccidere la compagna. I dati statistici non permettono di arrivare a una conclusione netta. Ad ogni modo, la ricerca femminista parla di un continuum della violenza per designare quelle situazioni in cui la donna assassinata dal proprio marito o ex marito è stata il bersaglio di un’escalation di violenza nel corso della relazione (Lefebvre, Léveillée 2011: 12). Nell’autobiografia, Althusser stesso si auto-designava come un «mostro» e menzionava i «perpetui litigi» che lo opponevano alla moglie (Althusser [1992] 1994: 270; trad. it. 1992: 256). Egli si confessa: «ero per lei davvero insopportabile, tanto le mie provocazioni e le mie aggressioni continue la ferivano in modo quasi mortale» (Althusser [1992] 1994: 275; trad. it. 1992: 261). La relazione dunque era non soltanto conflittuale, ma marcata dalla violenza, per lo meno psicologica, senza contare poi che si trattava di una relazione non egualitaria a vantaggio dell’uomo, in termini di riuscita professionale, di prestigio e di influenza sociale, di reti sociali e affettive. Non era irragionevole che Legotien volesse lasciare il marito, né sorprendente che egli reagisse male a questa volontà di emancipazione.

Psicologizzazione e vittimizzazione

Pubblicata come opera postuma, la prima edizione dell’autobiografia di Althusser ha venduto più di 35 mila copie ed è stata tradotta quasi simultaneamente in una decina di paesi (Corpet, Moulier Boutang 1994: 18). Sui giornali il libro viene presentato come un «testo sincero» che «bisogna leggere», che contiene «più verità che non altrove» [6], e alcuni intellettuali vi scorgono «un capolavoro della letteratura autobiografica» (Lévy 2011: 8).

Eppure vi si può vedere anche un testo abbastanza mediocre in termini letterari, rivoltante da un punto di vista politico e persino scoraggiante da un punto di vista psicologico, dato che l’assassino si presenta come vittima. Quest’ultimo si rivela anche pretenzioso e vanitoso, paragonandosi a Descartes, Rousseau, Kant, Kierkegaard, Wittgenstein. Racconta la totalità della propria vita cominciando dall’inizio — «Sono nato il 16 ottobre 1918, alle quattro e mezzo del mattino» — e non ci risparmia le sue piccole manie, né una quantità di aneddoti insignificanti, fino a chiudere il cerchio terminando con una spiegazione del delitto presentato come la conseguenza di una vita marchiata dai traumi infantili. Al di là dei dettagli e delle numerose digressioni, questa autobiografia è un documento di 324 fogli in formato A4 il cui unico scopo è quello di presentare l’assassino come non responsabile del proprio crimine. 

Se si tiene a mente che l’autore ha ucciso la propria moglie, c’è da trasalire di fronte a certi passaggi, come quando riferisce, a proposito del primo incontro con Legotien, che avvertì «un desiderio e un altruismo esaltanti: salvarla, aiutarla a vivere! Per tutta la nostra storia, sino alla fine, non mi sono mai discostato da quella missione suprema che continuò a essere la mia ragione di vita fino all’ultimo istante» (Althusser [1992] 1994: 135; trad. it. 1992: 123).

Il tutto è disseminato di riflessioni di tenore psicoanalitico che spesso riprendono stereotipi patriarcali e sessisti, pur permettendo all’autore di annoverarsi tra «i più grandi filosofi [che] sono nati senza padre e hanno vissuto nella solitudine del loro isolamento teorico e nel rischio solitario che si assumevano di fronte al mondo. Sì, io non avevo avuto padre, e avevo giocato indefinitamente a fare il “padre del padre” per darmi l’illusione di averne uno. […] E ciò era possibile soltanto attribuendomi la funzione per eccellenza del padre: il dominio e la padronanza di ogni possibile situazione» (Althusser [1992] 1994: 193; trad. it. 1992: 179]. E di concludere: «Non diventavo forse in tal modo, finalmente, il mio stesso padre, vale a dire un uomo?» (Althusser [1992] 1994: 198; trad. it. 1992: 184]. 

Questa autobiografia offre tuttavia materiale interessante per un’analisi femminista dell’omicidio coniugale e dei discorsi pubblici al riguardo. Si deduce che il padre di Althusser incarnava un modello maschile patriarcale e molto violento. Questo padre non svolgeva alcun compito domestico né parentale, ha inflitto alla moglie (la madre di Althusser) violenza sessuale ed economica (le impedì di trovare un lavoro retribuito), corteggiava le mogli degli amici in presenza della propria (un comportamento che Althusser, d’altronde, riprodurrà davanti a sua moglie) (Althusser [1992] 1994: 55-63; trad. it. 1992: 46-51).

Inoltre, una pagina dopo l’altra, l’assassino si presenta come ossessionato dalle identità di genere tradizionali. Evoca una nonna che somigliava a una «donna-uomo» (Althusser [1992] 1994: 53; trad. it. 1992: 42), delle «donne-uomo» rese tali dal fatto di urinare in piedi (Althusser [1992] 1994: 92; trad. it. 1992: 80) e ricorda che i suoi colleghi si accusavano di essere delle donne, cioè delle «mamme» (Althusser [1992] 1994: 112; trad. it. 1992: 101). Spiega, in relazione alla sua adolescenza: «Non ero nemmeno un bambino, ma una debole femminuccia» (Althusser [1992] 1994: 74; trad. it. 1992: 62). Quanto a Legotien, la designa come «un uomo» (Althusser [1992] 1994: 150; trad. it 1992: 138), una «buona madre, finalmente, e al tempo stesso anche un buon padre» (Althusser [1992] 1994: 151-152; trad. it. 1992: 139), aggiungendo: «Noi facevamo davvero l’amore, come uomo e donna» (Althusser [1992] 1994: 152; trad. it. 1992: 139). Forse si trasalirà nuovamente leggendo alcuni commenti in cui l’assassino amalgama mascolinità e protezione delle donne: egli spiega senza la minima ombra d’ironia di aver voluto «essere veramente un uomo, capace di amare una donna e di aiutarla a vivere» (Althusser [1992] 1994: 188; trad. it. 1992: 174). 

Attraverso la propria autobiografia, l’assassino restituisce il ritratto di un’élite maschile caratterizzata dal maschilismo e dalla misoginia. Si incrociano un Jacques Lacan infatuato della figlia di uno dei suoi pazienti, il decano della facoltà di filosofia di Mosca che dice ad Althusser, mentre questi sta per lasciare la Russia, «saluta da parte mia le donnine di Parigi!!!» (Althusser [1992] 1994: 215; trad. it. 1992: 201), un Paul Éluard che riceve Althusser mentre una donna nuda dorme sul divano (Althusser [1992] 1994: 226; trad. it. 1992: 211), un Althusser che rimorchia le donne sulle spiagge di Saint-Tropez e accarezza i seni di una giovane donna che accompagna un amico invitato a cena. Nel capitolo in cui parla della propria adesione al Partito Comunista nel 1948, evoca soprattutto il ricordo di «una bella ragazza in vestaglia (i suoi seni…)» quando faceva il porta a porta (Althusser [1992] 1994: 225; trad. it. 1992: 211). Infine, l’assassino spiega anche perché si era costituito una «riserva di donne»:

Semplicemente, per non rischiare di trovarmi un giorno solo senza donne a portata di mano, nel caso che una delle mie mi avesse abbandonato o fosse morta […], se ho sempre avuto accanto a Hélène una riserva di donne, era proprio per avere la garanzia che, se per caso Hélène mi avesse abbandonato o fosse morta, non sarei rimasto solo nemmeno per un attimo. So benissimo che questa terribile coazione fece soffrire terribilmente le «mie» donne, Hélène per prima (Althusser [1992] 1994: 123-124; trad. it. 1992: 112).

A parte l’ambiguità della testimonianza quanto all’evocazione della morte di Hélène, si tratta del ritratto di un uomo che si ritiene proprietario delle donne, incapace di immaginare che esse possano sottrarsi a questa prerogativa maschile e pronto a farle soffrire mettendole l’una contro l’altra, compresa sua moglie (e questo malgrado fosse consapevole del dolore che le provocava: Althusser [1992] 1994: 176-179; trad. it. 1992: 163-165), pur di salvaguardare il suo bisogno imperativo di possedere delle donne.

Dunque sono disponibili molti mezzi per un’analisi femminista del delitto, dato che l’assassino rivela di avere avuto come modello un padre egocentrico e violento, di avere una concezione sessista e maschilista delle donne, di essere lui stesso egocentrico e di usare la violenza contro le donne. Detto questo, nella sua autobiografia il filosofo marxista confonde la violenza che impone agli altri e la violenza che afferma di subire, cosa che gli permette di presentarsi sempre come vittima. In questo modo riferisce dei ricordi di infanzia: dà un «ceffone» a un compagno di classe («senza sapere da dove venga quell’impulso violento») e schiaffeggia una bambina («Non seppi mai che cosa mi prese») (Althusser [1992] 1994: 71 e 76-77; trad. it. 1992: 59, 64). In entrambi i casi, egli parla di  «violenza subita», mentre era l’aggressore.

Sullo stesso registro, l’assassino si designa a più riprese non solo come una vittima, ma come un morto:  «Non esistendo più realmente, ero nella vita soltanto un essere d’artificio, un essere da nulla, un morto» (Althusser [1992] 1994: 107; trad. it. 1992: 95). In seguito all’uccisione della moglie, si presenta come un «disperso» (termine che prende a prestito da Foucault, che designa in questo modo anche i folli [Althusser [1992] 1994: 40; trad. it. 1992: 29]), perché il non luogo a procedere di cui ha beneficiato l’avrebbe privato della possibilità di testimoniare in tribunale, e dunque di dare la sua versione dei fatti. Egli sostiene che testimoniare gli avrebbe permesso di «sollevare la pesante pietra tombale [6] che giace sopra di me» (Althusser [1992] 1994: 46; trad. it. 1992: 34), «perché è sotto la pietra tombale del non luogo a procedere, del silenzio e della morte pubblica che sono stato costretto a sopravvivere e a imparare a vivere» (Althusser [1992] 1994: 46; trad. it. 1992: 34).

L’assassino che scrive questa autobiografia per spiegare il proprio delitto riprende diversi elementi linguistici caratteristici dei discorsi mediatici relativi ai «crimini passionali», e che si presentano come altrettante tattiche di occultamento della violenza, di deresponsabilizzazione dell’assassino e di spoliticizzazione del suo delitto. Dopo avere raccontato tutta la sua vita, ricorda di essere stato psicologicamente molto malato nelle settimane precedenti al delitto. Queste spiegazioni psicologizzanti avanzate dall’assassino per discolparsi e per presentarsi come vittima sofferente, saranno riprese dalle persone a lui vicine e dai suoi alleati, compresi, subito dopo il delitto, il medico e il direttore dell’École normale supérieure, e poi dai media.

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© Tatiana Istomina, Fhilosofhy of the Encounter

Widmer constata che, nel 1992, «commentando l’apparizione dell’autobiografia, la stampa ormai accetta la versione di Althusser sulla sua malattia mentale come spiegazione del delitto» e che i discorsi sui media restano «generalmente molto compiacenti verso Louis Althusser» (Widmer 2004: 11). Negli articoli della stampa francese analizzati nel quadro della nostra ricerca, l’omicida viene presentato come una vittima sofferente [7] di «malinconia», di «crisi» e di un’«angoscia indefinita» [8], in preda a un’«immensità dolorosa» [9] e a un «inferno interiore» [10]. Althusser sarebbe «crocifisso al proprio dolore» [11].

Qui è possibile paragonare i discorsi enfatici a proposito di Althusser a quelli formulati in circostanze simili, per esempio in seguito all’uccisione dell’attrice Marie Trintignant da parte del marito, il cantante Bertrand Cantat. In entrambi i casi gli assassini sono uomini che appartengono all’élite intellettuale o culturale. A questo riguardo, Lucile Cipriani spiega in un articolo apparso sul giornale di Montréal Le Devoir:

Il discorso di un aggressore, pertanto, può occupare tutto lo spazio, dirigere completamente l’attenzione sulle sofferenze dell’aggressore anziché su quelle della vittima. […] I dolori d’infanzia, i tormenti della gelosia, delle rotture, le ferite all’ego, il male di vivere e il desiderio di controllo degli aggressori delle donne vengono regolarmente descritti dai media. […] Perché il discorso dell’aggressore viene ascoltato? Perché viene accolto con simpatia da una parte della popolazione? […] Egli è socialmente accettato e integrato. […] La cultura garantisce uno spazio ai discorsi degli aggressori. Il discorso degli aggressori non si limita a deviare l’attenzione sulle loro sofferenze anziché su quelle delle vittime. Esso partecipa alla perpetuazione della violenza. L’invocazione delle proprie sofferenze da parte di un aggressore persegue un obiettivo deresponsabilizzante. (Cipriani 2003).

L’omicida appare dunque come un martire. Ora, questa insistenza nel presentare l’assassino come un essere sofferente e straziato si inscrive chiaramente «nella tendenza all’individualizzazione e alla psicologizzazione del fenomeno» (Jaspard 2005: 111) delle violenze maschili contro le donne — un processo che Blais e Romito hanno constatato persino nel caso in cui l’assassino non sia membro di una certa élite (a parte la classe degli uomini). Oltre a favorire l’empatia verso l’assassino, a distogliere l’attenzione dalla vittima, questo tipo di discorso partecipa alla spoliticizzazione della discussione.

Althusser non viene presentato soltanto come sofferente, ma anche come un essere adorabile, pieno di fascino, ovvero «come il più dolce e amabile degli uomini» [12]. Discutendo del delitto, si tratterebbe allora di «restituire Althusser alla sua umanità fragile» [13], presentandolo come un «uomo generoso», altruista e compassionevole che ha dato prova di un «infaticabile ascolto degli altri», dotato di «un formidabile gusto di vivere» [14], uno «sportivo contento di sé» e un «dongiovanni» [15]. Non è difficile rendersi conto di come questi aggettivi influenzino l’immagine pubblica dell’assassino, rappresentato in modo da suscitare empatia per questa vittima sofferente ma tuttavia così simpatica.

I giornali riprendono anche la tesi avanzata dallo stesso assassino, e cioè che a causa del non luogo a procedere e della mancanza di processo, egli è «condannato al silenzio», a una «sepoltura» che lo trasforma in «morto vivente» (cfr. anche Lévy 2011: 8). Da notare che questa idea secondo cui ci sarebbero due vittime e l’assassino è un «morto vivente» è corrente nella copertura mediatica dei «crimini passionali» (Houel, Mercader, Sobota 2003: 130).

La nostra ricerca conferma, pertanto, le conclusioni di Widmer, che a propria volta non aveva trovato alcuna differenza nel discorso mediatico, al contrario: tutti concordano nell’indicare la follia come causa del dramma. Dopo aver consultato diversi studi sul tema, firmati da biografi o da medici, Widmer aveva concluso: «Nella letteratura che ho consultato, la follia di Althusser sembra essere l’unica spiegazione del delitto» (Widmer 2004: 17). Nella sua prefazione alla raccolta di lettere che Althusser ha scritto alla moglie, un vecchio allievo del filosofo, Bernard-Henri Lévy, evoca anche lui il «dolore» e la «demenza» di colui che nomina suo «maestro» (Lévy 2011: 11).

Le uniche varianti discorsive identificate da Widmer riguardano la diagnosi precisa di follia (psicosi maniaco-depressiva, schizofrenia, paranoia, malinconia acuta con ossessione suicidaria, ipomania, bipolarità) e alcune voci che danno a intendere che, uccidendo la moglie, Althusser abbia voluto uccidere la propria sorella (lo aveva sognato), o la madre (castratrice), o il padre (Edipo), o il suo terapeuta, o se stesso… Persino Annick Houel, docente di psicologia a Lione, che pure è una delle autrici dell’eccellente studio precitato che analizza, in una prospettiva femminista, i discorsi mediatici sui «crimini passionali» in Francia, propone una spiegazione psicologica in un’intervista condotta da un’altra docente di psicologia sociale, Claude Tapia — un’intervista intitolata I retroscena del femminicidio. Il caso Althusser. Se nell’intervista viene senz’altro precisato che la violenza coniugale e gli omicidi coniugali sono «un effetto della disuguaglianza tra i sessi nella nostra società», Houel definisce il delitto commesso da Althusser come un «matricidio differito», con il quale egli avrebbe cercato di «supplire alle inadempienze della funzione paterna» che si è trovato a fronteggiare (Houel, Tapia 2008: 52).

Althusser è stato quindi oggetto di molte teorizzazioni per quanto riguarda il suo profilo e le sue motivazioni psicologiche, anche da parte di persone che non lo hanno mai incontrato e che non hanno mai potuto consultare la sua cartella medica. Qualcosa di simile è accaduto nel caso del terrorista che ha attaccato le donne al Politecnico di Montréal. A questo proposito Blais ha mostrato come i giornalisti che hanno fatto ricorso a consulenze psicologiche per tentare di spiegare l’evento legittimassero e consolidassero la tesi individualista, accantonando la riflessione sociopolitica sulla violenza maschile. Blais spiega infatti:

Questo tipo di consulenza [psicologica] permette ai giornalisti di ricondurre l’azione al fatto individuale […] e di rappresentare l’evento come eccezionale. Le comparazioni tra diversi crimini commessi specificamente contro le donne e le analisi che cercano di trovare spiegazioni nei rapporti sociali sono messe ai margini o vengono sommerse dai commenti […] nell’ambito della psicologia (Blais 2009: 84).

Ora, come ricorda Blais, l’accantonamento di ogni riflessione sociale ha l’effetto di spoliticizzare la discussione (si veda anche Romito 2006).

Nel caso di Althusser la spiegazione psicologica verrà sviluppata in modo particolare, con la tesi del «suicidio altruista» avanzata dall’assassino stesso (Althusser [1992] 1994: 310; trad. it. 1992: 294) e ripresa dai suoi commentatori. Raccontando della sua ospedalizzazione dopo il delitto, Althusser spiega che vedeva il suo terapeuta una volta a settimana «senza mai sentirmi colpevole attorno alla ragione profonda del mio delitto. Ricordo […] di avergli sottoposto un’ipotesi: l’omicidio di Hélène poteva essere un “suicidio per interposta persona”» (Althusser [1992] 1994: 295; trad. it. 1992: 280), in quanto lei gli aveva detto che voleva morire ma era incapace di passare all’atto. Secondo questa tesi per lo meno stupefacente, l’assassino non avrebbe ucciso Legotien: l’avrebbe suicidata per generosità (Arce Ross 2003: 232).

Mai a corto di spiegazioni ricercate per deresponsabilizzarsi, Althusser prosegue ancora:

Ciò che cercavo era evidentemente la prova, la controprova della mia stessa distruzione oggettiva, la prova della mia non-esistenza, la prova che io ero già bell’e morto alla vita, a ogni speranza di vita e di salvezza. […] Ma la mia stessa distruzione passava simbolicamente attraverso la distruzione degli altri […] ivi compresa la donna che più amavo (Althusser [1992] 1994: 304; trad. it. 1992: 289).

Facendo eco ai discorsi dell’assassino, alcune riviste sostengono addirittura che egli cercasse di uccidersi: «Strangolò come ci si suicida» [17]. Queste tesi funzionano, di fatto, come tattiche di occultamento della violenza maschile, che spingono ancora più in là la psicologizzazione dell’assassino. Non solo il delitto viene legittimato, ma Legotien non è più una vittima. Se esiste ancora nel racconto, è sotto forma di una donna che voleva morire e che era incapace di uccidersi (il suo assassino, quindi, le ha reso un servizio, l’ha liberata dalla vita). Può anche semplicemente sparire dal racconto: con il suo gesto, Althusser si è ucciso da solo. Legotien non esiste più, non è mai esistita [18].

In occasione della pubblicazione dell’autobiografia, ci si chiederà persino su Le Monde «se non è il desidero di autobiografia, cioè di esistenza come soggetto di un racconto (nel senso in cui lo intende Ricoeur) ad agire sotterraneamente nel delitto stesso» [19]. In breve, molta immaginazione per proporre ipotesi in apparenza sofisticate, ma anche molti sforzi per dimenticare un fatto relativamente semplice: filosofo o no, marxista o no, folle o no, Althusser non è né più né meno di uno di quei tanti uomini che, ogni anno, uccidono la loro moglie o ex moglie. Questo oblio delle regolarità e delle categorie sociali è il colmo, visto che l’assassino è stato il filosofo marxista più influente della propria epoca.

Questo delitto è un fatto sociale e politico, checché ne dicano gli psicoanalisti patentati, i commentatori sui media o l’assassino stesso. E gli studi rivelano, uno dopo l’altro, che i rischi di violenza maschile, compresa quella omicida, aumentano in caso di separazione. Ora, è significativo che il fatto che Legotien minacciasse di lasciare suo marito venga menzionato molto raramente nei media [20]. Quando vi si accenna, il giornalista evita di tirare le conclusioni logiche: «Hélène dice di volerlo lasciare. Ma dice anche di voler morire. L’ha strangolata per accedere al suo desiderio di morte? Mistero impenetrabile» [21].

Protezione e solidarietà maschile

In Francia gli uomini dotati di un forte capitale sociale che aggrediscono le donne, e il cui crimine viene portato all’attenzione del pubblico, di solito beneficiano di amici e alleati che si mobilitano per difendere il loro onore, deresponsabilizzarli del loro crimine e chiedere clemenza per loro. L’assassino di Legotien non era soltanto membro della classe degli uomini, era anche membro di una casta maschile superiore. L’editoriale del numero della rivista Nouvelles Questions Féministes che propone un dossier sulle «Violenze contro le donne» stima che:

I recenti casi mediatici di violenze sessuali o coniugali commesse da uomini degli ambienti più agiati (casi Cantat [22], Polanski [23] o Strauss-Kahn [24]) hanno messo in evidenza la compiacenza degli uomini di questa classe nei riguardi della violenza, così come la solidarietà che si manifestano l’un l’altro. (Debauche,Hamel 2013: 7).

L’assassinio di Legotien da parte del marito conferma questa analisi, dato che l’omicida ha ricevuto l’appoggio di diverse personalità pubbliche che hanno preso le sue difese. Alcuni sembrano abbonati a questo tipo di manovra, come Bernard-Henri Lèvy, che ha difeso pubblicamente anche Cantat, Polanski e Strauss-Kahn.

Di fatto, nei minuti e nelle ore che hanno seguito la morte, Althusser ha beneficiato dell’appoggio indefettibile dell’École normale supérieure, dei suoi terapeuti, dei suoi amici e dei suoi discepoli, che hanno costituito una linea di difesa prima che le autorità giudiziarie prendessero in carico il caso. In un articolo interessante, lo psichiatra Michel Dubec (2001: 37) constata che «l’unica cosa eccezionale in questo caso è che Althusser non sia stato trattenuto nemmeno un’ora dalla polizia, cioè che gli sia stata risparmiata la trafila dei malati mentali ordinari, che fanno qualche ora, o qualche mese, di prigione prima di passare all’ospedale psichiatrico». D’altra parte lo stesso Lévy, allievo di Althusser, evoca «il complotto dei normalisti, incluso l’autore di queste righe, che, appoggiandosi all’articolo 64 del codice penale, evita […] la prigione al loro professore, diventato il primo assassino della storia della filosofia» (Lévy 2011: 8).

Se ci si affida all’autobiografia, si direbbe che l’assassino trovasse del tutto normale questa situazione, ringraziando a più riprese il direttore dell’istituto e i suoi amici per avere manovrato così bene. Egli ringrazia anche il suo maestro, il teologo Jean Guitton, che interruppe «una trasmissione televisiva per proclamare che riponeva in me una fiducia totale e che sarebbe stato al mio fianco nelle peggiori prove» (Althusser [1992] 1994: 107; trad. it. 1992: 98]. L’assassino constata anche con soddisfazione che «nel complesso la stampa francese (e internazionale) fu assai corretta. Alcune testate, però, se la godettero un mondo […] malevoli e deliranti al tempo stesso», anche per aver denunciato lo «scandalo che un criminale abbia potuto beneficiare della protezione manifesta dell’establishment: si pensi alla sorte di un semplice algerino che fosse stato al mio posto, osò dire un quotidiano “centrista”» (Althusser [1992] 1994: 283; trad. it. 1992: 269). In effetti il 18 novembre 1980, cioè due giorni dopo il delitto, il Quotidien de Paris rivela che una «cospirazione» di amici di Louis Althusser manovra per «evitargli dei guai» [25]. Questa rivelazione sembra inaccettabile all’assassino, che si esprime come se la protezione gli fosse dovuta, come se fosse nell’ordine delle cose.

Ora, si può supporre che, qualora «un semplice algerino» uccida la moglie in Francia o altrove in Occidente, egli dovrà non solo affrontare la polizia e i tribunali, ma anche l’opinione pubblica della maggioranza, che non vedrà nel delitto un gesto eccezionale e inesplicabile, ma piuttosto una dimostrazione supplementare della violenza patriarcale della cultura musulmana (è quello che ha dimostrato lo studio sul trattamento mediatico dei «crimini passionali» condotto da Houel, Mercader, Sobota 2003 : 118 sgg).

Conclusione

Hélène Rytmann, nata a Parigi nel 1910, è morta assassinata nel 1980. Che cosa sappiamo di lei? Quasi niente. Una rapida ricerca in rete (via Google) ha permesso di constatare che non esiste, per dir così, alcuna informazione disponibile sul suo conto; di fatto, questa ricerca ci riconduce ineluttabilmente a Althusser, il suo assassino. Questa donna assassinata, tuttavia, ha partecipato a ricerche sociologiche sul lavoro (Naville 1961) e firmato alcuni scritti sulla rivista Esprit con il suo nome da partigiana: Hélène Legotien. Su questa rivista ha discusso il film Nous sommes tous des assassins, apparso nel 1952, constatando, in relazione alla produzione cinematografica dell’epoca, che «soltanto il sesso, il banditismo e il delitto passionale […] hanno piena libertà di esprimersi. Si sa a quale mediocrità questi temi condannano la maggior parte dei film occidentali» (Legotien 1955: 1144, corsivo mio).

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© Tatiana Istomina, Philosophy of the Encounter, 2016-2017

Avendo vissuto all’ombra del marito, Legotien vi si trova ancora dopo la propria morte e quella del suo assassino. Già nel 1985 la giornalista, romanziera e saggista Claude Sarraute osservava su Le Monde (14 marzo): «Quando, nei media, vediamo un nome illustre collegato a un processo ghiotto, Althusser, Thibaud d’Oréans [26], siamo sempre portati a cadere in esagerazioni. La vittima? Non merita più di tre righe. La vedette è il colpevole» (Althusser [1992] 1994: 8; trad. it. 1992: 8). Widmer conferma questo discorso: «non trovo la voce di Hélène Rytmann in nessuna delle mie letture. Anche lei, si può dire, è stata uccisa due volte» (Widmer 2004: 19). Ora, è in seguito alla pubblicazione del testo di Sarraute che alcuni amici dell’assassino lo incoraggiano a scrivere la sua autobiografia. Widmer nota dunque che, quando Sarraute «constata che si parla in maniera insufficiente di Hélène Rytmann, allora Louis Althusser si mette a parlare di sé» (Widmer 2004: 18-19). Nel 1992 Le Monde arriva a realizzare l’impensabile: pubblica un testo sulla follia di Althusser senza alcuna menzione né di Legotien, né del delitto [27].

Se tutti sembrano avere dimenticato la donna assassinata, si continua invece a celebrare l’opera del suo assassino con congressi, e molti suoi libri sono stati pubblicati postumi da grandi case editrici (Gallimard, Grasset, Stock). Althusser ha ucciso la moglie, ma questo non fa di lui — contrariamente a ciò che sosteneva — un disperso; viene persino discusso da una femminista di alto livello, che consacra un capitolo intero al suo pensiero e ai suoi concetti [28].

Per un uomo, ricorda Hanmer:

Può essere o sembrare necessario uccidere, mutilare, rendere invalida o compromettere temporaneamente la capacità di una donna di fornire servizi, per restare il padrone. Prestigio, valorizzazione, stima di sé: è ciò che l’uomo guadagna, esprime e fa riconoscere attraverso l’appropriazione degli altri (Hanmer 2012 [1977]: 105).

Sicuramente, l’assassino di Legotien ha saputo utilizzare il delitto stesso per rilanciare il proprio prestigio, la propria valorizzazione e la propria stima di sé. Si tratta, anche in questo caso, di un fenomeno sociale.

In uno scritto dedicato ai discorsi pubblici tesi a discolpare, e dunque a proteggere Strauss-Kahn, Christine Delphy propone di «trattare il caso come un rivelatore» di ciò che racchiude il cuore degli uomini dell’élite politica e intellettuale di Francia, una vera «casta»: «sono pieni di una misoginia la cui profondità è uguagliata soltanto dalla loro arroganza di classe» (Delphy 2011: 7, 12, 17). Questa constatazione è vera anche quando un filosofo marxista uccide la propria moglie. Chiaramente, l’assassinio di Hélène Rytmann non è un caso eccezionale, e Louis Althusser è un femminicida abbastanza banale.

NOTE

[*] Articolo originale: Francis Dupuis-Déri, La banalité du mâle. Louis Althusser a tué sa conjointe, Hélène Rytmann-Legotien, qui voulait le quitter, «Nouvelles Questions Féministes», 34, 1, 2015, pp. 84-101.

[1] Una valutatrice anonima di NQF ci ha indicato l’esistenza di riferimenti interessanti, ma in italiano. Eccoli, a titolo indicativo: Eleonora Selvi (2012). Maria Antonietta Macciocchi, l’intellettuale eretica, Roma: Aracne; Maria Antonietta Macciocchi (2002). Duemila anni di felicità: diario di un’eretica, Bompiani.

[2] Traccerò tuttavia una distinzione fra questi due registri: i riferimenti ai discorsi mediatici verranno messi in nota, mentre i riferimenti alle analisi scientifiche utilizzate nell’articolo verranno citati nel corpo del testo e in bibliografia, in modo da distinguere i piani del discorso.

[3] Per un’analisi della strage del Politecnico in quanto attentato terrorista antifemminista, cfr. Blais et al., 2010.

[4] Nel caso del Canada e degli Stati Uniti, è anche di più della metà (Lefebvre, Léveillée, 2011: 12)

[5] Marc Chabot (1992). «L’avenir dure longtemps de Louis d’Althusser: Les récits d’un échec de la pensée… où abondent les vérités». Le Soleil, 29 juin, p. A9.

[6] N.d.A.: usa quell’immagine tre volte in due pagine.

[7] Michel Contat (1992). «Les morts d’Althusser». Le Monde, 24 avril, p. 25.

[8] Philippe Chevallier (2011). «Hélène et Louis». L’Express, N° 3124, 18 mai, p. 116.

[9] Martine de Rabaudy (1998). «Le fou de Franca». L’Express, N° 2472, 19 novembre, p. 134.

[10] Valérie Marin la Meslée (2006). «Deux mots de Louis Althusser». Magazine littéraire, N° 458, p. 96.

[11] Philippe Chevallier (2011). «Hélène et Louis», art. cit.

[12] Dominique Dhombres (2002). «Bouffée délirante». Politis, N° 1194, 15 mars, consulté sur le Web le 10 janvier 2015 : [www.politis.fr/Bouffeedelirante,17532.html].

[13] Philippe Chevallier (2011). «Hélène et Louis», art. cit.

[14] Martine de Rabaudy (1998). «Le fou de Franca», art. cit.

[15] Martine Silber (2006). «Un comédien virtuose joue la folie d’Althusser». Le Monde, 27 novembre, p. 23.

[16] Michel Contat (1992). «Les morts d’Althusser». Le Monde, 24 avril, p. 25 ; Dominique Dhombres (2006). «Grandes affaires : 1980 – le coup de folie du philosophe». Le Monde, 30 juillet, p. 14.

[17] Jean-Paul Enthoven (1998). «Althusser et l’amour fou». Le Point, N° 1367, 28 novembre, p. 127.

[18] Le journal L’Humanité taillera en pièces de telles explications. Voir Gil Ben Aych (2000). «Le concept de meurtre ne tue pas». L’Humanité, 12 mai, p. 26.

[19] Michel Contat (1992). «Les morts d’Althusser». art. cit.

[20] Un cas d’exception: Jean Yves Nau (1993). «La passion d’Althusser». Le Monde, 27 janvier, p. 11.

[21] Louis B. Robitaille (1992). «Althusser: Les Mémoires d’outre-tombe d’un prophète fou et meurtrier». La Presse, 1992, 26 avril, p. A2.

[22] N.d.A.: Bertrand Cantat, cantante, ha ucciso sua moglie, Marie Trintignant.

[23] N.d.A.: Roman Polanski, regista, ha ubriacato, drogato quindi stuprato una ragazza di 13 anni, Samantha Geimer.

[24] N.d.A.: Dominique Strauss-Kahn, presidente del Fondo Monetario Internazionale, ha stuprato una donna delle pulizie, Ophelia Nafissatou (oltre ad avere aggredito sessualmente una giovane giornalista, Tristane Banon, e approfittato di reti di prostituzione).

[25]  Michel Kajman (1990). «Le combat perdu contre la déraison». Le Monde, 24 octobre, p. 18.

[26] N.d.A.: Un nobile francese condannato per furto di quadri.

[27] Roger Pol Droit (1992). «Le fou et le philosophe Althusser pose la question insolite et insoluble des entrelacs de la réflexion philosophique et de l’histoire des affects». Le Monde, 24 avril, p. 3

[28] Nel testo di Judith Butler intitolato “Conscience Doth Make Subjects of Us All”. Althusser’s Subjection, il delitto è citato soltanto di sfuggita e viene ridotto a «elemento biografico». Leggendo questo testo mi è venuta l’idea di svolgere una ricerca sull’argomento.

BIBLIOGRAFIA

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Coronavirus e femminismo

Le pandemie colpiscono uomini e donne in modo diverso

di Helen Lewis

Articolo originale qui  

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Ne abbiamo abbastanza. Quando la gente si sforza di essere ottimista sul distanziamento sociale e il lavoro da casa, facendo notare che William Shakespeare e Isaac Newton hanno prodotto alcune delle loro opere migliori mentre l’Inghilterra era devastata dalla peste, la risposta è ovvia: nessuno dei due aveva la responsabilità della cura dei figli.

La carriera di Shakespeare si è svolta per la maggior parte a Londra, dove si trovavano i teatri, mentre la sua famiglia viveva a Stratford-upon-Avon. Durante la peste del 1606, il drammaturgo fu accidentalmente risparmiato dall’epidemia, mentre la sua padrona di casa morì a causa del contagio, e sua moglie e le due figlie adulte si trovavano al sicuro nella campagna del Warwickshire. Newton, nel frattempo, non si era mai sposato né aveva avuto figli. Assistette alla Grande Peste del 1665-66 nella residenza di famiglia nell’est dell’Inghilterra, e passò la maggior parte della vita da adulto come Fellow dell’Università di Cambridge, dove i pasti e la gestione domestica erano assicurati dal college.

Difficilmente l’esplosione di un’epidemia infettiva lascerà a coloro che hanno responsabilità di cura il tempo per scrivere King Lear o sviluppare una teoria sull’ottica. Una pandemia amplifica tutte le diseguaglianze esistenti (anche quando i politici insistono che non è il momento di affrontare argomenti che non siano la crisi immediata). Lavorare da casa con un lavoro impiegatizio è più semplice; chi riceve salari e tutele sarà più protetto/a; l’autoisolamento è meno faticoso in una casa spaziosa che in un appartamento angusto. Ma uno degli effetti più impressionanti del coronavirus sarà quello di rispedire molte coppie negli anni Cinquanta. In tutto il mondo l’indipendenza delle donne sarà una vittima silenziosa della pandemia.

In termini prettamente medici, il coronavirus sembra colpire le donne meno gravemente. Ma ultimamente la discussione sulla pandemia si è ampliata: non stiamo attraversando soltanto una crisi di salute pubblica, ma anche una crisi economica. Nella misura in cui la vita normale è in gran parte soggetta a una sospensione per tre mesi o più, le perdite di posti di lavoro sono inevitabili. Al tempo stesso, la chiusura delle scuole e l’isolamento domestico stanno spostando il lavoro di cura dei bambini dall’economia retribuita – asili, scuole, baby-sitter – a quella gratuita. Nel mondo sviluppato il coronavirus fa saltare l’accordo negoziato fra tante coppie in cui entrambi i partner lavorano: possiamo lavorare entrambi, perché altre persone si prendono cura dei nostri figli. Invece, ora le coppie dovranno decidere chi si sobbarca il peso.

Questa pandemia evoca molti esempi di arroganza. Tra i più esasperanti vi è l’incapacità dell’Occidente di imparare dalla storia: la crisi dell’Ebola in tre paesi africani nel 2014, Zika nel 2015-16 e recenti epidemie di SARS, influenza suina e aviaria. Le indagini scientifiche su questi episodi hanno dimostrato che essi hanno avuto effetti profondi e durevoli sull’uguaglianza di genere. “Il reddito di tutti/e è stato colpito dall’epidemia di Ebola nell’Africa occidentale”, afferma Julia Smith, ricercatrice in politiche sanitarie della Simon Fraser University, sulle colonne del New York Times , “ma il reddito degli uomini è ritornato a livelli pre-epidemia più velocemente di quello delle donne”. Gli effetti disastrosi di un’epidemia possono durare anni, come riferisce Clare Wenham, docente di politiche sanitarie globali alla London School of Economics. “Abbiamo visto anche diminuire i tassi di vaccinazione infantile [durante l’Ebola]”. Quando, poi, questi bambini hanno contratto malattie prevenibili, le madri hanno dovuto sacrificare il loro lavoro retribuito.

A livello individuale, le scelte di molte coppie nei prossimi mesi saranno perfettamente sensate da un punto di vista economico. Di cosa hanno bisogno i pazienti di una pandemia? Di chi si prenda cura di loro. Di cosa hanno bisogno le persone più anziane in autoisolamento? Di chi si prenda cura di loro. Di cosa hanno bisogno i bambini che restano a casa da scuola? Di chi si prenda cura di loro. Tutto questo prendersi cura – cioè questo lavoro di cura gratuito – peserà maggiormente sulle donne, a causa dell’attuale composizione della forza lavoro. “Non si tratta soltanto di norme sociali relative alle donne che svolgono ruoli di cura: si tratta anche di questioni pratiche”, aggiunge Wenham. “Chi è pagato/a meno? Chi è più precario/a?”.

Secondo i dati del governo britannico, il 40 per cento delle donne occupate lavora part-time, contro il 13 per cento soltanto degli uomini. Nelle relazioni eterosessuali, le donne hanno maggiori probabilità di essere quelle che guadagnano meno, il che significa che i loro lavori non vengono considerati una priorità nei momenti di crisi. E questa specifica crisi potrebbe durare mesi, anziché settimane. Alcune donne non recupereranno mai i loro guadagni nel corso della vita. Con le scuole chiuse, molti padri certamente si faranno avanti, ma non tutti.

Malgrado l’ingresso in massa delle donne nella forza lavoro nel XX secolo, il fenomeno del “doppio turno” di lavoro esiste ancora. Nel mondo le donne – incluse quelle occupate fuori casa – svolgono più lavoro domestico e hanno meno tempo libero dei loro partner. Persino i meme sugli acquisti compulsivi indotti dal panico confermano che i compiti domestici come fare la spesa ricadono primariamente sulle spalle delle donne. “Non ho paura del covid-19, ma della mancanza di buon senso delle persone”, recita uno dei tweet più popolari sulla crisi del coronavirus. “Ho paura per le persone che hanno veramente bisogno di andare al supermercato e sfamare le loro famiglie, ma Susan e Karen hanno fatto scorte per 30 anni”. La battuta funziona perché “Susan” e “Karen” – nomi affibbiati alla casalinga-tipo – sono considerate responsabili della gestione della casa, piuttosto che, per esempio, Mike e Steve.

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Harry Greb Design – Roma

Guardatevi intorno e potrete già vedere coppie che prendono decisioni difficili su come dividere questo maggiore carico di lavoro gratuito. Quando ho contattato Wenham, era in auto-isolamento con due bambini piccoli; lei e il marito si alternavano con turni di due ore tra cura dei figli e lavoro retribuito. Questa è una possibile soluzione. Per altre coppie, la divisione avverrà secondo i vecchi criteri. Le coppie con doppio reddito potrebbero trovarsi improvvisamente a vivere come i loro nonni, una casalinga e un percettore di stipendio. “Mio marito è medico del pronto soccorso e tratta i pazienti di coronavirus. Abbiamo appena preso una decisione difficile, lui va in isolamento in garage indefinitamente, fino a quando continuerà ad avere contatti con i pazienti”, ha scritto Rachel Patzer, epidemiologa alla Emory University, che ha tre bambini, di cui una di poche settimane. “Mentre provo a fare lezione ai miei figli (da sola) con una neonata che urla se non viene tenuta in braccio, temo per la salute di mio marito e della mia famiglia.”

I genitori single hanno di fronte a sé decisioni ancora più difficili: mentre le scuole sono chiuse, come tengono assieme l’esigenza di guadagnare e quella di badare ai figli? Nessuna dovrebbe rimpiangere l’ideale degli anni Cinquanta del Papà che torna a casa per trovare la cena pronta e i figli appena lavati, quando così tante famiglie, anche allora, non potevano realizzarlo. In Gran Bretagna, oggi, un quarto delle famiglie sono mono-genitoriali.  In più del 90 per cento dei casi, il genitore è una donna. La chiusura delle scuole rende ancora più pesante la loro vita.

Altre lezioni che ci ha dato l’epidemia di Ebola sono state altrettanto dure, ed effetti simili, anche se in misura minore, si vedranno nel corso di questa crisi nel mondo sviluppato. La chiusura delle scuole ha ridotto le opportunità di vita delle ragazze, poiché molte hanno abbandonato la scuola (e l’aumento di gravidanze adolescenziali ha esacerbato questa tendenza). La violenza domestica e quella sessuale sono aumentate. E più donne sono morte di parto perché le risorse sono state dirottate altrove. “I sistemi sanitari vengono distorti, perché tutti gli sforzi sono rivolti all’epidemia”, afferma Wenham, che ha condotto una ricerca sul campo in Africa occidentale durante la crisi dell’Ebola. “Le cose che non sono considerate prioritarie vengono cancellate. Il che può avere un effetto sulla mortalità per parto o sull’accesso alla contraccezione.” Gli Stati Uniti hanno già statistiche spaventose in questo ambito, in confronto ad altri paesi ricchi, e le donne nere hanno il doppio delle probabilità di morire di parto rispetto alle bianche.

Per Wenham, le statistiche più impressionanti sono quelle della Sierra Leone, uno dei paesi più colpiti dall’Ebola, che tra il 2013 e il 2016, durante l’epidemia, ha visto morire più donne di complicazioni ostetriche che della stessa malattia infettiva. Ma queste morti, come il lavoro di cura che viene ignorato e sul quale si fonda la moderna economia, attrae meno attenzione dei problemi immediati generati da un’epidemia. Queste morti sono date per scontate. Nel suo libro Invisible Women, Caroline Criado Perez osserva che sono stati pubblicati 29 milioni di articoli in più di 15,000 riviste peer-reviewed all’epoca delle epidemie di Zika e di Ebola, ma meno dell’1 per cento riguardava l’impatto di genere delle epidemie. Wenham finora non ha trovato analisi di genere dell’epidemia del coronavirus: lei e due colleghe intendono colmare questa lacuna.

I dati accumulati con le epidemie di Ebola e Zika dovrebbero informare la risposta attuale. Sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, le attiviste prevedono un incremento della violenza domestica durante i periodi di lockdown. Lo stress, il consumo di alcol e le difficoltà economiche sono considerate le micce che possono fare esplodere la violenza domestica, e le misure di quarantena imposte in tutto il mondo le agevoleranno. La rete britannica Women’s Aid ha dichiarato di temere che “il distanziamento sociale e l’autoisolamento verranno usati dai violenti come strumenti di coercizione e controllo, e ostacoleranno la possibilità per le donne di trovare aiuto e mettersi in sicurezza.

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Yolanda López – “The Nanny”, 1994

Le ricercatrici, comprese quelle con cui ho parlato, esprimono frustrazione per il fatto che questi dati non vengano presi in considerazione dai decisori politici, che adottano ancora un approccio gender-neutral alle pandemie. Temono anche che si stiano perdendo opportunità preziose per raccogliere dati di alta qualità che sarebbero utili per il futuro. Per esempio, abbiamo scarse informazioni su come i virus simili al coronavirus colpiscano le donne incinte – di qui i consigli contraddittori  nel corso della crisi attuale – o, secondo Susannah Hares, membro del Center for Global Development, dati sufficienti per costruire un modello per decidere quando riaprire le scuole.

Non dobbiamo ripetere lo stesso errore. Per quanto sia deprimente pensarci ora, altre epidemie saranno inevitabili, e bisognerà resistere alla tentazione di riservare al genere una posizione secondaria, considerandolo una distrazione dalla vera crisi. Quello che facciamo ora influenzerà le vite di milioni di donne e ragazze nelle future epidemie.

La crisi del coronavirus sarà globale e durevole, tanto economica quanto medica. Tuttavia, essa offre anche un’opportunità. Potrebbe essere la prima epidemia in cui le differenze di genere vengono registrate e prese in considerazione dalle ricercatrici e dai decisori politici. Per troppo tempo, i politici hanno dato per scontato di poter addossare la cura dei bambini e degli anziani ai privati cittadini – soprattutto le donne – di fatto garantendo un enorme sussidio all’economia retribuita. Questa pandemia dovrebbe ricordarci la vera misura di questa distorsione.

 

 

«Odio le femministe!»: il mascolinismo come contro-movimento sociale

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© Hannah Höch, Modenschau  (1925-1935)

Il 6 dicembre 1989 un uomo si introduce nei locali del Politecnico di Montréal con una carabina semiautomatica e un coltello da caccia. Nel giro di una ventina di minuti l’uomo, che risponde al nome di Marc Lépine, uccide 14 persone: 14 donne. Il suo movente è esplicito: prima di sparare contro le studenti che ha isolato all’interno di un’aula, grida «Odio le femministe!». Nella lettera che lascia dopo essersi suicidato, dichiara: «Il mio è un atto politico». A dispetto di queste intenzioni inequivocabili, la città di Montréal avrebbe impiegato trent’anni per riconoscere ufficialmente che si era trattato di un «attentato antifemminista»La sociologa Mélissa Blais è fra quante hanno militato per questo obiettivo. Proponiamo qui la traduzione di una sua intervista apparsa su Ballast, che ripercorre l’ideologia dei movimenti mascolinisti che, oggi come ieri, con o senza azioni eclatanti, continuano a lottare per i «diritti degli uomini» — ovvero contro le rivendicazioni femministe.

Intervista in lingua originale: https://www.revue-ballast.fr/melissa-blais-le-masculinisme-est-un-contre-mouvement-social

D: Ricorre oggi [6 dicembre 2019] il trentesimo anniversario dell’attentato del Politecnico: che cosa è cambiato da allora?

MB:  All’indomani della strage ci si è subito sforzati di interpretare le cause dell’evento. Non si trattava di mettere in dubbio i fatti: non si attivarono delle forze negazioniste. Ma i discorsi che circolavano maggiormente sui media mettevano da parte ogni analisi sociologica, riducendo l’accaduto al gesto di un uomo isolato trascinato dalla propria follia: Lépine avrebbe commesso l’irreparabile e non si dovevano tenere in considerazione le sue intenzioni. Ora, questo tipo di discorso si opponeva molto apertamente alle analisi femministe della sparatoria che, al contrario, puntavano a sottolineare le intenzioni dell’assassino.  E che volevano cogliere l’occasione per agire immediatamente al fine di evitare il ripetersi di questo genere di attentati. Le femministe hanno militato tanto sul tema della violenza contro le donne, il che permetteva di inscrivere l’attentato del Politecnico all’interno di un continuum di violenze.

Negli anni successivi, le femministe sono state le uniche a commemorare l’attentato, mentre la battaglia sulla memoria continuava. I discorsi si sono leggermente riconfigurati in occasione del decimo anniversario: a quel punto era possibile ammettere che l’assassino avesse agito sulla spinta di un movente, un movente misogino — ma si era ancora ben lontani dal riconoscere il carattere antifemminista del suo gesto. Ciò a cui si dava risalto, in termini di prevenzione, era la necessità di concentrarsi sulla violenza in generale, sulla violenza in tutte le sue forme. In questo modo, si amalgamavano la violenza contro le donne e la violenza in televisione, la violenza al parco giochi… Così facendo, si perdeva di vista la peculiarità delle violenze sessiste. Si eliminavano le specificità del fenomeno sociologico delle violenze contro le donne, che richiede una griglia di analisi particolare.

Ma le femministe hanno progressivamente aperto delle brecce nel discorso mediatico. Vent’anni più tardi, la loro analisi trovava più spazio nelle interpretazioni delle cause della strage. Si riconosceva che Marc Lépine non era un individuo isolato, che il suo gesto si inscriveva in una società in cui persistono disuguaglianze di genere. Ma ci sono voluti altri dieci anni e sforzi enormi da parte di alcune femministe (oggi raggruppate sotto le insegne del Comité 12 jours d’actions contre les violences faites aux femmes) affinché la targa commemorativa che segnala il luogo del 6 dicembre 1989 a Montréal indicasse chiaramente che si era trattato non solo di un «attentato» —  e non di una «tragedia», come si era detto fino ad allora —, ma anche di un attentato antifemminista. Si tratta, in definitiva, di un riconoscimento politico forte delle intenzioni dell’assassino e del fenomeno dell’antifemminismo. Ma fino a che punto si spingerà questo riconoscimento? Oggi siamo pronti ad ascoltare le femministe che denunciano i discorsi di odio che le prendono a bersaglio e che circolano specialmente sul web?

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© Hannah Höch, Kustige Person (1932)

 D: Perché è ancora tanto difficile riconoscere come tali gli atti di violenza antifemministi — e questo malgrado le dichiarazioni esplicite dell’assassino?

MB: Nel caso del Politecnico, la distanza dall’evento è una delle ragioni per cui oggi lo si riconosce molto più facilmente come tale. Distanza temporale, in primo luogo. Oggi si può pensare che Lépine rappresentasse l’«ultimo dinosauro» e che la strage sia avvenuta in un’altra «epoca», quella del 1989, in cui persistevano disuguaglianze fra uomini e donne. Si tratterebbe di un tempo ormai trascorso, dal momento che il problema sarebbe risolto. Si progredisce allora nell’interpretazione delle intenzioni, ma ci si allontana dal problema di fondo, che rimane attuale. Distanza spaziale, in secondo luogo. Gli eventi vengono classificati in modo diverso a seconda che ci tocchino direttamente o che abbiano luogo altrove. Per esempio, in Francia è più facile parlare di attentato antifemminista a proposito del Politecnico, perché è il Québec ad aver conosciuto questo genere di terrore.

D: A proposito di «terrore», appunto: lei ha stabilito un parallelo tra l’attentato del Politecnico e quello della moschea di Québecnel 2017. In particolare, in virtù dal fatto che nessuno dei due attentati è stato riconosciuto come atto terroristico. Le stesse polemiche si sono accese in Francia a proposito dell’attacco alla moschea di Bayonne, due anni più tardi. Che cosa ci dice tutto questo del contesto razzista e sessista delle nostre società?

MB: È sempre più facile credere che formiamo una grande collettività unita intorno a un progetto nazionale — questo è ancora più caratteristico della Francia, che è impregnata di ideali universalisti — e puntare il dito contro gli altri, anziché riconoscere la persistenza di alcuni problemi all’interno delle nostre società. I problemi di democrazia li vediamo sempre in Cina, mai qui. Ma questi terroristi domestici rivelano cose molto più sottili, come l’esposizione quotidiana delle donne alle molestie, le minacce contro le femministe (nel caso del Politecnico) o l’islamofobia (nel caso della moschea di Québec). E le forze politiche dominanti, generalmente costituite da uomini privilegiati, rifiutano di vedere queste ingiustizie perché è nel loro interesse che non si vedano: vederle significherebbe rimettere in questione la società da cui ricavano dei vantaggi.

Per quanto riguarda l’attentato alla moschea di Québec, i politici ne hanno riconosciuto il carattere razzista più rapidamente, ma la logica del gioco elettorale è stata sufficiente a farli ritrattare e a sorvegliarne il discorso. Da parte dei media, il primo riflesso è stato quello di fare un’analisi psicologica, etichettando come «folle» l’assassino. Il secondo riflesso è stato quello di interrogare dei vicini, dei testimoni, cioè di limitare la parola al vissuto, ai sentimenti, ma raramente di intervistarli a titolo di esperti che conoscono il fenomeno dell’islamofobia e che avrebbero potuto chiarire le motivazioni dell’attentatore. Invece di prendere decisioni coraggiose come l’istituzione di una commissione di inchiesta sull’islamofobia, il governo ha fatto votare, al contrario, la «legge 21», che consolida lo stigma contro la comunità musulmana — soprattutto contro le donne che indossano il velo (come in Francia, la legge si concentra sul divieto del velo all’interno della funzione pubblica).

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© Hannah Höch, Flucht (1931)

L’aspetto più inquietante, nel caso del Politecnico come in quello della moschea di Québec, è che abbiamo visto spuntare degli emuli, uomini che si sentono ispirati dagli assassini e che cercano di riprodurre i loro atti. Nel caso di Marc Lépine, un buon esempio è quello di Donald Doyle. Nel 2005 Doyle afferma di essere la sua «reincarnazione» e stila una lista di 26 femministe che intende assassinare. I poliziotti lo hanno arrestato prima del passaggio all’atto. A casa sua hanno trovato un’arma da fuoco, dei proiettili e una lettera a corredo della lista. Ma è soltanto un esempio fra altri. Graffiti firmati «Marc Lépine II» accompagnavano la minaccia «Uccidere tutte le femministe» nei bagni della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Toronto nell’aprile del 1990. E mi fermo qui [1]. Anche su internet, sulle diverse piattaforme degli incels — i celibi involontari — si trovano messaggi che eroicizzano Lépine e invitano altri uomini a trarne ispirazione. Nel caso dell’attentato alla moschea di Québec, sono state proferite delle minacce contro la comunità musulmana, senza contare le teste di maiale deposte davanti all’ingresso delle moschee e i graffiti incitanti all’odio. In senso generale, gli atti di terrorismo domestico hanno delle conseguenze sui gruppi marginalizzati che vengono presi di mira. Ma i politici e le politiche, il più delle volte, non riescono a proteggere davvero chi ne è bersaglio.

D: Questo genere di azioni violente, ovvero criminali, che colpisce le donne è intrinsecamente legato all’ideologia mascolinista?

MB: Il mascolinismo può essere concepito come una componente del contro-movimento antifemminista [2]. E la caratteristica precipua di un contro-movimento consiste nell’intrattenere una relazione quasi simbiotica, o di interdipendenza, con il movimento a cui si oppone. L’antifemminismo è anche un movimento sociale plurale, composto da tendenze differenti, alcune delle quali sono effettivamente molto virulente — e altre meno. Soltanto una piccola frangia dell’antifemminismo adotta questa postura violenta. Fra le azioni che prediligono vanno annoverate le azioni dirette e le minacce di morte, ma anche l’attività di lobbying, la pubblicazione di volumi o il sostegno agli uomini attraverso risorse speciali riservate agli uomini in difficoltà. Poco importano le tattiche adottate o la virulenza dei loro propositi, nel complesso questi attori si oppongono alle rivendicazioni del movimento femminista in nome della conservazione degli interessi degli uomini. Nella mia tesi di dottorato [3] segnalo che il mascolinismo è generalmente composto da uomini bianchi eterosessuali provenienti per la maggior parte da ambienti economicamente privilegiati, che ritengono di aver molto da perdere dall’avanzata delle femministe.

D: Tuttavia non si può dire che l’avanzata delle femministe abbia rovesciato l’ordine maschile negli ultimi decenni!

MB: Il più delle volte non è il cambiamento stesso, quanto piuttosto l’impressione di un cambiamento contrario ai loro interessi, a stimolare i movimenti reazionari. È precisamente il caso del mascolinismo, a partire dal momento in cui il femminismo acquista una certa visibilità. Per esempio, quando a metà degli anni Duemila il governo annuncia l’intenzione di stanziare una certa somma allo scopo di aiutare le case rifugio per le vittime di violenza coniugale e i centri di aiuto per le vittime di violenza sessuale — cioè risorse chiaramente associate al femminismo —, si osserva una reazione contestataria molto forte da parte loro. Dal loro punto di vista, questi organismi contribuiscono a mettere la società contro gli uomini proteggendo le donne. Il motore della loro mobilitazione è la paura, una paura da privilegiati: la paura di perdere qualcosa di cui credono di essere stati derubati, ma che viene suscitata da effetti di annuncio e dall’amplificazione mediatica. E questa reazione antifemminista può arrivare alla mobilitazione: ho potuto repertoriare, per esempio, spargimenti di chiodi nel parcheggio di un centro femminista, graffiti, minacce di morte, etc.

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© Hannah Höch, Der Vater (1920)

D: Si possono tracciare relazioni chiare tra i movimenti mascolinisti e la destra politica, conservatrice o nazionalista?

MB: Le cose sono più complesse. I movimenti mascolinisti effettivamente sono contigui, nel quotidiano, ad altre forme di antifemminismo, come l’antifemminismo religioso conservatore (gli antiabortisti che si oppongono al movimento «pro-scelta») che si organizza per limitare i diritti riproduttivi delle donne e per opporsi ai diritti delle coppie formate da persone dello stesso sesso. Senonché, il discorso della «crisi» della mascolinità è rintracciabile anche nelle organizzazioni situate a sinistra dello spettro politico, fra cui gli ambienti sindacali. In Québec, i mascolinisti delle organizzazioni sindacali si oppongono ai comitati di sole donne che esistono all’interno dei sindacati, sostenendo che anche gli uomini vivono dei problemi in quanto uomini. Dunque è difficile posizionare il mascolinismo alla destra dello spettro politico senza commettere l’errore di invisibilizzare la presenza di uomini detti di sinistra che, a propria volta, si appropriano degli elementi del discorso antifemminista mascolinista per le loro rivendicazioni. Per quanto riguarda la relazione fra il mascolinismo e l’estrema destra, questa resta da documentare per il Québec — sarà il tema di un mio prossimo progetto di ricerca.

D: Su che cosa verterà?

MB: Si tratta di analizzare più precisamente in che modo i militanti di estrema destra su Internet si appropriano di questa retorica mascolinista per alimentare la loro analisi della «crisi della mascolinità bianca». Ora, questa embricazione di motivazioni razziste e misogine, ovvero antifemministe, sembra riscontrabile presso alcuni attentatori, fra cui Alexandre Bissonnette, l’assassino della moschea di Québec, che aveva condotto delle ricerche su alcune organizzazioni femministe prima di attaccare la moschea.

D: Con la parola «mascolinismo» lei designa un insieme di movimenti politici i cui interessi «spesso incontrano quelli di tutti gli uomini». Questi movimenti intendono rappresentare tutti gli uomini o soltanto una certa forma di mascolinità egemonica?

MB: Ci si riferisce spesso alla pluralità di mascolinità individuata dalla sociologa Raewyn Connell e al suo concetto di «mascolinità egemonica». Ma temo che questo concetto rischi di diventare una parola macedonia. Se preferisco parlare di interessi e di rapporti sociali, anziché di «mascolinità», è perché gli studi sulla mascolinità talvolta sbandano verso una psicologizzazione delle identità di genere — come è accaduto, negli Stati Uniti, negli studi sulle mascolinità — e dimenticano che, oltre alla psicologia degli esseri umani, esistono dei rapporti di potere. La stessa Connell ha ritenuto di dover precisare che non si possono pensare le mascolinità in sé e per sé, come se esistessero senza rapporti diretti con le femminilità. Per dirlo con parole mie, le identità di genere esistono perché dei rapporti sociali le costruiscono. O in modo ancora più semplice: l’identità degli uomini esiste perché essi hanno interesse ad appropriarsi dei corpi che chiamiamo «femminili». Di modo che, ogni volta che si analizza una mascolinità, sia essa egemonica o subalterna, bisogna sempre pensarla nella sua relazione con una corrispondente femminilità.

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© Hannah Höch, Equilibre (1926)

Sui rapporti di potere, aggiungerei che i mascolinisti più virulenti e vendicativi denunciano il sostegno alle donne vittime di violenze coniugali asserendo che le femministe si sono inventate di sana pianta il fenomeno della violenza contro le donne (sostenendo che la violenza oggi sarebbe simmetrica fra uomini e donne) per accaparrarsi i fondi pubblici e crearsi posti di lavoro. Se si accettano le loro rivendicazioni, molti uomini potranno violentare impunemente le loro compagne. E questo è un vantaggio maschile. Non perché tutti gli uomini siano violenti, ma perché tutti gli uomini potenzialmente violenti beneficeranno dello smantellamento della rete di sostegno alle vittime di violenze coniugali e sessuali. Si tratta di un’esemplificazione del fatto che, anche se alcuni uomini rifiutano questo genere di vantaggi e militano contro di essi, gli interessi dei mascolinisti sono di fatto interessi molto più generali.

Si potrebbe mostrare la stessa cosa in materia di divorzio e separazione, quando è in gioco la custodia di un figlio: le associazioni di padri separati e divorziati danno a intendere che i tribunali e la magistratura sono ultra-femministi, che sono controllati da femministe e che i padri vengono discriminati quando l’affido è concesso unicamente alle madri. Ma alcune inchieste condotte in Francia, in particolare dalla sociologa Aurélie Fillod-Chabaud, dimostrano che, in queste situazioni, quando il padre rivendica l’affido alternato o condiviso, è essenzialmente per evitare di pagare gli alimenti. D’altro canto è sintomatico constatare che i gruppi dell’associazione Fathers 4 Justice si sono moltiplicati soltanto a partire dal momento in cui, negli anni Novanta, una decisione politica ha imposto il versamento automatico e obbligatorio degli alimenti già riconosciuto da un giudice. In Québec, all’inizio degli anni Duemila, i gruppi di padri separati hanno offerto consulenze a padri divorziati o separati per non pagare gli alimenti, proponendo appositi servizi di assistenza legale o suggerendo loro di lasciare il lavoro per percepire il sussidio sociale. Se i mascolinisti riescono a spuntarla e a imporre l’affido condiviso obbligatorio, chi ci guadagnerà? Di certo, non le donne vittime di violenze coniugali. I padri non dovranno più pagare gli alimenti, e c’è da scommettere che quelle che si occuperanno realmente dei figli saranno, nella maggioranza dei casi, le madri o le nuove compagne dei padri separati. Esiste dunque uno scarto fra il discorso pubblico dei mascolinisti da una parte, e il contenuto reale delle loro rivendicazioni dall’altra.

D:  I movimenti mascolinisti dichiarati e politicamente organizzati svolgono la funzione di comodo spauracchio utile a coprire forme più sottili di antifemminismo, avvolte dentro a rivendicazioni «umaniste»?

I militanti antifemministi ricorrono di frequente a una strategia discorsiva che consiste nel distanziarsi dai mascolinisti troppo virulenti per presentarsi come attori credibili. I mascolinisti hanno attirato l’attenzione dei media per mezzo di azioni eclatanti: in Francia, Serge Charnay si è accampato in cima a una gru a Nantes in occasione della «Primavera dei padri» nel 2013; a Montréal, nel 2005, alcuni membri dell’associazione Fathers 4 Justice si sono arrampicati sulla struttura del ponte Jacques-Cartier e sulla croce del monte Royal, travestiti da supereroi. Questi uomini sapevano di essere considerati dagli altri militanti più virulenti o più combattivi rispetto ad altri gruppi che loro stessi definivano «di intellettuali». In qualche modo, si ritenevano il braccio militante che manovra, coordinato strategicamente con i più intellettuali, affinché questi ultimi risultino credibili agli occhi della popolazione e dei decisori. D’altra parte, più o meno cinque anni dopo la sua bravata, Fathers 4 Justice annuncia sul suo sito Internet di non aver più bisogno di ricorrere ad azioni dirette perché la popolazione alla fine ha capito. Così, lasciano posto agli «intellettuali». Ed effettivamente, intorno al 2010, sono anzitutto gli operatori sociali (per esempio gli psicologi sociali che lavorano nelle organizzazioni di sostegno agli uomini violenti, nei gruppi di padri) e i ricercatori universitari a conquistare la scena con un discorso sfumato e molto meno virulento. Essi mobilitano diverse tattiche retoriche, come la pretesa di razionalità (contro la supposta emotività delle militanti femministe), ma anche l’uso massiccio del termine «parità» o il riferimento ad alcune femministe (contestate, come Elisabeth Badinter in Francia) per non passare per antifemministi. Insomma, questi due tipi di militanza sono complementari. Sarebbe interessante documentare in che modo questa strategia — che funziona molto bene — sia stata concepita ed elaborata dai più virulenti fra loro.

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© Hannah Höch

D: Quali conseguenze hanno questi movimenti sui movimenti femministi?

MB: In Québec, la situazione è molto diversa rispetto alla Francia. Qui il movimento femminista è forte, strutturato: è guidato da organizzazioni-ombrello che difendono i diritti e che hanno un mandato per creare rapporti di forza con i decisori politici. Ora, molte femministe riscontrano un’avanzata dei discorsi mascolinisti, con il risultato che la definizione della violenza (secondo cui, per esempio, le violenze sessiste e sessuali sono prevalentemente dirette contro le donne e gli autori sono in gran parte uomini) oggi viene rimessa in discussione. Due anni fa sono state ritirate le occorrenze della parola «donne» sui siti web del Secrétariat à la condition féminine [equivalente quebecchese del francese Secrétariat d’État chargé de l’égalité entre les femmes et les hommes] in tutti i casi in cui è questione di «violenze contro», in modo da significare che il governo lotta contro qualsiasi forma di violenza, inclusa la violenza delle donne contro gli uomini nel contesto coniugale. E questo cambiamento — che non ha avuto lunga vita, dato che il sito è stato rimaneggiato — non sembra essere stato fatto per includere le minoranze di genere! Ho analizzato anche i regressi a livello di finanziamenti: organismi pubblici e fondazioni filantropiche esigono dai gruppi femministi che questi ultimi lavorino con gli uomini, richiesta che si estende ai gruppi non misti per statuto o che lavorano con le vittime delle violenze. Alcune femministe raccontano persino di aver perso dei finanziamenti per essersi rifiutate di lavorare con gruppi di padri o con uomini violenti. Dunque vengono messe di fronte a una scelta: collaborazione con le associazioni mascoliniste o perdita dei finanziamenti! Per ora i mascolinisti non hanno vinto, ma questi elementi confermano che sta succedendo qualcosa a livello politico.

Ci sono anche delle ricadute a livello organizzativo. Agli inizi degli anni Duemila, le femministe hanno dovuto far fronte a numerose azioni violente, minacce di morte, etc., e a ogni conferenza o assemblea molte di loro hanno testimoniato di avere paura. Sono anche state sempre più caute nell’organizzare certe azioni. Si sono dovute dotare di dispositivi di sicurezza, inclusi i servizi d’ordine, oltre a dover collaborare con la polizia — benché siano molto critiche del lavoro dei poliziotti che non raccolgono le denunce delle vittime di violenza come dovrebbero. Infine, il discorso mascolinista talvolta viene integrato al repertorio di manipolazione utilizzato dagli uomini violenti, che riescono a convincere delle donne vittime di violenza di essere loro stesse violente. Tutto questo comporta un coinvolgimento maggiore da parte delle femministe nell’intervento, nell’accompagnamento giuridico, e determina un certo affanno. Di contro, il mascolinismo produce anche effetti contrari ai propri obiettivi: si tratta del nemico comune che aggrega proprio malgrado le femministe al di là delle divergenze politiche o di analisi. Ogni 6 dicembre, si vede bene che l’antifemminismo agisce come un catalizzatore e che contro di esso che le femministe si mobilitano!

NOTE

[1] Cfr. Mélissa Blais, Marc Lépine: héros ou martyr?, in M. Blais, F. Dupuis-Déri, Le mouvement masculiniste au Québec. L’antiféminisme démasqué, Éditions du Remue-ménage, Montréal 2015.

[2] Nell’introduzione al volume collettaneo che hanno curato, Le mouvement masculiniste au Québec, Mélissa Blais e Francis Dupuis-Déri definiscono il mascolinismo come un movimento che «ingloba un insieme di individui e di gruppi che operano, al tempo stesso, per contrastare il femminismo e per promuovere il potere degli uomini»; lo si può definire «contro-movimento» nello stesso senso in cui si parla di «contro-rivoluzione»: «ogniqualvolta si dà un vasto movimento di emancipazione, i dominanti si mobilitano per contrattaccare».

[3] Masculinisme et violences contre les femmes: une analyse des effets du contremouvement antiféministes sur le mouvement féministe québécois, Tesi di dottorato in Sociologia, Università del Québec, Montréal 2018.