Monique Wittig: la fuga che fa dimenticare tutte le altre

Note a margine di Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 77, euro 10.

di Deborah Ardilli

Viviamo, per generale ammissione, in un’epoca in cui i tempi e gli spazi di ascolto concessi alla parola letteraria tendono a comprimersi. O a ridisegnarsi in funzione dell’ascendente esercitato da altri, più remunerativi, codici di comunicazione. Messo a confronto con i suoi fasti novecenteschi, l’accanimento nella ricerca di forme nuove, specie se animato da una tensione utopica e anti-conciliativa, oggi appare fortemente ridimensionato. Un’analoga sorte incombe sulla nostra memoria letteraria, cioè sull’unica riserva simbolica in grado di assicurare le condizioni di un uso rigenerante dei testi del passato. Date queste premesse, un écrivain — questo il nudo appellativo inciso sulla lapide del Père-Lachaise di Parigi — come Monique Wittig (1935-2003) sembrerebbe il candidato ideale a una ben gracile forma di sopravvivenza culturale, affidata per intero alle premure di una cerchia esclusiva di professionisti della parola in possesso delle chiavi per accedere ai suoi libri.

Se così non è, se l’opera di Wittig non è condannata a vegetare come una pianta da serra, insomma se la vita postuma di un’intellettuale di capitale importanza per la storia femminista e lesbica del Novecento può in qualche modo proseguire e confidare di raggiungerci nell’aperto, lo dobbiamo anzitutto al dinamismo di quel che ancora si muove alla periferia dell’accademia e del mercato editoriale. Appartengono a questa piccola schiera di engagées Eva Feole, specialista di letteratura francese, e la sociologa femminista Sara Garbagnoli, entrambe già autrici di diversi lavori su Wittig e su altre esponenti del femminismo materialista francofono, ai quali oggi si aggiunge Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, da poco pubblicato per la collana essentials di DeriveApprodi.

Con la sua perlustrazione limpida, concisa e solidamente informata delle coordinate entro cui gravita l’opera di Wittig, il volume si presenta nella veste di un’agile introduzione per principianti. Già questo basterebbe a raccomandarlo come esempio di divulgazione di qualità, a maggior ragione in una fase in cui torna di moda riavvicinare le parole “femminismo” e “materialismo”, sebbene resti per lo più eluso il confronto con le autrici (Christine Delphy, Monique Wittig, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet) che per prime si sono poste il problema di estendere all’analisi dell’oppressione patriarcale la strumentazione concettuale del materialismo storico. Ma a favore del libretto depone anche un’altra ragione, meno esteriore e più direttamente legata alle iniziative promosse dalle autrici per restituire centralità al contatto diretto con i testi wittighiani: da ultimo, la conduzione del ciclo di letture Nel cantiere letterario di Monique Wittig, organizzato insieme a Lesbiche Bologna e Some Prefer Cake tra gennaio e maggio 2023.

Non è un merito da poco, per chi si adopera a costruire occasioni di questo tipo, riuscire a riaccendere il piacere del testo senza soccombere all’alternativa rovinosa tra “fruire” e “capire”, all’ombra della quale cova la tentazione di scindere la Wittig poeta dalla Wittig politica, e di salvare l’una a spese dell’altra. Dunque, se leggere Wittig «non è altro che un’esortazione a reinventare il mondo» (MW, p. 12), la fatica che Feole e Garbagnoli le consacrano richiede a propria volta di essere recepita non già come un bignami autosufficiente, ma come un vero e proprio invito al viaggio. Nella consapevolezza che la sollecitazione a prendere il largo, anche da collaudati schemi percettivi e interpretativi, potrà essere effettivamente raccolta a patto di non bruciare in un generico conato decostruttivo le tappe che separano il punto di partenza, ossia la comprensione del funzionamento politico e ideologico del regime eterosessuale, dalla destinazione finale, ossia il superamento delle classi/categorie di sesso prodotte e riprodotte da quel regime.

Ai fraintendimenti ancora sussistenti a questo riguardo, Feole e Garbagnoli dedicano alcune battute introduttive, rimarcando da un lato il paradosso costituito dalle interpretazioni differenzialiste di Wittig (a lungo in voga in area anglofona alla voce French Feminism, ma presenti anche nel contesto italiano) e, dall’altro, l’inadeguatezza delle letture inclini a fare della scrittrice una «prodomica manifestazione delle teorie queer» (MW, p. 10): letture per altro parzialmente condivise, sia pure con giudizio di valore negativo, dalla capostipite francese del pensiero della differenza sessuale, Antoinette Fouque [1]. L’ostilità e l’estraneità di entrambe le correnti, differenzialista e queer, al paradigma materialista entro cui Wittig si inscrive (ed entro cui continuerà a inscriversi anche dopo la tempestosa dissoluzione del collettivo editoriale di Questions féministes) è la principale ragione della difficoltà a cogliere i contorni teorici del suo percorso intellettuale. Wittig non risponde al richiamo delle proliferazioni di genere, perché le sa impotenti a scalfire la tenuta del sistema eterosessuale. Analogamente, non si lascia incantare dalle sirene di una differenza più “originaria” di quella posta dal patriarcato, perché riconosce l’inganno delle ontologie fondamentali che proiettano nell’essere le divisioni gerarchiche create dall’organizzazione sociale.  

Chiariti tali aspetti, le direzioni da seguire vengono individuate da Feole e Garbagnoli attraverso cinque lemmi-chiave illustrati, con gli opportuni riferimenti bibliografici, in altrettanti capitoli. Ultimo in ordine di apparizione — preceduto da «Femminismo materialista», «Pensiero straight», «Cantiere letterario», «Corpo lesbico» — «Cavallo di Troia» è il capitolo da cui suggerirei di cominciare. Avere preliminarmente chiaro cosa voglia dire «ridefinire l’universale, sottraendolo alla confisca fattane dai dominanti» (MW, p. 68) è, in effetti, il modo più spedito per rendersi conto di quale sia la sfida lanciata da Wittig a un tempo — il nostro, più ancora di quello della sua vita — talmente ripiegato su rivendicazioni di “parità nella differenza” da non avvertire nemmeno la contraddizione in termini custodita dallo slogan in questione.

Cavallo di Troia, dunque. Tratta dal secondo libro dell’Eneide, (ri)letta da Wittig nella straniante traduzione francese di Pierre Klossowski, la figura della macchina da guerra ideata dai greci per spiazzare le difese nemiche è l’immagine che, con frequenza crescente a partire dalla fine degli anni Settanta, la scrittrice elegge a metafora privilegiata del proprio fare poetico. Potremmo dire, in forzosa sintesi, che quella del cavallo di Troia è l’immagine deputata a descrivere il movimento dialettico che consente al fare poetico di liberare la propria riserva di energia senza disperderla nell’informe e nell’indeterminazione. Da un lato, si tratta infatti di mettere in crisi le convenzioni letterarie ereditate, a partire dai presupposti che fondano la classificazione canonica dei generi letterari; dall’altro, si tratta di procedere al «rimontaggio dei materiali precedentemente smontati e rilavorati che conduce alla costruzione di un senso nuovo» (MW, p. 67). Sotto questo profilo, l’opera letteraria può agire come una macchina da guerra solo sulla base di un alto grado di intertestualità e di un’esplicita intenzione anti-mimetica nei riguardi dell’ipotesto ripreso nella nuova scrittura. Il modello parodiato, ovvero riplasmato dal punto di vista minoritario, perde così il proprio statuto canonico per diventare materiale da lavoro, sottoposto a nuovi fini. Il «cantiere letterario», lo spazio «al contempo concreto e astratto che coincide con la pagina ancora da scrivere», pur contenendo «tutto ciò che è stato già scritto dagli altri scrittori e scrittrici» (MW, p. 39), altro non che è il luogo adibito alla fabbricazione di quegli avatar del cavallo del Troia che i testi wittighiani ambiscono a essere.

L’enfasi sulla scrittura come lavoro applicato al materiale linguistico e la valorizzazione della metafora militare sono i tratti che, con maggiore evidenza, permettono di distinguere la poetica wittighiana da quell’idea di écriture féminine che, a partire dagli anni Settanta, ha largamente influenzato la percezione del rapporto tra femminismo e letteratura, trasformando il primo in un elogio a oltranza della differenza (cioè in un anti-femminismo che si esplicita come tale a fasi alterne, a seconda delle geografie e delle opportunità politiche) e facendo della seconda una sorta di calco simbolico del corpo sessuato. Diversamente, come sottolineano Feole e Garbagnoli, stanno le cose per Wittig. Da questo punto di vista, la figura del cavallo di Troia si impone, in sede di riflessione meta-letteraria, come un morceau choisi sfilato dal fornitissimo arsenale di strumenti offensivi e difensivi, ordigni e marchingegni bellici che appaiono a cadenza regolare nella fiction wittighiana: ausili indispensabili allo scatenamento di quel «furore così perfetto» messo in scena per significare la violenza necessaria a condurre a buon fine l’«ultima guerra possibile della storia» (G, p. 184/ p. 115).

Difficile, in questo senso, non accorgersi di come la presenza massiccia, nei romanzi wittighiani, di archi, frecce, scudi, carabine, specchi capaci di proiettare raggi micidiali, lancia-razzi, mitragliette e pistole laser richiami, per antitesi, un aspetto costante dei rapporti di dominio patriarcali, vale a dire il sottoequipaggiamento tecnologico che priva le dominate di una capacità di intervento sul mondo estesa al di là delle possibilità e dei limiti del corpo fisico. «Non sarà questa», si chiede l’antropologa Paola Tabet, «una delle condizioni necessarie perché le donne stesse siano materialmente utilizzabili nel lavoro, nella riproduzione, nella sessualità?» [2].

Ecco allora che, per annullare le condizioni della reificazione delle donne e della feticizzazione della differenza sessuale, la pagina di Wittig si popola di armi, in modo tale da suggerire un’associazione stretta fra lotta antipatriarcale, apprendistato letterario ed emersione di quella «nuova dimensione dell’umano» costituita, per la scrittrice francese, dal lesbismo. Ne L’opoponax, per limitarsi a un esempio precoce, il desiderio tra Catherine Legrand e Valerie Borge si nutre senz’altro del dono reciproco di versi inventati o prelevati da poeti come Malherbe, Louise Labé, Leopardi e Baudelaire; ma anche delle tre pallottole di carabina che l’una, già avviata all’attività di tiro, mette in mano all’altra pregandola di conservarle (O, p. 267/p.208).

Il momento dello scambio amoroso delle pallottole si colloca, letteralmente, a un passo dal ciclo epico de Le guerrigliere, dal quale apprendiamo che «quelle che vogliono trasformare il mondo» devono «prima di tutto impadronirsi dei fucili» (G, pp. 120-21/p. 74). Se ci fermassimo al versante più agevolmente riconoscibile della frase, forse non coglieremmo altro che un’eco della retorica maoista dilagante nella Francia post-68. Senonché, in mano a Wittig, i problemi della guerra e della strategia assumono una dimensione di portata decisamente più ampia, definita sempre da una relazione fortissima e, non di pura derivazione, con l’insieme della tradizione letteraria.         

«Alla guerra penseranno gli uomini» è, come si ricorderà, la battuta perentoria che Ettore rivolge ad Andromaca nel sesto libro dell’Iliade, uno degli ipotesti alla base de Le guerrigliere. Con un ribaltamento apparentemente clamoroso, la guerra verrà poi qualificata come «un affare di donne» nella Lisistrata di Aristofane, un altro dei testi a cui Wittig fa esplicitamente allusione. Veicolata dal motivo dello sciopero del sesso, la competenza politica delle donne trova la propria fonte di legittimazione, nella commedia aristofanea, nel contributo da queste offerto alla polis in veste di madri: ragion per cui, spetta alle donne escogitare una soluzione per mettere fine a un conflitto ventennale, quello fra Ateniesi e Spartani, che minaccia la tenuta dell’ordine mandando in rovina le famiglie. Per effetto di un altro rovesciamento, sotto la penna di Wittig la stessa frase, «la guerra è un affare di donne» (G, p. 180/p. 112), assume un significato completamente nuovo che, salvo errori, non ha precedenti nella vicenda delle riscritture della Lisistrata — nemmeno nelle versioni a intonazione femminista [3]. A ridosso dell’esplosione del Movimento di liberazione delle donne in Francia, di cui la scrittrice sarà una delle principali istigatrici, si tratta infatti di legittimare il diritto di elles, l’eroe collettivo della moderna epopea guerrigliera, di partecipare non a una guerra qualsiasi, ma di fare la guerra contro ils per liberarsi dalle condizioni della propria soggezione, porsi come soggetti universali di enunciazione di sé e del mondo e affrancarsi dalla necessità di identificarsi con i simboli che esaltano il corpo frammentato e la specificità femminile, ovvero con l’ultimo legame che le stringe a una cultura morta.  

È, questo, solo uno dei molti campioni che si potrebbero prelevare in vivo per verificare cosa intendono Feole e Garbagnoli quando osservano che, per Wittig, si tratta «di far violenza a una lingua e a una letteratura che strutturalmente fanno violenza ai gruppi minoritari negando loro piena soggettività, di far dire al linguaggio e alla letteratura ciò che non sono fatti per dire: la piena umanità e universalità dei soggetti minoritari» (MW, p. 68). Ma è anche un esempio particolarmente idoneo a illuminare, per contrasto, gli ostacoli che si frappongono non solo alla legittimazione, ma alla stessa concepibilità, del conflitto prefigurato da Le Guerrigliere.

«Pensiero straight» è, nel lessico critico messo a punto da Wittig, l’espressione riassuntiva di tali ostacoli. Solo un’interpretazione superficiale della realtà del dominio, e di quello eteropatriarcale in particolare, potrebbe equipararli alla somma delle opinioni sessiste e dei giudizi svalorizzanti che circolano all’interno della società in un dato momento. Ciò che conta, nella definizione del pensiero straight, non sono i contenuti particolari, ma la forma ideologica di un’interpretazione del mondo rintracciabile tanto nella doxa corrente quanto nel discorso delle scienze umane (strutturalismo e psicoanalisi in primis, ma non solo). E questa interpretazione del mondo, condotta dal punto di vista del dominante, non ha altra funzione fuorché quella di agire come schema di occultamento del conflitto: di nascondere e congelare, a ogni livello, gli antagonismi che innervano la struttura sociale. Se quello fra uomini e donne è il più vulnerabile alla presa mistificante dell’ideologia straight, ciò non dipende solo dall’anteriorità storica del patriarcato rispetto a forme moderne di dominazione, ma dal fatto che i meccanismi concreti di appropriazione delle donne da parte degli uomini offrono un terreno propizio alla credenza nella necessità di un rapporto intimo e permanente fra “diversi” e “complementari”. Si radica qui la resistenza tenace a concepire donne e uomini come classi di sesso, anziché come gruppi naturali.

Nell’universo mitico forgiato dall’ideologia straight, in effetti, non esistono dominanti e dominati, appropriate e appropriatori, maggioritari e minoritari, così come non c’è spazio per la dialettica intesa come coscienza pensante della contraddizione reale. Esistono solo i titolari legittimi dell’universale, da un lato, e, dall’altro, differenze e alterità elevate a qualità intrinseche delle classi oppresse per meglio mascherare i rapporti sociali di dominio. La pacificazione garantita dal pensiero straight è sinonimo di riconciliazione con la disuguaglianza e consacrazione delle gerarchie. Come sottolinea “Wittig” (il personaggio messo in scena in Virgile, non) commentando una scena di prostituzione, la denuncia dell’inferno dell’oppressione, e della devastazione umana che ne scaturisce, sarà sempre, dal punto di vista straight, un’esagerazione imputabile al «flagello lesbico». E, in quanto tale, meritevole di censura (VN, p. 42/p. 42.).   

L’accostamento proposto da Feole e Garbagnoli tra la nozione di «pensiero straight» e quella di «ideologia razzista» elaborata da Colette Guillaumin [4] non è importante solo ai fini dell’individuazione di una delle fonti, del resto dichiarate, del pensiero di Wittig. La sovrapponibilità fra «pensiero straight» e «ideologia razzista» rimanda a un sistema globale di percezione basato su un’idea di natura in virtù della quale ai soggetti oppressi viene imputata una «forma di “determinismo endogeno” operante come causa insita del loro essere» (MW, p. 33). Che cos’è questa, se non la forma tipicamente moderna di legittimazione della pratica sociale della subordinazione, dotata di sufficiente plasticità da applicarsi a diverse possibili espressioni del dominio? Se non ci fossero principi moderni da negare nella prassi, se le deroghe agli universali presentati non necessitassero di una giustificazione compatibile con la salvaguardia formale dei criteri di uguaglianza, che senso avrebbe la scomposizione dell’umanità in un catalogo di alterità inemendabili, differenze essenziali, eterogeneità incommensurabili?

Se il femminismo materialista, nel suo insieme, scopre e mette a tema l’ubiquità di questo dispositivo di giustificazione del dominio, correlandolo di volta in volta agli assetti materiali che lo fondano, e in particolare al persistente regime di appropriazione delle donne da parte degli uomini, Wittig è colei che più di tutte punta a riqualificare il lesbismo come «posizione sociale a partire dalla quale è più facilmente possibile muovere una critica radicale al patriarcato» (MW, p. 51), circostanza che le è valsa il duro ostracismo — l’altra faccia dell’inferno — rappresentato nelle pagine di Virgile, non, del Voyage sans fin e di Paris-la-politique. Resta il fatto che nemmeno l’avversione più caparbia all’utopia perseguita da Wittig può negare il contributo offerto dalla scrittrice al riscatto del lesbismo dalla penombra del folklore sessuale: «Dai corpi delle guerrigliere a quelli delle amanti, passando per il corpo delle protagoniste lesbiche di Virgile, non, il “corpo lesbico” è un corpo scritto e immaginato per costringere chi legge a mettere in discussione la rappresentazione univoca, reificata, passiva, appropriata e straight delle donne e dei loro corpi. Alludendo, come la stessa Wittig fa spesso, alla tradizione evangelica, potremmo dire che il “corpo lesbico” non ha la facoltà di redimere e non libera dai peccati, ma apre a chi legge, e alle donne in particolare, un mondo al di là delle categorie di sesso» (MW, p. 60).

Negli Appunti per un dizionario delle amanti, il libro pubblicato da Wittig insieme a Sande Zeig nel 1976, si legge: «Esistono delle fughe simili alle perdite d’acqua nella coscienza di ogni persona. Le fughe o vuoti di memoria sono l’esempio più frequente. Quante amanti davanti a questa emorragia dei loro ricordi, delle loro informazioni e delle loro conoscenze si sono messe a digiunare. […] Esistono anche fughe di interesse, fughe di sentimenti, fughe di energia, fughe di immaginazione. Esiste anche un’altra sorta di fuga detta “fuga in avanti” che ha il vantaggio di far dimenticare tutte le altre» (B, p. 91/pp. 69-70). Meglio di così non si saprebbe descrivere il viaggio a cui Garbagnoli e Feole ci invitano. Che è tutto, fuorché d’evasione.       

SIGLE

B = Monique Wittig, Sande Zeig, Brouillon pour un dictionnaire des amantes, Grasset, Paris 1976; trad. it. di Onna Pas, Appunti per un dizionario delle amanti, Meltemi, Milano 2020.

G = Monique Wittig, Les Guérillères, Minuit, Paris 1969; trad. it. di Ana Cuenca, Le guerrigliere, Lesbacce Incolte, Bologna 1996 (nuova ed. La Porta Terra di donne, Bologna 2019). 

MW = Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023.

O = Monique Wittig, L’Opoponax, Minuit, Paris 1964; trad. it. di Clara Lusignoli, L’opoponax,Einaudi, Torino 1966.

VN = Monique Wittig, Virgile, non, Minuit, Paris 1985; trad. it. di Rosanna Fiocchetto, Virgilɘ, non, Il Dito e La Luna, Milano 2005.

NOTE

[1] Cfr. Qui êtes-vous, Antoinette Fouque? Entretien avec Christophe Bourseiller, des femmes-Anoinette Fouque, Paris 2009, p. 48: «Ciò che interessava a Monique Wittig era dissotterrare una cultura dell’omosessualità femminile, liberare la lesbica dalla donna. Ma è stato necessario attendere due anni [dal 1968 al 1970] perché si risolvesse a farlo. Ciò l’ha condotta a porre una non-mixité assoluta, una sorta di separatismo, per arrivare a un movimento marcato dal femminismo e dal lesbismo che, in fondo, vuole la scomparsa della parola “donna”, la cancellazione delle donne. Alla fine, emigrerà negli Stati Uniti per teorizzare il suo pensiero e inventare il queer».

[2] Paola Tabet, Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», 19, 3-4, 1979, p. 12; trad. it. «Mani, strumenti, armi», in Ead., Le dita tagliate, Ediesse, Roma 2014, p. 190.

[3] Per una rassegna, cfr. Simone Beta, La donna che sconfigge la guerra. Lisistrata racconta la sua storia, Carocci, Roma 2022.

[4] Colette Guillaumin, L’idéologie raciste. Genèse et language actuel, Mouton & Co, Paris 1972 [Gallimard, Paris 2002]; trad. it. di Sara Garbagnoli, L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, il nuovo melangolo, Genova 2023. 

Nel cerchio del patriarcato. Quando il «cambiamento» diventa un’ideologia di conservazione

di Collettivo Femminista Desbugo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una riflessione del Collettivo Femminista Desbugo a proposito del documentario di Paola Sangiovanni “Nel cerchio degli uomini”, andato in onda il 13 luglio 2023 su RAI3. Di fronte a un coro pressoché unanime di elogi, ci sembra utile dare spazio a un punto di vista critico nei confronti di un’operazione in cui l’ideologia sovrasta, fino a travolgerla completamente, la volontà di inchiesta.

Il 13 luglio 2023 Rai3 ha mandato in onda, in prima serata, il documentario “Nel cerchio degli uomini” di Paola Sangiovanni, già autrice di lavori sulle donne nella Resistenza (“Staffette”, 2006), sul movimento femminista degli anni Settanta (“Ragazze. La vita trema”, 2009) e sulla violenza delle guerre contemporanee (“La linea sottile”, 2015).

Nello stesso giorno in cui la stampa dava notizia delle motivazioni che hanno indotto i giudici del tribunale di Busto Arsizio a negare l’aggravante di crudeltà al killer di Carol Maltesi («lei era disinibita»), e poi ancora dell’assoluzione a Roma di un molestatore di minorenni («lui l’ha palpata solo per dieci secondi, era in un luogo pubblico, in pieno giorno, alla presenza di altre persone»), il servizio pubblico ci ha messe di fronte a quello che, nella prospettiva abbracciata dal documentario, dovrebbe essere il vero nodo da affrontare per poter immaginare il «cambiamento»: gli uomini subiscono i ruoli imposti dal patriarcato.

La grande speranza «cambiamentista» (ci scusiamo per il termine poco maneggevole, ma dobbiamo sforzarci di dare un nome alla cosa) si basa, in effetti, su una premessa data per assiomaticamente vera: in regime patriarcale, gli uomini sono dominati dal dominio, ignorano i danni che producono, i privilegi di cui godono, insomma vivono a propria insaputa, dissociati da se stessi e da ciò che fanno. Per lo meno fino al momento in cui, grazie al Cerchio degli Uomini o a gruppi affini, non trovano finalmente il coraggio di formulare ipotesi inaudite sul contenuto di esperienze di cui, in precedenza, pare avessero ignorato il significato. Di qui l’attribuzione di un ruolo essenziale degli uomini ai fini di un sommovimento che — anche per effetto della sua esibita indeterminatezza politica: tanto che anche un Ignazio Benito La Russa può farsi conquistare dall’idea di manifestazioni di soli uomini contro la violenza sulle donne — non vuole, non può e non deve essere né riforma né rivoluzione. Bensì, appunto, «cambiamento». E qualunque cosa «cambiamento» voglia dire, a Dio piace che la società civile si schieri compattamente, senza smagliature, dalla sua parte.

Il risveglio di questi uomini dolcemente determinati a smettere di morire dentro di patriarcato è reso possibile, dunque, da un atto decisivo di presa di coscienza: gli uomini violenti non agiscono, sono agiti. Dagli stereotipi di genere, dalla «mascolinità tossica», da solitudini sconfinate, dal fantasma di padri normativi e giudicanti, da inenarrabili frustrazioni. O da incontrollabili impulsi di rabbia che si scatenano in seguito alla rottura di una relazione sentimentale e che, secondo uno degli intervistati, possono trovare sollievo con qualche seduta di sadomaso — acuta osservazione a cui la regia di Sangiovanni dà il giusto rilievo, immaginiamo allo scopo di fugare le false aspettative. In effetti, tutto è allestito in modo da alimentare l’impressione che, nel Cerchio degli Uomini, non si faccia del moralismo stucchevole. Lì si scandagliano niente meno che i chiaroscuri del cuore umano in tutta la loro sinuosa complessità. A forza di crederci, ci crederanno anche gli altri. E le altre.

Soprattutto, siamo state messe di fronte a un’evidenza talmente abbagliante da non aver nemmeno bisogno di essere esplicitata, ancor meno dimostrata: gli uomini non traggono alcun beneficio dalla posizione sociale gerarchica che, come gruppo e come individui, occupano rispetto alle donne. Ne sono, anzi, vittime. L’esercizio della violenza maschile contro le donne non ha nulla a che vedere con il consolidamento di quella posizione e coi vantaggi che gli uomini possono ricavarne sul piano economico, sociale, ideologico. Qualsiasi problema di adattamento può, e soprattutto deve, essere interpretato come l’esemplificazione di un’oppressione patriarcale che colpisce indistintamente donne e uomini. Le indulgenze dispensate ai violenti dal sistema giudiziario non sono un fattore da tenere in considerazione quando ci si interroga sulle condizioni di possibilità della violenza maschile contro le donne. Istituzioni dell’eterosessualità come la famiglia, teatro abituale dello sfruttamento e della violenza patriarcale, non devono entrare nel mirino della critica.

Niente di tutto questo, nessuna determinazione sociale dei fenomeni e dunque nessuna chiara direzione per l’auspicato «cambiamento»: abbiamo semplicemente a che fare con «uomini soli», di «buona volontà», in cerca della propria strada. Questi uomini non vengono mai chiamati per nome e cognome: alcuni nomi (di battesimo) li ricaviamo dalle recensioni al documentario, ma mai dalle scene filmate. Sono pura generalità dal volto umano. Il pubblico è chiamato a identificarsi con la loro delicata condizione, ad appassionarsi al loro tortuoso processo di crescita, a lasciarsi trasportare dal fluire spontaneo delle testimonianze.       

Se sono facilmente comprensibili le ragioni che inducono i componenti del Cerchio degli Uomini a promuovere un’immagine di sé così scopertamente oleografica, meno chiare sono quelle che portano invece diverse donne, femministe incluse, a confermarne il valore indiscusso. La prima a immedesimarsi praticamente senza riserve nel punto di vista degli uomini “di buona volontà” è la stessa Paola Sangiovanni. Sollecitata nel corso di un’intervista a raccontare del proprio interesse per il gruppo torinese del Cerchio degli Uomini, la regista si dichiara anzitutto affascinata dal «metodo non medicalizzante, che non passa attraverso la psichiatria, ma che attraverso la riflessione sulla nostra cultura porta a un cambiamento» (cfr. Alice Facchini, “Storie di uomini che cercano di combattere la mascolinità tossica”, Altreconomia, 27 giugno 2023). La strizzata d’occhio è palesemente rivolta alle femministe: sorelle, non siate prevenute contro questi uomini! Non pensiate che qui si metta in discussione, con intenti revisionisti, il sacrosanto principio per cui «il violento non è malato, ma figlio sano del patriarcato»!

Eppure, è sufficiente consultare il sito dell’associazione per scoprire che, al fine di esplorare il vasto territorio della «mascolinità tossica», il Cerchio degli Uomini non si avvale soltanto di cerchi di condivisione volti alla consapevolezza maschile, ma anche di «specifiche professionalità offerte da psicologi e counselors»: alcuni dei quali, come si evince sempre dal sito dell’associazione, operano nell’ambito della psichiatria, della psicologia clinica, della psicologia giuridica, finanche della conduzione di «gruppi di padri separati con problematiche di alienazione parentale». Perché omettere questa informazione?

Verosimilmente, perché raccontare tutta la verità comprometterebbe la tenuta dell’altro grande pilastro ideologico su cui si regge il documentario. Lasciamo ancora una volta la parola alla regista, che giustifica così la scelta di alternare la narrazione dei protagonisti a immagini storiche di manifestazioni femministe e a riprese di laboratori scolastici sugli stereotipi di genere: «c’è lo sguardo sulla città, questa Torino addormentata, per far capire che quelle storie sono sì personali, ma anche collettive. Proprio come l’assunto femminista del “personale è politico”».

Il messaggio deve arrivare, anche visivamente, dritto al cuore. E il messaggio è questo: non c’è alcuna differenza sostanziale tra il femminismo degli anni Settanta, l’odierna burocrazia psicologica dell’antiviolenza e le iniziative di decostruzione degli stereotipi previste dal progettificio scolastico; non c’è alcuna differenza sostanziale tra il risveglio politico delle oppresse e quello degli oppressori; non c’è alcuna differenza sostanziale tra autocoscienza femminista e confessionali maschili facilitati da professionalità specifiche. Una volta stabilita d’autorità la continuità storica e l’equivalenza funzionale tra pratiche e teorie disparate, è ancora più facile procedere al lavoro di selezione che, dopo averlo svuotato di qualsiasi altra connotazione politica, riduce il femminismo a una pratica di ascolto non giudicante. Perché in fondo è questo il segreto, come rivela uno degli intervistati: i violenti vogliono sentirsi accolti, compresi. Sottratti al giudizio morale e politico, alla sanzione sociale. Possibilmente anche a quella penale. Alla facile indignazione, tanto querula quanto impotente, il «cambiamentismo» oppone la sospensione del giudizio: cambiare si può, rimanendo neutrali nei confronti dei violenti. A Dio non piace che la sorella trascini il fratello in tribunale; e gli piace ancor meno veder contestati i privilegi degli appropriatori.

La sospensione del giudizio è la regola scrupolosamente osservata anche quando, nel documentario, emerge finalmente il dato di realtà che consente di capire le ragioni dell’impennata di interesse per gruppi che, di fatto, esistono già da decenni. Il dato di realtà è che, dal 2019, con l’introduzione del cosiddetto Codice Rosso, la partecipazione ai programmi psico-educativi erogati da associazioni come il Cerchio degli Uomini dà diritto a benefici come la sospensione condizionale della pena. Di qui l’incremento degli accessi ai centri per maltrattanti. I benefici penali accordati ai violenti «di buona volontà» — ricordiamolo di sfuggita a chi pensa che il bene degli uni vada immancabilmente di pari passo con quello delle altre — sono già costati la vita a Juana Cecilia Hazana Loayza, Lidija Miljkovic e Gabriela Serrano.

Come valutare simili «cambiamenti»? Sono conciliabili con la Convenzione di Istanbul, che certo al suo articolo 16 prevede l’istituzione di questi programmi, ma da nessuna parte prescrive di associarli a sconti di pena? Ai posteri l’ardua sentenza — anche perché l’intervistato non si sbilancia più di tanto. Se lo avesse fatto, si sarebbe forse trovato nella difficile situazione di dover spiegare quale fosse la direzione esatta dell’impegno portato avanti dalla sua associazione, molto attiva negli anni passati nella battaglia culturale contro il populismo penale. Battaglia senz’altro nobile, quando evita di amalgamare capziosamente questioni reali di trattamento repressivo della povertà a questioni fittizie di punitivismo dispiegato al di là di ogni garanzia ai danni degli autori di violenza contro le donne.

La missione di chi scrive di storia consiste, solitamente, nel restituire al passato l’incertezza del futuro: nel de-fatalizzare il senso degli avvenimenti, nel mostrare un orizzonte di possibilità non decise a priori ma dall’urto delle forze vive in campo, nell’indebolire l’ipotesi di un corso ineluttabile degli eventi. La missione «cambiamentista» procede in senso esattamente opposto: spogliare il passato dell’incertezza del futuro, disegnare il quadro di un presente che prolunga naturalmente il passato e ne incarna le aspirazioni più profonde, costruire genealogie tutte ideali e, dunque, tutte fittizie. Non c’è alternativa al punto in cui siamo, non c’è mai stata e non ci sarà mai. Tutto è andato come doveva andare, il campo del pensabile, del dicibile e del fattibile ruota intorno a noi e si esaurisce con noi, sottende l’ideologia «cambiamentista». Soltanto grazie alla forzatura che consente di diluire tutto nel calderone indifferenziato della «riflessione culturale» è possibile presentare i gruppi di autoriflessione maschile come un equivalente dell’autocoscienza femminista. Per chi sceglie di praticarla, l’operazione presenta un doppio vantaggio. Da un lato, infatti, si svuota di significato il concetto di «patriarcato», mettendo sullo stesso piano dominanti e dominate: si conserva la parola, gettando nella spazzatura il concetto e contando sul fatto che nessuna se ne accorga. Dall’altro lato, il salvataggio delle apparenze prosegue cercando di dimostrare che il femminismo non ha mai voluto e pensato altro che questo. L’imprimatur femminista sull’antifemminismo, insomma, è il capolavoro ideologico che consente di prestare al «cambiamentismo» dei gruppi maschili l’aureola dell’alternativa in marcia, tasto su cui hanno battuto acriticamente tutti gli articoli dedicati al documentario. Alcuni estratti:

«Quello che emerge è un nuovo modo di essere uomini, più consapevole e più libero ma soprattutto in grado di non reprimere le proprie sofferenze e di non cedere, per questo, alla violenza» (Silvia Farris, Coming Soon, 13 luglio 2023); «La telecamera segue il profondo, e talvolta doloroso, lavoro di auto-indagine di uomini spinti non solo dal desiderio di decostruire il modello di mascolinità tossica, basato su forza e competitività, e di liberarsi dalle più o meno latenti forme di patriarcato che ancora permeano la società, ma legati anche da intenti comuni orientati in senso propositivo e assertivo, volto a costruire un “maschile” differente» (Giorgia Cacciolatti, Repubblica, 13 luglio); «[il documentario] parla di uomini, intesi come maschi contemporanei, di diverse età ma tutti alla ricerca di un nuovo equilibrio esistenziale, di una strada quotidiana alternativa, di una maschilità da (ri)formare: più completa e libera, più soddisfacente e piena, più in dialogo con un mondo emotivo facilmente soggetto a schiacciamento, asfissia e isolamento, per antichi schemi culturali» (Edoardo Zaccagnini, Cittanuova.it, 13 luglio); «Sebbene in misura ridotta, ci sono però anche uomini che seguono le attività dell’associazione perché vogliono incontrarsi e “parlare di noi, tra noi”. Fanno, in sostanza, autocoscienza femminista […] rendendosi finalmente conto che conoscersi, capirsi, confessarsi, esporsi è un diritto ed è un dovere, è etica morale e civica, prima di essere cura o prevenzione, prima che essere educazione o rieducazione» (Simonetta Sciandivasci, La Stampa, 14 luglio 2023).

In altri paesi del mondo, più evoluti del nostro quanto a consapevolezza sociologica e a impregnazione culturale femminista, la costituzione di gruppi maschili il cui discorso vira sistematicamente sulla dimensione psicologica delle relazioni interpersonali a detrimento dell’analisi delle strutture di dominio, viene interpretata dagli studiosi come un’articolazione del backlash antifemminista. Da noi invece le amplificazioni retoriche non sembrano mai eccessive o fuori posto, quando si tratta di consacrare l’immagine di legioni di donne sospese alle decisioni degli uomini di «buona volontà» con il cuore trepidante di emozione. Allo scopo si può addirittura scomodare l’autorità di Carla Lonzi, come fa Simonetta Sciandivasci dalle colonne de La Stampa per rassicurare se stessa e i lettori che «quello che le donne chiedono agli uomini è prima di tutto incontrarsi tra loro, parlare di chi sono, di quello da cui vengono, di quello che vorrebbero, cosa subiscono, quanto sono stanchi di apparire senza essere, di urlare, competere, tremare, temere, e di farlo senza tavoli di mezzo, senza gerarchie, campionati da vincere: di srotolare il cono e mettersi a sedere in cerchio. Tra pari. Con le mani vuote, aperte. Liberi di occuparsi di sé» (Simonetta Sciandivasci, La Stampa, 14 luglio).

«Senza tavoli di mezzo»? «Con le mani vuote»? «Srotolare il cono»? Curioso che queste effusioni liriche riescano a far dimenticare così in fretta che i tavoli di mezzo ci sono eccome, le mani non sono proprio così vuote e i coni non sono esattamente scomparsi se ci sono esponenti dei Centri Ascolto Maltrattanti chiamati a stendere relazioni per la Commissione d’Inchiesta del Senato sul femminicidio. I 9 milioni di euro di stanziamenti pubblici previsti per i Centri di Ascolto Uomini Maltrattanti nel 2022, contro i 5 milioni destinati ai Centri Antiviolenza, forse rovinano la poesia, ma appartengono alla realtà che il documentario omette di menzionare.

Possiamo intuire il brivido di radicalità che il Teatro dell’Oppresso praticato da gruppi di autoriflessione maschile può risvegliare. Diversi spezzoni del documentario sono dedicati appunto a queste esperienze laboratoriali: particolarmente significativa, in ottica «cambiamentista», quella relativa al porno. Mimando fisicamente le tipiche posizioni rispettive di uomini e donne nella pornografia, i partecipanti arrischiano un’ipotesi inaudita e, certo, audace: la pornografia reifica le donne. Che fare di questo sapere? Un’anima in pena racconta della propria dolorosa dissociazione masturbatoria di fronte alle scene del porno (che lui considera virtuali: la violenza subita dalle attrici non è messa in conto), un valoroso suggerisce che si potrebbe campare anche senza pornografia, ma è a quel punto che la saggezza «cambiamentista» interviene a moderare i fermenti rivoluzionari in nome del giusto mezzo: la pornografia è come il cibo spazzatura, assumerlo tutti i giorni fa male, ma centellinarlo in modiche dosi periodiche non ha controindicazioni.

Il complesso industrial-pornografico, insomma, può stare tranquillo: non sarà messo in ginocchio. Anche perché i gruppi «cambiamentisti» sono impegnati in battaglie molto più prosaiche, fatte di competizione per le risorse economiche e di crescente integrazione istituzionale nelle reti antiviolenza. Meno di un anno fa era D.i.Re a denunciare il rischio che il coinvolgimento dei Centri per Maltrattanti compromettesse l’autonomia dei percorsi di fuoriuscita delle donne dalla violenza, introducendo surrettiziamente una forma mascherata di mediazione familiare.

Di questi problemi nel lavoro di Sangiovanni semplicemente non vi è traccia. Del personale degli uomini intervistati possiamo essere informate fin nei dettagli più insignificanti, ma di come gli stessi si collochino politicamente rispetto a questioni che pure li implicano in maniera diretta — anzitutto in quanto soggetti capaci di influire sul sistema dell’antiviolenza e far pesare le proprie prerogative — non siamo tenute a sapere nulla. Forse perché il solo accennarvi metterebbe in crisi lo schema spontaneista di uomini che si incontrano al solo scopo di «guardarsi dentro» su cui il documentario è costruito e con cui il pubblico è chiamato a colludere. Per ritrovarsi anche lui nel cerchio del patriarcato, ma con la gratificante sensazione di essere altrove.

** L’immagine è un dettaglio tratto da Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957)

Il bacio di Sally. Erotismo, lesbismo e femminismo in Mrs Dalloway di Virginia Woolf

di Stefania Arcara
[estratto da un articolo originariamente pubblicato su Critica del testo, XXV / 3, 2022, pp. 1-21]

Occorre assumere insieme un punto di vista particolare e un punto di vista universale, almeno per essere parte della letteratura. Ovvero, si deve lavorare per raggiungere il generale, anche se si inizia da un punto di vista individuale o specifico.
(Monique Wittig)

Prima edizione di Mrs Dalloway, 1925 – copertina di Vanessa Bell

«La critica non ha mai messo a tema il fatto che per mezzo secolo Sally ha baciato un fiore, anziché l’amica Clarissa»: così la traduttrice Anna Nadotti, nel 2012, accennava alla censura dell’erotismo lesbico imposta al romanzo woolfiano Mrs Dalloway nell’unica traduzione disponibile al pubblico italiano tra il 1946 e il 1989.[1] Il bacio sulle labbra tra due giovani donne innamorate, Sally Seton e la protagonista, evocato in una scena cruciale del romanzo, è stato sostituito nella traduzione italiana conosciuta da generazioni di lettori e lettrici da un casto, quanto insensato, bacio sui petali di un fiore. Il testo originale recita: «Sally stopped; picked a flower; kissed her on the lips»; «Sally si fermò; colse un fiore; la baciò sulle labbra» (La signora Dalloway, a cura di M. Sestito, Venezia, Marsilio, 2012, p. 115). La traduzione del 1946 riportava invece: «Sally si fermò, spiccò un fiore, lo portò alle labbra e lo baciò» (La signora Dalloway, a cura di S. Perosa, trad. A. Scalero, Milano, Mondadori, 19882, p. 41). Oltre all’intensità erotica della narrazione, tale rimozione ha anche cancellato, nel testo italiano, la centralità diegetica di quello che Clarissa ricorda come «il momento più bello di tutta la sua vita», «infinitamente prezioso» – un episodio senza il quale la lettura del romanzo risulterà evidentemente distorta.

La traduzione censurata del ’46 è stata riedita negli anni Ottanta a cura di Sergio Perosa, che nel suo saggio introduttivo tace tanto sul lesbismo quanto sulla censura operata sul testo.[2] Il bacio tra Clarissa e Sally è stato restituito al pubblico italiano per la prima volta nel 1989 nella traduzione di Nadia Fusini, che mantiene il massimo riserbo sulla questione, e nelle numerose traduzioni successive, l’ultima del 2012.[3] È interessante notare come la disponibilità della traduzione corretta nei decenni scorsi non abbia scalfito la lettura del romanzo in chiave strettamente eterosessuale ancora oggi predominante in Italia, che prevede un tradizionale triangolo amoroso lei-lui-lui e si concentra sulla scelta della protagonista di sposare il più pacato e rassicurante Richard Dalloway piuttosto che il suo primo pretendente, Peter Walsh, del quale, secondo questa interpretazione, sarebbe stata «innamorata».[4] Tale lettura minimizza, o persino sopprime del tutto (com’è accaduto anche di recente), il rilievo del tema lesbico nel romanzo.[5]

Molto diversa è la lettura dell’opera in ambito anglofono, non solo accademico: in un programma culturale rivolto al grande pubblico quale In Our Time della BBC Radio 4, nella puntata dedicata a Mrs Dalloway, il conduttore Melvyn Bragg discute a lungo con Jane Goldman, Hermione Lee e Kathryn Simpson – tra le maggiori studiose woolfiane – dell’importanza del lesbismo, della scena del bacio saffico e del personaggio di Sally Seton.[6] Un confronto tra la ricezione italiana del romanzo da una parte, e le letture femministe offerte dalla critica anglofona dall’altra, spinge a chiedersi se il lesbismo, in Mrs Dalloway come nel resto dell’opera woolfiana, non abbia costituito un argomento tabù presso le studiose italiane, il cui approccio si fonda sul pensiero della differenza sessuale. Se già nel 1976 Judith McDaniel poneva la domanda «Why not Sally?»,[7] in Italia il lesbismo nella scrittura (e nella vita) di Woolf, quando non ignorato, appare talvolta banalizzato – ridotto ad aspetto marginale, a personale eccentricità: nella recente pubblicazione del carteggio tra Woolf e Sackville-West, Nadia Fusini, pur riconoscendo l’amore e «l’energia erotica» che scorre in quelle lettere, le presenta rivolgendosi al «lettore» che abbia «un certo gusto del pettegolezzo piccante».[8] Il lesbismo è stato cioè artatamente disgiunto dalla visione femminista dell’autrice, arrivando a essere liquidato come fastidiosa questione «politically correct» e come mera etichetta limitante.[9]

Non è questa la sede per offrire una lettura dell’opera woolfiana attraverso la lente della critica femminista e lesbofemminista (per quest’ultima rimando al prestigioso volume Virginia Woolf. Lesbian Readings, uscito nel 1997, culmine di almeno vent’anni di studi precedenti).[10] Mi concentrerò qui sulla rappresentazione dell’eros in Mrs Dalloway, proponendomi un duplice obiettivo: da una parte, esaminare le strategie narrative con le quali l’autrice, partendo da un punto di vista particolare (l’amore lesbico) ma creando letteratura universale, evoca in questo romanzo la qualità dell’esperienza erotica; dall’altra, iniziare a restituire al pubblico italiano l’intreccio tra femminismo e lesbismo nella scrittura di Virginia Woolf, ovvero, come già auspicava Karyn Sproles, a integrare la sessualità nella lettura della sua opera come accade per Proust o Gertrude Stein.[11] Non si tratta, s’intende, di affibbiare un’etichetta a Woolf e costringerla nella camicia di forza di una “categoria”, come temono alcune; ma, al contrario, di aprire la possibilità di una lettura dell’opera libera da qualsiasi censura (non solo traduttiva), che ne colga tutta la ricchezza.

Nelle letture italiane di Mrs Dalloway che fin qui hanno cancellato il lesbismo sparisce infatti, con un colpo di spugna, anche uno degli elementi tematici e formali del romanzo, la critica al patriarcato, all’istituzione del matrimonio e all’eterosessualità obbligatoria che, come nota una studiosa del calibro di Jane Goldman,[12] è intrecciato agli altri aspetti di critica sociale che informano la narrazione, quali la denuncia della guerra, dell’imperialismo britannico e dell’establishment medico-psichiatrico.

Solo tenendo insieme desiderio erotico, lesbismo e femminismo è possibile cogliere il significato dell’amore tra donne nella scrittura di Woolf: «women alone stir my imagination», scriveva l’autrice nel 1930 a Ethel Smyth a proposito della propria arte.[13] Ricorrono infatti, nell’opera di Woolf, figure positive di donne che si sottraggono all’eterosessualità e si oppongono alle norme patriarcali: Mary Datchet in Night and Day, Lily Briscoe in To the Lighthouse, Eleanor e Sarah Pargiter in The Years, Miss La Trobe in Between the Acts, e la lista potrebbe continuare.[14]

Come ci ricorda Terry Castle a proposito della dimensione fantasmatica della figura della donna non eterosessuale nella cultura moderna, «when it comes to lesbians (…) many people have trouble seeing what’s in front of them».[15] Se è vero, come fa notare Patricia Cramer, che le norme culturali dominanti e la formazione accademica tradizionale ci predispongono a riconoscere in un’opera temi eterosessuali ma non omosessuali,[16] una lettura attenta ci confermerà che parlare di eros nella scrittura woolfiana significa parlare di lesbismo: «we must remember that when she did express desire, it was more commonly lesbian».[17] Come vedremo, è proprio questo il caso di Mrs Dalloway: il desiderio, la passione, l’erotismo riguardano, in questo romanzo, esclusivamente il rapporto tra donne. Come suggerisce Pamela J. Olano, in quanto lettrici, noi tutte, indipendentemente dall’“orientamento” sessuale, possiamo adoperarci per abbandonare l’aspettativa automaticamente eterocentrata a proposito della narrazione erotico-amorosa e immergerci nello spazio narrativo lesbico creato dall’autrice.[18]

Illustrazione di Maria Giovanna De Fino, 2019

Una Woolf verginale? Una «frigida dama?»

Prima di occupare un posto di rilievo nel canone letterario, la narrativa woolfiana non è stata esente da critiche: una delle debolezze riscontrate riguardava la presunta assenza di elementi relativi alla sessualità presenti invece in autori quali Proust e Joyce.[19] L’accusa di “asessualità” rivolta all’opera di Woolf poggiava anche su considerazioni extra-letterarie, basate sulla biografia pubblicata dal nipote Quentin Bell nel 1972. Prendendo per buona l’opinione del biografo, secondo il quale nella personalità di Woolf «the erotic element (…) was faint and tenuous»,[20] fu facile trarre la conclusione che l’autrice fosse una donna “frigida” e che di questa caratteristica risentisse anche la sua narrativa. Bell minimizzava l’importanza sia del lesbismo che della sessualità nella vita di Woolf, descrivendola ripetutamente come «verginale». Pur menzionando le relazioni di Woolf con le donne, il biografo non le presentava come rilevanti per la sua scrittura o per la sua analisi sociale.[21] Bell e altri individuavano nei romanzi woolfiani una qualità eterea e priva di sostanza, limite che veniva addirittura spiegato dal biografo come riflesso della “nevrosi” sessuale dell’autrice, da lui definita una «sexless Sappho».[22] Persino una studiosa come Elaine Showalter, in un saggio del 1977, ha visto in Woolf una scrittrice vittima della repressione sessuale vittoriana, arrivando ad associare l’immagine di «una stanza tutta per sé» all’idea di un isolamento sepolcrale, simbolo della «femminilità» mortifera e disincarnata dell’autrice e del suo disimpegno sociale e sessuale.[23]

La figura di Virginia Woolf ha sempre generato «custody battles over who gets to define her meaning».[24] È quanto accade a partire dagli anni Settanta, con la pubblicazione delle lettere e dei diari dell’autrice, che ha permesso a lettrici e studiose di ascoltare la voce di Woolf «unfiltered through husband or nephew or academic critics».[25] Sono stati denunciati così i limiti delle versioni ufficiali fornite dal marito Leonard e da quei «sons of Bloomsbury» – il nipote Quentin Bell e Nigel Nicolson, figlio di Vita Sackville-West – che avevano dato risalto alla malattia mentale della scrittrice, descrivendola come donna sessualmente frigida e classificandola come autrice elitaria.[26]

Se negli studi critici e nelle biografie è stata a lungo pratica comune ignorare o ridimensionare la relazione lesbica tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West per affermare il primato dei legami eterosessuali delle due donne[27] (pratica invalsa anche in Italia con la rituale celebrazione della figura salvifica di Leonard), negli ultimi decenni è stata evidenziata, al contrario, la centralità della relazione d’amore e amicizia tra le due scrittrici, efficacemente definita una «partnership», durata quasi due decenni: un «collaborative project» la cui influenza fu reciproca e profonda.[28]

Virginia Woolf inizia a scrivere Mrs Dalloway nel 1922 e lo pubblica nel 1925: sono gli anni della «Sapphic modernity», la graduale diffusione di una «visible modern English lesbian subculture» che caratterizzerà la cultura britannica tra le due guerre.[29] Nel 1921 il Parlamento discute una legge per criminalizzare l’omosessualità femminile e nel 1928 il romanzo di Radclyffe Hall, The Well of Loneliness, è al centro di un processo per oscenità il cui esito sarà la censura (malgrado non apprezzi il romanzo, Virginia Woolf, insieme ad altre personalità di Bloomsbury, si schiera in difesa della scrittrice in nome della libertà d’espressione).[30] Negli stessi anni in cui le istituzioni si impegnano a patologizzare e criminalizzare il lesbismo, si registra una fioritura senza precedenti di relazioni e comunità intellettuali “saffiche” (questo il termine in voga), di cui Woolf era a conoscenza attraverso figure di spicco di quelle comunità, quali Vita Sackville-West e più tardi Ethel Smyth.[31]

Le crescente intimità tra le due scrittrici, che si conobbero nel dicembre del 1922, incoraggerà Virginia Woolf a mettere a tema l’omoerotismo nel romanzo a cui stava lavorando.[32] Nel 1924, mentre è impegnata nella stesura dell’opera, annota nel suo diario: «Here I am peering across Vita at my blessed Mrs Dalloway».[33] Nel 1928 Woolf racconterà a Sackville-West del suo primo innamoramento per una donna, l’amica di famiglia Madge Symonds Vaughan, sulla quale, come lei stessa rivela, ha modellato il personaggio di Sally Seton in Mrs Dalloway.[34]

Hermione Lee invita giustamente alla cautela rispetto a una lettura in chiave biografica del romanzo, poiché Woolf, come tutte le grandi menti creative, «splits herself in the book into all different characters» (per esempio, l’esperienza personale della malattia mentale è incarnata nel romanzo dal personaggio di Septimus).[35] La signora Dalloway è molto lontana dalla sua autrice in termini di classe sociale o vedute politiche, tuttavia le parole di Clarissa per descrivere la propria passione amorosa per Sally («holding the hot-water can in her hands and saying aloud, “She is beneath this roof… She is beneath this roof!”»)[36] coincidono quasi verbatim con quelle della giovane Virginia innamorata di Madge Symonds, riportate da Quentin Bell: «her hand gripping the handle of the water-jug in the top room at Hyde Park Gate, she exclaimed to herself: “Madge is here; at this moment she is actually under this roof”».[37] Come afferma lo stesso biografo, la passione della giovane Virginia fu intensa: «Virginia once declared that she had never felt a more poignant emotion over anyone than she did at that moment for Madge»,[38] un’intensità espressa iperbolicamente come quella che, nel romanzo, Clarissa prova per Sally.

È pur vero che nell’economia del romanzo la relazione saffica di Clarissa Dalloway è a prima vista una presenza poco cospicua. Come si vedrà, Woolf adotta sottili strategie di svelamento e nascondimento per trattare il tema del lesbismo nella sua scrittura, e lo fa con estrema consapevolezza: lo testimonia, tra l’altro, la soddisfazione divertita che esprime nel 1927 quando il lesbismo passa inosservato nella sua «little Sapphist story», Slater’s Pins Have No Points, che riesce a pubblicare senza censure: «the editor has not seen the point», si vanta con Vita, «though he’s been looking for it in the Adirondacks».[39]

D’altra parte, la signora Dalloway, proprio come Virginia Woolf e Vita Sackville-West, vive una vita apparentemente “normale”: per queste donne, infatti, il lesbismo non è un’identità, ma la tessitura di legami emotivi ed erotici che potevano prosperare felicemente negli interstizi di un’esistenza eterosessuale, nelle pieghe dell’istituzione matrimoniale.[40] Sicuramente Woolf era lontana dal concepire il lesbismo sulla base delle categorie del discorso medico-sessuologico e antifemminista rappresentato, tra Otto e Novecento, da Havelock Ellis, Edward Carpenter e Stella Browne, che in parte influenzarono Sackville-West.[41] Si può dire piuttosto, con Suzanne Raitt, che Woolf e Sackville-West «both were and were not lesbian».[42] Un’indicazione importante in questo senso ce la fornisce il personaggio di Clarissa, la quale, nel discorso indiretto libero che esprime i suoi pensieri mentre passeggia per le strade di Londra, evita di dare definizioni di sé stessa e delle persone che ha intorno: «she would not say of anyone in the world now that they were this or were that. (…) She would not say of herself, I am this, I am that».

Il titolo dell’opera definisce però la protagonista attraverso un’identità ben precisa, quella di moglie. Come nota Kathryn Simpson, il titolo che sembra preannunciare la storia di un matrimonio felice si rivelerà fuorviante: Clarissa Dalloway è infatti «un’eroina ambigua».[43] Il ricordo del bacio della sua amata Sally l’accompagna per l’intera narrazione: in tal modo Clarissa continua a sottrarsi, in una certa misura, alla dimensione di compromesso eterosessuale in cui vive nel presente. La scelta di una protagonista non più giovane, dai capelli bianchi, che ha già adempiuto ai propri doveri di moglie e madre («there being no more marrying, no more having children now») è una delle novità dello sperimentalismo modernista woolfiano, che insieme alle convenzioni del romanzo realista, abbandona matrimonio e maternità come uniche narrazioni previste per i personaggi femminili e crea invece «subversive subplots», spesso incentrati sull’omoerotismo: è quanto avviene in Mrs Dalloway, che è stato considerato dalla critica «Woolf’s most overt celebration of lesbian sexuality» e «the most lesbian specific piece of writing Woolf ever published».[44]

Com’è noto, la narrazione si dipana in un continuo intreccio di passato e presente, la vita che scorre nella Londra postbellica in un giorno di giugno del 1923 e i ricordi di un’estate trascorsa a Bourton quando Clarissa Parry aveva diciotto anni. Con la sua tecnica del tunnelling process, Woolf scava cunicoli nella mente della protagonista: lì, nella memoria della signora Dalloway, riaffiora a distanza di più di trent’anni l’innamoramento per l’amica Sally Seton, un’emozione talmente intensa da essere espressa con un verso dell’Othello shakespeariano («if it were now to die ’twere now to be most happy») che racchiude l’idea di massima felicità, quella giovanile, innocente e autentica – un’esperienza che formerà parte della sua coscienza per il resto della sua esistenza.

Malgrado sia moglie e madre, la Clarissa del presente, che dorme da sola in un attico, è presentata più volte con attributi verginali, associata a spazi claustrali e paragonata per due volte a una monaca («like a nun withdrawing»): tuttavia, le letture che insistono sulla “frigidità” di Clarissa (Fusini la chiama «la frigida dama», il cui vero e unico «emozionante coito nuziale» è la sintonia ideale con il suicida Septimus; Showalter associa la camera da letto solitaria alla morte)[45] scelgono di ignorare sia il discorso omoerotico che pervade la narrazione che la sexual politics sottesa a queste connotazioni di “castità” del personaggio. Non è un caso, infatti, che la freddezza di Clarissa sia la «coldness» che le viene attribuita da Peter Walsh, il pretendente rifiutato, insieme ai termini «woodenness» e, significativamente, «impenetrability»; è quella freddezza per la quale lei stessa ritiene di essere stata “manchevole” nei confronti del marito («she had failed him»). La freddezza di Clarissa, la sua castità monacale, non sono altro che il suo sottrarsi all’eterosessualità, e non un’impassibilità connaturata al personaggio: il “verginale” autocontrollo e la mancanza di trasporto nei confronti del marito e di Peter Walsh non impediscono infatti a Clarissa di provare piacere, passione, attrazione erotica per le donne, emozioni rintracciabili, a ben guardare, nelle pagine del romanzo. Clarissa è attratta dalle donne, «this falling in love with women», «yielding to the charm of a woman», come lei stessa afferma inequivocabilmente quando è assorta nei suoi pensieri nell’intimità della propria «stanza tutta per sé», in cui dorme lontana dal letto matrimoniale.

«Il momento più bello di tutta la sua vita»

Una delle più lunghe sequenze narrative del romanzo rievoca gli anni della giovinezza della protagonista: la vita di una giovane donna dell’alta borghesia nella fase di passaggio dalla libertà dell’amicizia tra donne al destino sociale del matrimonio.La passione amorosa tra Clarissa e Sally è attrazione intellettuale e insieme erotica: Clarissa è sedotta tanto dalla sensualità di Sally («all that evening she could not take her eyes off Sally»), quanto dalle sue opinioni politiche. Con le sue vedute radicali e la sua condotta ribelle, Sally rappresenta la possibilità di una piena realizzazione personale, un’alternativa al destino patriarcale riservato alle donne.[46] A Bourton le due ragazze leggono William Morris, Shelley, Platone, e conversano fino a tarda notte nella camera da letto «at the top of the house», uno spazio separato, come l’attico in cui dorme la Clarissa del presente. Il loro è un innamoramento fatto di complicità: «a sense of being in league together», un sentimento associato all’idea di integrità, poiché, a differenza di quello per un uomo, è «completely disinterested», una qualità «which could only exist between women».

Entrambe le ragazze pensano al matrimonio come a una «catastrofe». Com’è stato notato, la critica all’istituzione del matrimonio percorre sottilmente tutto il romanzo:[47] da Evelyn Whitbread, che soffre di «some internal ailment», a Lady Bradshaw, che a un certo punto «had gone under», all’infelice Lucrezia, le donne sposate sembrano pagare il tributo della perdita di indipendenza. Per Clarissa il matrimonio con il parlamentare Richard Dalloway, basato su rispetto reciproco, amicizia e affetto, ma privo di passione erotica, costituisce parte integrante della propria identità sociale. Richard, che regge «like a weapon» il mazzo di fiori da regalare alla moglie, è considerato lucidamente da Clarissa «the foundation» della propria esistenza agiata, ma mai oggetto di attrazione erotica. Questo matrimonio, che le ha evitato il coinvolgimento che il possessivo Peter Walsh le avrebbe richiesto (e che lei non era disposta a garantire), le consente di mantenere le apparenze e al tempo stesso di coltivare la propria attrazione per le donne. Clarissa tuttavia è consapevole dell’incompatibilità tra i propri desideri e l’identità pubblica della “signora Dalloway”: significativamente, il bacio di Sally è per lei un tesoro segreto, custodito per tutta la vita nel privato dell’anima, «a diamond, something precious, wrapped up».

Anche la Sally del presente, come scopriremo verso la fine del romanzo, ha ceduto alla pressione sociale e abbandonato ogni proposito di ribellione, tanto da essere divenuta la ricca Lady Rosseter, orgogliosa madre di cinque figli maschi. Tuttavia, in un importante passaggio nelle ultime pagine del testo, si dice convinta, insieme a Peter Walsh, che si ami davvero una sola volta nella vita: «and she had loved her», Sally dichiarava a quel punto in una prima stesura del romanzo, mentre nella versione definitiva l’oggetto del vero, unico amore di Sally resta implicito, eppure inequivocabile.[48] Anche il matrimonio di Sally, come quello di Clarissa, non è associato all’attrazione erotica: Lady Rosseter è la moglie di un uomo calvo, un ricco industriale del cotone, e sebbene si dica felice, ha perso ogni fiducia nei rapporti umani – «Are we not all prisoners?», si chiede – trovando consolazione solo nelle sue serre di fiori esotici.

Mentre il matrimonio è rappresentato come sessualmente insoddisfacente, in Mrs Dalloway il piacere e la passione sono associati alla relazione tra donne. La qualità erotica di questa relazione affiora attraverso lo stile lirico e allusivo della scrittura woolfiana. Virginia Woolf è consapevole della difficoltà, per una romanziera, non solo di scrivere di passioni e di corpi, ma di scriverne dicendo la verità su di essi da un punto di vista femminile. Nel 1932 dichiarerà che uno dei problemi che, come ogni scrittrice, ha dovuto affrontare, insieme a quello di uccidere «the Angel in the House», è quello di «telling the truth about my own experiences as a body», mentre gli uomini si permettono «great freedoms» a questo proposito.[49] Come ci ricorda la stessa autrice in A Room of One’s Own, alle donne, in letteratura, raramente è stato permesso di piacersi l’un l’altra: le figure femminili sono state quasi sempre rappresentate in relazione agli uomini. Ciò che Woolf riesce a realizzare, in alcuni passaggi di Mrs Dalloway, è qualcosa di inedito e audace: parlare di eros da una prospettiva femminile e non eterosessuale, cogliendo la vita delle donne in relazione tra loro, non più viste attraverso lo sguardo maschile.

Mantenendo un delicato equilibrio tra rivelazione e occultamento, Woolf elabora un «seductive and allusive style» che al tempo stesso sollecita e ostacola l’operazione di svelamento da parte di chi legge: con raffinate «coding techniques» l’autrice offre infatti una rappresentazione “cifrata” dell’omoerotismo.[50] Le immagini floreali sono uno degli esempi di tale codificazione del lesbismo: i fiori sono spesso associati, nella narrativa woolfiana, alla condivisione di sentimenti ed emozioni, anche sessuali, tra donne,[51] così come le immagini legate a flora e fauna sono cariche di intensità erotica negli scritti privati dell’autrice la quale, nel 1926, così scriveva dell’imminente incontro con l’amante: «Vita is now arriving to spend 2 nights alone with me (…) the June nights are long and warm; the roses flowering; and the garden full of lust and bees».[52] E ancora, in una lettera a Vita dello stesso anno, i fiori sono termine di paragone per alludere alla sensualità dell’amante: «The flowers have come, and are adorable, dusky, tortured, passionate like you», mentre in una lettera in cui rimprovera scherzosamente alla sorella Vanessa il disinteresse per il fascino femminile compare la metafora del giardino: «You will never succumb to the charms of any of your sex – What an arid garden the world must be for you!»; [53] gli esempi potrebbero continuare.

Graffiti, 2007 – foto di Brocco

L’uso che Woolf fa delle immagini floreali si colloca in una tradizione di scrittura lesbica che, come osserva Patricia Cramer, si contrappone alla convenzione letteraria maschile che associa fiori e “femminilità” per idealizzare quest’ultima in termini di delicatezza e vulnerabilità; Woolf rielabora questa associazione tra donne e fiori per esprimere l’intensità del desiderio omoerotico, nella tradizione di Emily Dickinson e delle poetesse tardovittoriane conosciute come “Michael Field”, da lei apprezzate.[54]

La scena del bacio sulle labbra tra Sally e Clarissa è ambientata in giardino, accanto a una «stone urn with flowers in it», ed è evocata con un’audace mescolanza di carnalità e spiritualità, al tempo stesso sensazione fisica di vertigine e attimo di trascendenza:

Sally stopped; picked a flower; kissed her on the lips. The whole world might have turned upside down! The others disappeared; there she was alone with Sally. And she felt that she had been given a present, wrapped up, and told just to keep it, not to look at it—a diamond, something infinitely precious, wrapped up, which, as they walked (up and down, up and down), she uncovered, or the radiance burnt through, the revelation, the religious feeling!

Il piacere erotico, per Clarissa, ha la forza di una «rivelazione» che per essere verbalizzata richiede un linguaggio lirico.[55] È una felicità definita in termini trascendenti, ma provata inequivocabilmente attraverso i sensi, nell’attimo del contatto con le labbra di Sally, un attimo in cui tutto il resto scompare e il mondo si capovolge.

Il momento termina bruscamente con l’arrivo di Peter Walsh e del vecchio Joseph. Di fronte a questa intrusione di due uomini che interrompono la sua estasi erotica, Clarissa prova una sensazione fisica paragonata a un urto violento: «It was like running one’s face against a granite wall in the darkness! It was shocking; it was horrible!». Nella poetica woolfiana l’immagine del granito rimanda, come nota Fusini, alla solidità e all’opacità del reale, facendo da contrappunto a quella dell’arcobaleno, «le illuminazioni soggettive»:[56] non a caso, il bacio è vissuto da Clarissa proprio come tale, un’epifania sensuale – interrotta dall’imporsi della realtà sociale che spegne all’improvviso lo splendore dell’attimo erotico-amoroso. È un punto cruciale della narrazione, in cui la sensazione di orribile shock contrasta con la felicità estatica del momento precedente: Clarissa aveva sempre saputo che «something would interrupt, would embitter her moment of happiness». Le norme sociali prevedono che quel bacio debba essere interrotto, e così avviene. D’ora in poi Clarissa dovrà dedicarsi a svolgere il proprio ruolo sociale nel rituale del corteggiamento e poi del matrimonio.

Com’è stato notato, dal punto di vista diegetico il momento del bacio è fuori sincrono rispetto allo sviluppo convenzionale della narrazione incentrata sul legame eterosessuale: quest’attimo di felicità estatica costituisce una «erotic pause» rispetto al futuro eterosessuale che seguirà.[57] È uno di quei momenti, ricorrenti nella narrazione woolfiana, in cui il tempo funziona in modo diverso, dilatandosi. L’evento non ha conseguenze sulla “trama” del romanzo, poiché conosciamo sin dall’inizio, addirittura dal titolo, la direzione che ha preso la vita della protagonista, diventata «Mrs Richard Dalloway»: esso ritorna nel testo senza alcuna logica narrativa di causa ed effetto: l’amore e l’attrazione per Sally non sono infatti relegati nel passato come se questo fosse un’epoca conclusa, nettamente distinta dal presente. L’interruzione della scena da parte degli uomini non diminuisce, ma al contrario, sottolinea la centralità del bacio nella narrazione: il bacio ha infatti un’«afterlife», è un attimo che dura, che torna ad agire sul presente di Clarissa.[58] In questo senso, il bacio di Sally esemplifica la capacità della scrittura woolfiana di smantellare la forma narrativa basata sulla linearità temporale e contemporaneamente di reinventare la trama romanzesca tradizionale (eterosessuale).

È significativo che l’unico altro bacio che compare nelle pagine di Mrs Dalloway sia quello eterosessuale, e non consensuale, imposto alla giovane Sally dall’amico Hugh Whitbread: non solo questo bacio non ha nulla di erotico, ma è un modo, da parte dell’uomo, per rimettere al suo posto la giovane ribelle che in una discussione aveva difeso il suffragio femminile («to punish her for saying that women should have votes»); è equiparato a un insulto («he had insulted her – kissed her») che fa infuriare Sally, e come tale viene ancora ricordato da lei trent’anni dopo, alla festa di Clarissa. Non è un caso che nella narrativa woolfiana vi sia un altro bacio eterosessuale, anch’esso non voluto, ma al contrario subìto, da una giovane donna: quello che Rachel Vinrace, la protagonista di A Voyage Out, riceve da uno dei passeggeri della nave, di nome Richard Dalloway – una molestia che le procurerà profondo turbamento e incubi notturni.

In netta contrapposizione a queste espressioni di sessualità maschile, tra cui spiccano anche l’atteggiamento predatorio e la «masturbatory fantasy»[59] di Peter Walsh che segue una giovane donna per strada, in Mrs Dalloway Woolf sperimenta forme inedite, persino audaci, di rappresentazione dell’omoerotismo. In un passo spesso citato dalla critica compare l’immagine vivida di un «fiammifero che brucia in un croco», una metafora floreale che esprime l’intensità emotiva e la sorpresa di un erotismo non concepito in termini fallici. Lo stile allusivo e le figure suggestive rendono possibile leggere il brano su diversi livelli: preceduta da un chiaro riferimento all’attrazione di Clarissa per le donne («she did … feel what men felt»), l’immagine floreale-clitoridea del croco è una rappresentazione lirica dell’omoerotismo, pervasa da una tensione che si accumula e si scioglie in una liberazione orgasmica.[60] Essa è anche un esempio di alta poesia, di quella letteratura capace di assumere, come auspicava Monique Wittig, un punto di vista universale, pur partendo da uno particolare.[61] Al tempo stesso, infatti, in questo passo Woolf evoca un moment of being, uno di quegli attimi conoscitivi, un’esperienza di illuminazione, sorta di epifania laica che per l’autrice costituisce la qualità più importante della vita, nonché la materia della propria arte:[62]

It was a sudden revelation, a tinge like a blush which one tried to check and then, as it spread, one yielded to its expansion, and rushed to the farthest verge and there quivered and felt the world come closer, swollen with some astonishing significance, some pressure of rapture, which split its thin skin and gushed and poured with an extraordinary alleviation over the cracks and sores! Then, for that moment, she had seen an illumination; a match burning in a crocus; an inner meaning almost expressed. But the close withdrew; the hard softened. It was over—the moment.

Il linguaggio lirico e lo stile evocativo, le raffinate cifre, allusioni e suggestioni, celebrano il lesbismo in Mrs Dalloway in modo tale da non destare scalpore: esso assume la qualità di un’apparizione “fantasmatica” – per dirla con Terry Castle[63] – poco percettibile sia dal censore che dal grande pubblico. Proprio in quanto «highly dressed up in metaphor», come nota Hermione Lee, l’erotismo saffico può passare inosservato ai più in occasione della pubblicazione del romanzo nella Gran Bretagna degli anni Venti,[64] quando E.M. Forster tiene chiuso nel cassetto il manoscritto di Maurice e le copie di The Well of Loneliness vengono distrutte per ordine della magistratura. Sperimentando con metafore e allusioni, Woolf inventa un linguaggio in grado di rappresentare quell’“amore che non osa dire il proprio nome” e, tuttavia, sufficientemente vago da non creare scandalo e sfuggire alla censura: un’abilità, quella di stare in bilico tra il dire e il non dire, perfezionata da generazioni di scrittori e scrittrici non eterosessuali.[65]

Un ulteriore motivo che rese Mrs Dalloway un romanzo pubblicabile, a differenza del già citato The Well of Loneliness, è la scelta di Woolf di associare il personaggio di Clarissa al lesbismo senza legittimare in alcun modo le teorie sessuologiche allora predominanti dell’“inversione”: l’autrice non ricorre, cioè, alla mascolinizzazione della donna saffica per ristabilire la complementarietà eterosessuale. Clarissa, moglie e madre, nulla ha della mascolinità di Stephen Gordon, protagonista di The Well of Loneliness, un testo pesantemente influenzato dalla sessuologia. Al contrario, attraverso Clarissa, Woolf tenta di esprimere in una prospettiva femminista una sessualità lesbica che sia libera dalle distorsioni dei sessuologi.[66] In realtà, la scrittrice sembra proiettare le connotazioni negative della mannish lesbian, la lesbica mascolina della tassonomia sessuologica, sulla figura di Doris Kilman: attraverso questo personaggio poco amabile, il romanzo illustra le conseguenze devastanti della repressione sociale del lesbismo sulla psiche di una donna (l’odio di sé, il rifugio nel fanatismo religioso) e sulla sua condizione sociale (stigma, isolamento, povertà). Clarissa ha nei suoi confronti un atteggiamento ambivalente: prova avversione nei confronti di Miss Kilman, eppure è profondamente consapevole dell’ingiustizia e dell’odio sociale di cui questa è vittima. In un passo significativo, che proietta in una dimensione altra, in un mondo alternativo, la possibilità dell’amore tra donne, Clarissa riflette sul fatto che «with another roll of the dice (…) she could have loved Miss Kilman!» (corsivo mio).

Sebbene Clarissa rifiuti la concezione dell’amore omosessuale come quel «crime against nature», a cui alluderà la coscienza psicotica di Septimus, per lei lesbismo ed erotismo resteranno per tutta la vita associati alla dimensione privata e profondamente intima dell’anima, al riparo dallo sguardo pubblico.[67] D’altra parte, a differenza di quanto avviene in The Well of Loneliness e in Maurice, in Mrs Dalloway la relazione omosessuale viene interrotta sul nascere, come viene interrotto bruscamente il bacio di Sally, quella possibile via di fuga dalle costrizioni patriarcali.

La configurazione del desiderio lesbico e la visione femminista che informa il romanzo sono state spesso minimizzate attraverso una lettura eterocentrata che derubrica l’innamoramento di Clarissa per Sally a una mera fase giovanile, superata dalla raggiunta maturità eterosessuale realizzata nel matrimonio. È questa la soluzione fornita, tra le altre, da Elaine Showalter nel 1994 per accennare al lesbismo nel romanzo, descritto come «girlhood fascination»,[68] non dissimile da quella offerta, sul piano biografico, da Nadia Fusini nel 2017 a proposito di alcune lettere giovanili di Virginia Stephen cariche di omoerotismo, che la studiosa riduce enfaticamente, secondo i dettami della psicoanalisi, a immatura fissazione materna risolta dall’arrivo di Leonard: una tendenza della critica, questa, che Ruth Vanita deplorava già un trentennio fa.[69]

Eppure, la narrazione woolfiana è chiara nel presentare la traiettoria di Clarissa e Sally, che va dall’amore «disinteressato» tra donne, carico di erotismo, alla «catastrofe» del matrimonio privo di passione, non già come un’evoluzione desiderabile, bensì come un passaggio socialmente inevitabile. La Clarissa del presente ha imparato a vivere nel compromesso: è moglie, madre, «Mrs Richard Dalloway», ma è anche custode di quel «diamond, something infinitely precious» donatole da Sally.

In un’iniziale concezione dell’opera, Clarissa si sarebbe tolta la vita.[70] Il progetto narrativo matura però con il personaggio di Septimus, coprotagonista e alter ego di Clarissa, e in quella «sinfonia urbana»[71] che è Mrs Dalloway, Woolf offre tanto una meditazione lirica sulla morte, quanto una celebrazione della vita. Nelle ultime pagine del romanzo, com’è stato notato, l’identificazione di Clarissa con Septimus avviene a vari livelli, tra i quali anche quello della dissidenza sessuale.[72] La protagonista “sente” che il giovane suicida custodiva nell’animo, proprio come lei, qualcosa di prezioso, un «tesoro» – immagine che fa riaffiorare ancora una volta nella mente di Clarissa il verso di Othello e il ricordo vivido del suo innamoramento per Sally: «But this young man who had killed himself — had he plunged holding his treasure? “If it were now to die, ‘twere now to be most happy,” she had said to herself once, coming down in white». In questo momento nodale del romanzo – la meditazione di Clarissa sulla notizia del suicidio di Septimus – Woolf sonda «le zone più segrete dell’anima»,[73] tenendo insieme la gioia di vivere e l’immagine della morte. Clarissa sceglie la vita, la resistenza, ma la sua sensibilità è affine a quella del giovane suicida che sfugge al doloroso compromesso del vivere, a una società che lo annienta.

L’idea di felicità autentica qui evocata nella coscienza di Clarissa, che fa da contrappunto alla morte di un giovane, prende la forma dell’innamoramento per una donna (il verso di Othello e il ricordo del vestito bianco che lei indossava in quell’attimo irripetibile della sua gioventù). Ma questa forma particolare di felicità perduta, che illumina il presente e fronteggia il buio della disperazione, assume al tempo stesso un significato universale, è una nota elegiaca che rimanda alla consapevolezza che la vita – per tutti e tutte – è compromesso, è perdita, ma è anche rivelazione ed estasi.

Erotismo, lesbismo e femminismo sono dunque elementi che contribuiscono alla polisemia di quell’opera straordinaria che è Mrs Dalloway, una sinfonia il cui senso non può essere riducibile ai singoli strumenti che la compongono. Sarebbe limitante fare di Mrs Dalloway un romanzo sul lesbismo come lo sarebbe farne un romanzo sulla malattia mentale o sulla guerra. Il 13 giugno 1923 Woolf annotava nel suo diario: «I want to give life & death, sanity & insanity; I want to criticize the social system, and to show it at work at its most intense».[74] È riuscita nel suo intento, creando in Mrs Dalloway «una sorta di essay filosofico sulla saggezza e la follia, di meditazione metafisica sulla vita e la morte, di spaccato, anche, di una ben definita realtà sociale».[75] Soprattutto, come auspicava Monique Wittig a proposito del rapporto tra testo letterario e tema omosessuale,[76] l’arte di Virginia Woolf è capace di tenere insieme particolare e universale: riesce a universalizzare partendo da un punto di vista particolare.

PER CITARE QUESTO ARTICOLO:
Stefania Arcara, “Il bacio di Sally. Erotismo, lesbismo e femminismo in Mrs Dalloway di Virginia Woolf”, Critica del testo XXV / 3, 2022, pp. 1-21.


[1] S. Basso, Intervista ad Anna Nadotti, in «Tradurre», 3 (2012), https://rivistatradurre.it/tu-dai-voce-a-me-io-do-voce-a-te/

[2] L’unico riferimento, indiretto, al lesbismo in questa edizione si trova in una nota biografica su Woolf, in cui Perosa scrive di «certi suoi strani rapporti con personaggi come Vita Sackville-West» (corsivo mio). S. Perosa, Appendice, in ibid., pp. xxv- xlii, a p. xxx.

[3] Dopo la prima traduzione di Alessandra Scalero (Mondadori, 1946) sono apparse le traduzioni di Nadia Fusini (Mondadori, 1989), Laura Ricci Doni (SE, 1992), Pier Francesco Paolini (Newton Compton, 1992), Anna Nadotti (Einaudi, 2012) e Marisa Sestito (Marsilio, 2012). Nel suo ampio saggio introduttivo, Nadia Fusini non nomina mai il lesbismo: solo una volta, afferrando il concetto quasi con pinze sterilizzate, accenna en passant a non meglio specificate «passioni profonde e desideri potenti» nella giovinezza di Clarissa. N. Fusini, Virgo, la stella, in V. Woolf, Romanzi, a cura di N. Fusini, Milano, Mondadori, 1998, pp. xi-lxx, a p. xxiv. Nel 2005 Liliana Rampello, in una nota a piè di pagina, a proposito della traduzione del 1946 si chiede: «errore o censura?». Tuttavia, è facile constatare che il testo inglese non presenta alcuna difficoltà traduttiva che possa indurre in errore. Cfr. L. Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 206, nota 39.

[4] Si veda ad esempio Rampello, Il canto del mondo reale cit., p. 79: «Trent’anni prima Clarissa si era innamorata, ricambiata, di Peter Walsh».

[5] Nel 2020 Sara Sullam arriva a espungere il lesbismo dalla trama del romanzo, anche quando accenna al superamento del tradizionale marriage plot. S. Sullam, Leggere Woolf, Roma, Carocci, 2020, pp. 61-71. Un’eccezione è costituita da Marisa Sestito che evidenzia l’omosessualità come tratto comune di Clarissa e Septimus. M. Sestito Introduzione, in V. Woolf, La signora Dalloway, a cura di M. Sestito, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 9-35, a p. 17.

[6] M. Bragg, In Our Time: “Mrs Dalloway”, with J. Goldman, H. Lee, K. Simpson, podcast BBC Radio 4, 2014. https://www.bbc.co.uk/programmes/b048033q

[7] J. McDaniel et al., Lesbians and Literature, in «Sinister Wisdom», 1 (1976), 2, pp. 20-33, a p. 20.

[8] N. Fusini, Due donne in amore, in V. Woolf, V. Sackville-West, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a c. di E. Munafò, Roma, Donzelli, 2019, pp. 7-22, p. 7. Nello stesso saggio Fusini definisce il lesbismo di Vita Sackville-West «la passione travolgente che prova per la femmina d’uomo» (ibid., corsivo mio).

[9] Fusini afferma di non voler «riaccendere la polemica stanca e inutile di un impeto politically correct volto a costringerla in categorie – lesbica, saffica o frigida»: pone così su un piano di equivalenza il lesbismo e il concetto di frigidità elaborato in ambito sessuologico e psicoanalitico. Cfr. N. Fusini, Da Virginia Stephen a Virginia Woolf: ritratto della scrittrice da giovane, in V. Woolf, Ritratto della scrittrice da giovane. Lettere 1896-1912, trad. A. Cane, Torino, Utet, 2017, pp. 7-22, a p. 13.

[10] Virginia Woolf: Lesbian Readings, ed. by E. Barrett and P. Cramer, New York & London, New York University Press, 1997. Si veda anche D.L. Swanson, Lesbian Approaches in Palgrave Advances in Virginia Woolf Studies, ed. by A. Snaith, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2007, pp. 184-208.

[11] K. Sproles, Desiring Women. The Partnership of Virginia Woolf and Vita Sackville-West, Toronto, University of Toronto Press, 2006, p. 11.

[12] Goldman in Bragg, In Our Time cit.

[13] Lettera a Ethel Smyth del 19 agosto 1930. The Letters of Virginia Woolf, ed. by N. Nicolson and J. Trautmann, London, Hogarth Press, 1978, IV, p. 203.

[14] Si veda P. Cramer, Notes from the Underground: Lesbian Ritual in the Writings of Virginia Woolf, in Virginia Woolf Miscellanies. Proceedings of the First Annual Conference on Virginia Woolf, ed. by M. Hussey and V. Neverow-Turk, New York, Pace University Press, 1992, pp. 177-188, a p. 178.

[15] T. Castle, The Apparitional Lesbian, New York, Columbia University Press, 1993, p. 2.

[16] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., pp.117-127, p. 122.

[17] K. Kaivola, Virginia Woolf, Vita Sackville-West, and the Question of Sexual Identity, in «Woolf Studies Annual», 4 (1998), pp. 18-40, a p. 35, corsivo mio.

[18] P. J. Olano, “Women Alone Stir My Imagination”: Reading Virginia Woolf as a Lesbian, in Virginia Woolf: Themes and Variations, ed. by V. Neverow-Turk and M. Hussey, New York, Pace University, 1993, pp. 158-171, a p. 158.

[19] H. Fromm, Virginia Woolf: Art and Sexuality, in «The Virginia Quarterly Review», 5 (1979), 3, pp. 441-459, a p. 443.

[20] Q. Bell, Virginia Woolf. A Biography, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1972, II, p. 6. Bell fa riferimento più volte alla «frigidità» della scrittrice.

[21] Swanson, Lesbian Approaches cit., p. 185.

[22] Cfr. E. Hawkes Rogat, The Virgin in the Bell Biography, in «Twentieth-Century Literature», 20 (1974), pp. 96-113; Bell, Virginia Woolf cit., II, p. 185.

[23] E. Showalter, A Literature of Their Own, Princeton, Princeton University Press, 1977, p. 34 e p. 297.

[24] B.R. Silver, Virginia Woolf Icon, Chicago & London, University of Chicago Press, 1999, p. 4.

[25] T.A.H. McNaron, A Lesbian Reading Virginia Woolf, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., pp. 10-20, a p. 16.

[26] B.W. Cook,“Women Alone Stir My Imagination”: Lesbianism and the Cultural Tradition’, in «Signs», 4 (1979), 4, pp. 718–39, a p. 725.

[27] Kaivola, Virginia Woolf cit., p. 18. R. Vanita, Sappho and the Virgin Mary, New York, Columbia University Press, 1996, p. 190.

[28] Sproles, Desiring Women cit., p. 5.

[29] L. Doan, Fashioning Sapphism: The Origins of a Modern English Lesbian Culture, New York, Columbia University Press, 2001, pp. xii-xiii; Sapphic Modernities, ed. by L. Doan and J. Garrity, New York, Palgrave MacMillan, 2006.

[30] Jane Marcus ha sottolineato la presenza di riferimenti al processo a Hall nel testo di A Room of One’s Own e la necessità di tenerne conto per decifrare il sottotesto lesbico del saggio. J. Marcus, Sapphistry: Narration as Lesbian Seduction in A Room of One’s Own, in Virginia Woolf and the Languages of Patriarchy, Bloomington, IN, Indiana University Press, 1987, pp. 163–87.

[31] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 119.

[32] Sproles, Desiring Women cit., p. 52.

[33] V. Woolf, The Diary of Virginia Woolf, ed. by A. Olivier Bell and A. McNeille, London, Hogarth, II, 1977, p. 313.

[34] Bell, Virginia Woolf cit., 1, pp. 60-61; Sproles, Desiring Women cit., p. 52.

[35] Lee in Bragg, In Our Time cit.

[36] Questa e le successive citazioni sono tratte dall’edizione bilingue a cura di M. Sestito, La signora Dalloway, cit.

[37] Bell, Virginia Woolf cit., 1, pp. 60-61. Cfr. ancheE. Barrett, Unmasking Lesbian Passion: The Inverted World of Mrs Dalloway, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., pp. 146-164, a p. 151 e Sproles, Desiring Women cit., p. 52.

[38] Bell, Virginia Woolf cit., 1, pp. 60-61.

[39] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 122.

[40] L. Brimstone, Towards a New Cartography: Radclyffe Hall, Virginia Woolf and the Working of Common Land in What Lesbians Do in Books, ed. by E. Hobby and C. White, London, The Women’s Press, 1991, pp. 86-108, a p. 94. S. Raitt, Vita & Virginia. The Work and Friendship of V. Sackville-West and Virginia Woolf, Oxford, Clarendon, 1993, p. 7.

[41] Si veda lo scritto autobiografico di Sackville-West, pubblicato postumo in N. Nicolson, Portrait of a Marriage, London, Weidenfeld & Nicolson, 1973.

[42] Raitt, Vita & Virginia cit., p. 167.

[43] Simpson, in Bragg, In Our Time cit.; E. Showalter, Introduction, in V. Woolf, Mrs Dalloway, ed. S. McNichol, with an introduction and notes by E. Showalter, London, Penguin, 1992, pp. xxi-li, a p. xxii

[44] Cramer, Underground cit., p. 178; Brimstone, New Cartography cit., p. 103.

[45] Fusini, Virgo, la stella cit., p. vx; Showalter, Introduction cit., p. xxxix.

[46] C.E. Bond, Remapping Female Subjectivity in Mrs Dalloway, in «Woolf Studies Annual», 23, 2017, pp. 63-82, a p. 70.

[47] Barrett, Unmasking Lesbian Passion cit., p. 152.

[48] Mrs Dalloway fragments, 7 Jan. 1924, in the Berg Collection of the New York Public Library, p. 159, cit. in S. Henke, Mrs Dalloway: The Communion of Saints, in New Feminist Essays on Virginia Woolf, ed. by J. Marcus, Lincoln, University of Nebraska Press, 1981, pp. 125–47, a p. 136.

[49] V. Woolf, Professions for Women, in Women and Writing, introduced by M. Barrett, London, The Women’s Press, 1979, pp. 57-63, a p. 62.

[50] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 123.

[51] Ibid. p. 122.

[52] Lettera a Vanessa Bell, 13 giugno 1926, in The Letters cit., 3, p. 275.

[53] Lettera del 19 novembre 1926, in ibid., p. 303; lettera del 22 maggio 1927, in ibid., p. 381.

[54] Cramer, Underground cit., p. 184. B. Lounsberry, Virginia Woolf, the War Without, the War Within, Gainesville, University Press of Florida, 2018, pp. 87-100. Su “Michael Field” cfr. S. Arcara, I classici ‘proibiti’ nell’età vittoriana tra pornografia e poesia saffica, in «Enthymema», 24, 2019, pp. 286-298.

[55] Cfr. Henke, Mrs Dalloway cit., p. 135.

[56] N. Fusini, Virginia Woolf, o del tremore in Nomi, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 80. L’immagine della coppia granito-arcobaleno compare nel saggio di Woolf The New Biography del 1927, ripubblicato nella raccolta postuma Granite and Rainbow. Essays, New York, Harcourt Brace, 1958.

[57] K. Haffey, Exquisite Moments and the Temporality of the Kiss in ‘Mrs Dalloway’ and ‘The Hours’, in «Narrative», 18 (2010), 2, pp. 137-162, a p. 137.

[58] Simpson, in Bragg, In Our Time cit.

[59] S.M. Squier, Virginia Woolf and London, Chapel Hill & London, The University of North Carolina Press, 1985, p. 107.

[60] Cramer, Underground cit., p. 185. Goldman, Lee, Simpson in Bragg, In Our Time cit.

[61] Wittig, The Point of View cit., p. 67.

[62] Il momento dell’essere come esperienza personale e come oggetto della scrittura è illustrato da Woolf nel saggio autobiografico A Sketch of the Past, pubblicato postumo. V. Woolf, A Sketch of the Past, in Moments of Being, ed. by J. Schulkind, New York, Harcourt Brace, 1978, pp. 64-159.

[63] Castle, The Apparitional Lesbian cit.

[64] Lee, in Bragg, In Our Time cit.

[65] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 125.

[66] Ibid., p. 124.

[67] Barrett, Unmasking Lesbian Passion cit. p. 148.

[68] E. Showalter, “Mrs Dalloway”, in Virginia Woolf: Introductions to the Major Works, ed. Julia Briggs, London, Virago, 1994, pp. 125-156, a p. 144.

[69] Fusini, Da Virginia Stephen a Virginia Woolf cit., p. 15. Vanita, Sappho and the Virgin Mary, cit., p. 273.

[70] Lo afferma la stessa Woolf nell’introduzione all’edizione americana del romanzo; Mrs Dalloway, New York, Modern Library, 1928, p. vi.

[71] L. Marcus, The Tenth Muse, Oxford, Oxford University Press, 2007, p. 141.

[72] E. Jensen, Clarissa Dalloway’s Respectable Suicide, in Virginia Woolf: A Feminist Slant, ed. by J. Marcus, Lincoln, University of Nebraska Press, 1984, pp. 162–79.

[73] V. Amoruso, Virginia Woolf, Bari, Adriatica, 1968, p. 112.

[74] Woolf, Diary cit., II, p. 248.

[75] Amoruso, Virginia Woolf cit., p. 113.

[76] Wittig, The Point of View cit.

Monique Wittig e le lesbiche barbute

Intervista a Monique Wittig di Catherine Deudon, Actuel, novembre 1974, p. 12-14.

Traduzione di Sara Garbagnoli

Monique Wittig ritratta in una foto di Catherine Deudon

Con il suo cappello nero e i suoi blue-jeans blu, assomiglia un po’ a una giusitiziera del Far West. Monique Wittig è una guerrigliera che lotta per la liberazione delle donne e per il riconoscimento dei diritti delle lesbiche. Militante di lunga data, nel 1969 è stata una delle donne che hanno lasciato i gruppi di sinistra (troppo sessisti per i loro gusti) per fondare il MLF (Movimento di Liberazione delle Donne). Oggi che il MLF si sta dividendo in tendenze politiche, Wittig si è unita alle femministe rivoluzionarie. “Poter vivere in una società di donne” è il suo desiderio più caro, un’esclusività lesbica che fa trasalire gli uomini, ma che noi dobbiamo cominciare ad ascoltare e che è un suo sacrosanto diritto volere.
Lo afferma con orgoglio. Perché il personaggio ha talento. Tre libri, tre periodi: L’Opoponax o l’infanzia di una bambina, Le guerrigliere, romanzo del MLF, e infine Il corpo lesbico, il libro più ambizioso perché cerca, molto semplicemente, di inventare un linguaggio femminista, di eliminare l’io inteso come soggetto maschile, un linguaggio che – dice Wittig – diventerebbe persino incomprensibile agli uomini. Una delle sue amiche, Catherine Deudon, ha allegato per la rivista il suo manifesto dedicato a una lesbica barbuta.
Attualmente, il movimento di liberazione delle donne sta attuando concretamente la parola d’ordine di decentramento che viene dalle femministe radicali. In particolare, le femministe, le femministe radicali, le Gouine rouges, le ragazze che hanno animato la fiera delle donne, donne anglofone, donne latinoamericane hanno oggi uno spazio indipendente dalle altre tendenze del movimento che sono Psychanalyse et Politique e il Circolo Dimitrieff. Questo spazio si trova a Parigi (24, cité Trévise, al primo piano a sinistra). Ogni lunedì dalle 19.00 alle 22.00 si tiene l’assemblea generale e l’accoglienza delle “nuove” tel: TAI.-71-50, aperto tutti i giorni dalle 18.00 alle 20.00. Ogni venerdì dalle 19 alle 22 il gruppo lesbico delle Gouines rouges tiene una riunione intitolata “Lesbismo e femminismo”. Stanno ora preparando un raduno di lesbiche che si ritroveranno a Parigi per otto giorni a Pasqua in un luogo ancora da decidere. Tutte le donne sono invitate a partecipare. È perché crediamo che le donne omosessuali abbiano una cultura e una lotta specifica da portare avanti all’interno del movimento che ci separiamo da Psychanalyse et Politique, che, tra l’altro, nega questa cultura e vuole ignorare la specificità dei problemi e della lotta delle donne omosessuali.

Actuel: Qual è il legame tra il movimento di liberazione delle donne e Il corpo lesbico?

Monique: Il movimento delle donne è un cambiamento radicale nella mia vita. Per me c’è un prima e un dopo. Il dopo è ciò che ci sta accadendo oggi. Molte di noi stanno già vivendo in un altro mondo, un mondo di cui non avevano idea prima. Il corpo lesbico è uno dei prodotti diretti di questo cambiamento. Non riesco a cogliere esattamente quanto sia importante il movimento delle donne per la società. A volte mi sembra che siamo solo una piccola spina nella sua carne, e ci vedo come delle pure schizofreniche, completamente scollegate dalla realtà. Questo è il significato del pronome “j/e” che uso nel libro. A volte, invece, mi sembra che, pur essendo così poche, tutte insieme rappresentiamo l’unica forma di protesta veramente radicale all’interno del sistema. In questi momenti, mi sembra che qualcosa inizi a muoversi. Ovunque si parla di donne. Ma soprattutto le donne stesse cominciano a parlare, a parlare tra loro. Non c’è città, nemmeno la più piccola o remota, in cui oggi non si sappia che esiste un movimento di liberazione delle donne. E anche se non si sa esattamente cosa significhi, si sa d’istinto che è molto importante. Quando penso a questo, sento che siamo davvero forti e che esistiamo in questo nuovo mondo che comincia a essere nostro, e grazie all’euforia che provo, scrivo “j/e”, soggetta altra di un altro universo.

Actuel: Un altro mondo, cosa vuoi dire? Intendi dire che le donne insieme creano un nuovo mondo?

Monique: È la cosa più difficile da definire. Non voglio illudermi. Per la maggior parte del tempo viviamo tra donne, e questo non significa che le polemiche, i dissensi o le divergenze siano miracolosamente aboliti. Ma si può immaginare dall’esterno cosa significhi essere una donna e stare in mezzo a donne che lottano insieme? La novità è che le donne sono finalmente insieme: per quanto mi ricordo, questa è l’unica cosa che non mi è mai stata raccontata quando ero bambina. Niente sarà più come prima, questa è la convulsione definitiva che scuoterà la società da cima a fondo. E so che la gente ha paura, compresa la maggior parte delle donne, purtroppo. Ma per quanto riguarda noi che siamo coinvolte in questo processo, sappiamo che è irresistibile. A volte penso che tra dieci anni il movimento delle donne sarà morto e sepolto per mancanza di combattenti, di determinazione, di obiettivi a lungo termine: so con assoluta certezza che se il movimento delle donne muore, io muoio. La mia persona perde ogni realtà, ogni significato, non potrò sopravvivere nel vecchio ordine. Ma so anche che siamo in molte a reagire così. Il movimento è la cosa più vitale per noi, è la nostra sopravvivenza in questa società.

Actuel: Quindi, sei femminista prima di essere scrittrice…

Monique: Sono una donna che scrive di donne e per le donne. È lo stesso atto; non posso separare i due termini “femminista” e “scrittrice”. Si tratta del mio corpo, del mio desiderio, dei miei sogni e della mia speranza.

Actuel: Il lesbismo è un fenomeno a parte, oltre al movimento? Come lo collochi rispetto all’intero movimento?

Monique: Far parte di un movimento che esclude gli uomini è già un atto omosessuale, almeno ideologicamente. Il lesbismo non è solo una pratica sessuale, è anche un comportamento culturale: vivere da sé e per sé, essere in una totale indipendenza dallo sguardo degli uomini, dal modello del mondo che essi hanno costruito. Non sento alcuna differenza culturale con certe amiche “omosessuali” il cui interesse è nettamente focalizzato sulle donne e per le quali la pratica sessuale non è altro che un dettaglio. Inoltre, ultimamente abbiamo visto che questo è un falso problema. La cosiddetta “liberazione sessuale”, la cosiddetta “rivoluzione sessuale” è solo un inganno quando si tratta delle donne, perché con sessualità si intende un’eterosessualità riadattata. Intendo dire che la “sessualità” non è altro che un grande baccano intorno all’eterosessualità. E l’eterosessualità è la sessualità degli uomini. Non so nemmeno se si possa definire “eterosessuale” una donna. Penso che le categorie eterosessuale-omosessuale funzionino come un modo per dividere e distogliere da un problema che è comune a tutte noi: cos’è la nostra sessualità?

Actuel: Insomma, pensi che per le donne come non esiste l’eterosessualità non esista l’omosessualità?

Monique: Aspetta, vai troppo in fretta. Quando il movimento ha iniziato a mettere in discussione la sessualità conosciuta e riconosciuta – l’eterosessualità – le lesbiche radicali (le Gouines rouges) hanno avuto un ruolo determinante. A partire dalla loro pratica omosessuale (negata, non riconosciuta, considerata deviante) hanno messo in discussione la sessualità e l’eterosessualità che, contrariamente a quanto sembra, non hanno nulla di evidente. Alla domanda: “Cosa fa sì che una donna sia attratta da una donna?” rispondono: “Cosa fa sì che una donna desideri un uomo?”. A chi chiede: “Nel rapporto tra donne, tenerezza, sessualità, parola, quale differenza c’è con quelle tra una donna e un uomo?”, rispondono: “Cosa c’è nel lesbismo che ci fa pensare subito alla tenerezza, come se a noi lesbiche mancasse qualcosa, per esempio le palle, per essere violente?”.

Actuel: Per te il lesbismo è solo un passo verso una sessualità liberata?

Monique: Aspetta, no, non sono d’accordo. Il lesbismo non è nato con il movimento di liberazione delle donne. Le lesbiche ci sono sempre state. E non si può ignorare il desiderio e il piacere in nome di principi politici. Quando una donna è attratta dalle donne, quando vive il suo piacere con le donne perché dovrebbe fermarsi e pensare “quando tutto sarà a posto nel migliore dei mondi, desidererò anche gli uomini”? Che cosa ne sappiamo? E perché è scontato pensare che gli uomini, un giorno o l’altro, entreranno nel campo del nostro desiderio? Non si tratta forse di una norma? Non si diventa lesbiche per obbligo o per scelta politica.

Actuel: Le lesbiche sono più fortunate degli uomini omosessuali perché il lesbismo non è soggetto a repressione.

Monique: Assolutamente no. Il peggior tipo di repressione consiste nel negare completamente l’esistenza del lesbismo. Non se ne parla. Recentemente sulla rivista “Elle” in un articolo dedicato all’omosessualità, c’era scritto: “Quali sono i problemi delle madri che hanno figli omosessuali?”. Il lesbismo non viene nemmeno menzionato. Idem per quanto riguarda il programma televisivo di qualche giorno fa, intitolato “Omosessualità”. Il lesbismo: questo sconosciuto. Nei libri di eminenti psichiatri sull’omosessualità, il lesbismo è sempre una piccola aggiunta, un corollario che parla della questione in questi termini: il lesbismo negli harem, i dildi. Oppure si dice: le lesbiche sono donne disgustate dall’autoritarismo degli uomini. Siamo lesbiche contro qualcosa o qualcuno, non per. Desiderio lesbico: questo sconosciuto. Assolutamente inedito, una tenerezza sdolcinata tra donnine che passano il tempo a baciarsi sul collo e a tenersi per mano. Ripugnante: non c’è cultura lesbica, non ci sono luoghi di incontro per lesbiche. Non esistiamo. E quando, nonostante tutte queste barriere, si trovano due ragazze abbastanza ostinate da essere lesbiche, le si interna in ospedali psichiatrici. Esempio recente: i genitori di una ragazza adulta la fanno internare perché è lesbica. In questo modo, la ragazza è privata della sua capacità giuridica, diventa minorenne. E la sua compagna (maggiorenne) viene messa dentro per aver “traviato una minorenne”! O ancora: una ragazza scopre di essere lesbica. Fino ad allora aveva avuto un amante. L’amante in questione le dice: “Ma tu non sei lesbica perché sei venuta a letto con me”. Beh, non è vero. Non verrebbe mai in mente a nessuno di dubitare dell’omosessualità di un uomo che è andato a letto con una donna per sbaglio. Ma, ovviamente, una donna è “segnata” a vita da un uomo, è definitivamente annessa al gruppo degli uomini, non può essere lesbica, tanto il lesbismo è dell’ordine dell’inconsistente. Non è repressione questa? Un altro esempio: per strada, rispondiamo verbalmente all’aggressione di un tipo mandandolo a quel paese. Il ragazzo attonito risponde: “Lesbiche!”. Noi controbattiamo: “Ti disturba?”. Conclusione: ci spacca la faccia. E lo stesso vale per la solita solfa: “Ma cosa potranno mai fare due donne insieme?”. Reinquadramento, aggressioni fisiche, reclusione, derisione, negazione assoluta sono tutte manifestazioni di una repressione che è tanto più riuscita quanto più è strisciante. Ed è vero che ci sono poche lesbiche e molti più uomini omosessuali.

Actuel: Puoi dirmi in che modo il lesbismo si è manifestato per la prima volta nel movimento delle donne? Qualche fatto.

Monique: Nei primi gruppuscoli che si sono formati all’interno dell’MLF abbiamo iniziato a concentrarci sugli aspetti più evidenti dell’oppressione delle donne: l’aborto, la non disposizione dei nostri corpi, lo stupro, il lavoro domestico, il rapporto tra uomini e donne. In questi gruppi c’erano anche donne omosessuali. Ma non ci sentivamo di parlare della nostra omosessualità. Una sorta di imbarazzo. Una paura di spaventare le “donne”, un senso di colpa, la sensazione di non essere al nostro posto. Non eravamo “vere donne” con problemi delle “vere donne”. Avevamo paura che il movimento stesso venisse percepito come un manipolo di lesbiche incazzate. Alla fine, però, è successo: una casuale conversazione sull’omosessualità in una delle case in cui ci riunivamo. Una domanda di pura curiosità: “Come fate tra di voi? Che cos’è il piacere lesbico? Il desiderio lesbico?”. Commenti come: “La cosa disturbante dell’essere lesbica è che non si possono avere figli” o, ancora, “Non se ne può più dell’omosessualità”. Così, alcune di noi si sono sentite aggredite perché questo era l’unico aspetto della nostra oppressione che non veniva affrontato politicamente, era come la “sezione folcloristica” del movimento, la sezione delle attrazioni da vedere. Così, abbiamo pensato che fosse necessario iniziare a parlarne tra di noi, come era stato fatto per tutti gli altri temi. Le Gouines rouges sono nate così. Allo stesso tempo, le ragazze di Arcadie e del movimento hanno creato il FHAR (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire). (All’inizio c’erano solo uno o due uomini).

Actuel: Ha senso, visto che gli omosessuali sono gli unici uomini che non negano il lesbismo.

Monique: È quello che pensavamo. Che avevamo problemi comuni. Gli uomini pensavano che senza le donne il FHAR non sarebbe mai stato radicale perché solo da loro si poteva attaccare lo sciovinismo maschio, compreso quello degli omosessuali. Ma in realtà la nostra storia era molto diversa. Loro avevano per cosi dire la fortuna di dover fronteggiare la repressione poliziesca. Gli uomini omosessuali almeno esistevano, avevano tutta una cultura onorabile dietro di loro, dai greci a Proust, a Genet. Esisteva un ghetto enorme dove almeno potevano incontrarsi, riconoscersi, trovarsi per avere incontri sessuali. Potevano essere in molti, molto rapidamente, grazie ad una sorta di passaparola. Ed è vero, sono venuti numerosissimi alle riunioni del FHAR alle Beaux-Arts. Poi son cominciati gli antagonismi tra gli uomini e le donne presenti. Noi donne non potevamo nemmeno prendere la parola alle assemblee generali senza dover urlare in modo isterico. Gli uomini erano focalizzati sulla loro omosessualità. Erano molto infastiditi dalle lesbiche. Si chiedevano anche loro, come tutti gli uomini, cosa potessero mai fare due donne insieme.

Actuel: Che dire della coppia omosessuale? Non riproduce tutto ciò che rifiutiamo: dipendenza, rapporti di potere, ruoli?

Monique: È un po’ sbrigativo metterla così. Vivere in coppia per due donne è già una vittoria in questo mondo in cui una donna senza un uomo non è considerata una vera donna. Uscire per strada con una donna e non con un uomo, andare al ristorante con una donna, farsi vedere con una donna, giocare a flipper con una donna, condividere gli oneri sociali con una donna, ecco, questa è già una vittoria. Per non parlare della situazione di miseria, dolore e penuria in cui vive la maggior parte di noi. Avere un’amante non è cosa facile e non si ha voglia di perderla. Inoltre, l’analogia tra una coppia lesbica e una coppia etero è molto vaga: in una coppia lesbica i ruoli maschili e femminili sono intercambiabili, se proprio si vuole introdurli a tutti i costi. Quando vedi una “Jules” e una “minette” – una “butch” e una “fem” – insieme, sai che si tratta di una forma di teatro. È più spesso un gioco di quanto si pensi: due donne che interpretano insieme la coppia etero. E poi dietro la coppia lesbica non c’è una base economica e sociale di oppressione come nel caso degli etero.

Actuel: Ma in realtà stai facendo un panegirico della coppia più classica.

Monique: Mi rendo conto che quello che dico può sembrare equivoco. Parlo a nome di tutte le lesbiche isolate o di provincia che potrebbero sentirsi in colpa per la “liberazione” che non sono ancora riuscite a introdurre nel loro stile di vita. Quello che vivono è il risultato di una lunga storia di oppressione. Tuttavia, non voglio negare che esistano anche nel caso delle lesbiche coppie alienate costituite secondo lo schema eterosessuale, con dipendenza reciproca e obbedienza dell’una all’altra. Nel movimento le coppie non durano a lungo. Ci sono poche coppie durature tra noi. Vedrei piuttosto il movimento come una costellazione di individui con qua e là forme di associazioni per affinità. E in ogni caso, non siamo più “tipizzate”, almeno così ci vediamo noi.

Actuel: Ma si incontrano ancora delle “Jules”, anche nel movimento.

Monique: Per fortuna. Non vorrai mica che sembrassimo donne-donne solo perché siamo donne in un movimento liberazione? Inoltre, a volte è necessario prendere in prestito dall’altro sesso, i suoi abiti, i suoi comportamenti, per trovare l’Amazzone che sonnecchhia in noi. Prendere cioè in prestito i segni di ciò che di positivo c’è in loro e in noi: forza, coraggio, non passività, violenza. In realtà, non “prendiamo in prestito” da nessuno dei due sessi perché non sappiamo di cosa siamo fatte fondamentalmente. Ciò che prendiamo in prestito sono i segni di ciò che ci è precluso quando nasciamo in una categoria o nell’altra. Come le “folles”, le checche, e i travestiti siamo alla ricerca di un concetto umano di cui né la mascolinità né la femminilità possono dar conto. Per noi l’idea dell’Amazzone è la più vicina a questa idea di umano. Sebbene ci sia stato insegnato che le Amazzoni siano personaggi mitologici, la loro esistenza ha un significato per noi, qui e ora. Ciò che ci parla di loro è la loro società di donne, il fatto che vivevano in una cultura che poteva appartenere solo a loro. In questa cultura non c’erano i modelli di identificazione che conosciamo, forse non c’erano affatto modelli. In ogni caso, che fossero madri o meno, le Amazzoni erano donne per le quali la maternità era solo un incidente e non un fatto culturale determinante. Un’Amazzone non si preoccupa di essere maschio o femmina e ama i suoi simili. Provarci non è facile perché richiede una metamorfosi delle proprie strutture mentali e soprattutto la fine della paura del ridicolo cioè dello sguardo degli uomini. Vorrei aggiungere, e voglio farlo, che mi è capitato di scrivere IIl corpo lesbico, che mi dà la possibilità di parlare di lesbismo. Ma lo faccio in modo molto abusivo. Non sono una “specialista” dell’argomento. Sono sicura che molte altre donne avrebbero potuto parlarne meglio di me. Mi dispiace che non ne abbiano avuto l’opportunità e chiedo loro di perdonarmi per il diritto che mi sono arrogata, spero di non dire troppe sciocchezze. Lunga vita a tutte noi!

Si chiamava Norma

di Yasmin Nair

Norma McCorvey nel 1989 – foto di Lorie Shaull

Chi era Jane Roe, ovvero Norma McCorvey, la querelante nel caso Roe v. Wade? La storica sentenza con cui nel 1973 la Corte suprema degli Stati Uniti aveva riconosciuto il diritto all’aborto è stata clamorosamente annullata nel giugno del 2022. Yasmin Nair ripercorre la vicenda di Norma McCorvey/Jane Roe, evidenziando i limiti dell’interpretazione liberale della pratica dell’autodeterminazione e le sue disastrose ricadute politiche.

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Ho scritto questo articolo nel 2020, due anni prima del recente annullamento della sentenza sull’aborto Roe v. Wade. Non mi interessava recuperare la figura di Norma McCorvey come quella di un’eroina senza macchia: il mio scopo era dimostrare che le nostre battaglie politiche più incisive sono radicate in vite e storie complicate che dobbiamo mettere in evidenza, non oscurare. McCorvey è stata usata da una comunità di attiviste per il diritto all’aborto che l’ha nascosta alla vista del pubblico, temendo che una persona così imperfetta (cioè, reale) potesse diminuire la simpatia verso la causa. Ma a cosa serve una causa che ignora la realtà delle vite che pretende di rappresentare? Oggi i liberal-democratici di tutto il mondo si torcono le mani per il recente annullamento di Roe, dichiarandosi scioccati dalla piega che hanno preso gli eventi. Ma Roe è stata praticamente inutile fin dall’inizio per le donne come McCorvey, perché è stata basata su concetti come “privacy” e “autonomia corporea”, che sono tutti fondati su un’economia di privilegi. La vita di Norma McCorvey ci ricorda che non dobbiamo ripristinare e ritornare a una Roe imperfetta e inefficace. Invece, in tutto il mondo, dobbiamo costruire un accesso all’aborto infinitamente migliore e più sostenibile, che veda l’aborto come una questione economica. (Y. N.)

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“Con lei, tutti i nostri passati – quello queer, quello femminista e quello apertamente etero – diventano infintamente più complicati e infinitamente più ricchi”.

Norma McCorvey è morta il 18 febbraio del 2017. Tre anni dopo, un documentario su di lei ha provocato sconcerto, costernazione e un profondo senso di tradimento da entrambe le parti del dibattito sull’aborto.

Norma McCorvey era Jane Roe, la querelante nella storica sentenza Roe v. Wade del 1973, alla quale viene ampiamente attribuito il merito di aver dato alle donne americane il diritto di “scegliere” l’aborto. Il film è AKA Jane Roe. In realtà, come sappiamo, le attuali leggi sull’aborto sono ancora enormemente restrittive, quasi quanto lo erano il giorno in cui McCorvey, allora ventenne, nel 1969, cercò di abortire in Texas, dove le donne non potevano legalmente interrompere la gravidanza senza uscire dallo Stato. Trovandosi incinta e senza alcuna speranza di ricevere assistenza da parte dei medici, anche se dichiarò di avere subito uno stupro, McCorvey finì in un posto in cui si praticavano aborti clandestini, un luogo infestato da scarafaggi e coperto di sporcizia: diede un’occhiata ed ebbe paura di non uscirne viva. Se ne tornò a casa e partorì un bambino che diede subito in adozione.

Negli anni successivi, qualcuno la mise in contatto con due avvocate che stavano cercando una donna attorno alla quale potessero imbastire una causa sul diritto all’aborto fino al terzo trimestre: doveva essere abbastanza povera da non poter uscire dallo Stato per abortire. In McCorvey trovarono la candidata perfetta. Quando vinsero la causa, la chiamarono per congratularsi e le chiesero: Non sei contenta? Lei rispose: Perché dovrei essere contenta? Il bambino l’ho avuto.

Nel 1989 a Washington ci fu una manifestazione di donne provenienti da tutto il paese per il diritto all’aborto. Tra le celebrità intervenute, cariche di privilegi e frementi di rabbia, c’erano donne che vibravano di virtuosa indignazione come Whoopi Goldberg e Cybil Shepherd. Nel frattempo, McCorvey era stata intervistata a proposito del suo aborto e aveva rivelato che in realtà, no, la gravidanza che aveva cercato di interrompere e che aveva portato alla causa legale non era mai stata il risultato di uno stupro. Come disse senza mezzi termini, mentire era quello che bisognava fare, a quei tempi, per ottenere un aborto. Questo, insieme al suo carattere brusco da proletaria (lavorava come donna delle pulizie) e al suo pronunciato accento nasale della Louisiana/Texas, l’aveva resa un’oratrice inadatta agli occhi delle organizzatrici della manifestazione, e non fu invitata a parlare. L’ironia è che Roe v. Wade avrebbe potuto avere successo solo con una donna come McCorvey e che nessuna delle donne a cui era stata data l’opportunità di tuonare contro la perdita del diritto all’aborto avrebbe mai dovuto combattere per ottenerlo come dovette fare lei.

Con il passare degli anni, la salute e la situazione economica di McCorvey divennero sempre più precarie: alla fine rinnegò il proprio aborto, divenne una born-again Christian e trovò accoglienza tra le braccia del movimento antiabortista, che si rallegrò di trovare in lei un’icona perfetta da esibire. Come dichiara l’evangelico Robert Schenck nel documentario: “con lei abbiamo avuto il nostro Oscar”. McCorvey continuò a fare campagna elettorale per candidati antiabortisti e parlò spesso della propria fede in televisione. Il movimento per il diritto all’aborto, lo stesso che si era rifiutato di darle voce a dispetto del suo ruolo fondamentale per la causa, a quel punto si sentì profondamente tradito. Come ha potuto? si chiedevano. Ecco, sapevamo di non poterci fidare di lei.

Poi, tre anni dopo la sua morte, McCorvey ha di nuovo inorridito tutti, su entrambi i fronti. Il documentario mostra un filmato in cui la donna rivela di avere assunto una posizione antiabortista solo in cambio di denaro, che le era stato versato attraverso vari canali dalle forze anti-choice, in particolare dall’organizzazione Operation Rescue di Randall Terry: l’importo totale era di circa 450.000 dollari nell’arco di diversi anni. Nel video McCorvey afferma chiaramente di essere, in realtà, a favore del diritto dell’aborto, poi ride e si fa beffe dell’ipocrisia di coloro che pensavano di aver comprato le sue opinioni: Sono una brava attrice, dice ridendo e facendo spallucce.

Tutto ciò potrebbe non essere completamente vero, anche se le parole di Robert Schenck, l’unico evangelico di tutta la baracca che abbia qualcosa di simile a una coscienza, sembrano le più appropriate: Mi sono sempre chiesto: Ci sta prendendo in giro? Perché so per certo che noi stiamo prendendo in giro lei… Ora la farsa è finita.

La maggior parte delle persone, me compresa, non ha mai saputo che la donna il cui cognome fittizio è diventato simbolo del diritto all’aborto in realtà non ha mai ottenuto l’aborto che voleva. Il suo nome e il suo volto apparivano qua e là soprattutto come curiosità: Oh, guardate, eccola, la querelante nella causa Roe v. Wade, o Avete sentito che la donna di Roe v. Wade ora è antiabortista?

E la maggior parte delle persone, me compresa, non sapeva che McCorvey ha avuto diverse relazioni lesbiche, tra cui quella con Connie Gonzalez, con cui ha vissuto per trentacinque anni. Commentando il film, The Advocate (USA) e Pink News (UK) hanno usato parole identiche per descriverla: McCorvey, che si identificava come lesbica ma ebbe relazioni sia con uomini che con donne…

Il “ma” è indicativo del profondo sospetto della comunità gay mainstream nei confronti di tutte le persone che non possono essere identificate con precisione da una sessualità facilmente riconoscibile; il “ma” indica una persona di cui non ci si può fidare. Avrebbero potuto scrivere tranquillamente: “McCorvey, che si identificava come lesbica E aveva relazioni sia con uomini che con donne”, ma sarebbe stato troppo: tutta la gay-lesbicità sarebbe crollata, incapace di sopportare il peso dell’indeterminatezza e dell’illeggibilità.

A tutt’oggi, sebbene in occasione di ogni Pride a tante figure venga attribuito uno status eroico, non si è parlato neanche della possibilità di collocare Norma McCorvey in una sorta di firmamento che riconosca il suo posto straordinariamente importante, anche se conflittuale e talvolta confuso, nella storia americana. Senza di lei, non ci sarebbe stata la sentenza Roe v. Wade, per quanto imperfetta e inadeguata. Con lei, tutti i nostri passati – quello queer, quello femminista e quello ostentatamente etero – diventano infinitamente più complicati e infinitamente più ricchi.

La parola “menzogna” ricorre spesso nel modo in cui viene narrata McCorvey, i cui racconti autobiografici sono costellati di quelle che potremmo definire omissioni di ogni tipo. Ma se dovessimo guardare alle storie delle donne e alle storie queer in modo più onesto, dovremmo riconoscere che non riescono a integrare le vite delle persone come lei: fu odiata e abbandonata dalla madre, che lei stessa chiamerà Una stronza, falsa e stronza! Alla tenera età di dieci anni McCorvey è scappata con un’amichetta e, in qualche modo, le due sono riuscite a prendere una stanza d’albergo dove sono state trovate a baciarsi. Per questo fu messa in un’istituzione per ragazze (che, dirà in seguito, amava perché, come dichiarò, Non avevo mai visto così tante tette in un posto solo). Una volta uscita da lì, fu affidata a un parente che la stuprò ripetutamente, quindi sposò un uomo che – racconta – la picchiò quando rimase incinta, fu emarginata da un movimento letteralmente costruito sul suo nome, e così via. La storia dei gay e delle lesbiche,  e un certo filone della storia femminista, si basano sulla verità ineccepibile, o su una qualche versione di essa: ci piace che le nostre figure eroiche siano incontaminate, preferibilmente belle e colte. McCorvey non era una “figura imperfetta”: era una figura umana, che a malapena riusciva a sopravvivere sotto la pressione del capitalismo e che, alla fine, raccolse tutte le sue riserve e rivolse un gigantesco dito medio al movimento antiabortista che pensava di essere riuscito a comprare il suo silenzio.

Norma McCorvey era una lesbica, Norma McCorvey non era una lesbica, Norma McCorvey non era in grado di essere fedele alla verità, Norma McCorvey diceva la verità come nessun’altra.

Si chiamava Norma McCorvey e dobbiamo fare tutto il possibile per ricordarla.

*** Testo originale sul blog di Yasmin Nair.
Ringraziamo l’autrice per la nota introduttiva scritta per Manastabal.

Solidarietà a Marcella Campagnano. Marketing “femminista” e soppressione della voce.

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Quello che ho da dire lo dico da sola
Chi ha detto che hai giovato alla mia causa?
Io ho giovato alla tua carriera

Chi ha detto che il potere non lo conosci?
“Occuparsi di” è arroganza intellettuale
Più ti occupi della donna e più mi sei estranea

io dico io, Secondo Manifesto di Rivolta Femminile, 1977

Manastabal dialoga con Marcella Campagnano, autrice del ciclo fotografico L’invenzione del Femminile: Ruoli (1974). Nel gennaio 2018 abbiamo conosciuto Marcella alla Libreria delle Donne di Milano durante la presentazione di Trilogia SCUM di Valerie Solanas. Per l’occasione Marcella ci mostrò una cartolina autografa di Solanas da lei ricevuta nel 1977.

A partire da agosto 2020 il nome di Marcella viene associato – a sua insaputa – alla campagna pubblicitaria internazionale della nuova collezione Dior su diverse testate e riviste di moda, italiane e straniere. Il nostro dialogo con lei era iniziato prima di questa impropria associazione, in vista di un articolo che si sarebbe dovuto intitolare L’invenzione del femminile: Marcella Campagnano e la fotografia femminista. Alla luce di quanto accaduto, tuttavia, ci preme lasciare la parola alla fotografa sull’esproprio che ha subito. La questione, d’altronde, non riguarda soltanto Marcella: come ha ricostruito Elvira Vannini nel suo articolo L’arte femminista non è un brand Dior (2 marzo 2020), già da qualche tempo l’industria della moda parassita il femminismo, appropriandosi di citazioni fuori contesto e di figure storiche della seconda ondata (Carla Lonzi, Robin Morgan) per ricavarne profitto. La collezione prêt-à-porter autunno-inverno di Dior, disegnata dalla Direttrice Creativa Maria Grazia Chiuri, è presentata sul sito della maison (dotata anche di un “Ufficio di Gender Studies“) come “espressione di una visione spiccatamente femminista”: le fotografie delle modelle, realizzate da Paola Mattioli, ricalcano in sedicesimo la famosa serie di immagini, intitolata Ruoli, che Marcella creò nel salotto di casa insieme alle donne del suo gruppo di autocoscienza, in un momento storico di effervescenza politica collettiva. Diverse riviste di moda pubblicizzano l’operazione di Dior come un “omaggio” alla “feminist icon” Marcella Campagnano.

Scrive Marcella:

“So di aver progettato e strutturato (1974) un’immagine ironica e critica, riferita alla complice subalternità, consapevole o meno, che la figura femminile offre, da migliaia d’anni in tutte le culture, alla degustazione maschile. Questo fenomeno oggi si chiama moda. Marcella Campagnano non ha, comunque, nulla a che fare con la campagna pubblicitaria della Dior che si nutre di isolate figure femminili in campo neutro.”

MANASTABAL: Il ciclo fotografico L’invenzione del Femminile: Ruoli, comincia nel 1974. In un’intervista rilasciata a Marco Scotini su Flash Art hai parlato di quel lavoro come di un «teatro dell’esperienza», un modo per registrare «la mobilitazione spontanea, partecipata ed entusiastica di decine di amiche che, in quei giorni, si prestavano allegramente a un gioco di svelamento del proprio essere al mondo, di cui ognuna di noi coglieva la sotterranea induzione da parte di modelli maschili, che da secoli suggeriscono e guidano la nostra possibile o improbabile identità femminile». In qualche modo suggerisci che, al di là dell’apparente variabilità delle identità femminili, resta invariata la “regia” patriarcale che presiede al loro rinnovamento, e addirittura lo sollecita; e parli di una disponibilità diffusa da parte delle tue amiche, evidentemente debitrice della pratica dell’autocoscienza, a fare i conti con la pressione sotterranea esercitata da questa “regia” patriarcale. Come è nata l’idea di Ruoli?

MARCELLA: Fin dai primi anni Sessanta, durante i miei studi all’Accademia, iniziava in tutte/i noi quel processo di revisione critica che toccava ambiti del vivere e del sapere che, fino ad allora, si erano mantenuti come modelli e luoghi di comunicazione sociale. La nuova richiesta, rivolta anche alla Pittura, ha legittimato, poi, quel percorso che porterà a critiche radicali come quella che condurrà alla nuova coscienza femminista. La Pittura nella sua grandezza, era, pur tuttavia, uno dei celebrati strumenti dell’agire maschile.

Picasso e Duchamp erano gli estremi di una vicenda che poneva le figure di donne artiste in posizione subalterna e ripetitiva. La consapevolezza di tale stato mi spinse a cercare strumenti altri, meno contaminati e coinvolti in questo confronto che improntava tutti i saperi del XX secolo. La Fotografia emancipava da quella eterna ricerca del segno soggettivo per cui, dal Rinascimento in poi, si davano battaglia i grandi autori della Storia dell’Arte. Passando dalla pittura alla fotografia sentivo di accumulare dati della realtà sociale (femminile) che “avrebbero reso superflui tutti i commenti, o anche i giudizi” (S. Sontag).

Donne. Immagini, testo di Lidia Campagnano, Collana “Donne contro”, Milano, Moizzi Editore 1976

MANASTABAL: Prima di Ruoli, negli anni Sessanta, hai realizzato la serie “Donne per la strada” (confluita in Donne. Immagini, 1976), donne “qualsiasi”, di ogni età, fotografate per le vie di Milano. Queste donne sembrano colte durante le attività quotidiane, forse la spesa, o delle commissioni: come hai detto altrove, “una vita milanese che non fa notizia”. Uno sguardo femminista, oggi come allora, può cogliere quanto di politico vi sia in quel soggetto (la vita quotidiana delle donne in una società patriarcale), e anche nel modo in cui è rappresentato attraverso la tua fotografia: le protagoniste rivolgono lo sguardo all’obiettivo e in quello sguardo si percepisce una relazione con la fotografa. Non si tratta di scatti “rubati” come spesso accade nella tradizione della fotografia (maschile) nello spazio pubblico, quella che va “a caccia” di volti o situazioni da catturare di nascosto, con il distacco di chi dirige la lente su un oggetto. Come sei arrivata a uscire dalle mura dell’Accademia e a interessarti al quotidiano delle donne?

MARCELLA: L’Accademia cominciava ad allontanarsi e non rispondeva più agli interessi di Marcella che, definitivamente si stacca dai percorsi indotti. È la città, questo grande contenitore di luoghi, figure e relazioni umane, che si propone ormai come affascinante enigma da affrontare e sciogliere decostruendo l’impianto che, da tempo indicibile, si era accumulato. Senza cercare particolari atteggiamenti e significati, ha cominciato a registrare con la massima obiettività, (quasi impersonalità) queste figure del vivere quotidiano che non avevano mai avuto rilievo e risposta. Erano le “invisibili” relegate a quella coazione a ripetere del quotidiano che, attraverso consapevolezza e analisi femministe, troveranno un riconoscimento irreversibile.

Nella pratica: noi stesse.

È il momento in cui, di fatto e concretamente, Marcella incontra delle illuminazioni che potrebbero anche separarsi da quello che si era ritenuto artistico. La posta in gioco era ormai ben più importante.

MANASTABAL: «In una società femminile l’unica Arte, l’unica Cultura sarà l’esistenza di femmine insolenti, stravaganti, scatenate, capaci di ricavare piacere l’una dall’altra e da qualsiasi altra cosa nell’universo»: sono le parole con cui Valerie Solanas conclude il paragrafo “Grande Arte” e “cultura” di Manifesto SCUM (1967). Ti riconosci in una posizione come questa, che sfocia in sostanza nel rifiuto dell’arte in quanto sistema di alienazione delle donne?

MARCELLA: Mi piacciono davvero queste parole di Valerie Solanas, e contemporaneamente a lei, che allora non conoscevo, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, all’uscita dall’Accademia, ho sostenuto, soprattutto con le mie amiche aspiranti artiste, che l’Arte come lo stesso linguaggio comune, sono il prodotto degli interessi vitali e di scambio del mondo maschile. L’Arte si trascina esausta fino ai giorni nostri (industrializzazione, tecnologia, Duchamp). L’oggetto d’arte, da valore intrinseco diventa valore d’esposizione; è per questo che io azzardo che noi donne dovremmo espandere, lievitare, in modo IMPREVEDIBILE, non ancora formulato. Non una nuova forma d’arte, un nuovo “ismo”.
Altro, altro, come sentiamo di essere.

MANASTABAL: Di recente, in un messaggio alle amiche, hai manifestato insofferenza verso quei galleristi che vorrebbero convertire il tuo lavoro in valore di mercato, attraverso la procedura dell’esposizione. «Il mio lavoro non è nato per i muri delle gallerie, ma per un’apertura e un dialogo collettivo», hai detto. In fondo, la maison Dior, che si è appropriata anche di Carla Lonzi le cui parole figurano su un modello di t-shirt (€ 620 l’una), non si è comportata con te diversamente dai galleristi a cui ti riferivi… Sembra che il mito dell’inclusione prenda il posto della liberazione.

Nel caso di Dior, colpisce il fatto che non solo ti abbiano lasciata all’oscuro dell’operazione – presentata come un “omaggio” a un’“icona femminista” – ma si siano completamente disinteressati al tuo parere in merito…

MARCELLA: A proposito dell’intervista di Maria Grazia Chiuri su Vanity Fair, l’intelligenza tattica e iperprofessionale della direttrice creativa delle linee femminili della maison Dior non scalfisce davvero la ragion d’essere di questa straordinaria MULTINAZIONALE con estesa rete di licenze e royalties. Naturalmente tutta la fatica e il lavoro manuale di tante confezionatrici che costruiscono lo splendore e le preziosità che poi ammiriamo nelle sfilate di Parigi, Milano, New York, resta solitamente occultato.

Il nome di CARLA LONZI e la maison Dior vengono ancora una volta assimilati in un’operazione scontatamente e volgarmente promozionale e pubblicitaria. La cosa si trascina da tempo e pretende di dare la mediocre misura di quello che tutte noi abbiamo sempre ritenuto, invece, un ineffabile volo.

Io non ho più parole. Resto sommessamente in ascolto delle vostre.

MANASTABAL: Dicevi che il tuo lavoro è nato per un’apertura e per un dialogo collettivo. In quali forme ti piacerebbe venisse portato avanti questo dialogo?

MARCELLA: Quello che, stentatamente, ho cercato di dirvi, per me, si raccoglie nell’ormai dilagante espressione (una sintesi di cui vi sono davvero riconoscente): “l’inclusione prende il posto della liberazione”. Non lasciamo, però, che la parola confonda le nostre umane intenzioni. A ottant’anni sono ormai subissata da immagini, ipotesi, finte verità che, potendo, io stessa avrei potuto cavalcare, ma cinquant’anni fa mi sono obbligata a restituire quello che ritenevo un estremo barlume di verità.

Quello che vorrei venisse portato avanti è TUTTO DA INVENTARE nello SCAMBIO COLLETTIVO.

Marcella parla del suo lavoro L’invenzione del femminile: Ruoli (intervista ripresa nel maggio 2019)


La banalità del maschio. Louis Althusser ha ucciso sua moglie, Hélène Rytmann-Legotien, che voleva lasciarlo.

Il 16 novembre 1980 il filosofo Louis Althusser strangola la moglie Hélène Rytmann-Legotien, che nelle settimane immediatamente precedenti aveva manifestato l’intenzione di lasciarlo. Tre mesi dopo, grazie alla fitta rete di protezione sociale che circonda l’assassino, un’ordinanza di non luogo a procedere ne decreta lo stato di non responsabilità giuridica, risparmiandogli la comparizione in tribunale e il carcere. All’autobiografia, scritta nel 1985 e pubblicata postuma nel 1992, il filosofo affida il racconto del «dramma nel quale è stato letteralmente scagliato dall’incoscienza e dal delirio», accreditando con il peso della propria firma una lettura dei fatti vittimistica e psicologizzante, orientata in definitiva a scagionarlo da ogni responsabilità. La continuità fra l’interpretazione del proprio gesto offerta da Althusser e il tenore del discorso diffuso dai media sulla violenza femminicida è il tema del saggio dello studioso Francis Dupuis-Déri, che presentiamo qui in traduzione italiana. Il caso Althusser, nient’affatto eccezionale, va inquadrato come un «rivelatore sociale»: non soltanto la vittima cade nell’oblio, sommersa dal discorso del suo carnefice, ma il femminicidio diventa addirittura, per l’assassino e per il gruppo sociale a cui appartiene, un’occasione favorevole al rilancio del proprio prestigio e del proprio valore. 

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© Tatiana Istomina, Philosophy of the Encounter, 2016-2017

di Francis Dupuis-Déri*

Ricordo la mia insistente domanda: com’è possibile che abbia ucciso Hélène? (Louis Althusser [1992] 1994: 286; trad. it. 1992: 272)

Hélène Rytmann nasce a Parigi nel 1910 in una famiglia ebraica. La sua giovinezza è segnata da due drammi importanti: a tredici anni, dietro raccomandazione del medico, ha somministrato una dose mortale di morfina al padre malato di cancro per mettere fine ai suoi giorni, l’anno successivo ha fatto lo stesso per la madre. Membro del partito comunista dal 1930, partecipa alla Resistenza nella regione di Lione durante la Seconda guerra mondiale, conosciuta all’epoca con il nome di Hélène Legotien (nome che riprenderà per firmare alcuni testi e che io stesso utilizzerò nel corso di questo intervento). Più tardi incontra un filosofo che insegna all’École normale supérieure, Louis Althusser, lui stesso membro del partito, con il quale avrà una relazione per una trentina d’anni.

All’inizio della guerra fredda, Legotien milita nel movimento per la pace (di obbedienza sovietica), prima di essere espulsa dalle fila del partito dai suoi compagni, che la accusano di hitlero-trotskismo, o di essere stata al soldo della Gestapo, o dell’Intelligence Service. Per ammissione stessa di suo marito, anche lui voterà per la sua espulsione (Althusser [1992] 1994: 228; trad. it. 1992: 213).

La notorietà di Althusser si consolida, ma il filosofo è psicologicamente molto instabile, al punto da essere spesso ospedalizzato. Legotien, allora, doveva rispondere alle domande di molti amici e molte amiche che si preoccupavano dello stato di salute di suo marito, ma che non si interessavano mai a lei, cosa che ella viveva come un’«ingiustizia intollerabile» (Althusser [1992] 1994: 275; trad. it. 1992: 261).

Althusser assassina Legotien il 16 novembre 1980, verso le nove del mattino, nel loro appartamento all’École normale supérieure.

Sulla scena pubblica si impone subito la tesi della follia per spiegare il caso. Ogni analisi sociologica o politica, per non dire femminista, è rimossa.

È precisamente di questo discorso pubblico, che ha l’effetto di discolpare l’assassino, che mi occuperò qui. La ricerca proposta si fonda su un’analisi incrociata delle affermazioni dell’assassino, che si è espresso diffusamente sui propri moventi nella sua autobiografia (L’avvenire dura a lungo), e dei punti di vista presentati in articoli apparsi su giornali e riviste dopo il delitto e dopo la pubblicazione dell’autobiografia. All’interno di questo corpus si mescolano discorsi di giornalisti, di editorialisti, di cronisti e di intellettuali, il più delle volte uomini, così come di psicologi e di psichiatri, per esempio nel quadro di interviste. L’analisi presentata qui riguarda una selezione di testi scelti per la loro pertinenza nel quadro di questa ricerca, senza pretese di esaustività, prendendo spunto dai lavori di Vania Widmer, la quale ha proposto, a propria volta, un’analisi dei discorsi mediatici relativi al «crimine di Althusser» [1].

L’obiettivo non è quello di distinguere o di comparare i diversi registri discorsivi [2], ma di mostrare che essi esprimono in maniera unanime un’identica certezza, cioè che il delitto deve essere spiegato con la psicologia dell’assassino, il che ha l’effetto di spoliticizzare il caso, ovvero di discolpare l’assassino stesso. Così, dopo aver presentato alcuni strumenti di analisi sviluppati da femministe specialiste dei discorsi pubblici sulle violenze maschili contro le donne, verrà ricordato il contesto sociale nel quale il delitto ha avuto luogo, quindi verranno presentati più dettagliatamente i discorsi di psicologizzazione e vittimizzazione dell’assassino, per discutere infine della rete di protezione e solidarietà maschile che è stata messa in campo a beneficio dell’omicida.

Nel corso della discussione emergerà che questo caso agisce come un «rivelatore» sociale (Delphy 2011: 7), perché ritornare su questo crimine e sui discorsi pubblici relativi ad esso permette di mettere in luce le «tattiche di occultamento» (Romito 2006) della violenza maschile contro le donne, al tempo stesso individuale e collettiva.

Delucidazioni femministe

Prima di discutere del caso e delle sue conseguenze, torniamo ai lavori delle femministe che hanno analizzato i discorsi sulle violenze degli uomini contro le donne. I loro studi sulla rappresentazione mediatica dei «drammi coniugali» o dei «crimini passionali» permettono di identificare alcune regolarità, in particolare per quanto riguarda le spiegazioni offerte. Una presentazione sintetica delle ricerche realizzate nel contesto anglosassone (Guérard, Lavender 1999) indica che il tema principale del racconto mediatico in genere è l’uomo che uccide la moglie o la ex-moglie, mentre la vittima occupa un posto marginale, anche se spesso è ritenuta responsabile della propria morte, mentre, contestualmente, la responsabilità dell’assassino viene minimizzata. Ogni caso è trattato separatamente dai media, cioè come un evento isolato, il che impedisce di vedere che la violenza omicida maschile è un fenomeno sociale (i giornalisti non evocano casi simili, anche quando ce ne sono diversi a cui vengono dedicati degli articoli nella stessa edizione di un giornale o con un intervallo di pochi giorni). Tra le spiegazioni che permettono di minimizzare la responsabilità dell’assassino, notiamo la volontà della sua compagna di lasciarlo e la depressione. Fatto interessante: tutti questi elementi si ritrovano nei discorsi mediatici che trattano del delitto di Legotien da parte di suo marito, ma anche nell’autobiografia firmata dall’assassino.

Un altro studio (Houel, Mercader, Sobota 2003), dedicato specificamente alla Francia, ha ugualmente permesso di constatare che, nella maggior parte dei casi, i giornalisti spiegano i cosiddetti «crimini passionali» con un «ragionamento psicologico, ovvero psicopatologico», soprattutto quando l’assassino è un uomo di classe media e «bianco». I giornalisti avanzano invece delle spiegazioni socioculturali quando si tratta di un uomo di origine straniera, in particolare un musulmano (Houel, Mercader, Sobota 2003: 9, 103 sgg.). Diverse femministe esperte di violenze maschili contro le donne hanno dimostrato che i discorsi pubblici, compresi quelli delle autorità, hanno la tendenza a rimuovere ogni riferimento ai rapporti sociali di sesso, atteggiamento che partecipa a un «processo di spoliticizzazione» (Lieber 2008: 175).

Nel loro studio, Annick Houel, Patricia Mercader e Helga Sobota (2003: 104-105) distinguono due tipi di «teorizzazioni psicologiche»: o «i criminali sono oggetto di una sorta di diagnosi», o le cause «sono ricercate nell’infanzia dei criminali», in particolare dal lato del padre assente o violento e della madre dominante. Ancora una volta, i discorsi pubblici diffusi dai media sul delitto di Legotien corrispondono bene a questo schema, esattamente come il racconto fornito dall’assassino nella sua autobiografia.

Per cogliere meglio il significato politico dei discorsi relativi al delitto perpetrato da Althusser, meritano attenzione le riflessioni di Mélissa Blais e Patrizia Romito. Blais (2009) ha analizzato i discorsi mediatici sull’attentato antifemminista al Politecnico di Montréal, il 6 dicembre 1989. Ha constatato che i media presentavano il terrorista [3] prima di tutto come un folle, anche se questi aveva chiarito molto esplicitamente le proprie motivazioni politiche, cioè antifemministe. Questo giovane uomo ha ucciso quattordici donne (tredici studenti e un’impiegata amministrativa) al Politecnico, dopo aver dichiarato: «odio le femministe». Si è suicidato sul posto e i poliziotti gli hanno trovato addosso una lettera-manifesto nella quale il terrorista si abbandonava a questa previsione: «Anche se sui media mi attribuiranno l’epiteto di Tiratore Folle, io mi considero un erudito razionale». In effetti è stato immediatamente designato come «folle assassino» dai media. Per parte sua, Althusser ha dispiegato molte energie per presentarsi come folle, e dunque irresponsabile del delitto, mentre era riconosciuto come un erudito razionale.

Romito (2006) ha studiato in modo più generale le «tattiche di occultamento» della violenza maschile contro le donne. La studiosa identifica la «psicologizzazione» come una delle tattiche più correnti ed efficaci di occultamento delle violenze maschili contro le donne. Questa tattica, che costituisce un «rifiuto dell’analisi politica» (Romito 2006: 137; si veda anche Hanmer 2012 [1977]: 100), rende difficile inquadrare questi assassinii nell’ambito di una logica sociopolitica, anche se le statistiche sono molto chiare a questo riguardo:

La psicologizzazione è dunque, in sostanza, una tattica di spoliticizzazione, incaricata di mantenere lo status quo e di rafforzare il potere dominante. […] Psicologizzare può servire anche a decriminalizzare una simile azione (Romito 2006: 122-123, corsivo nel testo).

Anche Blais (2009: 77 sgg.) ha chiarito in che modo la psicologizzazione dell’assassino del Politecnico sia stata ripresa dai media, persino da psicologi e psichiatri che non avevano incontrato l’assassino, né consultato la sua cartella medica. Blais dimostra che questa psicologizzazione ha avuto l’effetto di trasformare il «folle assassino» in vittima (è malato, sofferente) e di deresponsabilizzarlo (la causa è la follia, o ciò che ha causato la follia, ossia probabilmente il femminismo e le femministe). Le riflessioni di Blais e Romito si uniscono a quelle della femminista britannica Jalna Hanmer, presentate nel primo numero di Questions féministes nel 1977. Hanmer precisava che la sfida, nell’analisi delle violenze maschili, non è necessariamente «la spiegazione dell’atto individuale: la nostra principale preoccupazione è il significato, a livello sociale strutturale, della violenza degli uomini contro le donne» (Hanmer 2012 [1977]: 94).

Il contesto sociale del delitto

Del delitto di Legotien per mano di suo marito abbiamo soltanto il racconto dell’assassino. L’autobiografia scritta da questi a metà degli anni Ottanta e pubblicata nel 1992, due anni dopo la sua morte per cause naturali, si apre così:

Così come ne ho serbato intatto e preciso il ricordo fin nei minimi particolari […] ecco la scena del delitto tale e quale l’ho vissuta. D’un tratto sono ritto, in vestaglia, ai piedi del letto nel mio appartamento dell’École normale. […] Di fronte a me Hélène: sdraiata sulla schiena, anche lei in vestaglia. […] Inginocchiato vicinissimo a lei, chino sul suo corpo, le sto massaggiando il collo. […] Sento una grande stanchezza ai muscoli degli avambracci: lo so, massaggiare mi fa sempre dolere gli avambracci. Il volto di Hélène è immobile e sereno, i suoi occhi aperti fissano il soffitto. E d’improvviso resto attanagliato dal terrore: […] so che di strangolamento si tratta. Ma come? Mi alzo e urlo: ho strozzato Hélène! Mi affanno, e in preda a un panico profondo, […] mi dirigo, sempre correndo, verso l’infermeria dove so di trovare il dottor Étienne […]. Continuando a urlare, salgo a quattro a quattro le scale del medico: «Ho strozzato Hélène!» (Althusser [1992] 1994: 34; trad. it. 1992: 21-22).

Catherine A. Poisson (2008) e Vania Widmer (2004) hanno dedicato studi approfonditi a questo racconto e ne concludono che la narrazione è minata da un problema importante: «Althusser è assente dal delitto. Il delitto si svolge senza di lui» (Widmer 2004: 13). Ha ammazzato sua moglie, poi ha avuto una sorta di assenza, quasi una fantasticheria, e quando riprende coscienza, Legotien è morta. Il racconto riprende elementi discorsivi che si ritrovano nei media quando si tratta di «crimini passionali»: «i termini scelti tendono a descrivere questo momento [il delitto] come un accidente, come l’accidente di un essere assoggettato al disorientamento e non soggetto del proprio crimine» (Houel, Mercader, Sobota 2003: 129).

Nella sua autobiografia di più di trecento pagine, Althusser racconta la sua storia personale per spiegare il suo delitto. Egli suggerisce che il crimine si spiega mediante istanze psicologiche e psicoanalitiche, rimuovendo ogni riferimento alla politica sessuale e al femminismo. Ora, questo delitto non costituisce un evento eccezionale, in particolare se lo si colloca nel quadro del sistema patriarcale in Francia, laddove ha avuto luogo. In effetti, le femministe hanno dimostrato che la violenza maschile contro le donne è un fenomeno sociologico, oltre a essere oggetto di importanti mobilitazioni femministe, anche all’epoca in cui è avvenuto il delitto.

Dopo Maryse Jaspard (2005: 11-13), Alice Debauche e Christelle Hamel (2013: 5) hanno ricordato che la denuncia delle violenze maschili contro le donne è stata «una delle questioni più importanti sollevate dal movimento femminista degli anni Settanta. […] La denuncia delle diverse forme di violenza verso le donne fu oggetto di molte manifestazioni e numerosi scritti militanti — manifestazioni notturne, processo politico, etc.». L’assassinio di Legotien da parte del marito, filosofo marxista e militante comunista, ha luogo dunque dopo un decennio di mobilitazione femminista sul tema delle violenze maschili contro le donne. Questo celebre filosofo che insegnava a molte future vedettes intellettuali (Étienne Balibar, Regis Debray, Michel Foucault, Bernard Henry-Lévy, Jacques Rancière) e che frequentava personalità celebri (Paul Éluard, Jacques Lacan) sembra avere totalmente ignorato — se ci si basa sulla sua autobiografia — il femminismo, sia come movimento sociale che come teoria. Mobilitare l’analisi femminista permette tuttavia di ricordare il significato sociologico e politico del delitto, perché «il privato è politico», di elaborare una lettura critica della spiegazione avanzata dall’assassino stesso e dai suoi alleati e di ricordare che la protezione sociale di cui ha beneficiato l’assassino non è eccezionale quando celebrità maschili uccidono o stuprano delle donne.

In media ogni due giorni in Francia un uomo uccide la moglie o la ex-moglie. Legotien è una di queste donne assassinate. Si tratta di un fenomeno sociale, caratterizzato da una certa regolarità. D’altra parte, i dati sono pressoché costanti da più di vent’anni in Francia e in altri paesi, come in Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna e altrove. Già nel 1977 Questions féministes ricordava che le violenze maschili contro le donne avvengono spesso nel quadro di una relazione di coppia (Hanmer 2012 [1977]: 98-99). Circa un terzo di questi assassinii di donne [4] avvengono in situazione di separazione o di separazione annunciata. L’uomo decide di uccidere la moglie o la ex moglie, anziché accettare che lei lo lasci e si emancipi dalla relazione. Secondo lo stesso assassino, Legotien gli aveva detto che voleva lasciarlo qualche giorno prima che lui la uccidesse. Nell’autobiografia Althusser ([1992] 1994: 165; trad. it. 1992: 152) sottolinea con affermazioni per lo meno equivoche il proprio rifiuto di permettere alla moglie di lasciarlo: «le fughe violente di Hélène, che non potevo sopportare […] erano per me altrettante minacce di morte (e si sa quale rapporto attivo io abbia sempre intrattenuto con la morte)».

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“Lei lo lascia, lui la uccide”

L’assassino si presenta come vittima della donna che ha ucciso, e che avrebbe minacciato la sua sopravvivenza di uomo. Questi discorsi concordano con le osservazioni delle specialiste di omicidi coniugali, le quali indicano che «la motivazione invocata più spesso dagli uomini che hanno commesso un omicidio coniugale è l’incapacità di accettare la separazione coniugale». Gli assassini affermano di non potere «tollerare la perdita della coniuge e […] di vivere il lutto della relazione» (Lefebvre, Lévéillée 2011: 12). Nell’autobiografia Althusser si spiega in questo modo:

Non so quale tipo di vita imponessi a Hélène (e so d’essere stato davvero capace del peggio), ma lei dichiarò con una risolutezza che mi atterrì di non potere più vivere con me, che io ero per lei un “mostro” e che voleva lasciarmi per sempre. Si mise ostentatamente in cerca di un alloggio, ma non riuscì a trovarne uno subito. Adottò allora disposizioni pratiche per me insostenibili: mi lasciava in mia presenza, nel nostro appartamento. Si alzava prima di me e spariva tutto il giorno. Se le capitava di restare a casa, rifiutava di parlarmi e perfino di incontrarmi. […]  avevo sempre provato un’angoscia intensa all’idea di essere abbandonato, e soprattutto da lei, ma quell’abbandono in mia presenza e a domicilio mi sembrava più insopportabile di qualsiasi altra cosa. (Althusser [1992] 1994: 278-279; trad. it. 1992: 264-265).

La situazione pareva drammatica, dato che aggiunge: «Mi disse che la sua sola via di scampo, dato il “mostro” che ero e la sofferenza disumana che le imponevo, era uccidersi» (Althusser [1992] 1994: 279; trad. it. 1992: 265). Secondo l’assassino, Legotien gli avrebbe persino chiesto di aiutarla uccidendola. In quel periodo la coppia era totalmente isolata, al punto che non rispondeva più al telefono né al campanello. Non rispondeva più nemmeno alle telefonate del terapeuta che seguiva indipendentemente Legotien e Althusser e che provava a contattarli, poiché sapeva della crisi della coppia, o per lo meno a contattare Althusser, per il quale si era dato da fare affinché venisse ospedalizzato.

Gli specialisti dibattono per stabilire se gli uomini che commettono omicidi coniugali siano partner intrinsecamente violenti, o se un partner mite possa improvvisamente passare all’atto e uccidere la compagna. I dati statistici non permettono di arrivare a una conclusione netta. Ad ogni modo, la ricerca femminista parla di un continuum della violenza per designare quelle situazioni in cui la donna assassinata dal proprio marito o ex marito è stata il bersaglio di un’escalation di violenza nel corso della relazione (Lefebvre, Léveillée 2011: 12). Nell’autobiografia, Althusser stesso si auto-designava come un «mostro» e menzionava i «perpetui litigi» che lo opponevano alla moglie (Althusser [1992] 1994: 270; trad. it. 1992: 256). Egli si confessa: «ero per lei davvero insopportabile, tanto le mie provocazioni e le mie aggressioni continue la ferivano in modo quasi mortale» (Althusser [1992] 1994: 275; trad. it. 1992: 261). La relazione dunque era non soltanto conflittuale, ma marcata dalla violenza, per lo meno psicologica, senza contare poi che si trattava di una relazione non egualitaria a vantaggio dell’uomo, in termini di riuscita professionale, di prestigio e di influenza sociale, di reti sociali e affettive. Non era irragionevole che Legotien volesse lasciare il marito, né sorprendente che egli reagisse male a questa volontà di emancipazione.

Psicologizzazione e vittimizzazione

Pubblicata come opera postuma, la prima edizione dell’autobiografia di Althusser ha venduto più di 35 mila copie ed è stata tradotta quasi simultaneamente in una decina di paesi (Corpet, Moulier Boutang 1994: 18). Sui giornali il libro viene presentato come un «testo sincero» che «bisogna leggere», che contiene «più verità che non altrove» [6], e alcuni intellettuali vi scorgono «un capolavoro della letteratura autobiografica» (Lévy 2011: 8).

Eppure vi si può vedere anche un testo abbastanza mediocre in termini letterari, rivoltante da un punto di vista politico e persino scoraggiante da un punto di vista psicologico, dato che l’assassino si presenta come vittima. Quest’ultimo si rivela anche pretenzioso e vanitoso, paragonandosi a Descartes, Rousseau, Kant, Kierkegaard, Wittgenstein. Racconta la totalità della propria vita cominciando dall’inizio — «Sono nato il 16 ottobre 1918, alle quattro e mezzo del mattino» — e non ci risparmia le sue piccole manie, né una quantità di aneddoti insignificanti, fino a chiudere il cerchio terminando con una spiegazione del delitto presentato come la conseguenza di una vita marchiata dai traumi infantili. Al di là dei dettagli e delle numerose digressioni, questa autobiografia è un documento di 324 fogli in formato A4 il cui unico scopo è quello di presentare l’assassino come non responsabile del proprio crimine. 

Se si tiene a mente che l’autore ha ucciso la propria moglie, c’è da trasalire di fronte a certi passaggi, come quando riferisce, a proposito del primo incontro con Legotien, che avvertì «un desiderio e un altruismo esaltanti: salvarla, aiutarla a vivere! Per tutta la nostra storia, sino alla fine, non mi sono mai discostato da quella missione suprema che continuò a essere la mia ragione di vita fino all’ultimo istante» (Althusser [1992] 1994: 135; trad. it. 1992: 123).

Il tutto è disseminato di riflessioni di tenore psicoanalitico che spesso riprendono stereotipi patriarcali e sessisti, pur permettendo all’autore di annoverarsi tra «i più grandi filosofi [che] sono nati senza padre e hanno vissuto nella solitudine del loro isolamento teorico e nel rischio solitario che si assumevano di fronte al mondo. Sì, io non avevo avuto padre, e avevo giocato indefinitamente a fare il “padre del padre” per darmi l’illusione di averne uno. […] E ciò era possibile soltanto attribuendomi la funzione per eccellenza del padre: il dominio e la padronanza di ogni possibile situazione» (Althusser [1992] 1994: 193; trad. it. 1992: 179]. E di concludere: «Non diventavo forse in tal modo, finalmente, il mio stesso padre, vale a dire un uomo?» (Althusser [1992] 1994: 198; trad. it. 1992: 184]. 

Questa autobiografia offre tuttavia materiale interessante per un’analisi femminista dell’omicidio coniugale e dei discorsi pubblici al riguardo. Si deduce che il padre di Althusser incarnava un modello maschile patriarcale e molto violento. Questo padre non svolgeva alcun compito domestico né parentale, ha inflitto alla moglie (la madre di Althusser) violenza sessuale ed economica (le impedì di trovare un lavoro retribuito), corteggiava le mogli degli amici in presenza della propria (un comportamento che Althusser, d’altronde, riprodurrà davanti a sua moglie) (Althusser [1992] 1994: 55-63; trad. it. 1992: 46-51).

Inoltre, una pagina dopo l’altra, l’assassino si presenta come ossessionato dalle identità di genere tradizionali. Evoca una nonna che somigliava a una «donna-uomo» (Althusser [1992] 1994: 53; trad. it. 1992: 42), delle «donne-uomo» rese tali dal fatto di urinare in piedi (Althusser [1992] 1994: 92; trad. it. 1992: 80) e ricorda che i suoi colleghi si accusavano di essere delle donne, cioè delle «mamme» (Althusser [1992] 1994: 112; trad. it. 1992: 101). Spiega, in relazione alla sua adolescenza: «Non ero nemmeno un bambino, ma una debole femminuccia» (Althusser [1992] 1994: 74; trad. it. 1992: 62). Quanto a Legotien, la designa come «un uomo» (Althusser [1992] 1994: 150; trad. it 1992: 138), una «buona madre, finalmente, e al tempo stesso anche un buon padre» (Althusser [1992] 1994: 151-152; trad. it. 1992: 139), aggiungendo: «Noi facevamo davvero l’amore, come uomo e donna» (Althusser [1992] 1994: 152; trad. it. 1992: 139). Forse si trasalirà nuovamente leggendo alcuni commenti in cui l’assassino amalgama mascolinità e protezione delle donne: egli spiega senza la minima ombra d’ironia di aver voluto «essere veramente un uomo, capace di amare una donna e di aiutarla a vivere» (Althusser [1992] 1994: 188; trad. it. 1992: 174). 

Attraverso la propria autobiografia, l’assassino restituisce il ritratto di un’élite maschile caratterizzata dal maschilismo e dalla misoginia. Si incrociano un Jacques Lacan infatuato della figlia di uno dei suoi pazienti, il decano della facoltà di filosofia di Mosca che dice ad Althusser, mentre questi sta per lasciare la Russia, «saluta da parte mia le donnine di Parigi!!!» (Althusser [1992] 1994: 215; trad. it. 1992: 201), un Paul Éluard che riceve Althusser mentre una donna nuda dorme sul divano (Althusser [1992] 1994: 226; trad. it. 1992: 211), un Althusser che rimorchia le donne sulle spiagge di Saint-Tropez e accarezza i seni di una giovane donna che accompagna un amico invitato a cena. Nel capitolo in cui parla della propria adesione al Partito Comunista nel 1948, evoca soprattutto il ricordo di «una bella ragazza in vestaglia (i suoi seni…)» quando faceva il porta a porta (Althusser [1992] 1994: 225; trad. it. 1992: 211). Infine, l’assassino spiega anche perché si era costituito una «riserva di donne»:

Semplicemente, per non rischiare di trovarmi un giorno solo senza donne a portata di mano, nel caso che una delle mie mi avesse abbandonato o fosse morta […], se ho sempre avuto accanto a Hélène una riserva di donne, era proprio per avere la garanzia che, se per caso Hélène mi avesse abbandonato o fosse morta, non sarei rimasto solo nemmeno per un attimo. So benissimo che questa terribile coazione fece soffrire terribilmente le «mie» donne, Hélène per prima (Althusser [1992] 1994: 123-124; trad. it. 1992: 112).

A parte l’ambiguità della testimonianza quanto all’evocazione della morte di Hélène, si tratta del ritratto di un uomo che si ritiene proprietario delle donne, incapace di immaginare che esse possano sottrarsi a questa prerogativa maschile e pronto a farle soffrire mettendole l’una contro l’altra, compresa sua moglie (e questo malgrado fosse consapevole del dolore che le provocava: Althusser [1992] 1994: 176-179; trad. it. 1992: 163-165), pur di salvaguardare il suo bisogno imperativo di possedere delle donne.

Dunque sono disponibili molti mezzi per un’analisi femminista del delitto, dato che l’assassino rivela di avere avuto come modello un padre egocentrico e violento, di avere una concezione sessista e maschilista delle donne, di essere lui stesso egocentrico e di usare la violenza contro le donne. Detto questo, nella sua autobiografia il filosofo marxista confonde la violenza che impone agli altri e la violenza che afferma di subire, cosa che gli permette di presentarsi sempre come vittima. In questo modo riferisce dei ricordi di infanzia: dà un «ceffone» a un compagno di classe («senza sapere da dove venga quell’impulso violento») e schiaffeggia una bambina («Non seppi mai che cosa mi prese») (Althusser [1992] 1994: 71 e 76-77; trad. it. 1992: 59, 64). In entrambi i casi, egli parla di  «violenza subita», mentre era l’aggressore.

Sullo stesso registro, l’assassino si designa a più riprese non solo come una vittima, ma come un morto:  «Non esistendo più realmente, ero nella vita soltanto un essere d’artificio, un essere da nulla, un morto» (Althusser [1992] 1994: 107; trad. it. 1992: 95). In seguito all’uccisione della moglie, si presenta come un «disperso» (termine che prende a prestito da Foucault, che designa in questo modo anche i folli [Althusser [1992] 1994: 40; trad. it. 1992: 29]), perché il non luogo a procedere di cui ha beneficiato l’avrebbe privato della possibilità di testimoniare in tribunale, e dunque di dare la sua versione dei fatti. Egli sostiene che testimoniare gli avrebbe permesso di «sollevare la pesante pietra tombale [6] che giace sopra di me» (Althusser [1992] 1994: 46; trad. it. 1992: 34), «perché è sotto la pietra tombale del non luogo a procedere, del silenzio e della morte pubblica che sono stato costretto a sopravvivere e a imparare a vivere» (Althusser [1992] 1994: 46; trad. it. 1992: 34).

L’assassino che scrive questa autobiografia per spiegare il proprio delitto riprende diversi elementi linguistici caratteristici dei discorsi mediatici relativi ai «crimini passionali», e che si presentano come altrettante tattiche di occultamento della violenza, di deresponsabilizzazione dell’assassino e di spoliticizzazione del suo delitto. Dopo avere raccontato tutta la sua vita, ricorda di essere stato psicologicamente molto malato nelle settimane precedenti al delitto. Queste spiegazioni psicologizzanti avanzate dall’assassino per discolparsi e per presentarsi come vittima sofferente, saranno riprese dalle persone a lui vicine e dai suoi alleati, compresi, subito dopo il delitto, il medico e il direttore dell’École normale supérieure, e poi dai media.

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© Tatiana Istomina, Fhilosofhy of the Encounter

Widmer constata che, nel 1992, «commentando l’apparizione dell’autobiografia, la stampa ormai accetta la versione di Althusser sulla sua malattia mentale come spiegazione del delitto» e che i discorsi sui media restano «generalmente molto compiacenti verso Louis Althusser» (Widmer 2004: 11). Negli articoli della stampa francese analizzati nel quadro della nostra ricerca, l’omicida viene presentato come una vittima sofferente [7] di «malinconia», di «crisi» e di un’«angoscia indefinita» [8], in preda a un’«immensità dolorosa» [9] e a un «inferno interiore» [10]. Althusser sarebbe «crocifisso al proprio dolore» [11].

Qui è possibile paragonare i discorsi enfatici a proposito di Althusser a quelli formulati in circostanze simili, per esempio in seguito all’uccisione dell’attrice Marie Trintignant da parte del marito, il cantante Bertrand Cantat. In entrambi i casi gli assassini sono uomini che appartengono all’élite intellettuale o culturale. A questo riguardo, Lucile Cipriani spiega in un articolo apparso sul giornale di Montréal Le Devoir:

Il discorso di un aggressore, pertanto, può occupare tutto lo spazio, dirigere completamente l’attenzione sulle sofferenze dell’aggressore anziché su quelle della vittima. […] I dolori d’infanzia, i tormenti della gelosia, delle rotture, le ferite all’ego, il male di vivere e il desiderio di controllo degli aggressori delle donne vengono regolarmente descritti dai media. […] Perché il discorso dell’aggressore viene ascoltato? Perché viene accolto con simpatia da una parte della popolazione? […] Egli è socialmente accettato e integrato. […] La cultura garantisce uno spazio ai discorsi degli aggressori. Il discorso degli aggressori non si limita a deviare l’attenzione sulle loro sofferenze anziché su quelle delle vittime. Esso partecipa alla perpetuazione della violenza. L’invocazione delle proprie sofferenze da parte di un aggressore persegue un obiettivo deresponsabilizzante. (Cipriani 2003).

L’omicida appare dunque come un martire. Ora, questa insistenza nel presentare l’assassino come un essere sofferente e straziato si inscrive chiaramente «nella tendenza all’individualizzazione e alla psicologizzazione del fenomeno» (Jaspard 2005: 111) delle violenze maschili contro le donne — un processo che Blais e Romito hanno constatato persino nel caso in cui l’assassino non sia membro di una certa élite (a parte la classe degli uomini). Oltre a favorire l’empatia verso l’assassino, a distogliere l’attenzione dalla vittima, questo tipo di discorso partecipa alla spoliticizzazione della discussione.

Althusser non viene presentato soltanto come sofferente, ma anche come un essere adorabile, pieno di fascino, ovvero «come il più dolce e amabile degli uomini» [12]. Discutendo del delitto, si tratterebbe allora di «restituire Althusser alla sua umanità fragile» [13], presentandolo come un «uomo generoso», altruista e compassionevole che ha dato prova di un «infaticabile ascolto degli altri», dotato di «un formidabile gusto di vivere» [14], uno «sportivo contento di sé» e un «dongiovanni» [15]. Non è difficile rendersi conto di come questi aggettivi influenzino l’immagine pubblica dell’assassino, rappresentato in modo da suscitare empatia per questa vittima sofferente ma tuttavia così simpatica.

I giornali riprendono anche la tesi avanzata dallo stesso assassino, e cioè che a causa del non luogo a procedere e della mancanza di processo, egli è «condannato al silenzio», a una «sepoltura» che lo trasforma in «morto vivente» (cfr. anche Lévy 2011: 8). Da notare che questa idea secondo cui ci sarebbero due vittime e l’assassino è un «morto vivente» è corrente nella copertura mediatica dei «crimini passionali» (Houel, Mercader, Sobota 2003: 130).

La nostra ricerca conferma, pertanto, le conclusioni di Widmer, che a propria volta non aveva trovato alcuna differenza nel discorso mediatico, al contrario: tutti concordano nell’indicare la follia come causa del dramma. Dopo aver consultato diversi studi sul tema, firmati da biografi o da medici, Widmer aveva concluso: «Nella letteratura che ho consultato, la follia di Althusser sembra essere l’unica spiegazione del delitto» (Widmer 2004: 17). Nella sua prefazione alla raccolta di lettere che Althusser ha scritto alla moglie, un vecchio allievo del filosofo, Bernard-Henri Lévy, evoca anche lui il «dolore» e la «demenza» di colui che nomina suo «maestro» (Lévy 2011: 11).

Le uniche varianti discorsive identificate da Widmer riguardano la diagnosi precisa di follia (psicosi maniaco-depressiva, schizofrenia, paranoia, malinconia acuta con ossessione suicidaria, ipomania, bipolarità) e alcune voci che danno a intendere che, uccidendo la moglie, Althusser abbia voluto uccidere la propria sorella (lo aveva sognato), o la madre (castratrice), o il padre (Edipo), o il suo terapeuta, o se stesso… Persino Annick Houel, docente di psicologia a Lione, che pure è una delle autrici dell’eccellente studio precitato che analizza, in una prospettiva femminista, i discorsi mediatici sui «crimini passionali» in Francia, propone una spiegazione psicologica in un’intervista condotta da un’altra docente di psicologia sociale, Claude Tapia — un’intervista intitolata I retroscena del femminicidio. Il caso Althusser. Se nell’intervista viene senz’altro precisato che la violenza coniugale e gli omicidi coniugali sono «un effetto della disuguaglianza tra i sessi nella nostra società», Houel definisce il delitto commesso da Althusser come un «matricidio differito», con il quale egli avrebbe cercato di «supplire alle inadempienze della funzione paterna» che si è trovato a fronteggiare (Houel, Tapia 2008: 52).

Althusser è stato quindi oggetto di molte teorizzazioni per quanto riguarda il suo profilo e le sue motivazioni psicologiche, anche da parte di persone che non lo hanno mai incontrato e che non hanno mai potuto consultare la sua cartella medica. Qualcosa di simile è accaduto nel caso del terrorista che ha attaccato le donne al Politecnico di Montréal. A questo proposito Blais ha mostrato come i giornalisti che hanno fatto ricorso a consulenze psicologiche per tentare di spiegare l’evento legittimassero e consolidassero la tesi individualista, accantonando la riflessione sociopolitica sulla violenza maschile. Blais spiega infatti:

Questo tipo di consulenza [psicologica] permette ai giornalisti di ricondurre l’azione al fatto individuale […] e di rappresentare l’evento come eccezionale. Le comparazioni tra diversi crimini commessi specificamente contro le donne e le analisi che cercano di trovare spiegazioni nei rapporti sociali sono messe ai margini o vengono sommerse dai commenti […] nell’ambito della psicologia (Blais 2009: 84).

Ora, come ricorda Blais, l’accantonamento di ogni riflessione sociale ha l’effetto di spoliticizzare la discussione (si veda anche Romito 2006).

Nel caso di Althusser la spiegazione psicologica verrà sviluppata in modo particolare, con la tesi del «suicidio altruista» avanzata dall’assassino stesso (Althusser [1992] 1994: 310; trad. it. 1992: 294) e ripresa dai suoi commentatori. Raccontando della sua ospedalizzazione dopo il delitto, Althusser spiega che vedeva il suo terapeuta una volta a settimana «senza mai sentirmi colpevole attorno alla ragione profonda del mio delitto. Ricordo […] di avergli sottoposto un’ipotesi: l’omicidio di Hélène poteva essere un “suicidio per interposta persona”» (Althusser [1992] 1994: 295; trad. it. 1992: 280), in quanto lei gli aveva detto che voleva morire ma era incapace di passare all’atto. Secondo questa tesi per lo meno stupefacente, l’assassino non avrebbe ucciso Legotien: l’avrebbe suicidata per generosità (Arce Ross 2003: 232).

Mai a corto di spiegazioni ricercate per deresponsabilizzarsi, Althusser prosegue ancora:

Ciò che cercavo era evidentemente la prova, la controprova della mia stessa distruzione oggettiva, la prova della mia non-esistenza, la prova che io ero già bell’e morto alla vita, a ogni speranza di vita e di salvezza. […] Ma la mia stessa distruzione passava simbolicamente attraverso la distruzione degli altri […] ivi compresa la donna che più amavo (Althusser [1992] 1994: 304; trad. it. 1992: 289).

Facendo eco ai discorsi dell’assassino, alcune riviste sostengono addirittura che egli cercasse di uccidersi: «Strangolò come ci si suicida» [17]. Queste tesi funzionano, di fatto, come tattiche di occultamento della violenza maschile, che spingono ancora più in là la psicologizzazione dell’assassino. Non solo il delitto viene legittimato, ma Legotien non è più una vittima. Se esiste ancora nel racconto, è sotto forma di una donna che voleva morire e che era incapace di uccidersi (il suo assassino, quindi, le ha reso un servizio, l’ha liberata dalla vita). Può anche semplicemente sparire dal racconto: con il suo gesto, Althusser si è ucciso da solo. Legotien non esiste più, non è mai esistita [18].

In occasione della pubblicazione dell’autobiografia, ci si chiederà persino su Le Monde «se non è il desidero di autobiografia, cioè di esistenza come soggetto di un racconto (nel senso in cui lo intende Ricoeur) ad agire sotterraneamente nel delitto stesso» [19]. In breve, molta immaginazione per proporre ipotesi in apparenza sofisticate, ma anche molti sforzi per dimenticare un fatto relativamente semplice: filosofo o no, marxista o no, folle o no, Althusser non è né più né meno di uno di quei tanti uomini che, ogni anno, uccidono la loro moglie o ex moglie. Questo oblio delle regolarità e delle categorie sociali è il colmo, visto che l’assassino è stato il filosofo marxista più influente della propria epoca.

Questo delitto è un fatto sociale e politico, checché ne dicano gli psicoanalisti patentati, i commentatori sui media o l’assassino stesso. E gli studi rivelano, uno dopo l’altro, che i rischi di violenza maschile, compresa quella omicida, aumentano in caso di separazione. Ora, è significativo che il fatto che Legotien minacciasse di lasciare suo marito venga menzionato molto raramente nei media [20]. Quando vi si accenna, il giornalista evita di tirare le conclusioni logiche: «Hélène dice di volerlo lasciare. Ma dice anche di voler morire. L’ha strangolata per accedere al suo desiderio di morte? Mistero impenetrabile» [21].

Protezione e solidarietà maschile

In Francia gli uomini dotati di un forte capitale sociale che aggrediscono le donne, e il cui crimine viene portato all’attenzione del pubblico, di solito beneficiano di amici e alleati che si mobilitano per difendere il loro onore, deresponsabilizzarli del loro crimine e chiedere clemenza per loro. L’assassino di Legotien non era soltanto membro della classe degli uomini, era anche membro di una casta maschile superiore. L’editoriale del numero della rivista Nouvelles Questions Féministes che propone un dossier sulle «Violenze contro le donne» stima che:

I recenti casi mediatici di violenze sessuali o coniugali commesse da uomini degli ambienti più agiati (casi Cantat [22], Polanski [23] o Strauss-Kahn [24]) hanno messo in evidenza la compiacenza degli uomini di questa classe nei riguardi della violenza, così come la solidarietà che si manifestano l’un l’altro. (Debauche,Hamel 2013: 7).

L’assassinio di Legotien da parte del marito conferma questa analisi, dato che l’omicida ha ricevuto l’appoggio di diverse personalità pubbliche che hanno preso le sue difese. Alcuni sembrano abbonati a questo tipo di manovra, come Bernard-Henri Lèvy, che ha difeso pubblicamente anche Cantat, Polanski e Strauss-Kahn.

Di fatto, nei minuti e nelle ore che hanno seguito la morte, Althusser ha beneficiato dell’appoggio indefettibile dell’École normale supérieure, dei suoi terapeuti, dei suoi amici e dei suoi discepoli, che hanno costituito una linea di difesa prima che le autorità giudiziarie prendessero in carico il caso. In un articolo interessante, lo psichiatra Michel Dubec (2001: 37) constata che «l’unica cosa eccezionale in questo caso è che Althusser non sia stato trattenuto nemmeno un’ora dalla polizia, cioè che gli sia stata risparmiata la trafila dei malati mentali ordinari, che fanno qualche ora, o qualche mese, di prigione prima di passare all’ospedale psichiatrico». D’altra parte lo stesso Lévy, allievo di Althusser, evoca «il complotto dei normalisti, incluso l’autore di queste righe, che, appoggiandosi all’articolo 64 del codice penale, evita […] la prigione al loro professore, diventato il primo assassino della storia della filosofia» (Lévy 2011: 8).

Se ci si affida all’autobiografia, si direbbe che l’assassino trovasse del tutto normale questa situazione, ringraziando a più riprese il direttore dell’istituto e i suoi amici per avere manovrato così bene. Egli ringrazia anche il suo maestro, il teologo Jean Guitton, che interruppe «una trasmissione televisiva per proclamare che riponeva in me una fiducia totale e che sarebbe stato al mio fianco nelle peggiori prove» (Althusser [1992] 1994: 107; trad. it. 1992: 98]. L’assassino constata anche con soddisfazione che «nel complesso la stampa francese (e internazionale) fu assai corretta. Alcune testate, però, se la godettero un mondo […] malevoli e deliranti al tempo stesso», anche per aver denunciato lo «scandalo che un criminale abbia potuto beneficiare della protezione manifesta dell’establishment: si pensi alla sorte di un semplice algerino che fosse stato al mio posto, osò dire un quotidiano “centrista”» (Althusser [1992] 1994: 283; trad. it. 1992: 269). In effetti il 18 novembre 1980, cioè due giorni dopo il delitto, il Quotidien de Paris rivela che una «cospirazione» di amici di Louis Althusser manovra per «evitargli dei guai» [25]. Questa rivelazione sembra inaccettabile all’assassino, che si esprime come se la protezione gli fosse dovuta, come se fosse nell’ordine delle cose.

Ora, si può supporre che, qualora «un semplice algerino» uccida la moglie in Francia o altrove in Occidente, egli dovrà non solo affrontare la polizia e i tribunali, ma anche l’opinione pubblica della maggioranza, che non vedrà nel delitto un gesto eccezionale e inesplicabile, ma piuttosto una dimostrazione supplementare della violenza patriarcale della cultura musulmana (è quello che ha dimostrato lo studio sul trattamento mediatico dei «crimini passionali» condotto da Houel, Mercader, Sobota 2003 : 118 sgg).

Conclusione

Hélène Rytmann, nata a Parigi nel 1910, è morta assassinata nel 1980. Che cosa sappiamo di lei? Quasi niente. Una rapida ricerca in rete (via Google) ha permesso di constatare che non esiste, per dir così, alcuna informazione disponibile sul suo conto; di fatto, questa ricerca ci riconduce ineluttabilmente a Althusser, il suo assassino. Questa donna assassinata, tuttavia, ha partecipato a ricerche sociologiche sul lavoro (Naville 1961) e firmato alcuni scritti sulla rivista Esprit con il suo nome da partigiana: Hélène Legotien. Su questa rivista ha discusso il film Nous sommes tous des assassins, apparso nel 1952, constatando, in relazione alla produzione cinematografica dell’epoca, che «soltanto il sesso, il banditismo e il delitto passionale […] hanno piena libertà di esprimersi. Si sa a quale mediocrità questi temi condannano la maggior parte dei film occidentali» (Legotien 1955: 1144, corsivo mio).

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© Tatiana Istomina, Philosophy of the Encounter, 2016-2017

Avendo vissuto all’ombra del marito, Legotien vi si trova ancora dopo la propria morte e quella del suo assassino. Già nel 1985 la giornalista, romanziera e saggista Claude Sarraute osservava su Le Monde (14 marzo): «Quando, nei media, vediamo un nome illustre collegato a un processo ghiotto, Althusser, Thibaud d’Oréans [26], siamo sempre portati a cadere in esagerazioni. La vittima? Non merita più di tre righe. La vedette è il colpevole» (Althusser [1992] 1994: 8; trad. it. 1992: 8). Widmer conferma questo discorso: «non trovo la voce di Hélène Rytmann in nessuna delle mie letture. Anche lei, si può dire, è stata uccisa due volte» (Widmer 2004: 19). Ora, è in seguito alla pubblicazione del testo di Sarraute che alcuni amici dell’assassino lo incoraggiano a scrivere la sua autobiografia. Widmer nota dunque che, quando Sarraute «constata che si parla in maniera insufficiente di Hélène Rytmann, allora Louis Althusser si mette a parlare di sé» (Widmer 2004: 18-19). Nel 1992 Le Monde arriva a realizzare l’impensabile: pubblica un testo sulla follia di Althusser senza alcuna menzione né di Legotien, né del delitto [27].

Se tutti sembrano avere dimenticato la donna assassinata, si continua invece a celebrare l’opera del suo assassino con congressi, e molti suoi libri sono stati pubblicati postumi da grandi case editrici (Gallimard, Grasset, Stock). Althusser ha ucciso la moglie, ma questo non fa di lui — contrariamente a ciò che sosteneva — un disperso; viene persino discusso da una femminista di alto livello, che consacra un capitolo intero al suo pensiero e ai suoi concetti [28].

Per un uomo, ricorda Hanmer:

Può essere o sembrare necessario uccidere, mutilare, rendere invalida o compromettere temporaneamente la capacità di una donna di fornire servizi, per restare il padrone. Prestigio, valorizzazione, stima di sé: è ciò che l’uomo guadagna, esprime e fa riconoscere attraverso l’appropriazione degli altri (Hanmer 2012 [1977]: 105).

Sicuramente, l’assassino di Legotien ha saputo utilizzare il delitto stesso per rilanciare il proprio prestigio, la propria valorizzazione e la propria stima di sé. Si tratta, anche in questo caso, di un fenomeno sociale.

In uno scritto dedicato ai discorsi pubblici tesi a discolpare, e dunque a proteggere Strauss-Kahn, Christine Delphy propone di «trattare il caso come un rivelatore» di ciò che racchiude il cuore degli uomini dell’élite politica e intellettuale di Francia, una vera «casta»: «sono pieni di una misoginia la cui profondità è uguagliata soltanto dalla loro arroganza di classe» (Delphy 2011: 7, 12, 17). Questa constatazione è vera anche quando un filosofo marxista uccide la propria moglie. Chiaramente, l’assassinio di Hélène Rytmann non è un caso eccezionale, e Louis Althusser è un femminicida abbastanza banale.

NOTE

[*] Articolo originale: Francis Dupuis-Déri, La banalité du mâle. Louis Althusser a tué sa conjointe, Hélène Rytmann-Legotien, qui voulait le quitter, «Nouvelles Questions Féministes», 34, 1, 2015, pp. 84-101.

[1] Una valutatrice anonima di NQF ci ha indicato l’esistenza di riferimenti interessanti, ma in italiano. Eccoli, a titolo indicativo: Eleonora Selvi (2012). Maria Antonietta Macciocchi, l’intellettuale eretica, Roma: Aracne; Maria Antonietta Macciocchi (2002). Duemila anni di felicità: diario di un’eretica, Bompiani.

[2] Traccerò tuttavia una distinzione fra questi due registri: i riferimenti ai discorsi mediatici verranno messi in nota, mentre i riferimenti alle analisi scientifiche utilizzate nell’articolo verranno citati nel corpo del testo e in bibliografia, in modo da distinguere i piani del discorso.

[3] Per un’analisi della strage del Politecnico in quanto attentato terrorista antifemminista, cfr. Blais et al., 2010.

[4] Nel caso del Canada e degli Stati Uniti, è anche di più della metà (Lefebvre, Léveillée, 2011: 12)

[5] Marc Chabot (1992). «L’avenir dure longtemps de Louis d’Althusser: Les récits d’un échec de la pensée… où abondent les vérités». Le Soleil, 29 juin, p. A9.

[6] N.d.A.: usa quell’immagine tre volte in due pagine.

[7] Michel Contat (1992). «Les morts d’Althusser». Le Monde, 24 avril, p. 25.

[8] Philippe Chevallier (2011). «Hélène et Louis». L’Express, N° 3124, 18 mai, p. 116.

[9] Martine de Rabaudy (1998). «Le fou de Franca». L’Express, N° 2472, 19 novembre, p. 134.

[10] Valérie Marin la Meslée (2006). «Deux mots de Louis Althusser». Magazine littéraire, N° 458, p. 96.

[11] Philippe Chevallier (2011). «Hélène et Louis», art. cit.

[12] Dominique Dhombres (2002). «Bouffée délirante». Politis, N° 1194, 15 mars, consulté sur le Web le 10 janvier 2015 : [www.politis.fr/Bouffeedelirante,17532.html].

[13] Philippe Chevallier (2011). «Hélène et Louis», art. cit.

[14] Martine de Rabaudy (1998). «Le fou de Franca», art. cit.

[15] Martine Silber (2006). «Un comédien virtuose joue la folie d’Althusser». Le Monde, 27 novembre, p. 23.

[16] Michel Contat (1992). «Les morts d’Althusser». Le Monde, 24 avril, p. 25 ; Dominique Dhombres (2006). «Grandes affaires : 1980 – le coup de folie du philosophe». Le Monde, 30 juillet, p. 14.

[17] Jean-Paul Enthoven (1998). «Althusser et l’amour fou». Le Point, N° 1367, 28 novembre, p. 127.

[18] Le journal L’Humanité taillera en pièces de telles explications. Voir Gil Ben Aych (2000). «Le concept de meurtre ne tue pas». L’Humanité, 12 mai, p. 26.

[19] Michel Contat (1992). «Les morts d’Althusser». art. cit.

[20] Un cas d’exception: Jean Yves Nau (1993). «La passion d’Althusser». Le Monde, 27 janvier, p. 11.

[21] Louis B. Robitaille (1992). «Althusser: Les Mémoires d’outre-tombe d’un prophète fou et meurtrier». La Presse, 1992, 26 avril, p. A2.

[22] N.d.A.: Bertrand Cantat, cantante, ha ucciso sua moglie, Marie Trintignant.

[23] N.d.A.: Roman Polanski, regista, ha ubriacato, drogato quindi stuprato una ragazza di 13 anni, Samantha Geimer.

[24] N.d.A.: Dominique Strauss-Kahn, presidente del Fondo Monetario Internazionale, ha stuprato una donna delle pulizie, Ophelia Nafissatou (oltre ad avere aggredito sessualmente una giovane giornalista, Tristane Banon, e approfittato di reti di prostituzione).

[25]  Michel Kajman (1990). «Le combat perdu contre la déraison». Le Monde, 24 octobre, p. 18.

[26] N.d.A.: Un nobile francese condannato per furto di quadri.

[27] Roger Pol Droit (1992). «Le fou et le philosophe Althusser pose la question insolite et insoluble des entrelacs de la réflexion philosophique et de l’histoire des affects». Le Monde, 24 avril, p. 3

[28] Nel testo di Judith Butler intitolato “Conscience Doth Make Subjects of Us All”. Althusser’s Subjection, il delitto è citato soltanto di sfuggita e viene ridotto a «elemento biografico». Leggendo questo testo mi è venuta l’idea di svolgere una ricerca sull’argomento.

BIBLIOGRAFIA

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Coronavirus e femminismo

Le pandemie colpiscono uomini e donne in modo diverso

di Helen Lewis

Articolo originale qui  

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Ne abbiamo abbastanza. Quando la gente si sforza di essere ottimista sul distanziamento sociale e il lavoro da casa, facendo notare che William Shakespeare e Isaac Newton hanno prodotto alcune delle loro opere migliori mentre l’Inghilterra era devastata dalla peste, la risposta è ovvia: nessuno dei due aveva la responsabilità della cura dei figli.

La carriera di Shakespeare si è svolta per la maggior parte a Londra, dove si trovavano i teatri, mentre la sua famiglia viveva a Stratford-upon-Avon. Durante la peste del 1606, il drammaturgo fu accidentalmente risparmiato dall’epidemia, mentre la sua padrona di casa morì a causa del contagio, e sua moglie e le due figlie adulte si trovavano al sicuro nella campagna del Warwickshire. Newton, nel frattempo, non si era mai sposato né aveva avuto figli. Assistette alla Grande Peste del 1665-66 nella residenza di famiglia nell’est dell’Inghilterra, e passò la maggior parte della vita da adulto come Fellow dell’Università di Cambridge, dove i pasti e la gestione domestica erano assicurati dal college.

Difficilmente l’esplosione di un’epidemia infettiva lascerà a coloro che hanno responsabilità di cura il tempo per scrivere King Lear o sviluppare una teoria sull’ottica. Una pandemia amplifica tutte le diseguaglianze esistenti (anche quando i politici insistono che non è il momento di affrontare argomenti che non siano la crisi immediata). Lavorare da casa con un lavoro impiegatizio è più semplice; chi riceve salari e tutele sarà più protetto/a; l’autoisolamento è meno faticoso in una casa spaziosa che in un appartamento angusto. Ma uno degli effetti più impressionanti del coronavirus sarà quello di rispedire molte coppie negli anni Cinquanta. In tutto il mondo l’indipendenza delle donne sarà una vittima silenziosa della pandemia.

In termini prettamente medici, il coronavirus sembra colpire le donne meno gravemente. Ma ultimamente la discussione sulla pandemia si è ampliata: non stiamo attraversando soltanto una crisi di salute pubblica, ma anche una crisi economica. Nella misura in cui la vita normale è in gran parte soggetta a una sospensione per tre mesi o più, le perdite di posti di lavoro sono inevitabili. Al tempo stesso, la chiusura delle scuole e l’isolamento domestico stanno spostando il lavoro di cura dei bambini dall’economia retribuita – asili, scuole, baby-sitter – a quella gratuita. Nel mondo sviluppato il coronavirus fa saltare l’accordo negoziato fra tante coppie in cui entrambi i partner lavorano: possiamo lavorare entrambi, perché altre persone si prendono cura dei nostri figli. Invece, ora le coppie dovranno decidere chi si sobbarca il peso.

Questa pandemia evoca molti esempi di arroganza. Tra i più esasperanti vi è l’incapacità dell’Occidente di imparare dalla storia: la crisi dell’Ebola in tre paesi africani nel 2014, Zika nel 2015-16 e recenti epidemie di SARS, influenza suina e aviaria. Le indagini scientifiche su questi episodi hanno dimostrato che essi hanno avuto effetti profondi e durevoli sull’uguaglianza di genere. “Il reddito di tutti/e è stato colpito dall’epidemia di Ebola nell’Africa occidentale”, afferma Julia Smith, ricercatrice in politiche sanitarie della Simon Fraser University, sulle colonne del New York Times , “ma il reddito degli uomini è ritornato a livelli pre-epidemia più velocemente di quello delle donne”. Gli effetti disastrosi di un’epidemia possono durare anni, come riferisce Clare Wenham, docente di politiche sanitarie globali alla London School of Economics. “Abbiamo visto anche diminuire i tassi di vaccinazione infantile [durante l’Ebola]”. Quando, poi, questi bambini hanno contratto malattie prevenibili, le madri hanno dovuto sacrificare il loro lavoro retribuito.

A livello individuale, le scelte di molte coppie nei prossimi mesi saranno perfettamente sensate da un punto di vista economico. Di cosa hanno bisogno i pazienti di una pandemia? Di chi si prenda cura di loro. Di cosa hanno bisogno le persone più anziane in autoisolamento? Di chi si prenda cura di loro. Di cosa hanno bisogno i bambini che restano a casa da scuola? Di chi si prenda cura di loro. Tutto questo prendersi cura – cioè questo lavoro di cura gratuito – peserà maggiormente sulle donne, a causa dell’attuale composizione della forza lavoro. “Non si tratta soltanto di norme sociali relative alle donne che svolgono ruoli di cura: si tratta anche di questioni pratiche”, aggiunge Wenham. “Chi è pagato/a meno? Chi è più precario/a?”.

Secondo i dati del governo britannico, il 40 per cento delle donne occupate lavora part-time, contro il 13 per cento soltanto degli uomini. Nelle relazioni eterosessuali, le donne hanno maggiori probabilità di essere quelle che guadagnano meno, il che significa che i loro lavori non vengono considerati una priorità nei momenti di crisi. E questa specifica crisi potrebbe durare mesi, anziché settimane. Alcune donne non recupereranno mai i loro guadagni nel corso della vita. Con le scuole chiuse, molti padri certamente si faranno avanti, ma non tutti.

Malgrado l’ingresso in massa delle donne nella forza lavoro nel XX secolo, il fenomeno del “doppio turno” di lavoro esiste ancora. Nel mondo le donne – incluse quelle occupate fuori casa – svolgono più lavoro domestico e hanno meno tempo libero dei loro partner. Persino i meme sugli acquisti compulsivi indotti dal panico confermano che i compiti domestici come fare la spesa ricadono primariamente sulle spalle delle donne. “Non ho paura del covid-19, ma della mancanza di buon senso delle persone”, recita uno dei tweet più popolari sulla crisi del coronavirus. “Ho paura per le persone che hanno veramente bisogno di andare al supermercato e sfamare le loro famiglie, ma Susan e Karen hanno fatto scorte per 30 anni”. La battuta funziona perché “Susan” e “Karen” – nomi affibbiati alla casalinga-tipo – sono considerate responsabili della gestione della casa, piuttosto che, per esempio, Mike e Steve.

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Harry Greb Design – Roma

Guardatevi intorno e potrete già vedere coppie che prendono decisioni difficili su come dividere questo maggiore carico di lavoro gratuito. Quando ho contattato Wenham, era in auto-isolamento con due bambini piccoli; lei e il marito si alternavano con turni di due ore tra cura dei figli e lavoro retribuito. Questa è una possibile soluzione. Per altre coppie, la divisione avverrà secondo i vecchi criteri. Le coppie con doppio reddito potrebbero trovarsi improvvisamente a vivere come i loro nonni, una casalinga e un percettore di stipendio. “Mio marito è medico del pronto soccorso e tratta i pazienti di coronavirus. Abbiamo appena preso una decisione difficile, lui va in isolamento in garage indefinitamente, fino a quando continuerà ad avere contatti con i pazienti”, ha scritto Rachel Patzer, epidemiologa alla Emory University, che ha tre bambini, di cui una di poche settimane. “Mentre provo a fare lezione ai miei figli (da sola) con una neonata che urla se non viene tenuta in braccio, temo per la salute di mio marito e della mia famiglia.”

I genitori single hanno di fronte a sé decisioni ancora più difficili: mentre le scuole sono chiuse, come tengono assieme l’esigenza di guadagnare e quella di badare ai figli? Nessuna dovrebbe rimpiangere l’ideale degli anni Cinquanta del Papà che torna a casa per trovare la cena pronta e i figli appena lavati, quando così tante famiglie, anche allora, non potevano realizzarlo. In Gran Bretagna, oggi, un quarto delle famiglie sono mono-genitoriali.  In più del 90 per cento dei casi, il genitore è una donna. La chiusura delle scuole rende ancora più pesante la loro vita.

Altre lezioni che ci ha dato l’epidemia di Ebola sono state altrettanto dure, ed effetti simili, anche se in misura minore, si vedranno nel corso di questa crisi nel mondo sviluppato. La chiusura delle scuole ha ridotto le opportunità di vita delle ragazze, poiché molte hanno abbandonato la scuola (e l’aumento di gravidanze adolescenziali ha esacerbato questa tendenza). La violenza domestica e quella sessuale sono aumentate. E più donne sono morte di parto perché le risorse sono state dirottate altrove. “I sistemi sanitari vengono distorti, perché tutti gli sforzi sono rivolti all’epidemia”, afferma Wenham, che ha condotto una ricerca sul campo in Africa occidentale durante la crisi dell’Ebola. “Le cose che non sono considerate prioritarie vengono cancellate. Il che può avere un effetto sulla mortalità per parto o sull’accesso alla contraccezione.” Gli Stati Uniti hanno già statistiche spaventose in questo ambito, in confronto ad altri paesi ricchi, e le donne nere hanno il doppio delle probabilità di morire di parto rispetto alle bianche.

Per Wenham, le statistiche più impressionanti sono quelle della Sierra Leone, uno dei paesi più colpiti dall’Ebola, che tra il 2013 e il 2016, durante l’epidemia, ha visto morire più donne di complicazioni ostetriche che della stessa malattia infettiva. Ma queste morti, come il lavoro di cura che viene ignorato e sul quale si fonda la moderna economia, attrae meno attenzione dei problemi immediati generati da un’epidemia. Queste morti sono date per scontate. Nel suo libro Invisible Women, Caroline Criado Perez osserva che sono stati pubblicati 29 milioni di articoli in più di 15,000 riviste peer-reviewed all’epoca delle epidemie di Zika e di Ebola, ma meno dell’1 per cento riguardava l’impatto di genere delle epidemie. Wenham finora non ha trovato analisi di genere dell’epidemia del coronavirus: lei e due colleghe intendono colmare questa lacuna.

I dati accumulati con le epidemie di Ebola e Zika dovrebbero informare la risposta attuale. Sia nei paesi ricchi che in quelli poveri, le attiviste prevedono un incremento della violenza domestica durante i periodi di lockdown. Lo stress, il consumo di alcol e le difficoltà economiche sono considerate le micce che possono fare esplodere la violenza domestica, e le misure di quarantena imposte in tutto il mondo le agevoleranno. La rete britannica Women’s Aid ha dichiarato di temere che “il distanziamento sociale e l’autoisolamento verranno usati dai violenti come strumenti di coercizione e controllo, e ostacoleranno la possibilità per le donne di trovare aiuto e mettersi in sicurezza.

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Yolanda López – “The Nanny”, 1994

Le ricercatrici, comprese quelle con cui ho parlato, esprimono frustrazione per il fatto che questi dati non vengano presi in considerazione dai decisori politici, che adottano ancora un approccio gender-neutral alle pandemie. Temono anche che si stiano perdendo opportunità preziose per raccogliere dati di alta qualità che sarebbero utili per il futuro. Per esempio, abbiamo scarse informazioni su come i virus simili al coronavirus colpiscano le donne incinte – di qui i consigli contraddittori  nel corso della crisi attuale – o, secondo Susannah Hares, membro del Center for Global Development, dati sufficienti per costruire un modello per decidere quando riaprire le scuole.

Non dobbiamo ripetere lo stesso errore. Per quanto sia deprimente pensarci ora, altre epidemie saranno inevitabili, e bisognerà resistere alla tentazione di riservare al genere una posizione secondaria, considerandolo una distrazione dalla vera crisi. Quello che facciamo ora influenzerà le vite di milioni di donne e ragazze nelle future epidemie.

La crisi del coronavirus sarà globale e durevole, tanto economica quanto medica. Tuttavia, essa offre anche un’opportunità. Potrebbe essere la prima epidemia in cui le differenze di genere vengono registrate e prese in considerazione dalle ricercatrici e dai decisori politici. Per troppo tempo, i politici hanno dato per scontato di poter addossare la cura dei bambini e degli anziani ai privati cittadini – soprattutto le donne – di fatto garantendo un enorme sussidio all’economia retribuita. Questa pandemia dovrebbe ricordarci la vera misura di questa distorsione.

 

 

«Odio le femministe!»: il mascolinismo come contro-movimento sociale

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© Hannah Höch, Modenschau  (1925-1935)

Il 6 dicembre 1989 un uomo si introduce nei locali del Politecnico di Montréal con una carabina semiautomatica e un coltello da caccia. Nel giro di una ventina di minuti l’uomo, che risponde al nome di Marc Lépine, uccide 14 persone: 14 donne. Il suo movente è esplicito: prima di sparare contro le studenti che ha isolato all’interno di un’aula, grida «Odio le femministe!». Nella lettera che lascia dopo essersi suicidato, dichiara: «Il mio è un atto politico». A dispetto di queste intenzioni inequivocabili, la città di Montréal avrebbe impiegato trent’anni per riconoscere ufficialmente che si era trattato di un «attentato antifemminista»La sociologa Mélissa Blais è fra quante hanno militato per questo obiettivo. Proponiamo qui la traduzione di una sua intervista apparsa su Ballast, che ripercorre l’ideologia dei movimenti mascolinisti che, oggi come ieri, con o senza azioni eclatanti, continuano a lottare per i «diritti degli uomini» — ovvero contro le rivendicazioni femministe.

Intervista in lingua originale: https://www.revue-ballast.fr/melissa-blais-le-masculinisme-est-un-contre-mouvement-social

D: Ricorre oggi [6 dicembre 2019] il trentesimo anniversario dell’attentato del Politecnico: che cosa è cambiato da allora?

MB:  All’indomani della strage ci si è subito sforzati di interpretare le cause dell’evento. Non si trattava di mettere in dubbio i fatti: non si attivarono delle forze negazioniste. Ma i discorsi che circolavano maggiormente sui media mettevano da parte ogni analisi sociologica, riducendo l’accaduto al gesto di un uomo isolato trascinato dalla propria follia: Lépine avrebbe commesso l’irreparabile e non si dovevano tenere in considerazione le sue intenzioni. Ora, questo tipo di discorso si opponeva molto apertamente alle analisi femministe della sparatoria che, al contrario, puntavano a sottolineare le intenzioni dell’assassino.  E che volevano cogliere l’occasione per agire immediatamente al fine di evitare il ripetersi di questo genere di attentati. Le femministe hanno militato tanto sul tema della violenza contro le donne, il che permetteva di inscrivere l’attentato del Politecnico all’interno di un continuum di violenze.

Negli anni successivi, le femministe sono state le uniche a commemorare l’attentato, mentre la battaglia sulla memoria continuava. I discorsi si sono leggermente riconfigurati in occasione del decimo anniversario: a quel punto era possibile ammettere che l’assassino avesse agito sulla spinta di un movente, un movente misogino — ma si era ancora ben lontani dal riconoscere il carattere antifemminista del suo gesto. Ciò a cui si dava risalto, in termini di prevenzione, era la necessità di concentrarsi sulla violenza in generale, sulla violenza in tutte le sue forme. In questo modo, si amalgamavano la violenza contro le donne e la violenza in televisione, la violenza al parco giochi… Così facendo, si perdeva di vista la peculiarità delle violenze sessiste. Si eliminavano le specificità del fenomeno sociologico delle violenze contro le donne, che richiede una griglia di analisi particolare.

Ma le femministe hanno progressivamente aperto delle brecce nel discorso mediatico. Vent’anni più tardi, la loro analisi trovava più spazio nelle interpretazioni delle cause della strage. Si riconosceva che Marc Lépine non era un individuo isolato, che il suo gesto si inscriveva in una società in cui persistono disuguaglianze di genere. Ma ci sono voluti altri dieci anni e sforzi enormi da parte di alcune femministe (oggi raggruppate sotto le insegne del Comité 12 jours d’actions contre les violences faites aux femmes) affinché la targa commemorativa che segnala il luogo del 6 dicembre 1989 a Montréal indicasse chiaramente che si era trattato non solo di un «attentato» —  e non di una «tragedia», come si era detto fino ad allora —, ma anche di un attentato antifemminista. Si tratta, in definitiva, di un riconoscimento politico forte delle intenzioni dell’assassino e del fenomeno dell’antifemminismo. Ma fino a che punto si spingerà questo riconoscimento? Oggi siamo pronti ad ascoltare le femministe che denunciano i discorsi di odio che le prendono a bersaglio e che circolano specialmente sul web?

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© Hannah Höch, Kustige Person (1932)

 D: Perché è ancora tanto difficile riconoscere come tali gli atti di violenza antifemministi — e questo malgrado le dichiarazioni esplicite dell’assassino?

MB: Nel caso del Politecnico, la distanza dall’evento è una delle ragioni per cui oggi lo si riconosce molto più facilmente come tale. Distanza temporale, in primo luogo. Oggi si può pensare che Lépine rappresentasse l’«ultimo dinosauro» e che la strage sia avvenuta in un’altra «epoca», quella del 1989, in cui persistevano disuguaglianze fra uomini e donne. Si tratterebbe di un tempo ormai trascorso, dal momento che il problema sarebbe risolto. Si progredisce allora nell’interpretazione delle intenzioni, ma ci si allontana dal problema di fondo, che rimane attuale. Distanza spaziale, in secondo luogo. Gli eventi vengono classificati in modo diverso a seconda che ci tocchino direttamente o che abbiano luogo altrove. Per esempio, in Francia è più facile parlare di attentato antifemminista a proposito del Politecnico, perché è il Québec ad aver conosciuto questo genere di terrore.

D: A proposito di «terrore», appunto: lei ha stabilito un parallelo tra l’attentato del Politecnico e quello della moschea di Québecnel 2017. In particolare, in virtù dal fatto che nessuno dei due attentati è stato riconosciuto come atto terroristico. Le stesse polemiche si sono accese in Francia a proposito dell’attacco alla moschea di Bayonne, due anni più tardi. Che cosa ci dice tutto questo del contesto razzista e sessista delle nostre società?

MB: È sempre più facile credere che formiamo una grande collettività unita intorno a un progetto nazionale — questo è ancora più caratteristico della Francia, che è impregnata di ideali universalisti — e puntare il dito contro gli altri, anziché riconoscere la persistenza di alcuni problemi all’interno delle nostre società. I problemi di democrazia li vediamo sempre in Cina, mai qui. Ma questi terroristi domestici rivelano cose molto più sottili, come l’esposizione quotidiana delle donne alle molestie, le minacce contro le femministe (nel caso del Politecnico) o l’islamofobia (nel caso della moschea di Québec). E le forze politiche dominanti, generalmente costituite da uomini privilegiati, rifiutano di vedere queste ingiustizie perché è nel loro interesse che non si vedano: vederle significherebbe rimettere in questione la società da cui ricavano dei vantaggi.

Per quanto riguarda l’attentato alla moschea di Québec, i politici ne hanno riconosciuto il carattere razzista più rapidamente, ma la logica del gioco elettorale è stata sufficiente a farli ritrattare e a sorvegliarne il discorso. Da parte dei media, il primo riflesso è stato quello di fare un’analisi psicologica, etichettando come «folle» l’assassino. Il secondo riflesso è stato quello di interrogare dei vicini, dei testimoni, cioè di limitare la parola al vissuto, ai sentimenti, ma raramente di intervistarli a titolo di esperti che conoscono il fenomeno dell’islamofobia e che avrebbero potuto chiarire le motivazioni dell’attentatore. Invece di prendere decisioni coraggiose come l’istituzione di una commissione di inchiesta sull’islamofobia, il governo ha fatto votare, al contrario, la «legge 21», che consolida lo stigma contro la comunità musulmana — soprattutto contro le donne che indossano il velo (come in Francia, la legge si concentra sul divieto del velo all’interno della funzione pubblica).

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© Hannah Höch, Flucht (1931)

L’aspetto più inquietante, nel caso del Politecnico come in quello della moschea di Québec, è che abbiamo visto spuntare degli emuli, uomini che si sentono ispirati dagli assassini e che cercano di riprodurre i loro atti. Nel caso di Marc Lépine, un buon esempio è quello di Donald Doyle. Nel 2005 Doyle afferma di essere la sua «reincarnazione» e stila una lista di 26 femministe che intende assassinare. I poliziotti lo hanno arrestato prima del passaggio all’atto. A casa sua hanno trovato un’arma da fuoco, dei proiettili e una lettera a corredo della lista. Ma è soltanto un esempio fra altri. Graffiti firmati «Marc Lépine II» accompagnavano la minaccia «Uccidere tutte le femministe» nei bagni della Facoltà di Ingegneria dell’Università di Toronto nell’aprile del 1990. E mi fermo qui [1]. Anche su internet, sulle diverse piattaforme degli incels — i celibi involontari — si trovano messaggi che eroicizzano Lépine e invitano altri uomini a trarne ispirazione. Nel caso dell’attentato alla moschea di Québec, sono state proferite delle minacce contro la comunità musulmana, senza contare le teste di maiale deposte davanti all’ingresso delle moschee e i graffiti incitanti all’odio. In senso generale, gli atti di terrorismo domestico hanno delle conseguenze sui gruppi marginalizzati che vengono presi di mira. Ma i politici e le politiche, il più delle volte, non riescono a proteggere davvero chi ne è bersaglio.

D: Questo genere di azioni violente, ovvero criminali, che colpisce le donne è intrinsecamente legato all’ideologia mascolinista?

MB: Il mascolinismo può essere concepito come una componente del contro-movimento antifemminista [2]. E la caratteristica precipua di un contro-movimento consiste nell’intrattenere una relazione quasi simbiotica, o di interdipendenza, con il movimento a cui si oppone. L’antifemminismo è anche un movimento sociale plurale, composto da tendenze differenti, alcune delle quali sono effettivamente molto virulente — e altre meno. Soltanto una piccola frangia dell’antifemminismo adotta questa postura violenta. Fra le azioni che prediligono vanno annoverate le azioni dirette e le minacce di morte, ma anche l’attività di lobbying, la pubblicazione di volumi o il sostegno agli uomini attraverso risorse speciali riservate agli uomini in difficoltà. Poco importano le tattiche adottate o la virulenza dei loro propositi, nel complesso questi attori si oppongono alle rivendicazioni del movimento femminista in nome della conservazione degli interessi degli uomini. Nella mia tesi di dottorato [3] segnalo che il mascolinismo è generalmente composto da uomini bianchi eterosessuali provenienti per la maggior parte da ambienti economicamente privilegiati, che ritengono di aver molto da perdere dall’avanzata delle femministe.

D: Tuttavia non si può dire che l’avanzata delle femministe abbia rovesciato l’ordine maschile negli ultimi decenni!

MB: Il più delle volte non è il cambiamento stesso, quanto piuttosto l’impressione di un cambiamento contrario ai loro interessi, a stimolare i movimenti reazionari. È precisamente il caso del mascolinismo, a partire dal momento in cui il femminismo acquista una certa visibilità. Per esempio, quando a metà degli anni Duemila il governo annuncia l’intenzione di stanziare una certa somma allo scopo di aiutare le case rifugio per le vittime di violenza coniugale e i centri di aiuto per le vittime di violenza sessuale — cioè risorse chiaramente associate al femminismo —, si osserva una reazione contestataria molto forte da parte loro. Dal loro punto di vista, questi organismi contribuiscono a mettere la società contro gli uomini proteggendo le donne. Il motore della loro mobilitazione è la paura, una paura da privilegiati: la paura di perdere qualcosa di cui credono di essere stati derubati, ma che viene suscitata da effetti di annuncio e dall’amplificazione mediatica. E questa reazione antifemminista può arrivare alla mobilitazione: ho potuto repertoriare, per esempio, spargimenti di chiodi nel parcheggio di un centro femminista, graffiti, minacce di morte, etc.

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© Hannah Höch, Der Vater (1920)

D: Si possono tracciare relazioni chiare tra i movimenti mascolinisti e la destra politica, conservatrice o nazionalista?

MB: Le cose sono più complesse. I movimenti mascolinisti effettivamente sono contigui, nel quotidiano, ad altre forme di antifemminismo, come l’antifemminismo religioso conservatore (gli antiabortisti che si oppongono al movimento «pro-scelta») che si organizza per limitare i diritti riproduttivi delle donne e per opporsi ai diritti delle coppie formate da persone dello stesso sesso. Senonché, il discorso della «crisi» della mascolinità è rintracciabile anche nelle organizzazioni situate a sinistra dello spettro politico, fra cui gli ambienti sindacali. In Québec, i mascolinisti delle organizzazioni sindacali si oppongono ai comitati di sole donne che esistono all’interno dei sindacati, sostenendo che anche gli uomini vivono dei problemi in quanto uomini. Dunque è difficile posizionare il mascolinismo alla destra dello spettro politico senza commettere l’errore di invisibilizzare la presenza di uomini detti di sinistra che, a propria volta, si appropriano degli elementi del discorso antifemminista mascolinista per le loro rivendicazioni. Per quanto riguarda la relazione fra il mascolinismo e l’estrema destra, questa resta da documentare per il Québec — sarà il tema di un mio prossimo progetto di ricerca.

D: Su che cosa verterà?

MB: Si tratta di analizzare più precisamente in che modo i militanti di estrema destra su Internet si appropriano di questa retorica mascolinista per alimentare la loro analisi della «crisi della mascolinità bianca». Ora, questa embricazione di motivazioni razziste e misogine, ovvero antifemministe, sembra riscontrabile presso alcuni attentatori, fra cui Alexandre Bissonnette, l’assassino della moschea di Québec, che aveva condotto delle ricerche su alcune organizzazioni femministe prima di attaccare la moschea.

D: Con la parola «mascolinismo» lei designa un insieme di movimenti politici i cui interessi «spesso incontrano quelli di tutti gli uomini». Questi movimenti intendono rappresentare tutti gli uomini o soltanto una certa forma di mascolinità egemonica?

MB: Ci si riferisce spesso alla pluralità di mascolinità individuata dalla sociologa Raewyn Connell e al suo concetto di «mascolinità egemonica». Ma temo che questo concetto rischi di diventare una parola macedonia. Se preferisco parlare di interessi e di rapporti sociali, anziché di «mascolinità», è perché gli studi sulla mascolinità talvolta sbandano verso una psicologizzazione delle identità di genere — come è accaduto, negli Stati Uniti, negli studi sulle mascolinità — e dimenticano che, oltre alla psicologia degli esseri umani, esistono dei rapporti di potere. La stessa Connell ha ritenuto di dover precisare che non si possono pensare le mascolinità in sé e per sé, come se esistessero senza rapporti diretti con le femminilità. Per dirlo con parole mie, le identità di genere esistono perché dei rapporti sociali le costruiscono. O in modo ancora più semplice: l’identità degli uomini esiste perché essi hanno interesse ad appropriarsi dei corpi che chiamiamo «femminili». Di modo che, ogni volta che si analizza una mascolinità, sia essa egemonica o subalterna, bisogna sempre pensarla nella sua relazione con una corrispondente femminilità.

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© Hannah Höch, Equilibre (1926)

Sui rapporti di potere, aggiungerei che i mascolinisti più virulenti e vendicativi denunciano il sostegno alle donne vittime di violenze coniugali asserendo che le femministe si sono inventate di sana pianta il fenomeno della violenza contro le donne (sostenendo che la violenza oggi sarebbe simmetrica fra uomini e donne) per accaparrarsi i fondi pubblici e crearsi posti di lavoro. Se si accettano le loro rivendicazioni, molti uomini potranno violentare impunemente le loro compagne. E questo è un vantaggio maschile. Non perché tutti gli uomini siano violenti, ma perché tutti gli uomini potenzialmente violenti beneficeranno dello smantellamento della rete di sostegno alle vittime di violenze coniugali e sessuali. Si tratta di un’esemplificazione del fatto che, anche se alcuni uomini rifiutano questo genere di vantaggi e militano contro di essi, gli interessi dei mascolinisti sono di fatto interessi molto più generali.

Si potrebbe mostrare la stessa cosa in materia di divorzio e separazione, quando è in gioco la custodia di un figlio: le associazioni di padri separati e divorziati danno a intendere che i tribunali e la magistratura sono ultra-femministi, che sono controllati da femministe e che i padri vengono discriminati quando l’affido è concesso unicamente alle madri. Ma alcune inchieste condotte in Francia, in particolare dalla sociologa Aurélie Fillod-Chabaud, dimostrano che, in queste situazioni, quando il padre rivendica l’affido alternato o condiviso, è essenzialmente per evitare di pagare gli alimenti. D’altro canto è sintomatico constatare che i gruppi dell’associazione Fathers 4 Justice si sono moltiplicati soltanto a partire dal momento in cui, negli anni Novanta, una decisione politica ha imposto il versamento automatico e obbligatorio degli alimenti già riconosciuto da un giudice. In Québec, all’inizio degli anni Duemila, i gruppi di padri separati hanno offerto consulenze a padri divorziati o separati per non pagare gli alimenti, proponendo appositi servizi di assistenza legale o suggerendo loro di lasciare il lavoro per percepire il sussidio sociale. Se i mascolinisti riescono a spuntarla e a imporre l’affido condiviso obbligatorio, chi ci guadagnerà? Di certo, non le donne vittime di violenze coniugali. I padri non dovranno più pagare gli alimenti, e c’è da scommettere che quelle che si occuperanno realmente dei figli saranno, nella maggioranza dei casi, le madri o le nuove compagne dei padri separati. Esiste dunque uno scarto fra il discorso pubblico dei mascolinisti da una parte, e il contenuto reale delle loro rivendicazioni dall’altra.

D:  I movimenti mascolinisti dichiarati e politicamente organizzati svolgono la funzione di comodo spauracchio utile a coprire forme più sottili di antifemminismo, avvolte dentro a rivendicazioni «umaniste»?

I militanti antifemministi ricorrono di frequente a una strategia discorsiva che consiste nel distanziarsi dai mascolinisti troppo virulenti per presentarsi come attori credibili. I mascolinisti hanno attirato l’attenzione dei media per mezzo di azioni eclatanti: in Francia, Serge Charnay si è accampato in cima a una gru a Nantes in occasione della «Primavera dei padri» nel 2013; a Montréal, nel 2005, alcuni membri dell’associazione Fathers 4 Justice si sono arrampicati sulla struttura del ponte Jacques-Cartier e sulla croce del monte Royal, travestiti da supereroi. Questi uomini sapevano di essere considerati dagli altri militanti più virulenti o più combattivi rispetto ad altri gruppi che loro stessi definivano «di intellettuali». In qualche modo, si ritenevano il braccio militante che manovra, coordinato strategicamente con i più intellettuali, affinché questi ultimi risultino credibili agli occhi della popolazione e dei decisori. D’altra parte, più o meno cinque anni dopo la sua bravata, Fathers 4 Justice annuncia sul suo sito Internet di non aver più bisogno di ricorrere ad azioni dirette perché la popolazione alla fine ha capito. Così, lasciano posto agli «intellettuali». Ed effettivamente, intorno al 2010, sono anzitutto gli operatori sociali (per esempio gli psicologi sociali che lavorano nelle organizzazioni di sostegno agli uomini violenti, nei gruppi di padri) e i ricercatori universitari a conquistare la scena con un discorso sfumato e molto meno virulento. Essi mobilitano diverse tattiche retoriche, come la pretesa di razionalità (contro la supposta emotività delle militanti femministe), ma anche l’uso massiccio del termine «parità» o il riferimento ad alcune femministe (contestate, come Elisabeth Badinter in Francia) per non passare per antifemministi. Insomma, questi due tipi di militanza sono complementari. Sarebbe interessante documentare in che modo questa strategia — che funziona molto bene — sia stata concepita ed elaborata dai più virulenti fra loro.

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© Hannah Höch

D: Quali conseguenze hanno questi movimenti sui movimenti femministi?

MB: In Québec, la situazione è molto diversa rispetto alla Francia. Qui il movimento femminista è forte, strutturato: è guidato da organizzazioni-ombrello che difendono i diritti e che hanno un mandato per creare rapporti di forza con i decisori politici. Ora, molte femministe riscontrano un’avanzata dei discorsi mascolinisti, con il risultato che la definizione della violenza (secondo cui, per esempio, le violenze sessiste e sessuali sono prevalentemente dirette contro le donne e gli autori sono in gran parte uomini) oggi viene rimessa in discussione. Due anni fa sono state ritirate le occorrenze della parola «donne» sui siti web del Secrétariat à la condition féminine [equivalente quebecchese del francese Secrétariat d’État chargé de l’égalité entre les femmes et les hommes] in tutti i casi in cui è questione di «violenze contro», in modo da significare che il governo lotta contro qualsiasi forma di violenza, inclusa la violenza delle donne contro gli uomini nel contesto coniugale. E questo cambiamento — che non ha avuto lunga vita, dato che il sito è stato rimaneggiato — non sembra essere stato fatto per includere le minoranze di genere! Ho analizzato anche i regressi a livello di finanziamenti: organismi pubblici e fondazioni filantropiche esigono dai gruppi femministi che questi ultimi lavorino con gli uomini, richiesta che si estende ai gruppi non misti per statuto o che lavorano con le vittime delle violenze. Alcune femministe raccontano persino di aver perso dei finanziamenti per essersi rifiutate di lavorare con gruppi di padri o con uomini violenti. Dunque vengono messe di fronte a una scelta: collaborazione con le associazioni mascoliniste o perdita dei finanziamenti! Per ora i mascolinisti non hanno vinto, ma questi elementi confermano che sta succedendo qualcosa a livello politico.

Ci sono anche delle ricadute a livello organizzativo. Agli inizi degli anni Duemila, le femministe hanno dovuto far fronte a numerose azioni violente, minacce di morte, etc., e a ogni conferenza o assemblea molte di loro hanno testimoniato di avere paura. Sono anche state sempre più caute nell’organizzare certe azioni. Si sono dovute dotare di dispositivi di sicurezza, inclusi i servizi d’ordine, oltre a dover collaborare con la polizia — benché siano molto critiche del lavoro dei poliziotti che non raccolgono le denunce delle vittime di violenza come dovrebbero. Infine, il discorso mascolinista talvolta viene integrato al repertorio di manipolazione utilizzato dagli uomini violenti, che riescono a convincere delle donne vittime di violenza di essere loro stesse violente. Tutto questo comporta un coinvolgimento maggiore da parte delle femministe nell’intervento, nell’accompagnamento giuridico, e determina un certo affanno. Di contro, il mascolinismo produce anche effetti contrari ai propri obiettivi: si tratta del nemico comune che aggrega proprio malgrado le femministe al di là delle divergenze politiche o di analisi. Ogni 6 dicembre, si vede bene che l’antifemminismo agisce come un catalizzatore e che contro di esso che le femministe si mobilitano!

NOTE

[1] Cfr. Mélissa Blais, Marc Lépine: héros ou martyr?, in M. Blais, F. Dupuis-Déri, Le mouvement masculiniste au Québec. L’antiféminisme démasqué, Éditions du Remue-ménage, Montréal 2015.

[2] Nell’introduzione al volume collettaneo che hanno curato, Le mouvement masculiniste au Québec, Mélissa Blais e Francis Dupuis-Déri definiscono il mascolinismo come un movimento che «ingloba un insieme di individui e di gruppi che operano, al tempo stesso, per contrastare il femminismo e per promuovere il potere degli uomini»; lo si può definire «contro-movimento» nello stesso senso in cui si parla di «contro-rivoluzione»: «ogniqualvolta si dà un vasto movimento di emancipazione, i dominanti si mobilitano per contrattaccare».

[3] Masculinisme et violences contre les femmes: une analyse des effets du contremouvement antiféministes sur le mouvement féministe québécois, Tesi di dottorato in Sociologia, Università del Québec, Montréal 2018.

Passato e presente

GERMANIA_ABORTO

Il 6 giugno del 1971 il settimanale tedesco «Stern» pubblicava un manifesto di auto-denuncia firmato da 374 donne, intitolato “Wir haben abgetrieben” (“Abbiamo abortito”). L’apparizione del manifesto segna l’inizio della campagna per la depenalizzazione dell’aborto nella Repubblica Federale Tedesca, dove l’interruzione di gravidanza era punita dal paragrafo 218 del codice penale con pene fino a un anno di reclusione. L’iniziativa, ideata dalla giornalista Alice Schwarzer, all’epoca corrispondente a Parigi, ricalcava una strategia già adottata dalle femministe francesi, che nel mese di aprile avevano scelto le colonne del «Nouvel Observateur» per dichiarare di avere abortito illegalmente.

La risposta ostile delle autorità della RFT, con l’apertura di procedure penali contro molte delle firmatarie del manifesto, ebbe l’effetto di far lievitare il consenso intorno alla campagna e di accelerare la spinta all’unificazione del movimento delle donne intorno alla battaglia per l’aborto libero. Con la moltiplicazione delle iniziative di protesta in tutto il paese, si pose la necessità di raccordare l’attività dei vari gruppi in un coordinamento nazionale: Aktion 218 era l’organizzazione-ombrello destinata ad assolvere a questa funzione.

Frauendemonstration gegen den Paragraphen 218

Nel 1972, messo sotto pressione dalla crescita impetuosa del movimento, il Ministro della giustizia socialdemocratico Gerhard Jahn presentò un progetto di riforma che prevedeva la depenalizzazione per gli aborti praticati entro il primo trimestre della gravidanza. Dopo diverse revisioni della bozza originaria, la legge venne approvata nel 1974 con una risicata maggioranza parlamentare. Subito dopo il voto al Bundestag, alcuni esponenti della CDU presentarono ricorso contro la riforma alla Corte Federale di Giustizia.

Il 25 febbraio 1975 la Corte dichiarò nulla la legge, giudicandola incompatibile con il principio di sacralità della vita umana difeso dalla Costituzione. «La protezione del feto» sentenziarono i giudici costituzionali «è prioritaria rispetto all’autodeterminazione della donna». La decisione venne accolta dal movimento delle donne con manifestazioni di protesta in diverse città della RFT, tra cui Bonn, Berlino, Amburgo, Karlsruhe. A Francoforte un gruppo di donne diede fuoco a tre fantocci che rappresentavano, rispettivamente, un giudice, un prete e un medico.

Di fronte all’inappellabilità della sentenza, un nucleo di affiliate alle Cellule Rivoluzionarie (una parte delle quali, due anni dopo, avrebbe dato vita al gruppo femminista autonomo Rote Zora) decise di alzare il livello dello scontro. La sera del 4 marzo, a Karlsruhe, una bomba esplose nell’edificio che ospitava la Corte Federale di Giustizia, provocando ingenti danni materiali. Il giorno seguente diverse redazioni giornalistiche di Berlino Ovest ricevettero una busta contenente un documento di rivendicazione.

L’attacco, si legge nel documento firmato dalle Donne delle Cellule Rivoluzionarie, aveva avuto luogo «non per difendere la Costituzione dalla Corte Costituzionale come sostiene il signor Abendroth, ma per difendere noi stesse da questa Costituzione, che fornisce un quadro legale allo sfruttamento quotidiano, all’infiacchimento e al logoramento psichico di milioni di donne e di uomini. Una Costituzione che costringe all’illegalità le donne, e molte le uccide quando non lasciano decidere alla mafia dei medici e dei giudici sulla propria sessualità, l’uso del proprio corpo, il numero dei propri figli. Noi non ci uniamo al lamento di coloro che si dolgono perché la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale una legge votata democraticamente dal Parlamento, in quanto non c’è una differenza sostanziale quando 6 o 600 stronzi dettano le condizioni di vita a 60 milioni di persone. Noi facciamo però distinzioni molto nette, nelle attuali condizioni, tra le leggi più o meno dannose nei confronti del popolo, che questo pugno di servi del capitale, pagati con i soldi delle tasse, emana contro di noi. La sentenza terroristica della Corte Costituzionale, che ribadisce essere giusto e legale il divieto di abortire secondo il famigerato “statuto liberal-democratico”, è così intollerabile, per il disprezzo e l’annientamento delle donne che presuppone, che noi la combatteremo con tutti i mezzi possibili» [1].

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A eccezione del «Frankfurter Rundschau» e di altri giornali locali, i media nazionali praticamente ignorarono l’attentato. Molti degli articoli apparsi si basavano sulle dichiarazioni rese dal Ministro federale della giustizia Hans-Jochen Vogel durante la conferenza stampa immediatamente successiva all’attentato, interpretato dalle autorità come una sfida allo Stato e alla democrazia costituzionale. Scarsa fu anche l’attenzione da parte della sinistra extra-parlamentare: il giornale di movimento «Wir wollen alles» di Francoforte pubblicò la rivendicazione di responsabilità, ma senza commenti. Addirittura sprezzante fu la reazione di Ulrike Meinhof, che in una nota di prigionia ebbe a osservare:  «la loro azione contro la Corte Federale di Giustizia è stata una merda, un sostituto del pigro movimento 218, che non può essere resuscitato da una simile azione, soprattutto perché hanno scelto l’obiettivo sbagliato».

Che l’attentato coincidesse con un momento di crisi del movimento era, d’altronde, indubitabile. Con quella azione, le Donne delle Cellule Rivoluzionarie si proponevano di persuadere le femministe del fatto che, a meno di combinarsi con tattiche violente, auto-coscienza, self-help, centri delle donne e cortei pacifici non sarebbero mai stati sufficienti a piegare la resistenza patriarcale messa in campo dalle istituzioni politiche, giudiziarie, mediche ed ecclesiastiche. La risposta del movimento delle donne fu, complessivamente, negativa. Il 6 marzo il giornale «Die Welt» riferiva di tredici gruppi di donne che avevano preso le distanze dall’attacco dinamitardo. Il giornale femminista «Frauenzeitung: Frauen gemeinsam sind stark» optò invece per un approccio diverso: anziché condannare o applaudire l’azione, ristampò il testo della rivendicazione sollecitando le lettrici a inviare contributi per la discussione. Sul numero successivo del giornale, tuttavia, non apparvero lettere né editoriali di commento al testo.

Secondo la storica Katharina Karcher, la mancanza di risposte pubbliche non autorizza a concludere che la discussione non abbia avuto luogo all’interno dei circoli femministi, ma è comunque indicativa di un silenzio più ampio sull’impiego della violenza politica a scopi femministi [2]. A questa osservazione se ne potrebbe forse aggiungere un’altra: il rifiuto dell’avanguardismo armato, con la sua logica minoritaria, era la coerente espressione politica di un movimento che aveva raggiunto dimensioni di massa, riuscendo a catalizzare consensi intorno all’obiettivo della depenalizzazione dell’aborto. Il silenzio sulla violenza, al tempo stesso, tradiva la carenza di una riflessione strategica alternativa che permettesse di fare i conti con gli ostacoli, tutt’altro che immaginari, posti al movimento dal ruolo dello Stato.

Mentre a partire dal luglio 1975 le attiviste femministe cominciavano a organizzare viaggi per abortire nelle cliniche olandesi, una versione modificata della riforma approdava in Parlamento. Nel febbraio 1976 veniva approvata una legge che recepiva l’essenziale della sentenza emessa dalla Corte Federale: la RFT non poteva permettersi di riconoscere alle donne il diritto all’autodeterminazione. L’aborto entro il primo trimestre veniva depenalizzato, ma a condizione che l’interessata riuscisse a convincere una commissione medica di versare in condizioni talmente spaventose da non poter portare a termine la gravidanza. Nel mese di novembre lo «Spiegel» riferiva che, in alcune parti del paese, per le donne più povere era impossibile abortire anche quando avevano i requisiti legali per farlo.

NOTE

[1] Il testo del documento è riportato in Rote Zora. Guerriglia urbana femminista. Repubblica Federale Tedesca 1975-1995, Autoproduzione Femminista, s. l. 2018, pp. 86-89.

[2] Katharina Karcher, Sisters in Arms. Militant Feminism in the Federal Republic of Germany since 1968, Berghahn, New York-Oxford 2017, p. 80.

Rompere il tabù dell’eterosessualità, finirla con la differenza dei sessi: gli apporti del lesbismo come movimento sociale e teoria politica – Jules Falquet

Presentiamo per la prima volta in traduzione italiana — con il permesso dell’autrice — il saggio Rompre le tabou de l’hétérosexualité, en finir avec la différence des sexes: les apports du lesbianisme comme mouvement social et théorie politique, di Jules Falquet, sociologa e militante lesbo-femminista attiva in Francia e nei movimenti femministi autonomi decoloniali di Abya Yala [1]. Studiosa della riconfigurazione dei rapporti di sesso, razza e classe nel quadro della globalizzazione neoliberale [2], Falquet attinge la sua strumentazione analitica dalla tradizione del femminismo materialista francofono raccolto intorno al collettivo editoriale di Questions féministes (1977-1980), integrandola in modo originale con il contributo della frangia più radicale del femminismo Nero statunitense, il bostoniano Combahee River Collective (1974-1980).

L’esortazione che dà il titolo al saggio — rompere il tabù dell’eterosessualità, finirla con la differenza dei sessi — si colloca dunque all’interno di un filone importante, e ancora poco conosciuto (o deliberatamente rimosso), della “seconda ondata” femminista, che la sociologa francese rivisita con intenti tutt’altro che commemorativi. Rifare i conti con la storia del lesbismo come movimento sociale e teoria politica equivale piuttosto a compiere una scelta strategica per il presente, che comporta anzitutto spostare l’unità di analisi (e di iniziativa politica) dai temi del corpo, del desiderio, delle identità individuali ai rapporti sociali che presiedono alla costituzione di quelle che, di norma, vengono eufemisticamente definite come “differenze” di genere, di classe e di razza. Non è un caso pertanto che il termine “intersezionalità”, coniato alla fine degli anni Ottanta da Kimberle Crenshaw in prospettiva giuridica nel contesto del multiculturalismo statunitense [3] e popolarizzatosi al volgere del millennio, non compaia in queste pagine. Falquet preferisce invece parlare di interdipendenza (o imbricazione) di rapporti sociali di genere, razza e classe, lasciando cadere l’accento sulle dinamiche materiali di appropriazione, sfruttamento ed estrazione sottese alla codificazione ideologico-normativa di tali rapporti [4]. La questione non è puramente accademica, se si considera che l’aggettivo “intersezionale” si è imposto nell’uso corrente per qualificare un femminismo inclusivo delle “differenze”, ma forse non altrettanto agguerrito quando si tratta di interrogare, criticare e aggredire la dinamica sociale della loro riproduzione. In tal senso è significativo che, in tempi recenti, una veterana del Combahee River Collective come Barbara Smith abbia avvertito l’esigenza di prendere le distanze dal modo in cui l’elaborazione politica del gruppo è stata trasmessa alle persone più giovani da una generazione di accademic* che, non avendone compreso appieno la portata, ha finito con il ridurla a una questione di «trigger warnings, safe spaces e micro-aggressioni — tutte cose reali, ma il fatto è che non era su questo che ci concentravamo» [5]. Su che cosa dovremmo effettivamente concentrarci per non ricadere nelle trappole del pensiero straight proprio mentre ci illudiamo di contestarlo, è ciò che Jules Falquet viene a suggerirci.

NOTE

[1] Per un profilo dell’autrice, si veda julesfalquet.com.

[2] Cfr. Jules Falquet, De gré ou de force. Les femmes dans la mondialisation, La Dispute, Paris 2008; Jules Falquet, Helena Hirata, Danièle Kergoat, Brahim Labari, Nicky Le Feuvre, Fatou Sow (dir.), Le sexe de la mondialisation. Genre, classe, race et nouvelle division du travail, Presses de Sciences-po, Paris 2010; Jules Falquet, Pax neoliberalia. Perspectives féministes sur (la réorganisation) de la violence, Editions iXe, Donnemarie-Dontilly 2016.

[3] Cfr. K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, «University of Chicago Legal Forum», 1, 1989, pp. 139-167.

[4] D’accordo con Jules Falquet, abbiamo reso con «interdipendenza» il francese embrication, per favorire una maggiore leggibilità del testo. Vale comunque la pena segnalare che l’espressione «imbricazione» (dei rapporti sociali) sta entrando nell’uso italiano, in particolare nel quadro della ricerca etnografica relativa alla riproduzione dei soggetti dominanti sull’asse del genere, della razza e della classe. Si veda, al riguardo, il lavoro dell’antropologa femminista materialista Valeria Ribeiro Corossacz, Bianchezza e mascolinità in Brasile. Etnografia di un soggetto dominante, Mimesis, Milano-Udine 2015.

[5] Cfr. Keeanga-Yamahtta Taylor (ed.), How We Get Free. Black Feminism and the Combahee River Collective, Haymarket Books, Chicago 2017, p. 62.

***

«I movimenti gay misti spostano la questione dell’eterosessualità focalizzandosi sulla sessualità; una parte dei movimenti femministi e lesbici non misti collocano il sistema dell’eterosessualità obbligatoria e l’organizzazione della riproduzione al cuore dell’oppressione delle donne, ed è più minaccioso» (Mathieu, 1999) [1].

 

questiones

Bisogna rallegrarsi dell’attuale moltiplicazione di movimenti e ricerche sulla/e sessualità, uno dei cui meriti, e non il minore, è rendere ogni giorno più visibili ogni sorta di pratiche e persone che, in tutto il mondo, contestano con coraggio l’ordine sessuale esistente. Tuttavia, concentrandosi quasi esclusivamente sulla sessualità come un insieme di pratiche sessuali e/o desideranti individuali, e accordando una considerevole importanza all’intervento sul corpo e sul suo aspetto — anche in questo caso, intervento principalmente individuale —, mi sembra che la corrente dominante di questi movimenti perda di vista una parte del suo obiettivo. In effetti, se si tratta di contestare il binarismo dei generi o dei sessi e soprattutto la loro sedicente naturalità — un progetto a cui ampi settori dei movimenti femministi e lesbici si dedicano da una trentina d’anni — la focalizzazione sull’identità personale e sulle pratiche quotidiane rischia di trascinarci su un binario morto. Un binario sicuramente affascinante, come possono esserlo il corpo e la psiche umana, ma che non ci permette di prendere la rincorsa sufficiente per raggiungere le radici del problema. Perché la tesi che qui vorrei difendere è che il problema non sta nel corpo, e nemmeno nelle persone…Allora, dove si trova, e come risolverlo?

Per rispondere a questa domanda propongo un incontro, o delle rimpatriate, con altre piste d’analisi e di lotta, le cui premesse sono state gettate a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, ma che oggi sono poco conosciute e poco utilizzate. Le ragioni possibili di questa ignoranza involontaria o deliberata sono molteplici. Anzitutto, la diffusione diseguale di prospettive differenti in base al loro potenziale sovversivo e alle posizioni di potere (di sesso [2], classe e «razza» [3] in particolare) delle persone e dei gruppi che le espongono, in seno all’accademia o nel mondo militante, così come nel quadro dei rapporti Nord-Sud [4]. In seconda battuta, l’indebolimento dei movimenti sociali che le hanno prodotte e che avrebbero potuto alimentarle, legato al riflusso dei movimenti «progressisti» o «rivoluzionari» e all’ascesa del conservatorismo a partire dagli anni Ottanta, nel quadro dello sviluppo della mondializzazione neoliberale.

Tuttavia, qui non si tratta tanto di interrogarsi sulle ragioni per cui questo o quell’orientamento oggi domina le scienze sociali o i movimenti sociali, quanto piuttosto di affrontare l’urgenza intellettuale e umana di comprendere e trasformare la realtà. In effetti, l’imposizione del neoliberalismo porta a un approfondimento vertiginoso delle diseguaglianze lungo le linee di frattura del sesso, della «razza» e della classe. Di fronte a questo incremento brutale della miseria e dello sfruttamento, ignorare l’eredità delle lotte radicali è un lusso che non ci possiamo permettere.

In un primo momento, per relativizzare l’attuale concezione occidentale dominante della sessualità e dei suoi rapporti con il sesso, il genere e i meccanismi di parentela, procederò ad alcuni richiami socio-antropologici e a una breve presentazione dei risultati principali che il lavoro fondamentale che Nicole-Claude Mathieu ha sviluppato nel corso degli anni Settanta e Ottanta e che ha raccolto, nel 1991, in un’opera dal titolo eloquente: L’anatomie politique. Presenterò poi quelli che mi sembrano costituire i più importanti apporti teorici e politici del movimento lesbico, radicale e femminista [5] di quel periodo, negli Stati Uniti e in Francia [6]. Per finire, mostrerò in quale misura tali apporti sono particolarmente preziosi nell’attuale contesto neoliberale, e in che modo potrebbero essere ulteriormente arricchiti per affrontare le sfide analitiche e politiche che la mondializzazione ci pone.

Varietà delle pratiche sessuali e matrimoniali tra «donne» e dei significati che vengono loro attribuiti.

 Storicità e molteplicità delle pratiche sessuali e matrimoniali tra donne

 Il mondo occidentale attuale, urbano, «bianco» ed economicamente privilegiato è lontano dall’essere il primo o l’unico all’interno del quale delle «donne» stabiliscono fra di loro relazioni sessuali, d’amore e/o coniugali. Diverse poete hanno testimoniato in prima persona del loro amore carnale per altre «donne», a partire da Saffo dell’antica Lesbo fino all’afro-nordamericana Audre Lorde (Lorde 1982; 1984). Malgrado le distruzioni successive, l’India pre-vedica ha lasciato sculture molto esplicite di relazioni sessuali fra «donne» (Thadani, 1996). Nello Zimbabwe, l’attivista lesbica Tsitsi Tiripano (deceduta nel 2001) e il gruppo lesbico e gay GALZ, all’interno del quale Tiripano militava, sono la dimostrazione eclatante che il lesbismo esiste nel continente africano (Aarmo, 1999). A Sumatra, in Indonesia, i «tomboys» sono «donne mascoline» che stabiliscono relazioni di coppia con altre «donne» (Blackwood, 1999).

Il lesbismo, qual è definito oggi nel pensiero occidentale dominante, è una categoria recente. Essa implica numerosi postulati eminentemente sociali che si sono progressivamente installati in società differenti. Alcuni fra questi sono largamente condivisi al di là del mondo occidentale — la credenza nell’esistenza di donne e di uomini, e nel fatto che queste donne e questi uomini siano tali in funzione di un «sesso» che sarebbe assegnato loro dalla Natura. Altri sono più specifici: assegnare alle persone un’identità sessuale sulla base di pratiche sessuali, decretare che tale identità è stabile e permanente (ovvero innata), fare infine coincidere tale «identità» con un tipo di carattere o di personalità.

Per contro, pratiche che potrebbero sembrare lesbiche all’interno delle attuali logiche occidentali, si tratti di pratiche sessuali o matrimoniali, non lo sono necessariamente per le società che le mettono in opera. Così, almeno in una trentina di società africane, come presso i Nandi del Kenya occidentale, esistono forme di matrimonio tra «donne», senza che queste ultime abbiano necessariamente delle relazioni sessuali fra loro (Amadiume, 1987; Oboler, 1980). Generalmente, si tratta per una donna ricca e anziana di avere una discendenza con una donna più giovane che le darà questi figli avendo relazioni sessuali con un uomo. Allo stesso modo, presso le popolazioni indiane nelle pianure del nord del continente americano, gli/le sciamani/e chiamati/e «berdaches» formano delle coppie con persone dello stesso «sesso», proprio perché sono socialmente considerati/e come appartenenti a un genere opposto al proprio «sesso» (Lang, 1999). È precisamente questa enorme diversità e complessità delle configurazioni culturali del sesso, del genere e della sessualità, presenti e passate, minoritarie e maggioritarie, ciò che il lavoro di Nicole-Claude Mathieu (1991) mette in luce.

 

Il quadro d’analisi di Mathieu

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Il quadro d’analisi che Mathieu propone è tanto più interessante in quanto ingloba al tempo stesso società non occidentali e occidentali, attuali e passate, a cui ella applica il doppio sguardo sociologico e antropologico che le appartiene. Il nucleo del suo pensiero sull’articolazione tra sesso, genere e sessualità appare nell’articolo «Identité sexuelle/sexuée/de sexe? Trois modes de conceptualisation de la relation entre sexe et genre» [7]. In questo articolo Mathieu risponde a un’ipotesi di Saladin d’Anglure (1985) secondo cui l’esistenza di un «terzo sesso», come nella società Inuit, invaliderebbe l’idea del binarismo dei sessi e dei generi. E soprattutto attenuerebbe, secondo Mathieu, la teoria dell’oppressione delle «donne». Nella sua elaborazione, Mathieu lavora su un insieme di pratiche che riguardano la sessualità, il genere o il sesso che l’attuale pensiero occidentale qualificherebbe volentieri come queer. Più precisamente, ella analizza:

« – [le] “devianze istituzionalizzate”, in modo permanente o occasionale, indagando se esse siano un’inflessione della norma o, al contrario, la sua quintessenza;

  • l’autodefinizione di gruppi o di individui considerati devianti o marginali, domandandosi se essa costituisca una soluzione “normata” alle incongruenze esperite o una sovversione» (Mathieu, 1991, 230)

Studiando queste «devianze» all’interno delle società più varie, Mathieu mostra (1) che la maggior parte fra queste costituiscono in realtà dei meccanismi istituzionalizzati di adattamento e/o sono funzionali al sistema sociale considerato e, soprattutto, (2) che non esiste un’unica maniera di credere (o di non credere) alla naturalità del sesso e dei generi. L’articolo di Mathieu è particolarmente interessante perché mostra bene i limiti della «vulgata sesso-genere» che, a partire dagli anni Ottanta, tende a sostituirsi alle analisi propriamente femministe: essa è inoffensiva e banale se le viene tolta la dimensione della sessualità. Ma soprattutto, come dimostra Mathieu, non sono le sessualità o i generi queer a fornire veramente la chiave della comprensione dei rapporti sociali di sesso, bensì la norma che questi rivelano, ovvero il principio direttivo dell’eterosessualità che infesta come uno spettro le «teorie del genere». È smascherando questo fantasma nelle sue diverse manifestazioni che Mathieu arriva a scoprire non uno, ma tre grandi modi di articolazione del sesso, del genere e della sessualità:

  • «Modo I: identità “sessuale”, basata su una coscienza individualista del sesso. Corrispondenza omologica tra sesso e genere: il genere traduce il sesso.
  • Modo II: identità “sessuata”, basata su una coscienza di gruppo. Corrispondenza analogica tra sesso e genere: il genere simbolizza il sesso (e viceversa).
  • Modo III: identità “di sesso”, basata su una coscienza di classe. Corrispondenza sociologica tra sesso e genere: il genere costruisce il sesso» (Mathieu, 1991, 231).

Questa tipologia permette di distanziarsi realmente dall’etnocentrismo e dal malinteso universalismo che caratterizzano lo sguardo occidentale dominante contemporaneo sulla sessualità e soprattutto sulle credenze relative alle identità di sesso. Questo decentramento svela il carattere eminentemente relativo, storico, culturale, non assoluto insomma, del sesso, del genere e della sessualità. Nello stesso movimento, Mathieu mostra bene che gran parte delle persone eterosessuali, al pari di quelle che contestano l’eterosessualità nel mondo occidentale, ma anche, direi, di ampi settori dei movimenti globali gay, queer e trans che si sviluppano oggi, aderiscono di fatto al modo I e talvolta al modo II di articolazione sesso-genere-sessualità.

Qui propongo, al contrario, di ritornare alle logiche sviluppate da altre correnti e che si inscrivono da molto tempo, come il pensiero della stessa Mathieu, in quello che lei definisce modo III, anti-naturalista e materialista [8]. Tuttavia, prima di proseguire, occorre fare ancora qualche importante precisazione sul contesto materiale e concettuale in cui queste analisi si collocano.

I tre modi di concettualizzazione dei rapporti tra sesso, genere e sessualità descritti da Mathieu si inscrivono nel quadro di una netta predominanza (numerica e politica) di società organizzate a beneficio di persone considerate come uomini e come maschi. Questa egemonia, che si osserva quasi ovunque nel mondo per i periodi storicamente documentati, funziona grazie a una stretta combinazione tra (1) rapporti sociali di sesso vari ma patriarcali [9] e (2) per le «donne», l’imposizione generale dell’eterosessualità procreativa e soprattutto la severa interdizione e invisibilizzazione dell’omosessualità femminile esclusiva.

Certamente, esistono delle eccezioni. Come mostra un insieme di lavori recenti raccolti da Mathieu (2007), alcune società matrilineari e soprattutto uxorilocali [10] conoscono rapporti sociali di sesso nettamente meno inegualitari di quelli che esistono nei sistemi patrilineari e virilocali. Quanto alla sessualità, non è raro che l’omosessualità maschile (alcune pratiche sessuali, in alcuni periodi della vita) e soprattutto l’omosocialità siano socialmente integrate ai dispositivi di potere patriarcali, come presso gli antichi Greci, gli Azandé, i Baruya o in certi club esclusivamente maschili di numerose metropoli odierne, come ricorda molto bene Mathieu (1991). Per contro, le pratiche sessuali tra «donne» in genere vengono tollerate soltanto a patto di essere strettamente private, invisibili e chiaramente separate da pratiche omosociali e/o di solidarietà morale e materiale, ovvero da alleanze matrimoniali e politiche visibili [11] tra «donne». Ora, è precisamente dalla congiunzione deliberata, collettiva tra pratiche sessuali, d’amore e alleanze materiali tra «donne» a detrimento delle relazioni obbligatorie con gli «uomini», cioè a partire dal lesbismo come movimento politico, che possono avere luogo le autentiche rivoluzioni di pensiero che qui presento.

 

Il lesbismo come movimento sociale e la sua teorizzazione politica

Apparizione di un movimento sociale autonomo e critico degli altri movimenti

L’esistenza semi-pubblica di collettività lesbiche in diversi paesi occidentali (in particolare) precede di molto lo sviluppo del movimento femminista, come attesta per esempio lo studio di Davies e Kennedy (1989) sulla cittadina di Buffalo, negli Stati Uniti maccartisti degli anni Cinquanta, che mostra l’esistenza di comunità di lesbiche proletarie e/o razzizzate organizzate, fra le altre cose, intorno a codici «butch/femme» [12]. Tuttavia, è soprattutto alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta che appare il movimento lesbico, al Nord come al Sud, in un clima di prosperità economica e di profonde trasformazioni sociali e politiche: sviluppo della società dei consumi, «modernità» trionfante e emersione di diversi movimenti progressisti e/o rivoluzionari. Negli Stati Uniti i movimenti per i diritti civili, la liberazione Nera, l’indipendenza di Porto Rico o i diritti indiani, le lotte rivoluzionarie e la decolonizzazione, l’opposizione alla guerra del Vietnam, infine i movimenti femminista e omosessuale, costituiscono altrettante «scuole» politiche per un’intera generazione di militanti. Tuttavia, per diverse ragioni, questi movimenti lasciano insoddisfatte molte donne e lesbiche. È precisamente la critica di tali insufficienze, delle contraddizioni e delle dimenticanze di questi movimenti che le porta a un’autonomizzazione organizzativa e soprattutto teorica.

Per quanto riguarda le lesbiche, la prima espressione largamente visibile di questa necessità di autonomia risale alla nord-americana bianca Jill Johnston, che si fa eco delle critiche rivolte, contemporaneamente, al movimento gay dominato dagli uomini e al movimento femminista dominato da donne eterosessiste e spesso eterosessuali. I suoi articoli, pubblicati sul Village Voice tra il 1969 e il 1972, sono raccolti in un’opera intitolata (dal suo editore) Lesbian Nation: the Feminist Solution. Apparsa nel 1973 nei circuiti editoriali classici, diventa rapidamente un best-seller (Johnston, 1973). Di fatto negli anni Settanta, e non senza conflitti, il movimento lesbico si diffonde a macchia d’olio un po’ ovunque nel mondo, rivendicando la propria autonomia sia nei riguardi al femminismo che del movimento omosessuale misto e, più complessivamente, rispetto all’insieme delle organizzazioni «progressiste» da cui le militanti sono spesso uscite. [13]

Sicché, il primo tipo di apporti del movimento lesbico agli altri movimenti sociali non è altro che metterli nelle condizioni di interrogarsi sui propri limiti e sui propri impensati, tanto nelle pratiche quotidiane che negli obiettivi politici, in particolare nel campo della sessualità, della famiglia, della divisione sessuale del lavoro o della definizione dei ruoli maschili e femminili. Le innumerevoli critiche formulate dalle lesbiche a questo riguardo, la maggior parte delle quali sono state articolate anche dal movimento femminista, sono uno specchio rivolto ai diversi movimenti e ai/lle militanti, che potrebbe permettere loro di dare realmente ai loro progetti tutta l’ampiezza di respiro politico che ostentano.

 

Teorizzazione dell’interdipendenza dei rapporti di potere e della necessità delle alleanze 

 

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Combahee River Collective

Nello stesso slancio di autonomizzazione e di approfondimento della riflessione sugli obiettivi a lungo termine e sulla quotidianità dei movimenti sociali, appare a Boston nel 1974 il Combahee River Collective, uno dei primi gruppi femministi Neri. Esso nasce a partire da una quadruplice critica: al sessismo e alla dimensione piccolo-borghese del movimento Nero, al razzismo e alle prospettive piccolo-borghesi del movimento femminista e lesbico, al carattere riformista della National Black Feminist Organization, e alla cecità delle femministe socialiste di fronte alle questioni di «razza». In risposta a tutte queste insufficienze, il Combahee River Collective afferma per la prima volta, in un manifesto divenuto classico, l’inseparabilità delle oppressioni e, dunque, delle lotte contro il razzismo, il patriarcato, il capitalismo e l’eterosessualità:

«La definizione più generale della nostra politica attuale può essere riassunta come segue: siamo attivamente impegnate nella lotta contro l’oppressione razzista, sessuale, eterosessuale e di classe e ci diamo come compito specifico quello di sviluppare un’analisi e una pratica integrate, basate sul fatto che i principali sistemi di oppressione sono interdipendenti (interlocking). La sintesi di queste oppressioni crea le condizioni in cui viviamo. In quanto donne Nere, logicamente vediamo il femminismo Nero come il movimento politico per combattere le oppressioni molteplici e simultanee che l’insieme delle donne di colore affronta» (Combahee River Collective, 1979).

Numerose lesbiche e femministe «di colore» gli fanno rapidamente eco. Tra le iniziative più importanti, l’antologia This Bridge Called My Back, coordinata da due lesbiche chicane, Gloria Anzaldúa e Cherríe Moraga, raccoglie le voci di un insieme di femministe e lesbiche Nere, Indiane, Asiatiche, Latine, migranti e rifugiate, che affermano a propria volta l’impossibilità di scegliere tra la propria identità in quanto donna e la propria identità in quanto persona «di colore» (Moraga, Anzaldúa, 1981).

Da un punto di vista teorico, le prospettive aperte da quelle militanti segnano un vero e proprio cambiamento di paradigma, con la formulazione pionieristica, da parte del Combahee River Collective, del concetto di interdipendenza [interlocking] di quattro rapporti di oppressione (Combahee River Collective, 1979). Notiamo che questo fondamentale contributo alle scienze sociali è indissociabile dal loro punto di vista di outsiders within, in quanto donne, Nere, lesbiche e proletarie. La loro capacità di vedere ed enunciare questa interdipendenza è, in ugual misura, il frutto della loro esperienza collettiva di militanza. Si tratta di un apporto supplementare: il Combahee ci ricorda che, se si prende sul serio la teoria dello standpoint [14], occorre tenere in considerazione almeno tre elementi nella ricezione di una teoria: non solo la posizione sociale occupata dalla persona, o dalle persone, che la formula(no), ma anche il carattere più o meno collettivo del pensiero e il modo in cui questo si inserisce in progetti di trasformazione sociale.

Sul piano politico, gli apporti di un gruppo come il Combahee sono altrettanto significativi. Anzitutto, le sue militanti affermano l’ineluttabilità della lotta simultanea su più fronti. In secondo luogo, insistono sulla necessità che tutte/i prendano in carico le diverse lotte. Combattere il razzismo, per esempio, è una responsabilità delle persone bianche come delle altre e spetta tanto sugli uomini che alle donne opporsi ai rapporti sociali di sesso patriarcali. Tuttavia, ed è un altro punto centrale, esse sottolineano che l’organizzazione delle lotte dovrebbe rispettare certe regole. Lo scopo non è che ogni gruppo si chiuda in se stesso e si isoli in battaglie specifiche, come spiega Barbara Smith, una delle militanti più in vista del Combahee:

«Ho spesso criticato le trappole del separatismo lesbico praticato soprattutto da donne bianche. […] Invece di lavorare per sfidare il sistema e trasformarlo, molte separatiste se ne lavano le mani e il sistema va avanti tranquillamente per la propria strada. […] L’autonomia e il separatismo sono fondamentalmente differenti». (Smith, 1983).

La distinzione che Smith propone tra separatismo e autonomia è particolarmente utile. In effetti, come il separatismo, l’autonomia implica la libera scelta di ogni gruppo dei criteri di inclusione delle militanti e dei metodi di lavoro. Per contro, a differenza del separatismo, essa non solo permette, ma deve sfociare nella creazione di spazi di incontro e alleanza:

«Le donne Nere possono legittimamente scegliere di non lavorare con le donne bianche. Quello che non è legittimo è ostracizzare le donne Nere che non hanno fatto la stessa scelta. Il peggior problema del separatismo non è chi definiamo come “nemico”, ma il fatto che esso ci isola le une dalle altre». (Smith, 1983).

Infine, ed è una conseguenza logica particolarmente importante di tutto ciò che precede, di fronte alla simultaneità di oppressioni e nel quadro dell’autonomia politica, la strategia difesa da queste lesbofemministe Nere è la ricerca attiva e la costruzione di coalizioni, non sulla base di un’addizione di identità e di organizzazione frammentate all’infinito, ma a partire da azioni concrete e in vista della formulazione collettiva di un progetto politico (Smith, 1983).

 

Denaturalizzazione dell’eterosessualità e del sesso

Il terzo grande apporto delle lesbiche è il rovesciamento completo della prospettiva naturalista di senso comune sulla sessualità, sui generi e soprattutto sui sessi. Tale rovesciamento è realizzato dalla rimessa in causa dell’idea, apparentemente semplice e innocente, secondo cui l’eterosessualità sarebbe un meccanismo naturale di attrazione tra due sessi.

Il primo attacco contro la supposta naturalità dell’eterosessualità, dei generi e dei sessi è sferrato nel 1975 dall’antropologa bianca Gayle Rubin nel suo saggio Lo scambio delle donne. Note sull’economia politica del “sesso” (Rubin, 1975). In questo studio audace, Rubin mostra il carattere profondamente sociale dell’eterosessualità. Ella sottolinea che lo stesso Claude Lévi-Strauss è stato pericolosamente vicino a sostenere che l’eterosessualità fosse un processo socialmente istituito, affermando che era la divisione sessuale del lavoro, socialmente costruita, a rendere imperativa la formazione di unità «familiari» costituite almeno da una donna e un uomo. Più precisamente, ciò che l’antropologo constata è che, in vista della riproduzione biologica e sociale, occorre obbligare gli individui a formare unità sociali costituite almeno da una «femmina» e un «maschio» — unità sociali che gli individui non formano spontaneamente. Sulla scorta di Lévi Strauss, Rubin dimostra che questa è la funzione della divisione sessuale del lavoro, intesa in questa prospettiva come un divieto per ciascun sesso di padroneggiare l’insieme dei compiti necessari alla sua sopravvivenza, cosa che li rende materialmente e simbolicamente dipendenti l’uno dall’altro. È anche e soprattutto questa, spiega Rubin, la ragion d’essere del tabù della similarità tra uomini e donne, intimamente legato al tabù dell’omosessualità — anteriore al tabù dell’incesto e più fondamentale di questo (Rubin, 1975) [15].

Alcuni anni più tardi, è collocando infine il lesbismo al cuore del ragionamento che altre due scrittrici e militanti femministe bianche, Monique Wittig e Adrienne Rich, riescono a spingere l’analisi più lontano. È consueto opporre queste due teoriche [16], tuttavia entrambe procedono a un riposizionamento particolarmente euristico del lesbismo, mediante una triplice operazione. Anzitutto, fanno uscire il lesbismo dal campo angusto delle pratiche strettamente sessuali. In secondo luogo, spostano l’attenzione da questa pratica «minoritaria» verso quella delle «maggioranze», ovvero puntando il proiettore sull’eterosessualità. Infine, e soprattutto, mostrano fino a che punto le poste sia del lesbismo che dell’eterosessualità non si trovano tanto nel campo della sessualità, quanto in quello del potere. Per entrambe l’eterosessualità, lungi dall’essere un’inclinazione naturale dell’essere umano, è imposta alle donne mediante la forza, ovvero mediante la violenza al tempo stesso fisica e materiale, compresa quella economica, e mediante un solido controllo ideologico, simbolico e politico, che fa intervenire un insieme di dispositivi che vanno dalla pornografia fino alla psicoanalisi.

Così, nel suo articolo «Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica» [17], Rich denuncia l’eterosessualità obbligatoria come una norma sociale resa possibile dall’invisibilizzazione del lesbismo — anche all’interno del movimento femminista. Il lesbismo viene situato nella prospettiva di un «continuum lesbico» che unisce tutte le donne che, in maniere differenti, si allontanano dall’eterosessualità obbligatoria e tentano di sviluppare dei legami tra loro per lottare contro l’oppressione delle donne, indipendentemente dalla loro sessualità. Rich ha criticato certi aspetti essenzialisti del concetto di «donna identificata alle donne» (Koedt, 1970). Nel suo articolo, sottolinea invece pratiche di solidarietà tra donne descritte da donne Nere come Toni Morrison o Zora Neale Hurston. Ed è in qualche modo ciò che si augura di vedere svilupparsi: una vera solidarietà tra le donne, non «naturale», romantica o ingenua, bensì volontaria e chiaramente politica, che faccia spazio a tutte nella lotta per la liberazione comune. In un lavoro successivo, Rich afferma:

«È fondamentale intendere il femminismo lesbico nel suo senso più profondo e radicale, come l’amore per noi stesse e per le altre donne, l’impegno per la libertà di tutte e di ciascuna di noi, che trascende la categoria di “preferenza sessuale” e quella di diritti civili, per trasformarsi in una politica che ponga le questioni delle donne che lottano per un mondo in cui l’integrità di tutte — e non quella di un pugno di elette — venga riconosciuta e tenuta in considerazione in tutti i campi della cultura» (Rich, 1979).

Monique Wittig, per parte sua, comincia subito con una delle proposizioni principali del femminismo materialista — che in quel momento si sviluppa intorno alla rivista Questions féministes, dove vengono pubblicati i suoi due articoli inaugurali [18] — secondo la quale donne e uomini non si definiscono in base al loro «sesso». Per questa corrente gli uomini e le donne non sono affatto definiti da un riferimento naturalista al corpo, ma da un rapporto di classe, da una posizione occupata all’interno di rapporti sociali di potere e che Colette Guillaumin ha definito come rapporti di appropriazione fisica diretta, che ha chiamato rapporti di sexage, con il loro aspetto mentale: la naturalizzazione delle dominate (Guillaumin, 1978). Nei termini di Wittig, «ciò che costituisce una donna è la particolare relazione sociale con un uomo, relazione che precedentemente abbiamo chiamato servaggio, relazione che implica obblighi personali e fisici, così come obblighi economici (“assegnazione di residenza”, corvée domestica, dovere coniugale, produzione di figli illimitata, etc.)» (Wittig, 1980). Le donne e gli uomini sono categorie politiche che non possono esistere l’una senza l’altra. Le lesbiche, «fuggendo, o rifiutando di divenire, o di restare, eterosessuali», mettendo in causa questa relazione sociale, l’eterosessualità, problematizzano l’esistenza stessa delle donne e degli uomini. Ma non è sufficiente fuggire a livello individuale, perché non esiste veramente un “fuori”: per esistere, le lesbiche devono condurre una lotta politica di vita o di morte per l’estinzione delle donne come classe, per distruggere il «mito della Donna» e per abolire l’eterosessualità:

«La nostra sopravvivenza esige che contribuiamo con tutte le nostre forze alla distruzione della classe — le donne — tramite cui gli uomini si appropriano delle donne e ciò può avvenire soltanto attraverso la distruzione dell’eterosessualità in quanto sistema sociale basato sull’oppressione e sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini e che produce il corpus dottrinario sulla differenza fra i sessi [19] per giustificare tale oppressione» [Wittig, 1980].

Ciò che mostra Wittig è che l’eterosessualità (1) non è naturale ma sociale, (2) non è una pratica sessuale ma un’ideologia, che lei chiama «pensiero straight» e, soprattutto, (3) che questa ideologia centrale ai fini dell’oppressione patriarcale delle donne, della loro appropriazione da parte della classe degli uomini, è basata sulla credenza fervente e continuamente rinnovata nell’esistenza di una differenza sessuale. Wittig sottolinea che questa «differenza sessuale» costituisce un postulato sotteso non solo al senso comune, ma anche al complesso delle «scienze» occidentali, dalla psicoanalisi fino all’antropologia. Ora, secondo lei tale credenza, autentica pietra angolare dell’eterosessualità, non solo non viene mai sottoposta ad analisi, ma è smentita, giorno dopo giorno, dall’esistenza politica delle lesbiche e del loro movimento.

 

Le sfide attuali

Che bilancio possiamo fare oggi delle teorizzazioni che ho appena presentato e che costituiscono il fondamento di un pensiero femminista e/o lesbico materialista, anti-naturalista e radicale? Come ci permettono di affrontare alla radice i problemi «di fondo» che ho evocato all’inizio di quest’articolo? D’altronde quali sono, in ultima analisi, questi problemi?

Il primo, come ripetono con insistenza le militanti lesbiche e femministe Nere, fra le altre, è l’interdipendenza dei rapporti sociali di potere. Questo elemento fondamentale rimette profondamente in questione gli orientamenti di tutta una parte dominante del movimento LGBTQI [20], che combatte un solo tipo di rapporti sociali (di sesso) e contemporaneamente si basa — e rafforza — prospettive «gay-maschili-patriarcali», bianche e di classe media. Evidentemente, non si tratta qui di contestare in assoluto la legittimità delle lotte delle sessualità e dei generi «minoritari», ma di esortare alla vigilanza per non perdere, in qualche modo, sul piano della «razza» e della classe quello che si può eventualmente conquistare sul piano dei rapporti di sesso. Al tempo stesso, la coscienza dell’interdipendenza dei rapporti di potere obbliga a spingere più lontano le prospettive di Wittig, Rich o Mathieu. In particolare, dobbiamo portare avanti l’analisi del modo in cui l’eterosessualità come ideologia e come istituzione sociale costruisce e naturalizza non soltanto la differenza sessuale, ma anche la differenza di «razza» e di classe. Si tratta di un campo particolarmente vasto e appassionante, in cui la maggior parte delle analisi sono ancora da fare.

È di importanza tanto più vitale decifrare questo campo oggi, quando il nazionalismo, la xenofobia e l’essenzialismo (di «razza» e di sesso) ritornano in auge con la mondializzazione e lo sviluppo di un pensiero politico reazionario, naturalista e a-storico, legato all’ascesa dei fondamentalismi religiosi, negli Stati Uniti e nel mondo, incoraggiato moralmente e finanziariamente dai governi nord-americani che si sono alternati e/o esacerbato dalla loro politica. I lavori di Colette Guillaumin sulla naturalizzazione della «razza» e del sesso, che sono una delle principali fonti della corrente femminista e lesbica, costituiscono una base estremamente solida su cui appoggiarsi. Tuttavia, non inganniamoci sul «nemico principale»: ciò che questo processo ideologico (naturalizzazione delle posizioni sociali delle persone, ascesa del religioso come espressione culminante del politico) sottende è un processo materiale di sfruttamento, di estrazione e di concentrazione di ricchezze, che si intensifica nella mondializzazione neoliberale.

Una terza serie di sfide (il «cuore» del problema, forse) riguarda precisamente l’inasprimento dei rapporti sociali di potere e il deterioramento delle condizioni di vita di una grossa parte della popolazione mondiale. L’impoverimento brutale della maggioranza delle «donne» (e degli uomini) nel mondo costringe molte persone alla mobilità, mentre le politiche migratorie internazionali si fanno più dure e il controllo degli spostamenti interni si rafforza in molti paesi (tramite la minorizzazione giuridica, la concentrazione nei campi dei rifugiati, la reclusione penitenziaria, i muri eretti da ogni parte, la ghettizzazione di numerosi quartieri popolari, ma anche la minaccia dell’assassinio-femminicidio sul «modello» di Ciudad Juárez, il rafforzamento delle separazioni «etniche», la mancanza di mezzi finanziari per spostarsi, etc.). Il lavoro si modifica e si informalizza, mentre una quantità sempre maggiore di manodopera è spinta verso quello che altrove ho chiamato il «continuum di lavoro considerato femminile», né completamente gratuito, né veramente salariato, e che comprende l’insieme dei «servizi» attesi ed estratti a basso costo delle persone socialmente costruite come donne (Falquet, 2008).

A questo riguardo il lavoro di Paola Tabet, in sintonia con le analisi presentate qui, potrebbe rivelarsi di enorme utilità, in particolare il suo concetto di scambio economico-sessuale (2004). Infatti, esso potrebbe permettere di comprendere meglio le nuove logiche delle alleanze matrimoniali, sessuali e del lavoro (e dunque una parte importante delle pratiche sessuali e di genere) delle donne impoverite e razzizzate, le cui «scelte» possibili, per via della loro frequente mancanza di autonomia giuridica, oscillano sempre più tra il matrimonio con uomini bianchi e più ricchi, eventualmente di altre nazionalità, e il lavoro sessuale in tutte le sue forme, antiche e nuove. Simultaneamente, sarebbe necessario fare intervenire massicciamente le prospettive della co-formazione dei rapporti sociali per analizzare il modo in cui si organizza questo scambio economico-sessuale e come si combina con il «classico» lavoro salariato. Per esempio, per comprendere gli interventi sul corpo: dotarsi di seni, o ingrandirseli, o schiarire la pelle, permette di trovare un marito, un cliente o un impiego da receptionist, o di diventare o di restare una «donna», «bianca/bella»?

Come si vede, i problemi sono numerosi e complessi. Per orientarci, tuttavia, disponiamo di strumenti — ancora da perfezionare — : le teorie dell’interdipendenza dei rapporti di sociali di sesso, di «razza», di classe e l’analisi del «pensiero straight». Queste teorie sollecitano ad allontanarsi da una politica «identitaria» che si ipnotizza intorno alla difesa o alla contestazione di attributi simbolici, corporei e psichici di un sesso, di una «razza» o di una classe. Le lesbiche femministe l’hanno mostrato chiaramente: la Natura non esiste e questi attributi non sono altro che contrassegni e conseguenze dell’assegnazione di un posto particolare nell’organizzazione sociale del lavoro. Essi possono mutare senza che l’organizzazione del lavoro ne risulti, contestualmente, perturbata. Inoltre, finché si combatte una sola dimensione alla volta, l’interdipendenza dei rapporti sociali permette il loro riadattamento reciproco senza che la logica di fondo venga modificata — vale a dire l’oppressione e lo sfruttamento. E sono dunque l’oppressione e lo sfruttamento che dobbiamo aggredire, se vogliamo combattere efficacemente i loro effetti. In altri termini, dobbiamo lottare per modificare l’organizzazione della divisione del lavoro, dell’accesso alle risorse e alle conoscenze. E, per cominciare, possiamo ri-appropriarci delle analisi dei movimenti sociali che si sono proposti di attaccare direttamente il cuore dei rapporti di potere.

[Per citare questo articolo copiare il link:]

Rompere il tabù dell’eterosessualità, finirla con la differenza dei sessi: gli apporti del lesbismo come movimento sociale e teoria politica – Jules Falquet

NOTE

[1] Benché questo testo rifletta esclusivamente le mie posizioni personali, mi sarebbe stato impossibile scriverlo senza aver preso parte al movimento lesbico e femminista. Tengo a sottolineare l’importanza teorica e politica che hanno avuto per me i gruppi Comal-Citlalmina, Archives lesbiennes, La Barbare, Media Luna, Próxima, 6 novembre e Cora. G, in particolare. Ringrazio anche Nasima Moujoud, Florence Degavre, Ochy Curiel, Natacha Chetcuti, Cécile Chartrain e Nicole-Claude Mathieu per i loro preziosi commenti.

[2] Per controbilanciare la forte tendenza alla naturalizzazione di molte categorie analitiche, che si confondono spesso con categorie del senso comune, in questo testo utilizzo molte virgolette. Chiamerò «donna» tra virgolette una persona socialmente considerata come tale, in una società data, indipendentemente da ogni considerazione naturalista.

[3] Qui uso il concetto di «razza» per designare il risultato di un rapporto sociale che include diverse dimensioni, come il «colore» ma anche lo statuto migratorio o la nazionalità, fra gli altri.

[4] Le categorie di Sud, Nord e Occidente sono categorie politiche. Non si tratta in nessun caso di blocchi politici o a-storici. L’Occidente è multiplo e fratturato, come il Sud e il Nord; sono attraversati da contraddizioni di sesso, di classe, di «razza», regionali, etc., e sono in costante trasformazione.

[5] Non posso entrare qui nella complessità delle designazioni di ogni tendenza lesbica e femminista. Per maggiori dettagli sulle correnti del pensiero lesbico, si possono vedere Falquet (2004) o Turcotte (1998).

[6] Ben inteso, il mondo è infinitamente più vasto di questi due paesi, ma sono quelli in cui hanno vissuto le militanti e le teoriche il cui lavoro ho scelto di presentare, avendo coscienza di lasciare da parte altre riflessioni importanti.

[7] È nel 1982, in occasione del X Congresso mondiale di sociologia in Messico, che Nicole-Claude Mathieu ha presentato le basi di questo lavoro. In seguito, esso è stato pubblicato all’interno di un’opera collettiva, quindi ripreso nel 1991 nel libro di Mathieu già menzionato che offre una visione d’insieme delle sue ricerche: L’anatomie politique.

[8] «Nel modo III di concettualizzazione del rapporto tra sesso e genere, la bipartizione del genere è concepita come estranea alla “realtà” biologica del sesso (che diventa per altro sempre più complessa da discernere), ma non, come si vedrà, all’efficacia della sua definizione ideologica. Ed è l’idea stessa di questa eterogeneità tra sesso e genere (la loro diversa natura) che conduce a non pensare più che la differenza sessuale sia “tradotta” (modo I) o “espressa” o “simbolizzata” (modo III) attraverso il genere, ma che il genere costruisce il sesso. Tra sesso e genere si stabilisce una corrispondenza sociologica, e politica. Si tratta di una logica anti-naturalista e di un’analisi materialista dei rapporti sociali di sesso» (Mathieu, 1991, 255-256; traduzione nostra).

[9] Uso l’aggettivo patriarcale non per indicare un sistema presuntivamente universale e a-storico (un’idea che è stata largamente criticata e battuta in breccia, idea per altro incoerente con la prospettiva di co-formazione dei rapporti sociali di potere), ma per qualificare certe configurazioni dei rapporti sociali di sesso sfavorevoli alle donne (i rapporti sociali all’interno un dato gruppo, in una determinata epoca, possono essere più o meno patriarcali, vale a dire più o meno oppressivi per le donne, proprio come possono essere più o meno razzisti, per esempio).

[10] Matrilineare: sistema entro cui l’appartenenza al gruppo viene definita seguendo la linea materna. Uxorilocale: sistema entro cui, dopo il matrimonio, lo sposo va risiedere nella casa della sposa.

[11] È il motivo per cui la trasgressione, da parte di alcune «donne», dell’apparenza socialmente prescritta alle donne e soprattutto del loro posto nella divisione del lavoro, è severamente sanzionata nella maggior parte delle società (le «donne» che rifiutano la maternità e/o l’allevamento dei figli, il lavoro domestico, lo scambio economico-sessuale con gli «uomini», o ancora che avanzano la pretesa di guadagnare un salario migliore degli «uomini» e di occupare posizioni di potere). Per sperare di aggirare queste sanzioni, occorre essere particolarmente abili, disporre di un sostegno collettivo e/o beneficiare di privilegi legati all’età, alla «razza» e/o alla classe.

[12] «Butch» designa lesbiche mascoline e «fem» lesbiche «femminili» (Chetcuti, 2008; Lemoine, Renard, 2001)

[13] Per l’America latina, si può consultare il lavoro pionieristico di Norma Mogrovejo (2000).

[14] Le diverse teorizzazioni del «punto di vista», sviluppate in particolare da Patricia Hill Collins, Sandra Harding e bell hooks, implicano (1) la riflessività di chi conduce la ricerca in rapporto alla propria posizione sociale di sesso, classe e «razza», fra le altre cose, al momento di effettuare il proprio lavoro e (2) la considerazione del punto di vista a partire dal quale una teoria viene sviluppata, in modo da sapere quale posizione assegnarle nell’analisi.

[15] A partire dagli anni Ottanta, Rubin sviluppa analisi che si allontanano dalla corrente teorica che presento qui, riducendo la sessualità lesbica a una sessualità (oppressa) fra tante altre.

[16] In effetti, dopo aver pubblicato i due articoli di Wittig e nel contesto di un conflitto più ampio all’interno del movimento femminista in Francia intorno alla questione del sedicente «separatismo lesbico», in realtà quella del lesbismo radicale, la rivista Questions féministes esplode. Quando riappare, con il nome di Nouvelles questions féministes, pubblica immediatamente la traduzione dell’articolo di Rich, presentandola nell’editoriale come la sua «nuova linea» (Nouvelles Questions féministes, 1981). Più che l’opposizione Wittig/Rich, sarebbe importante esplorare maggiormente i principi e gli esiti di tale scissione, che ha influenzato profondamente lo sviluppo teorico della corrente femminista materialista francese. Bisognerebbe analizzare in parallelo (1) l’intervento, negli Stati Uniti, del «french feminism» (Delphy, 1996; Moses, 1996), (2) le evoluzioni teoriche di autrici come Gayle Rubin e del movimento femminista e lesbico nord-americano sulla sessualità, a partire dalla conferenza del Barnard College del 1982 sulla «politica sessuale», e (3) molto più di recente e in un altro ambito disciplinare, l’ascesa delle teorie butleriane, in parte appoggiate sull’interpretazione di autrici francesi, fra cui Wittig.

[17] Articolo inizialmente apparso in Signs nel 1981 e tradotto in Nouvelles Questions féministes (Rich 1980; 1981). La traduzione italiana dell’articolo, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, è apparsa su «DWF», 23-24, 1985, pp. 5-40.

[18] «On ne naît pas femme» e «La pensée straight», frutti di un lavoro presentato originariamente in inglese durante una conferenza tenuta nel 1978 negli Stati Uniti, e pubblicati in francese nel 1980 (Wittig, 1980; 1981).

[19] La sottolineatura è mia.

[20] Lesbico, gay, bisessuale, trans, queer e intersex.

 

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Abbasso l’amore. Critica femminista e nuove ideologie del lavoro.

Nell’epoca post-fordista, in quale misura l’amore continua ad allineare le nostre vite agli imperativi della produzione e della riproduzione sociale? Attingendo alla critica dell’amore elaborata dal femminismo radicale e dal movimento del salario contro il lavoro domestico negli anni Settanta, Kathi Weeks propone una decostruzione dell’ideologia neoliberale del lavoro nel saggio Down With Love: Feminist Critique and New Ideologies of Work (originariamente apparso in «WQS: Precarious Work», 45, 3-4, Fall/Winter 2017), pubblicato sul blog di Verso Books, che qui proponiamo in traduzione italiana.

 

love

di Kathi Weeks

Un tempo si pensava che amore e lavoro operassero in sfere separate in base al genere. Il regno privato della famiglia era il luogo in cui ci saremmo innamorate e avremmo vissuto per sempre felici e contente; varcando la soglia del mondo pubblico del lavoro salariato, saremmo entrate invece nello spazio dei contratti economici per scambiare lavoro con reddito. O, per lo meno, questa era la storia. Negli anni Settanta le femministe radicali e le femministe marxiste hanno lanciato una sfida potente a questo modello istituzionale e a questo immaginario sociale. Presentando la famiglia come una componente nascosta dell’economia — come luogo primario del lavoro riproduttivo necessario al lavoro produttivo e come meccanismo attraverso il quale i salari vengono distribuiti ad alcune figure marginali o tagliate fuori dal mercato del lavoro — le teoriche femministe hanno mostrato che le sfere del lavoro e della famiglia, anziché essere autonome l’una dall’altra, si dispongono in un continuum. Le critiche marxiste del lavoro salariato, pertanto, furono riadattate in modo da poter essere applicate al lavoro domestico e alle relazioni familiari di riproduzione. Per esempio, usando l’economia del lavoro salariato come lente strategica attraverso cui ripensare l’istituzione della famiglia, le femministe che negli anni Settanta avanzavano la rivendicazione del “salario al lavoro domestico” definirono “lavoro” gran parte di ciò che si svolge all’interno della famiglia per rendere visibile il lavoro domestico come sforzo produttivo (dire che meritava un salario era un modo per farlo) e, al tempo stesso, per sottolineare che non si tratta di qualcosa da celebrare o riverire (dopo tutto, è solo lavoro). Con questi e altri mezzi, le femministe degli anni Settanta sono brillantemente riuscite a gettare una luce critica su quelli che fino ad allora erano stati i luoghi impensati della famiglia, del matrimonio, dell’amore e del romanticismo eterosessuale, e ad analizzare le varie forme di mistificazione ideologica, naturalizzazione, privatizzazione e romanticizzazione che avevano tenuto queste istituzioni al riparo dal giudizio critico.

Mentre c’è ancora molto da imparare dalle applicazioni di questa prima iterazione dell’analitica marxista-femminista che, rivelando la famiglia come connessa anziché come antitetica al lavoro, ha impiegato una versione del modello delle sfere separate per disgregarlo, oggi viviamo in una nuova epoca, che richiede ulteriori metodologie critiche. Questa nuova epoca può essere descritta, in estrema sintesi, come quella del passaggio da un regime di accumulazione fordista a un regime di accumulazione post-fordista. Una delle caratteristiche più vistose dell’economia post-fordista contemporanea consiste nel modo in cui alcune delle forme tradizionali del lavoro delle donne sono giunte a caratterizzare differenti tipi di impieghi. Come hanno riconosciuto molte economiste politiche femministe, «le condizioni che circondano il lavoro delle donne evidenziate dalle femministe oggi sono diventate condizioni generali del lavoro» (Adkins, Joniken 2008, 142). Si consideri, per esempio, come le forme di lavoro intellettuale e manuale che un tempo erano separate in molte occupazioni industriali ora sono spesso integrate, assieme alle professioni del cuore e dell’anima, nella produzione post-industriale. Nella misura in cui il modello flessibile, accudente, cooperativo e comunicativo della femminilità è giunto a rappresentare il lavoratore ideale, il lavoro delle donne sotto il fordismo è diventato il modello, anziché la mera appendice, per le economie capitaliste post-fordiste.

Una delle conseguenze di questi sviluppi è che una porzione crescente della soggettività dei lavoratori viene inglobata e rifusa nella loro identità di lavoratori. Configurare il lavoro come il centro della nostra identità comporta una riconfigurazione del sé in rapporto al lavoro. Ciò è reso più facile dal fatto che, mimando le qualità senza limiti del lavoro di cura domestico, nell’economia contemporanea sono saltati i confini che un tempo si supponeva separassero il lavoro salariato dal tempo, dai luoghi, dalle pratiche e dalle relazioni di non-lavoro. In questo modo, il lavoro salariato e i suoi valori sono arrivati a egemonizzare più che mai il nostro tempo e la nostra energia. «In media, disponiamo soltanto di 27.350 giorni su questo pianeta», dichiara un manuale di auto-aiuto su come avere successo sul lavoro, «e 10.575 di questi sono giorni lavorativi» (Baréz-Brown 2014, 12). Dunque, abbiamo bisogno di riadattarci individualmente al fatto che «vita e lavoro sono intrinsecamente collegati. Non sono separati; sono una cosa sola» (10). Le sfere della vita che un tempo erano immaginate come ripartite tra un mondo senza cuore e un rifugio amorevole si stanno sempre più confondendo in quest’epoca sottosopra, con risultati interessanti e talvolta inquietanti. Mentre alla fine degli anni Novanta Arlie Hochschild rilevava una tendenza al rovesciamento emotivo nella nostra devozione alla famiglia e al lavoro, di modo che molti trovavano il lavoro sempre più simile alla famiglia e la famiglia al lavoro (1997), più recentemente Melissa Gregg nel suo libro Work’s Intimacy (2011) scrive della relazione sempre più intima che molti lavoratori intrattengono con il lavoro e delle narrazioni romantiche impiegate per caratterizzare il loro amore per esso e la loro felicità.

Mi concentrerò su quest’ultima tendenza, dato che oggi il discorso del management sembra ossessionato dall’amore e dalla felicità. Il management popolare e i consulenti professionali ci dicono che l’amore e la felicità al lavoro sono un bene sia per i datori di lavoro che per i dipendenti, e che l’unica cosa di cui il dipendente ha bisogno per realizzare questo ricablaggio affettivo e questo disciplinamento emotivo — e i dipendenti, ci viene incessantemente ripetuto, sono gli unici a poterlo fare — è l’«entusiasmo ingenuo» (Kjerulf 2014, 172). Fate ciò che amate, predicano; imparate ad amare il vostro lavoro in dieci, semplici, passi. Re-innamoratevi del vostro lavoro. Imparate ad amare persino il lavoro che detestate. Il futuro del lavoro è felice. Una citazione spesso menzionata di una delle figure di spicco di questa tendenza, Steve Jobs, distilla molti dei temi chiave di questa letteratura:

Il vostro lavoro riempirà una parte consistente della vostra vita, e l’unico modo per essere veramente soddisfatti è fare un lavoro che considerate fantastico. E l’unico modo per fare un lavoro fantastico è amare ciò che fate. Se non l’avete ancora trovato, continuate a cercare. Non accontentatevi. Come per tutte le questioni di cuore, non potete sapere quando lo troverete. E, come tutte le grandi relazioni, migliora con il passare degli anni. Perciò continuate a cercare finché non lo trovate. Non accontentatevi (2005).

shulamith 2Come osserva Miya Tokumitsu, «felicità, amore, passione e auto-realizzazione oggi sono virtù professionali» (2015, 11). Mentre una versione precedente di ciò che Phyllis Moen e Patricia Roehling chiamano la «mistica della carriera» — che idealizzava l’emblematico contratto d’impiego fordista — dipendeva dal supporto materiale nascosto e dalla maschera ideologica della «mistica femminile» della domesticità così efficacemente esposta da Betty Friedan (Moen, Roehling 2004), una nuova mistica della carriera, una versione che esalta il coinvolgimento emotivo e lo zelo imprenditoriale del lavoratore post-fordista ideale, si sta appoggiando su un’altra mistica femminile familiare, che celebra i rapimenti dell’amore romantico come l’essenza della realizzazione femminile. Il vecchio cliché secondo cui «le donne vivono per l’amore e gli uomini per il lavoro» contro cui Shulamith Firestone ha combattuto nel suo capolavoro, The Dialectic of Sex (1970, 113), deve essere adattato a un aggiornamento relativamente imprevisto: tutti e tutte dovremmo amare il nostro lavoro. In questo modo, sotto il capitalismo etero-patriarcale, l’ideologia dell’amore romantico nata da quella delle sfere separate — un modello di amore idealizzato e femminilizzato — viene sfruttata non solo per continuare ad assegnare alle donne il lavoro domestico, ma per coinvolgere tutti i lavoratori in una relazione più intima con il lavoro salariato.

Proprio come l’etica protestante del lavoro può essere interpretata come un’ideologia propagata dalla borghesia e inculcata alle classi lavoratrici, è indubbio che l’attuale discorso dell’amore e della felicità al lavoro trovi eco soprattutto fra le classi professionali e manageriali. Ma proprio come l’etica del lavoro negli Stati Uniti di oggi circola ampiamente nella cultura — così come tra datori di lavoro, funzionari pubblici e responsabili politici — come valore indiscusso, il mandato di amare il nostro lavoro ed esserne felici sta diventando senz’altro sempre più egemonico come copione culturale e ideale normativo. L’improbabilità delle sue asserzioni circa il modo in cui i lavoratori possono trovare una gratificazione significativa nel loro lavoro, la sua apparente irrilevanza di fronte alle condizioni reali di gran parte dell’impiego, non ha impedito agli ideali di amore e felicità al lavoro di arrivare a fissare uno standard culturale generale che influisce su una fascia crescente di lavoratori. Per essere competitivi in questo mercato del lavoro e tenerci stretto (per non dire avanzare di carriera) qualsiasi lavoro possa capitarci, avremo bisogno di adattarci, in qualche misura, alle regole e alle aspettative affettive del posto di lavoro che si stanno progressivamente imponendo in cima e in fondo alla gerarchia del lavoro. Se ciò significa che un dipendente dovrà utilizzare gli effetti trasformativi di una recitazione profonda per soddisfare l’aspettativa del datore di lavoro rispetto ai lavoratori felici, oppure limitarsi a esibire il contegno giusto attraverso una recitazione superficiale, dipende dalla collocazione del dipendente nella forza lavoro salariata. [1] Ma dato il rovesciamento del rapporto di forza tra lavoro e capitale nel contesto della ristrutturazione neoliberale, che concede ai datori di lavoro il lusso di “relazioni occasionali”, un numero crescente di aspiranti lavoratori attenti alla propria occupabilità sarà indotto a elaborare in permanenza la propria amabilità e l’attitudine a essere felice del proprio lavoro.

Per analizzare questa nuova frontiera nella trasformazione del lavoro e i suoi puntelli ideologici, vorrei affrontare l’economia contemporanea da un’altra prospettiva. Invece di basarmi su un modello messo a punto per la prima volta dalle femministe degli anni Settanta e utilizzare lo schema del lavoro salariato per investigare la divisione sessuale del lavoro nell’ambito della famiglia, nell’analisi che segue prenderò a prestito le analisi femministe della cosiddetta sfera privata per comprendere meglio il nostro attaccamento al lavoro e alle identità che inventiamo e investiamo in esso. A questo scopo, isolerò un punto estremamente specifico dall’ampio ventaglio di indagini intorno a quello che è stato definito il “personale”. Desidero attingere alla critica femminista della narrazione dell’amore eterosessuale e del romanticismo plasmata sulla falsariga del “vissero-felici-e-contenti” per indagare i discorsi del management sull’amore e sulla felicità al lavoro. Questo discorso romantico sul lavoro salariato non serve, come nel caso del discorso più ampio sulla domesticità, a mascherare il lavoro domestico da lavoro d’amore; dopo tutto, il lavoro salariato è oggi considerato l’epitome di ciò che è riconosciuto come lavoro. Al contrario, la letteratura popolare sull’amore e la felicità al lavoro prescrive un certo orientamento soggettivo al lavoro salariato. Amore e felicità sono indicizzati sulla loro collocazione tradizionale nella coppia romantica e nella famiglia nucleare etero-patriarcale e, al tempo stesso, dissociati da essa, in modo da poter essere riallineati al lavoro salariato. La letteratura pone amore e felicità come parole-chiave che i datori di lavoro possono evocare per ottenere un surplus delle forze produttive che ancora sonnecchiano, per parafrasare le parole di Marx e di Engels, nel petto del lavoro sociale (cit. in Cowling 1998, 18). I tropi culturali familiari dell’amore e della felicità vengono mobilitati sia per attingere a quella che viene immaginata come una vasta riserva di volontà e di energia, sia come leva su cui i datori di lavoro possono fare forza per trasformare quell’energia in attività produttiva.

Nonostante l’innegabile impatto storico di quelle intuizioni faticosamente conquistate, come nota Stevi Jackson, le critiche femministe dell’amore e del romanticismo formulate negli anni Settanta sono state relativamente trascurate nella ricerca femminista più recente (2001, 254). Prima che io prosegua a difendere la perdurante rilevanza di questi argomenti, diretti in questo caso al terreno del lavoro salariato, vale la pena ricordare quanto sia stato difficile questo genere di analisi critica nel primo caso. Nel 1792 Mary Wollstonecraft sfidò coraggiosamente l’ideologia dell’amore eterosessuale romantico come ragion d’essere di una donna, pur sapendo che avrebbe potuto essere accusata di «alto tradimento contro i buoni sentimenti» (1992, 110). Quando pubblicò la sua polemica Against Love, nel 2003, Laura Kipnis ebbe a osservare che dire no all’amore era percepito non tanto come un tradimento, ma come una tragedia (2003, 26). Allo stesso modo, sospetto che prendere oggi una posizione aperta contro l’amore equivalga a passare per una patetica perdente, più che per un’eroica ribelle. «Il panico avvertito di fronte a ogni minaccia all’amore», osserva acutamente Firestone, «è un buon indizio del suo significato politico» (1970, 113). Il panico, la vergogna, il senso di marginalizzazione o di esclusione che oggi la prospettiva di non riuscire ad amare il proprio lavoro o esserne felici può generare è, al tempo stesso, una testimonianza dell’autorità culturale dell’amore romantico e una conseguenza della naturalizzazione di questo nuovo ethos del lavoro, di modo che ogni fallimento nell’adeguarvisi è attribuito a un difetto individuale. Il bastian contrario che rifiuta di coltivare i sentimenti appropriati in relazione al lavoro probabilmente sarà visto non già come un guastafeste, ma come un semplice infelice. Che triste sarebbe non poter godere di questi buoni sentimenti – siamo incoraggiati a pensare – che desolazione non partecipare a una relazione così significativa! Inoltre, in una società in cui la maggior parte delle persone si descrive come appartenente al ceto medio, l’incapacità di amare il proprio lavoro ed esserne felici rischia di marcare un soggetto come un intruso, come qualcuno che non ha diritto ai più ampi benefici culturali dovuti all’appartenenza a questo immaginario status di classe. Se, indipendentemente dal suo oggetto, l’amore è notoriamente un bersaglio difficile per la critica, l’amore al lavoro dimostra di essere un bersaglio particolarmente sfuggente, in quanto avvolge un valore già consolidato nel mantello di un’altra struttura di credenza indiscussa — vale a dire, la celebrazione del lavoro come bisogno essenziale, dovere morale e fine in sé tipica dell’etica del lavoro. Il discorso dell’amore e della felicità al lavoro, perciò, è doppiamente immunizzato dalla critica.

L’ideologia come propaganda aziendale

 love 4Il primo passo di qualsiasi progetto critico consiste nel rendere strano ciò che è familiare. Che cos’è questo amore romantico di cui si suppone che le donne facciano esperienza, si chiedeva Ti-Grace Atkinson con coltivata ingenuità: uno stato isterico? Una condizione di demenza? Un delirio? (1974, 45). Un minimo di distanza critica dal senso comune sull’amore è necessario per ottenere la padronanza analitica del fenomeno. La domanda sull’essenza dell’amore, in ogni caso, era meno pressante di quelle relative a come funziona e che cosa fa: come attiva soggetti sessuati e quali scopi, o interessi, serve? Precisamente «come», si chiede Firestone, «opera il fenomeno dell’amore?» (1970, 114). Sperare di innamorarsi e vivere per sempre felici è il precetto di un’ideologia; ciò che si doveva determinare era come funzionasse e a quali scopi. Ci sono almeno quattro modi in cui le femministe hanno inteso l’amore romantico e la felicità in quanto fenomeno ideologico: come propaganda, come mistificazione, come spoliticizzazione e come soggettivazione. Come vedremo, ciascuno di questi approcci ha qualcosa da offrire all’analisi critica dei discorsi dell’amore e della felicità al lavoro.

Nella sua formulazione più facilmente criticabile, l’ideologia dell’amore e della felicità era dipinta come qualcosa di riferibile all’ordine della propaganda. Presupponendo una connessione causale più o meno diretta tra le idee della classe dominante e le idee dominanti di un’epoca, la classe dominante veniva rappresentata come un gruppo coerente che tentava attivamente, e con un qualche grado di intenzionalità, di spacciare i propri interessi per il bene comune. La descrizione di Firestone del romanticismo come di uno «strumento del potere maschile» (1970, 131) evoca questo modello abbastanza meccanico di potere strumentale, che ricorre abbastanza spesso nelle teorie femministe degli anni Settanta. Benché ovviamente non sia questa la versione più solida dell’analisi, e certamente non sia quella più rappresentativa della ricchezza che i femminismi degli anni Settanta hanno da offrire, anche questa versione piuttosto rozza di critica dell’ideologia ha una qualche pertinenza per il mio progetto. Perché, a un certo livello, il mandato di amare il proprio lavoro ed esserne felici ha una logica molto semplice e diretta: l’ingiunzione a lavorare di più. Amore e felicità, spiegano questi guru del management, sono serbatoi infiniti di energia, concentrazione e motivazione. Come ci innamoriamo del nostro lavoro? Come diventiamo felici di averlo? Qui c’è una risposta tipica: accumula nuove responsabilità, fatti coinvolgere di più, apprendi nuove competenze, aggiungi qualifiche, aggiorna la tua strategia (Hannon 2015, 22, 152-153). La felicità al lavoro, «una forma mentis che vi permette di massimizzare la performance e realizzare il vostro potenziale» è, come viene spesso ripetuto, «fortemente correlata alla produttività» (Pryce-Jones 2010, 4, 10). In altre parole, i datori di lavoro possono star certi che «la felicità giova agli affari» (Kjerulf 2014, 117). In questa forma, il consiglio si adatta al modello della mera propaganda: idee diffuse coscientemente con l’obiettivo di indurre la risposta opportuna. Un primo vaglio della letteratura documenta una quantità abbondante di questi sforzi maldestri di indottrinamento.

Gli arcani dell’amore e della felicità

Spostandosi verso modi più significativi in cui le femministe hanno trattato l’ideologia dell’amore romantico e della felicità, si nota come la sua funzione mistificante sia stata un punto cruciale di analisi. Almeno due realtà materiali vengono oscurate, secondo queste critiche. In primo luogo e, fatto più importante, le ideologie del romanticismo eterosessuale mascherano le operazioni della disuguaglianza patriarcale. «Il femminismo radicale», secondo un gruppo degli anni Settanta, «ritiene che la versione comunemente divulgata dell’amore sia stata (…) usata politicamente per occultare e giustificare una relazione oppressiva tra uomini e donne» (New York Radical Feminists 1973, 381). Questa intuizione può essere utilmente recuperata per essere applicata al presente studio, in quanto i discorsi dell’amore e della felicità al lavoro esercitano con grande efficacia la funzione di nascondere le gerarchie di classe sottese all’apparente equivalenza delle parti nel contratto di lavoro e le relazioni di potere che governano la routine lavorativa quotidiana. In effetti, il linguaggio dell’amore romantico promette una fusione di interessi eccezionalmente stretta tra le due parti. Questo vincolo può quindi garantire una stretta obbedienza da parte dei subordinati identificati con il management che, come parte della loro remunerazione, possono beneficiare di una versione di quel «delizioso “noi”» di leggibile appartenenza che Simone De Beauvoir — una prediletta delle femministe radicali degli anni Settanta — ha individuato in modo così brillante nella figura della donna innamorata (2012, 678). In effetti, la letteratura sull’amore e la felicità al lavoro è notevole per la sua insistenza sull’identità di interessi che verrà generata, sul fatto che sia il datore di lavoro che i dipendenti beneficeranno equamente delle sue ricette di riforma emotiva e disciplina affettiva. In quello che è probabilmente un tentativo di tener fede alla promessa del vantaggio reciproco, il beneficio in termini di salute dell’amore e della felicità — un beneficio che sembra offerto al lettore come un valore inconfutabilmente neutrale — viene tipicamente enfatizzato accanto ai guadagni in produttività, come per mettere al sicuro l’argomento nel caso in cui qualcuno possa rendersi conto di come i celebrati guadagni in produttività vadano più a vantaggio del bilancio dell’organizzazione che delle sue risorse umane [2].

Oltre ad assolvere la classica funzione ideologica di mistificare le relazioni di ineguaglianza, i discorsi dell’amore e della felicità hanno attirato l’attenzione critica delle femministe a causa del modo in cui mascherano le motivazioni e le utilità economiche. L’amore romantico nel suo ruolo più tradizionale di origine della famiglia è stato inteso come l’antitesi perfetta della sfera pubblica, caratterizzata dall’interesse economico e dalla competizione. Questa narrazione romantica per molto tempo è servita a presentare il matrimonio come una relazione non-economica e a codificare il lavoro domestico gratuito come non-lavoro, un lavoro d’amore che contribuisce a conservare l’integrità della casa come ideale compensativo e rifugio in un mondo senza cuore (Firestone 1970, 131, 201). La casalinga senza salario ma felice che Friedan cercò di presentare come una figura di fantasia è, come nota Sara Ahmed, una rappresentazione che «cancella i segni del lavoro sotto il segno della felicità» (2010a, 573). Il modo in cui l’ideologia dell’amore romantico funziona da meccanismo dissimulato di estorsione di lavoro è riassunto alla perfezione in uno slogan femminista radicale degli anni Settanta: «comincia quando anneghi tra le sue braccia e finisce con le tue braccia nel suo lavandino» (citato in Jackson 2001, 255). In questo modo il romanticismo opera, secondo la descrizione di Firestone, come uno strumento culturale per rafforzare la divisione del lavoro che è fondamentale per il sistema delle classi di sesso (1970, 131).

In quanto vero e proprio paradigma di ciò che viene riconosciuto come lavoro, l’occupazione remunerata non viene magicamente trasformata in non-lavoro dal nostro amore per essa. In ogni caso, questo non significa che i programmi per l’amore e la felicità al lavoro non possano anche servire a ridimensionare la logica strettamente economica del lavoro salariato come attività generatrice di reddito. Scompigliare la logica puramente strumentale dello scambio economico tra lavoro e reddito è stata una conseguenza decisiva dell’ideologia del lavoro capitalista da quando l’etica protestante del lavoro ha affermato che il duro lavoro era un segno del proprio status tra i cristiani eletti. L’effetto di queste nuove forme di managerialismo, e probabilmente anche il loro intento, è quello di de-strumentalizzare ulteriormente la nostra relazione al lavoro salariato come mezzo per generare reddito, per ricodificare la necessità economica come libertà personale. La letteratura contemporanea sottolinea che il denaro non è l’origine, né la misura dell’amore e della felicità al lavoro. Rivolgendosi contemporaneamente ai manager e ai lavoratori identificati con il management (e si danno parecchio da fare per accogliere il numero più alto possible di noi nella seconda categoria), gli autori di questa letteratura tendono a mettere in primo piano l’importanza di motivazioni e riconoscimenti extra-economici. «Un tempo il lavoro era qualcosa che si faceva soltanto per guadagnarsi da vivere», afferma un autore. «Sempre di più, lo scopo del lavoro è essere felici» (Kjerulf 2014, 115). La buona notizia per i datori di lavoro è che il denaro non è necessariamente un fattore significativo nelle motivazioni dei lavoratori a lavorare sodo e a lungo (Pryce-Jones 2010, 71). Salari più alti non renderanno un lavoratore più felice; il denaro non può comprare l’amore. L’adesione a ciò che, al confronto, appare come un calcolo economico mercenario, a una meschina mentalità do ut des, non ha, o non dovrebbe avere, alcuna presa sull’amore autentico e sulla vera felicità. L’amore non esige ricompensa (Anderson 2004, 19); è una risorsa individuale illimitata. In effetti, secondo alcuni di questi resoconti, la strumentalità del lavoro salariato dovrebbe essere rovesciata; invece di lavorare per sostenere una vita, questi libri di consigli spesso insegnano al lettore in che modo rendere la vita più funzionale al lavoro. Un autore raccomanda persino ad aspiranti lavoratori felici e innamorati del loro lavoro di gestire il denaro con più accortezza, affinché le preoccupazioni finanziarie non li distraggano o impediscano loro di godere del lavoro (Hannon 2015, 64–67).

In questi libri di solito arriva il momento imbarazzante in cui l’autore prova ad affrontare, sia pur in maniera indiretta, le specifiche qualità del lavoro che il lettore è supposto amare e considerare fonte di felicità. Benché sia abbastanza evidente che questa letteratura è rivolta anzitutto agli strati superiori della forza-lavoro, gli autori in genere tentano di gettare una rete più larga, trattando le esperienze che raccontano e i consigli che offrono come generalmente validi per tutti i lavoratori. Ora, verrebbe spontaneo ipotizzare che la natura stessa del lavoro — il livello salariale, i piaceri e i dolori dei suoi ritmi quotidiani e, specialmente, il valore sociale della produzione — abbia un peso enorme per stabilire se il lavoro è amabile e se i lavoratori sono felici di svolgerlo. Ma gli autori, per lo più, prestano un’attenzione soltanto cursoria a simili questioni e offrono una guida piuttosto debole. Per esempio, un autore si ferma nel bel mezzo dell’analisi per chiedersi che cosa fare quando il lavoro viola il codice etico del dipendente. A parte raccomandare di coltivare l’autoconsapevolezza e la cura di sé di fronte alla sofferenza, l’autore raccomanda ai dipendenti coinvolti di ricalibrare il loro atteggiamento, di cercare senso in un lavoro ben fatto e nella possibilità di realizzare qualcosa di valido, fosse pure qualche piccolo atto di gentilezza nel corso della giornata (Salzberg 2014, 181–83, 206–7). Dovremmo alimentare la sensazione di stare facendo qualcosa di buono nel mondo, perché rappresentarsi come positivo l’impatto del proprio lavoro sul mondo ci aiuterà a massimizzare la nostra fiducia nel lavoro (Pryce-Jones 2010, 81, 83). Bisogna dire no all’alienazione: «Dovete smettere di dire che la vostra azienda non ha uno scopo o che il vostro lavoro è senza senso». Siamo arbitri del valore sociale del nostro lavoro: «lo scopo è una scelta» (Hannon 2015, 50).

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Individualizzazione e spoliticizzazione

Oltre a mascherare l’ineguaglianza e a oscurare le strumentalità economiche dell’amore e del lavoro, le ideologie dell’amore e della felicità spoliticizzano il lavoro e la felicità individualizzandone l’esperienza. Certamente, il linguaggio dell’amore si trova in grande sintonia con la figura dell’individuo. L’amore è privato e personale, non pubblico e politico; il sentimento amoroso è interpretato, a livello popolare, come singolare e autentico in un modo che sembrerebbe renderlo irrilevante per ambiti di esperienza più ampiamente condivisi. Esso, inoltre, è soggetto alla manipolazione manageriale. Firestone spiega come la concezione romantica della coppia eterosessuale privatizzi o individualizzi le donne in modo da «renderle cieche alla loro generalità come classe» (1970, 133). Analogamente, Atkinson considera la ritirata delle donne all’interno della coppia eterosessuale — nella sua formulazione, disarmarsi per scendere nel campo nemico — come un fallimento della solidarietà tra donne (1974, 45).

Le ideologie dell’amore e della felicità al lavoro servono anche a spoliticizzare la relazione professionale, ostacolando la formazione di collettività e compromettendo le relazioni di solidarietà. Un aspetto degno di nota dei vari sforzi di insegnarci ad amare il nostro lavoro e a esserne felici è costituito dalla raccomandazione di separarsi da altre relazioni sociali. Basta con quell’«eccessivo socializzare», consiglia un autore; evitate di perdere tempo con «persone che assorbono la vostra energia» e imparate invece ad alzare argini più solidi contro simili «distrazioni» (Anderson 2004, xvii, xiv). La solidarietà viene perciò ricodificata — e, non incidentalmente, femminilizzata — come una forma di co-dipendenza patologica. Ciò che mi interessa qui è la profonda individualizzazione che viene prescritta, dato che i lavoratori sono invitati a comprimere i loro orizzonti di impegno e di giudizio, riducendoli alla riproduzione efficiente della propria occupabilità.

Ma questa letteratura, in realtà, punta a qualcosa di più complesso almeno sotto due riguardi. Il lavoratore ideale di questo discorso è, al tempo stesso, individualizzato e in rete: il lavoratore felice o, piuttosto, il lavoratore che si attiva per diventare capace di conseguire benessere e successo al lavoro, come la letteratura spesso rileva, è una forza contagiosa. In linea di massima, questi autori conoscono le ricerche sugli affetti — e in particolare quell’aspetto degli studi sull’affetto che articola il modo in cui gli affetti circolano e si accumulano nella diffusione di energie produttive. L’«effetto domino» (Pryce-Jones 2010, 49) generato da lavoratori felici è una delle «conseguenze transpersonali» positive delle emozioni umane (Salzberg 2014, 163), un modo per «contagiare le persone che vi circondano con la vostra energia e felicità» (Kjerulf 2014, 139). In un mercato del lavoro precario, che esige la cura permanente della nostra occupabilità, anche quando siamo occupati — spesso in maniera temporanea e provvisoria — la conservazione delle reti sociali è decisiva. Da un lato, ci viene prescritto di assumere la piena responsabilità della nostra situazione individuale; dall’altro lato, quando, come ci dice il guru del management Tom Peters, «tutto dipende dalle dimensioni della vostra rubrica di contatti» (cit. in Hirsch 2004, 15), le reti sociali rimangono essenziali. Forse, allora, è più corretto affermare che il discorso dell’amore e della felicità al lavoro incoraggia la cooperazione (produttiva), mentre scoraggia la solidarietà (resistente).

Chiaramente, in questa concezione profondamente individualizzata dell’amore riecheggia in maniera potente l’ideale neoliberale del soggetto imprenditoriale. La letteratura sull’amore e la felicità al lavoro è unanime almeno su una cosa: «la responsabilità ultima della vostra felicità al lavoro può risiedere soltanto in voi stessi» (Kjerulf 2014, 131). Imparate a creare serbatoi profondi di resilienza e smettetela di comportarvi da vittime, consiglia un autore (Hannon 2015, 55, 47), perché, come spiega un altro, «siete responsabili dei vostri livelli di felicità» (Pryce-Jones 2010, ix). Ahmed descrive bene il modo in cui questa enfasi sulla responsabilità personale per la propria felicità si traduce in irresponsabilità solipsistica: la «libertà di evitare ogni prossimità a qualsiasi cosa comprometta la propria felicità» (2010a, 590). Disfatevi della «mentalità da dipendenti» (Anderson 2004, 155) raccomandano questi autori; «plasmate un’attitudine più imprenditoriale verso il vostro lavoro» (Hannon 2015, 7). Ricordate, sottolinea un altro autore, che «il tesoro che state cercando è dentro voi stessi, non nel “mercato del lavoro”» (Anderson 2004, xvii) [3]. Il soggetto imprenditoriale di cui parlano questi autori, come nota Imre Szeman, è il «soggetto neoliberale per eccellenza» (2015, 474), un modello ben adattato alla precarietà crescente, inerente alle forme contemporanee di accumulazione del capitale. Emozioni positive come l’amore e la felicità sono risorse a cui gli agenti indipendenti possono attingere per ampliare i loro interessi individuali: i mezzi, per usare le parole con cui Sam Binkley chiarisce un messaggio centrale di questa letteratura, attraverso cui gli individui possono liberarsi in quanto attori vitali, sovrani, indipendenti (2014, 1, 36) che avranno le maggiori opportunità di sopravvivere e prosperare nell’economia attuale.

Ideologia come soggettivazione

 Oltre al modello della propaganda e alle varie mistificazioni ed effetti spoliticizzanti di questa letteratura normativa, l’ideologia dell’amore e della felicità al lavoro può essere analizzata, lungo linee più althusseriane, più come un progetto ontologicamente orientato di costruzione del soggetto che come un fenomeno epistemologico che riguarda le idee. Per dischiudere questa linea di indagine, si consideri anzitutto la differenza tra la felicità al lavoro e il vecchio discorso della gratificazione professionale. Mentre la gratificazione per il proprio lavoro è descritta come legata alle circostanze particolari e controllata dall’alto, la fonte della felicità è situata all’interno del singolo lavoratore (Pryce-Jones 2010, 9-10). Questa distinzione tra gratificazione e felicità può essere utilmente commisurata alla differenza tra produzione di consenso e produzione di desiderio. Come programma per coltivare un desiderio intimo di lavoro, l’amore e la felicità al lavoro si possono forse comprendere al meglio come progetto biopolitico anziché come progetto tradizionalmente ideologico, per lo meno nel senso che al centro c’è più una trasformazione dell’affetto e delle energie — dell’organismo — che una semplice ristrutturazione delle idee, della coscienza o degli atteggiamenti.

Ancora una volta, le analisi femministe dell’amore possono fornirci una leva critica per intervenire su questo progetto di riprogrammazione soggettiva. Dopo tutto, il tradizionale modello etero-patriarcale di femminilità pone l’amore non come una parte della vita delle donne, ma come la sua stessa essenza. Nel quadro di una formulazione che il discorso sul dovere di amare il proprio lavoro potrebbe costringerci a complicare, de Beauvoir richiama la presunta differenza tra l’amore come «una semplice occupazione» nella vita dell’uomo e come la «vita stessa» per la donna (2012, 683). Una vita senza amore e felicità sembrerebbe non essere affatto una vita per le donne descritte da Firestone, le quali, a suo giudizio, chiedono amore per convalidare la loro stessa esistenza di donne (1970, 124). Il bisogno di amore romantico è perciò immaginato come radicato in modo tanto profondo nelle strutture della soggettività femminile da indurre le donne a desiderare soltanto di essere confinate nelle istituzioni, matrimonio e famiglia, che lo garantiranno. Come de Beauvoir descrive la donna in cerca di amore e matrimonio, «ella sceglie di volere la propria schiavitù così ardentemente che le sembrerà essere un’espressione della sua libertà» (2012, 684). Dopo tutto, «le forme più eleganti di controllo sociale», ci ricorda Kipnis nella sua polemica Against Love, «sono quelle che si presentano nella veste di bisogni e gratificazioni individuali, così radicate nella psiche individuale che ogni impulso contrario si traduce in ansia di inamabilità» (2003, 94).

Analogamente, chi non vorrebbe raggiungere più amore e felicità nella propria vita lavorativa, in particolare quando non c’è altra scelta oltre a lavorare per un salario? Coltivare un amore per il lavoro paragonabile allo stereotipo dell’attaccamento femminile all’amore romantico può essere un’impresa ambiziosa, ma è anche soltanto una fra le possibili strategie all’interno di una lunga serie di programmi di adattamento tra struttura, soggetto e infrastruttura nella storia del capitalismo. Anche in questo caso, l’obiettivo dichiarato è aiutare gli individui a esprimere la propria libertà, creando al tempo stesso, come Tokumitsu afferma per spiegare le funzioni disciplinari dell’evangelismo del «fate ciò che amate», «una forza lavoro che abbraccia il proprio sfruttamento» (2015, 8).

Ma c’è qualcosa di più nel modo particolare di soggettivazione attraverso la gestione dell’affetto e dell’emozione a cui letteratura mira. In effetti, il lavoratore è condotto a coltivare una complicata mescolanza di attaccamento e distanziamento: amare il lavoro e soltanto il lavoro, ma invece di investire in una particolare relazione professionale, rimanere aperti a una vita di lavoro sul modello della monogamia seriale. Questo è chiaramente un consiglio su come sopravvivere alla precarietà; l’obiettivo non è amare il capo, l’azienda e nemmeno il singolo impiego, quanto piuttosto raggiungere uno stato di flessibilità emotiva e disponibilità affettiva. Rischia e smettila di appoggiarti a una rete di sicurezza, esorta un autore; dopo tutto, «troppa sicurezza equivale alla morte per il tuo spirito creativo» (Anderson 2004, 9). Non dovremmo scambiare la relazione professionale con una relazione di cura; piuttosto dovremmo attenderci (ed esserne grati) un lavoro troppo temporaneo e contingente per permettere quel livello di investimento sulla nostra persona. La letteratura di auto-aiuto sul posto di lavoro sembra incaricarsi di insegnarci ad amare l’essere innamorati, e felici della nostra capacità di essere felici. La letteratura descrive l’amore o la felicità non come un evento affettivo legato a un oggetto particolare, ma come una fonte interna a un soggetto che, idealmente, non necessita di nessun referente esterno. L’amore è separato dalla coppia romantica, ma non viene accoppiato a una scelta d’oggetto differente. L’amore e la felicità, piuttosto, sono già da sempre differiti. Nel «desiderare la felicità», osserva Ahmed, desideriamo «associarci alle sue associazioni» (2010b, 2). Binkley descrive il modo in cui la felicità, in questa letteratura, diventa una cosa sola con la capacità di agire alla ricerca della felicità (2014, 33). Amore e felicità, svincolati dallo spazio e dal tempo, sono risorse illimitate (2). L’ideale da avvicinare qui è qualcosa dell’ordine di ciò che un autore definisce un «ninja emotivo», che può usare questi sentimenti a proprio vantaggio in qualsiasi situazione (Baréz-Brown 2014, 173). Il lettore è semplicemente rinviato a se stesso, indotto a concepire il lavoro come un atto di amore di sé, e la nostra capacità di essere felici come una fonte di felicità. Così ci viene consigliato di investire affettivamente ed emotivamente nella nostra identità di individui produttivi [4]. Alla fine non si tratta neanche tanto di amare il lavoro, si direbbe, quanto di modellarsi come qualcuno che è capace di amare il proprio lavoro, o che almeno possiede l’aura contagiosa di qualcuno che ne è capace.

Cadere o saltare?

Le teoriche femministe degli anni Settanta possono indicarci anche una maniera per analizzare il paragone tracciato da Steve Jobs tra cercare un lavoro e cercare l’amore: «come in tutte le questioni di cuore», sostiene, «non potete sapere quando lo troverete» (2005). Salta a occhi chiusi. Questa idea dell’innamoramento ha risvegliato un interesse non piccolo fra le femministe degli anni Settanta. La sospensione del giudizio implicata nell’innamoramento rappresenta un’eccezione interessante all’enfasi abituale sul dominio della ragione, dell’interesse egoistico e della volontà sovrana: al contrario, una mescolanza di imprudenza e passività viene individuata come chiave per sbloccare l’attività produttiva. Teoriche come Firestone facevano facilmente a meno di questa versione dell’amore fiabesca e traboccante di sentimentalismo. Questo genere di romanticismo, ovvero l’idealizzazione di una collocazione di classe e di razza già di per sé privilegiata, in cui l’amore e il lavoro potevano essere immaginati agli antipodi l’uno dall’altro in modo da preservare l’amore dalla contaminazione del calcolo economico, era un bersaglio polemico decisivo per le femministe. Lacerando il velo di questa idealizzazione romantica, Firestone identificava «simili sofismi sull’amore» come un altro modo per rafforzare la divisione sessuale del lavoro: «uno strumento culturale per rafforzare la classe di sesso» (1970, 119, 132). Inoltre questi sofismi, patologizzando altre pratiche di intimità, hanno funzionato come puntello ideologico a favore del sistema della supremazia bianca e dell’eterosessualità obbligatoria, linee di analisi che Firestone — focalizzandosi sull’asse di ciò che definisce classe di sesso — non approfondisce.

Forse proprio perché la sua categoria centrale, quella di classe di sesso, evoca il genere come una realtà paragonabile a quella della classe, Firestone fornisce alcuni strumenti che possono adattarsi a un’analisi attenta alle gerarchie economiche. Significativamente, Firestone afferma anche che «il romanticismo si sviluppa in proporzione alla liberazione delle donne dalla loro biologia» (1970, 131). Mentre la pressione economica e rigide norme di genere un tempo erano sufficienti a imporre il regime sessuato del lavoro (ri)produttivo, nel momento in cui «le basi biologiche della classe di sesso si sbriciolano, la supremazia maschile deve puntellarsi con istituzioni artificiali, o con un potenziamento di istituzioni precedenti» (1970, 131). Sicché, come scrive Firestone con il suo inimitabile sarcasmo, «sembra che dovremo darle una mano. Ragazzi!», aggiungendo una dose extra di mistificazione ideologica (1970, 131).

Prendendo a prestito questa intuizione per i nostri scopi, è utile sottolineare il fatto che meno una persona è costretta a lavorare per un salario in ragione della disponibilità di altri mezzi di sopravvivenza economica, e maggiore è la mobilità di cui un lavoratore dispone per accedere a un lavoro diverso o migliore, ovvero, meno un lavoratore è soggetto alle condizioni che la maggioranza dei lavoratori incontra, più è probabile che la relazione del lavoratore al lavoro venga romanticizzata. Ancora una volta è importante riconoscere che il progetto di soggettivazione che opera dietro alla prescrizione di amare il proprio lavoro e trovarvi la felicità è rivolto in primo luogo ai lavoratori meno pressati dall’urgenza economica immediata o a quelli che, per effetto di un alto livello di capitale occupazionale, sono meno vulnerabili a forme dirette di coercizione manageriale, nonostante gli sforzi degli autori, e le tendenze dei dipendenti, puntino a gettare una rete a maglie larghe.

Secondo Firestone, in ogni caso, le donne si trovano in una posizione troppo precaria per lasciare l’amore all’aleatorietà del caso. Se l’amore è una componente importante del modo in cui le donne «convalidano la propria esistenza» e si sostentano economicamente, «le donne non possono permettersi il lusso dell’amore spontaneo» (Firestone 1970, 124, 125). Gli uomini potrebbero essere nella posizione di chi può permettersi di indulgere alla fantasia romantica dell’innamoramento, suggerisce Firestone, ma per le donne la posta in gioco spesso è troppo alta per lasciarla al fato o alla fortuna. Mentre Steve Jobs fa riferimento all’idea dell’innamoramento e Sheryl Sandberg, un’altra voce famosa nel genere letterario dei consigli professionali, utilizza il linguaggio solo leggermente più elaborato del “farsi avanti”, gran parte della letteratura sull’amore e la felicità al lavoro prescrive qualcosa che si avvicina di più all’esercizio attivo del salto. L’amore per il lavoro non è una questione di follia romantica, ci assicura un autore, «è molto più terra-terra e laborioso» (Anderson 2004, 11). «Innamorarsi del proprio lavoro richiede fatica», avverte un altro autore; «le buone relazioni», come anche i migliori matrimoni, «comportano lavoro» (Hannon 2015, 32). Invece del mantra popolare «Fate ciò che amate» che giustamente Tokumitsu critica per via del suo narcisismo classista e per il modo in cui allontana dalla vista e dalla mente il lavoro meno amabile (2015, 7), questa versione dell’«Amate ciò che fate» ambisce a un pertinenza che va al di là dei settori più privilegiati del mercato occupazionale. Potreste non essere abbastanza fortunati da fare ciò che amate, ma potete «mandar giù il boccone» e imparare ad amare ciò che fate e trarne felicità (Hannon 2015, 161). Sotto questo profilo, il punto è meno trovare «quello giusto», il lavoro dei sogni che secondo Steve Jobs dovremmo attendere, che adattarsi ad amare il lavoro che si ha. Nel caso in cui tutto questo laborioso sforzo rivolto all’operosità amorosa suoni scoraggiante, la buona notizia, secondo tale sobrio approccio «nel bene e nel male» all’amore per il lavoro, è che il lavoro di imparare ad amare il proprio lavoro è in se stesso energizzante e abilitante (Hannon 2015, 33, 41). Il duro lavoro conduce alla felicità tanto quanto la felicità conduce al duro lavoro (Pryce-Jones 2010, 31).

Una sbirciata dietro le quinte

Il processo di soggettivazione proposto in questi discorsi è a dir poco ambizioso. Si consideri, ancora una volta, l’esortazione di Steve Jobs: «Il vostro lavoro riempirà una parte consistente della vostra vita, e l’unico modo per essere veramente soddisfatti è fare un lavoro che considerate fantastico. E l’unico modo per fare un lavoro fantastico è amare ciò che fate» (2005). In altre parole, poiché il lavoro consumerà una quota tanto ampia del nostro tempo e della nostra energia, abbiamo bisogno di credere che si tratti di un buon lavoro, e per credere che si tratti di un buon lavoro, abbiamo bisogno di amarlo. Se non possiamo sfuggire, è meglio integrarci. L’ideale abbraccia il lavoro salariato come inevitabile e, al tempo stesso, invidiabile; lo considera un mondo totalizzante e fine a se stesso, oggetto di pozzi senza fondo di investimento soggettivo e identificazione, speranza e desiderio. I confini residui tra lavoro e vita dilegueranno in questa distopia di disciplina.

Naturalmente, questa visione di un lavoratore totalmente integrato senza l’intervento di iniziative manageriali esplicite, o anche esplicitamente coercitive — la realizzazione del sogno di ogni datore di lavoro — è soltanto una chimera. Ci sono almeno due grosse falle in questo programma di ristrutturazione soggettiva, due punti in cui l’ambizione del progetto urta contro i limiti dell’analisi su cui è costruito. La prima difficoltà di tutto questo discorso sull’amore e la felicità al lavoro è abbastanza ovvia: pochissimi lavori ne sono degni; gli autori ci insegnano a desiderare ciò che la maggior parte delle forme di impiego semplicemente non possono darci. Come osserva acutamente William Davies, «abbiamo un modello economico che erode precisamente gli attributi psicologici da cui dipende» (2015, 9). Nel contesto dell’economia contemporanea, la promessa dell’amore e della felicità al lavoro è un esempio di ciò che Lauren Berlant chiama ottimismo crudele, nella misura in cui l’oggetto del desiderio «ostacola lo scopo che inizialmente ha condotto ad esso» (2011, 1).

prefer not tooSe il primo ostacolo sulla via dell’amore e della felicità al lavoro è dato da forze strutturali provenienti dall’esterno, il secondo inerisce al programma, che chiamerò di “adattamento performativo”, veicolato da questa letteratura. Prevedibilmente, lo scopo di questi consigli è di aiutarci ad adattarci allo status quo. Quasi non ci sono indizi di «preferirei di no» da parte dei lavoratori le cui esperienze vengono riportate come aneddoti, per tacere di ogni dissenso attivo rispetto ai termini dell’impiego offerto. Nella sua forma più rozza, la letteratura offre ricette per l’adattamento terapeutico dei soggetti a strutture (evidentemente) impervie. Invece di rispondere con un appello a prendere questo lavoro e mandarlo al diavolo, i libri provano a insegnarci a «prendere questo lavoro e amarlo» (Hannon 2015, 162). Invece di chiedervi che cosa possa fare il capo per voi, un autore consiglia di concentrarvi su cosa potete fare voi (7). «È inutile incolpare il lavoro», dichiara un altro autore, «dobbiamo guardare a noi stessi» (Baréz-Brown 2014, 13).

La dimensione performativa di un simile progetto di adattamento è una caratteristica distintiva di gran parte di questa letteratura. Per raggiungere l’adattamento emotivo e affettivo, abbiamo soltanto bisogno di praticarlo. Sentirsi liberi, agire liberamente (Baréz-Brown 2014, 72). Possiamo riempirci di speranza, diventare ottimisti, resilienti e persino stimati (Hannon 2015, 52–54): il trucco è esercitarsi a diventare la persona che vogliamo diventare. Ma mentre molti degli autori possono anche rinunciare a concezioni essenzialiste della persona, capitalizzando invece sulla costruzione sociale delle soggettività, non necessariamente abbandonano i loro investimenti nel determinismo sociale. Quella che senza dubbio si lascia decifrare al meglio come una relazione costitutiva altamente complessa e protratta tra fare e divenire, viene tipicamente ridotta a una lista relativamente semplice di azioni utilitaristiche. Con questi mezzi, suggerisce un autore, un lavoratore può essere trasformato in un eroe produttivo, una vera «macchina d’amore» Baréz-Brown 2014, 56). In definitiva, ciò che il testo offre è un curriculum semplificato di adattamento personale in cui la performatività è ridotta a un programma conscio di auto-modellamento. Quello che aspira a essere un progetto biopolitico in cui scavare a fondo per riorganizzare e riorientare l’infrastruttura affettiva del soggetto, può essere descritto più appropriatamente come un manuale su come performare il lavoro emotivo della recitazione superficiale.

Abbasso l’Amore!

 Per pensare a come rispondere a questa corrente di romanticismo lavorista, voglio attingere alla teoria e alla pratica del rifiuto del lavoro elaborata negli anni Settanta all’interno del movimento del salario al lavoro domestico. Il rifiuto del lavoro a cui si richiamavano le femministe del salario è fondato sul rigetto di un’ideologia del lavoro come somma vocazione e centro necessario della vita sociale, al posto della quale viene promosso un processo di disidentificazione dall’etica del lavoro. Il rifiuto del lavoro può essere inteso come un processo a due facce, che richiede sia una critica anti-lavorista, sia un’immaginazione post-lavorista. Esso include, al tempo stesso, una valutazione critica dell’attuale organizzazione del lavoro e un’affermazione della possibilità di un futuro diverso.

Applicato alla letteratura sull’amore e la felicità al lavoro, un primo passo nel processo di rifiuto è dire “no” al suo programma di disciplinamento affettivo e adattamento emotivo. Pur tenendo presente che, in quanto individui, possiamo avere poche scelte oltre a quella di cercare di trarre il meglio da una situazione cattiva e di tentare, come Atkinson descrive una donna che stringe il contratto di matrimonio eterosessuale, di «ammortizzare le perdite in termini politici e di definizione di sé fondendosi con il nemico» (Atkinson 1974, 44), una coscienza tangibile delle funzioni ideologiche del discorso non è una conquista insignificante. Soprattutto, forse, è importante riconoscere come questa valorizzazione della flessibilità e della resilienza, come la celebrazione dell’autosufficienza e dell’esuberanza creativa, siano finalizzate a produrre lavoratori che sposeranno, anziché contestare, le condizioni insicure e i carichi intensificati di lavoro che sono sempre più endemici al contratto di impiego contemporaneo. Un suggerimento per una pratica di rifiuto è insistere sulla ri-strumentalizzazione del lavoro salariato: «Più sorrisi? Più soldi. Nulla sarà altrettanto potente per distruggere le virtù lenitive di un sorriso» (Federici 1995, 187). La proposta (solo parzialmente ironica) di Firestone di una protesta per la liberazione delle donne, «un boicottaggio del sorriso» (1970, 81), potrebbe dunque essere ricalibrata come un contributo all’attivismo anti-lavorista. Lavoratori che possono affermare di «amare proprio il loro lavoro», ma di riservare la felicità, e soprattutto l’amore ad altre parti della vita, potrebbero essere caratterizzati come altrettante figure della definizione della femminista offerta da Ahmed, in quanto «aliena affettiva, estraniata dalla felicità», e proposta come forma di negatività degna di essere coltivata in questo momento (2010a, 581).

Il secondo momento del rifiuto comporta tenere aperta la possibilità di un’organizzazione alternativa del lavoro e della vita che non implichi lo stesso tipo di sottomissione della vita al lavoro. Anche le critiche più intransigenti degli anni Settanta tenevano almeno un occhio puntato sull’orizzonte di un futuro migliore. Il modello dell’amore romantico è corrotto dalla disuguaglianza di potere secondo Firestone, la quale tuttavia esprime pure la speranza di un’esperienza differente dell’amore in un contesto istituzionale e ideologico alternativo. Ma non è soltanto la disuguaglianza dovuta al sistema delle classi di sesso a degradare l’amore, a giudizio di Firestone; il problema è legato anche alla restrizione della sua scelta d’oggetto, alla sua segregazione all’interno della coppia romantica e dell’istituzione familiare, o, nel nostro contesto, al lavoro salariato. «Perché» si chiede Firestone verso la fine del suo capitolo sull’amore romantico «tutta la gioia e l’entusiasmo sono stati concentrati, incanalati in una strada dell’esperienza umana stretta e difficile da trovare, e tutto il resto è stato svuotato di significato?». (1970, 139). Nella misura in cui possiamo attribuire il nostro «impoverimento emotivo nell’economia dell’amore» (Jackson 2001, 263) alle «forclusioni dell’amore nelle istituzioni del capitale» (Gregg 2011, 172), allora potremmo pensare il rifiuto dell’amore e della felicità al lavoro nei termini di Firestone, come un movimento per la loro «redistribuzione lungo (…) lo spettro delle nostre vite» (1970, 139).

Questo appello alla redistribuzione — per prendere a prestito la parola di Firestone — dell’amore e della felicità non dovrebbe essere confuso con il tentativo di ricondurli nel loro luogo istituzionale tradizionale, la sfera privata della famiglia. Al contrario, confinarli in quella che Michèle Barrett e Mary McIntosh caratterizzano opportunamente come la «famiglia anti-sociale», quella forma sociale misera e avara che «assorbe il succo di tutto ciò che la circonda, lasciando le altre istituzioni rachitiche e distorte» (1982, 78), avrebbe l’effetto opposto. Potremmo invece trovare una fonte di ispirazione negli sforzi di re-immaginare l’amore come una forza rivoluzionaria, le cui energie potrebbero essere mobilitate per progetti politici trasformativi. Un esempio particolarmente persuasivo di questo si trova nel lavoro recente di Jennifer C. Nash su un archivio di scritti di femministe nere della seconda ondata su amore e politica. La politica dell’amore delle femministe nere, nell’interpretazione di Nash, concepisce l’amore non lungo le linee individualizzanti e spoliticizzanti dell’amore romantico, ma come un genere di affetto comune più capiente e come una pratica di cura rivolta verso un orizzonte futuro di possibilità radicale (2011, 14, 16–17). Attingendo a intuizioni raccolte in questo archivio, Nash sostiene che l’amore è stato inteso e praticato, all’interno di alcune tradizioni politiche del femminismo nero, come un modo di relazionalità affettiva che può alimentare nuove forme di solidarietà sociale e organizzazione politica. Sciolta dalla sfera privata e slegata dalle sceneggiature stereotipate della storia d’amore eterosessuale, la politica dell’amore del femminismo nero dimostra che alcune conoscono, e altre possono imparare a coltivare, forme dell’amore che possono legarci alle altre persone allo scopo di vivere insieme in modo diverso.

Per concludere queste riflessioni su come trattare questa nuova aggiunta a un vecchio imperativo etico di sopravvalutazione del lavoro, una formula per rifiutare il discorso sull’amore e la felicità al lavoro è insistere nel ricodificare la nostra relazione al lavoro in modo che l’amore e la felicità possano essere resi oggetto di una reinvenzione e di un riorientamento verso altri luoghi e per finalità differenti. Chiudo con una citazione da uno dei contributi di Silvia Federici al movimento degli anni Settanta del salario al lavoro domestico che ben riassume questo doppio movimento del rifiuto del lavoro come ristrumentalizzazione e come redistribuzione: «Vogliamo chiamare lavoro ciò che è lavoro in modo da poter scoprire che cosa è l’amore» (1995, 192).

 

NOTE

[1] I termini recitazione profonda e recitazione superficiale sono elaborati da Hochschild (1983, 49).

[2] William Davies spiega come la salute fisica, il benessere psicologico e l’efficienza economica vengano fusi assieme nei discorsi sulla felicità al lavoro; di conseguenza, «i concetti di “salute”, “felicità” e “produttività” diventano sempre più difficili da distinguere l’uno dall’altro» (2015, 135).

[3] Questo per i datori di lavoro ha il valore aggiunto di essere un modo relativamente economico per incrementare la produttività: «poiché il focus è sull’individuo anziché sul luogo di lavoro, è più semplice, meno dispendioso e più flessibile da implementare per le organizzazioni» (Pryce-Jones 2010, 10).

[4] Per un’eccellente analisi di come funziona l’aspetto emotivo della produttività, si veda Gregg 2015.

 

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