Nel cerchio del patriarcato. Quando il «cambiamento» diventa un’ideologia di conservazione

di Collettivo Femminista Desbugo

Riceviamo e volentieri pubblichiamo una riflessione del Collettivo Femminista Desbugo a proposito del documentario di Paola Sangiovanni “Nel cerchio degli uomini”, andato in onda il 13 luglio 2023 su RAI3. Di fronte a un coro pressoché unanime di elogi, ci sembra utile dare spazio a un punto di vista critico nei confronti di un’operazione in cui l’ideologia sovrasta, fino a travolgerla completamente, la volontà di inchiesta.

Il 13 luglio 2023 Rai3 ha mandato in onda, in prima serata, il documentario “Nel cerchio degli uomini” di Paola Sangiovanni, già autrice di lavori sulle donne nella Resistenza (“Staffette”, 2006), sul movimento femminista degli anni Settanta (“Ragazze. La vita trema”, 2009) e sulla violenza delle guerre contemporanee (“La linea sottile”, 2015).

Nello stesso giorno in cui la stampa dava notizia delle motivazioni che hanno indotto i giudici del tribunale di Busto Arsizio a negare l’aggravante di crudeltà al killer di Carol Maltesi («lei era disinibita»), e poi ancora dell’assoluzione a Roma di un molestatore di minorenni («lui l’ha palpata solo per dieci secondi, era in un luogo pubblico, in pieno giorno, alla presenza di altre persone»), il servizio pubblico ci ha messe di fronte a quello che, nella prospettiva abbracciata dal documentario, dovrebbe essere il vero nodo da affrontare per poter immaginare il «cambiamento»: gli uomini subiscono i ruoli imposti dal patriarcato.

La grande speranza «cambiamentista» (ci scusiamo per il termine poco maneggevole, ma dobbiamo sforzarci di dare un nome alla cosa) si basa, in effetti, su una premessa data per assiomaticamente vera: in regime patriarcale, gli uomini sono dominati dal dominio, ignorano i danni che producono, i privilegi di cui godono, insomma vivono a propria insaputa, dissociati da se stessi e da ciò che fanno. Per lo meno fino al momento in cui, grazie al Cerchio degli Uomini o a gruppi affini, non trovano finalmente il coraggio di formulare ipotesi inaudite sul contenuto di esperienze di cui, in precedenza, pare avessero ignorato il significato. Di qui l’attribuzione di un ruolo essenziale degli uomini ai fini di un sommovimento che — anche per effetto della sua esibita indeterminatezza politica: tanto che anche un Ignazio Benito La Russa può farsi conquistare dall’idea di manifestazioni di soli uomini contro la violenza sulle donne — non vuole, non può e non deve essere né riforma né rivoluzione. Bensì, appunto, «cambiamento». E qualunque cosa «cambiamento» voglia dire, a Dio piace che la società civile si schieri compattamente, senza smagliature, dalla sua parte.

Il risveglio di questi uomini dolcemente determinati a smettere di morire dentro di patriarcato è reso possibile, dunque, da un atto decisivo di presa di coscienza: gli uomini violenti non agiscono, sono agiti. Dagli stereotipi di genere, dalla «mascolinità tossica», da solitudini sconfinate, dal fantasma di padri normativi e giudicanti, da inenarrabili frustrazioni. O da incontrollabili impulsi di rabbia che si scatenano in seguito alla rottura di una relazione sentimentale e che, secondo uno degli intervistati, possono trovare sollievo con qualche seduta di sadomaso — acuta osservazione a cui la regia di Sangiovanni dà il giusto rilievo, immaginiamo allo scopo di fugare le false aspettative. In effetti, tutto è allestito in modo da alimentare l’impressione che, nel Cerchio degli Uomini, non si faccia del moralismo stucchevole. Lì si scandagliano niente meno che i chiaroscuri del cuore umano in tutta la loro sinuosa complessità. A forza di crederci, ci crederanno anche gli altri. E le altre.

Soprattutto, siamo state messe di fronte a un’evidenza talmente abbagliante da non aver nemmeno bisogno di essere esplicitata, ancor meno dimostrata: gli uomini non traggono alcun beneficio dalla posizione sociale gerarchica che, come gruppo e come individui, occupano rispetto alle donne. Ne sono, anzi, vittime. L’esercizio della violenza maschile contro le donne non ha nulla a che vedere con il consolidamento di quella posizione e coi vantaggi che gli uomini possono ricavarne sul piano economico, sociale, ideologico. Qualsiasi problema di adattamento può, e soprattutto deve, essere interpretato come l’esemplificazione di un’oppressione patriarcale che colpisce indistintamente donne e uomini. Le indulgenze dispensate ai violenti dal sistema giudiziario non sono un fattore da tenere in considerazione quando ci si interroga sulle condizioni di possibilità della violenza maschile contro le donne. Istituzioni dell’eterosessualità come la famiglia, teatro abituale dello sfruttamento e della violenza patriarcale, non devono entrare nel mirino della critica.

Niente di tutto questo, nessuna determinazione sociale dei fenomeni e dunque nessuna chiara direzione per l’auspicato «cambiamento»: abbiamo semplicemente a che fare con «uomini soli», di «buona volontà», in cerca della propria strada. Questi uomini non vengono mai chiamati per nome e cognome: alcuni nomi (di battesimo) li ricaviamo dalle recensioni al documentario, ma mai dalle scene filmate. Sono pura generalità dal volto umano. Il pubblico è chiamato a identificarsi con la loro delicata condizione, ad appassionarsi al loro tortuoso processo di crescita, a lasciarsi trasportare dal fluire spontaneo delle testimonianze.       

Se sono facilmente comprensibili le ragioni che inducono i componenti del Cerchio degli Uomini a promuovere un’immagine di sé così scopertamente oleografica, meno chiare sono quelle che portano invece diverse donne, femministe incluse, a confermarne il valore indiscusso. La prima a immedesimarsi praticamente senza riserve nel punto di vista degli uomini “di buona volontà” è la stessa Paola Sangiovanni. Sollecitata nel corso di un’intervista a raccontare del proprio interesse per il gruppo torinese del Cerchio degli Uomini, la regista si dichiara anzitutto affascinata dal «metodo non medicalizzante, che non passa attraverso la psichiatria, ma che attraverso la riflessione sulla nostra cultura porta a un cambiamento» (cfr. Alice Facchini, “Storie di uomini che cercano di combattere la mascolinità tossica”, Altreconomia, 27 giugno 2023). La strizzata d’occhio è palesemente rivolta alle femministe: sorelle, non siate prevenute contro questi uomini! Non pensiate che qui si metta in discussione, con intenti revisionisti, il sacrosanto principio per cui «il violento non è malato, ma figlio sano del patriarcato»!

Eppure, è sufficiente consultare il sito dell’associazione per scoprire che, al fine di esplorare il vasto territorio della «mascolinità tossica», il Cerchio degli Uomini non si avvale soltanto di cerchi di condivisione volti alla consapevolezza maschile, ma anche di «specifiche professionalità offerte da psicologi e counselors»: alcuni dei quali, come si evince sempre dal sito dell’associazione, operano nell’ambito della psichiatria, della psicologia clinica, della psicologia giuridica, finanche della conduzione di «gruppi di padri separati con problematiche di alienazione parentale». Perché omettere questa informazione?

Verosimilmente, perché raccontare tutta la verità comprometterebbe la tenuta dell’altro grande pilastro ideologico su cui si regge il documentario. Lasciamo ancora una volta la parola alla regista, che giustifica così la scelta di alternare la narrazione dei protagonisti a immagini storiche di manifestazioni femministe e a riprese di laboratori scolastici sugli stereotipi di genere: «c’è lo sguardo sulla città, questa Torino addormentata, per far capire che quelle storie sono sì personali, ma anche collettive. Proprio come l’assunto femminista del “personale è politico”».

Il messaggio deve arrivare, anche visivamente, dritto al cuore. E il messaggio è questo: non c’è alcuna differenza sostanziale tra il femminismo degli anni Settanta, l’odierna burocrazia psicologica dell’antiviolenza e le iniziative di decostruzione degli stereotipi previste dal progettificio scolastico; non c’è alcuna differenza sostanziale tra il risveglio politico delle oppresse e quello degli oppressori; non c’è alcuna differenza sostanziale tra autocoscienza femminista e confessionali maschili facilitati da professionalità specifiche. Una volta stabilita d’autorità la continuità storica e l’equivalenza funzionale tra pratiche e teorie disparate, è ancora più facile procedere al lavoro di selezione che, dopo averlo svuotato di qualsiasi altra connotazione politica, riduce il femminismo a una pratica di ascolto non giudicante. Perché in fondo è questo il segreto, come rivela uno degli intervistati: i violenti vogliono sentirsi accolti, compresi. Sottratti al giudizio morale e politico, alla sanzione sociale. Possibilmente anche a quella penale. Alla facile indignazione, tanto querula quanto impotente, il «cambiamentismo» oppone la sospensione del giudizio: cambiare si può, rimanendo neutrali nei confronti dei violenti. A Dio non piace che la sorella trascini il fratello in tribunale; e gli piace ancor meno veder contestati i privilegi degli appropriatori.

La sospensione del giudizio è la regola scrupolosamente osservata anche quando, nel documentario, emerge finalmente il dato di realtà che consente di capire le ragioni dell’impennata di interesse per gruppi che, di fatto, esistono già da decenni. Il dato di realtà è che, dal 2019, con l’introduzione del cosiddetto Codice Rosso, la partecipazione ai programmi psico-educativi erogati da associazioni come il Cerchio degli Uomini dà diritto a benefici come la sospensione condizionale della pena. Di qui l’incremento degli accessi ai centri per maltrattanti. I benefici penali accordati ai violenti «di buona volontà» — ricordiamolo di sfuggita a chi pensa che il bene degli uni vada immancabilmente di pari passo con quello delle altre — sono già costati la vita a Juana Cecilia Hazana Loayza, Lidija Miljkovic e Gabriela Serrano.

Come valutare simili «cambiamenti»? Sono conciliabili con la Convenzione di Istanbul, che certo al suo articolo 16 prevede l’istituzione di questi programmi, ma da nessuna parte prescrive di associarli a sconti di pena? Ai posteri l’ardua sentenza — anche perché l’intervistato non si sbilancia più di tanto. Se lo avesse fatto, si sarebbe forse trovato nella difficile situazione di dover spiegare quale fosse la direzione esatta dell’impegno portato avanti dalla sua associazione, molto attiva negli anni passati nella battaglia culturale contro il populismo penale. Battaglia senz’altro nobile, quando evita di amalgamare capziosamente questioni reali di trattamento repressivo della povertà a questioni fittizie di punitivismo dispiegato al di là di ogni garanzia ai danni degli autori di violenza contro le donne.

La missione di chi scrive di storia consiste, solitamente, nel restituire al passato l’incertezza del futuro: nel de-fatalizzare il senso degli avvenimenti, nel mostrare un orizzonte di possibilità non decise a priori ma dall’urto delle forze vive in campo, nell’indebolire l’ipotesi di un corso ineluttabile degli eventi. La missione «cambiamentista» procede in senso esattamente opposto: spogliare il passato dell’incertezza del futuro, disegnare il quadro di un presente che prolunga naturalmente il passato e ne incarna le aspirazioni più profonde, costruire genealogie tutte ideali e, dunque, tutte fittizie. Non c’è alternativa al punto in cui siamo, non c’è mai stata e non ci sarà mai. Tutto è andato come doveva andare, il campo del pensabile, del dicibile e del fattibile ruota intorno a noi e si esaurisce con noi, sottende l’ideologia «cambiamentista». Soltanto grazie alla forzatura che consente di diluire tutto nel calderone indifferenziato della «riflessione culturale» è possibile presentare i gruppi di autoriflessione maschile come un equivalente dell’autocoscienza femminista. Per chi sceglie di praticarla, l’operazione presenta un doppio vantaggio. Da un lato, infatti, si svuota di significato il concetto di «patriarcato», mettendo sullo stesso piano dominanti e dominate: si conserva la parola, gettando nella spazzatura il concetto e contando sul fatto che nessuna se ne accorga. Dall’altro lato, il salvataggio delle apparenze prosegue cercando di dimostrare che il femminismo non ha mai voluto e pensato altro che questo. L’imprimatur femminista sull’antifemminismo, insomma, è il capolavoro ideologico che consente di prestare al «cambiamentismo» dei gruppi maschili l’aureola dell’alternativa in marcia, tasto su cui hanno battuto acriticamente tutti gli articoli dedicati al documentario. Alcuni estratti:

«Quello che emerge è un nuovo modo di essere uomini, più consapevole e più libero ma soprattutto in grado di non reprimere le proprie sofferenze e di non cedere, per questo, alla violenza» (Silvia Farris, Coming Soon, 13 luglio 2023); «La telecamera segue il profondo, e talvolta doloroso, lavoro di auto-indagine di uomini spinti non solo dal desiderio di decostruire il modello di mascolinità tossica, basato su forza e competitività, e di liberarsi dalle più o meno latenti forme di patriarcato che ancora permeano la società, ma legati anche da intenti comuni orientati in senso propositivo e assertivo, volto a costruire un “maschile” differente» (Giorgia Cacciolatti, Repubblica, 13 luglio); «[il documentario] parla di uomini, intesi come maschi contemporanei, di diverse età ma tutti alla ricerca di un nuovo equilibrio esistenziale, di una strada quotidiana alternativa, di una maschilità da (ri)formare: più completa e libera, più soddisfacente e piena, più in dialogo con un mondo emotivo facilmente soggetto a schiacciamento, asfissia e isolamento, per antichi schemi culturali» (Edoardo Zaccagnini, Cittanuova.it, 13 luglio); «Sebbene in misura ridotta, ci sono però anche uomini che seguono le attività dell’associazione perché vogliono incontrarsi e “parlare di noi, tra noi”. Fanno, in sostanza, autocoscienza femminista […] rendendosi finalmente conto che conoscersi, capirsi, confessarsi, esporsi è un diritto ed è un dovere, è etica morale e civica, prima di essere cura o prevenzione, prima che essere educazione o rieducazione» (Simonetta Sciandivasci, La Stampa, 14 luglio 2023).

In altri paesi del mondo, più evoluti del nostro quanto a consapevolezza sociologica e a impregnazione culturale femminista, la costituzione di gruppi maschili il cui discorso vira sistematicamente sulla dimensione psicologica delle relazioni interpersonali a detrimento dell’analisi delle strutture di dominio, viene interpretata dagli studiosi come un’articolazione del backlash antifemminista. Da noi invece le amplificazioni retoriche non sembrano mai eccessive o fuori posto, quando si tratta di consacrare l’immagine di legioni di donne sospese alle decisioni degli uomini di «buona volontà» con il cuore trepidante di emozione. Allo scopo si può addirittura scomodare l’autorità di Carla Lonzi, come fa Simonetta Sciandivasci dalle colonne de La Stampa per rassicurare se stessa e i lettori che «quello che le donne chiedono agli uomini è prima di tutto incontrarsi tra loro, parlare di chi sono, di quello da cui vengono, di quello che vorrebbero, cosa subiscono, quanto sono stanchi di apparire senza essere, di urlare, competere, tremare, temere, e di farlo senza tavoli di mezzo, senza gerarchie, campionati da vincere: di srotolare il cono e mettersi a sedere in cerchio. Tra pari. Con le mani vuote, aperte. Liberi di occuparsi di sé» (Simonetta Sciandivasci, La Stampa, 14 luglio).

«Senza tavoli di mezzo»? «Con le mani vuote»? «Srotolare il cono»? Curioso che queste effusioni liriche riescano a far dimenticare così in fretta che i tavoli di mezzo ci sono eccome, le mani non sono proprio così vuote e i coni non sono esattamente scomparsi se ci sono esponenti dei Centri Ascolto Maltrattanti chiamati a stendere relazioni per la Commissione d’Inchiesta del Senato sul femminicidio. I 9 milioni di euro di stanziamenti pubblici previsti per i Centri di Ascolto Uomini Maltrattanti nel 2022, contro i 5 milioni destinati ai Centri Antiviolenza, forse rovinano la poesia, ma appartengono alla realtà che il documentario omette di menzionare.

Possiamo intuire il brivido di radicalità che il Teatro dell’Oppresso praticato da gruppi di autoriflessione maschile può risvegliare. Diversi spezzoni del documentario sono dedicati appunto a queste esperienze laboratoriali: particolarmente significativa, in ottica «cambiamentista», quella relativa al porno. Mimando fisicamente le tipiche posizioni rispettive di uomini e donne nella pornografia, i partecipanti arrischiano un’ipotesi inaudita e, certo, audace: la pornografia reifica le donne. Che fare di questo sapere? Un’anima in pena racconta della propria dolorosa dissociazione masturbatoria di fronte alle scene del porno (che lui considera virtuali: la violenza subita dalle attrici non è messa in conto), un valoroso suggerisce che si potrebbe campare anche senza pornografia, ma è a quel punto che la saggezza «cambiamentista» interviene a moderare i fermenti rivoluzionari in nome del giusto mezzo: la pornografia è come il cibo spazzatura, assumerlo tutti i giorni fa male, ma centellinarlo in modiche dosi periodiche non ha controindicazioni.

Il complesso industrial-pornografico, insomma, può stare tranquillo: non sarà messo in ginocchio. Anche perché i gruppi «cambiamentisti» sono impegnati in battaglie molto più prosaiche, fatte di competizione per le risorse economiche e di crescente integrazione istituzionale nelle reti antiviolenza. Meno di un anno fa era D.i.Re a denunciare il rischio che il coinvolgimento dei Centri per Maltrattanti compromettesse l’autonomia dei percorsi di fuoriuscita delle donne dalla violenza, introducendo surrettiziamente una forma mascherata di mediazione familiare.

Di questi problemi nel lavoro di Sangiovanni semplicemente non vi è traccia. Del personale degli uomini intervistati possiamo essere informate fin nei dettagli più insignificanti, ma di come gli stessi si collochino politicamente rispetto a questioni che pure li implicano in maniera diretta — anzitutto in quanto soggetti capaci di influire sul sistema dell’antiviolenza e far pesare le proprie prerogative — non siamo tenute a sapere nulla. Forse perché il solo accennarvi metterebbe in crisi lo schema spontaneista di uomini che si incontrano al solo scopo di «guardarsi dentro» su cui il documentario è costruito e con cui il pubblico è chiamato a colludere. Per ritrovarsi anche lui nel cerchio del patriarcato, ma con la gratificante sensazione di essere altrove.

** L’immagine è un dettaglio tratto da Il settimo sigillo di Ingmar Bergman (1957)

Colette Guillaumin: pensare le categorie di razza e di sesso, ieri e oggi


di Maira Abreu, Jules Falquet, Dominique Fougeyrollas-Schwebel, Camille Noûs [1]

Traduzione di Sara Garbagnoli

In occasione dell’uscita dell’edizione italiana de L’idèologie raciste. Genèse et langage actuel (1972), curato e tradotto da Sara Garbagnoli per la collana Xenos de “il nuovo melangolo” (L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, Genova, 2023), pubblichiamo la traduzione di questo ricchissimo testo sulla figura di Colette Guillaumin, a firma di Maira Abreu, Jules Falquet, Dominique Fougeyrollas-Schwebel e Camille Noûs. Augurandoci che l’ “effetto Guillaumin” si faccia sentire forte anche in Italia.

L’opera di Colette Guillaumin (1934-2017) è stata un’incessante ricerca cha ha avuto per oggetto l’identificazione, la teorizzazione e la destabilizzazione delle relazioni di potere [2]. In un contesto in cui il prisma di una lettura biologica del mondo sociale non smette di avanzare (Lemerle 2014), in cui i movimenti “anti-gender” che fanno uso di un discorso essenzialista continuano ad attrarre seguaci in numerosi paesi del mondo (Kuhar e Paternotte 2018; Garbagnoli 2020), la pionieristica critica mossa da Guillaumin alle forme di legittimazione naturalistica delle relazioni di razza e di sesso non costituisce solo un fondamentale contributo alle scienze sociali, ma si tratta di un’analisi di grande attualità. Se oggi l’idea che il “naturale” sia costruito dalla cultura si è fatta strada in alcuni campi delle scienze sociali, un tale approccio ha preso forma in un contesto e una lotta nei quali il percorso di Guillaumin è esemplare. La teorica femminista, infatti, non si contentava di partire da “realtà anatomico-fisiologiche su cui innestare addobbi quali ‘ruoli’ o ‘riti’” (2016 [1978], p. 73). Il suo obiettivo era, invece, quello di pensare ai gruppi di sesso e ai gruppi di razza come costituiti da dati rapporti di potere. Il pensiero di Guillaumin è andato elaborandosi in un contesto di fermento politico e teorico in cui molti gruppi minoritari stavano diventando soggetti visibili nella storia oltre che oggetti nella teoria (2016 [1981], 229). Come sostiene Guillaumin, mettere in discussione l’evidenza del naturalismo per pensare le relazioni di sesso è stato il prodotto di una “sintesi tra rivolta, attivismo, analisi e coscienza” (2016 [1981], p. 232). Insieme a Monique Wittig, Nicole-Claude Mathieu, Christine Delphy e Colette Capitan Peter, Guillaumin ha partecipato alla scrittura collettiva della rivista Questions féministes (1977-1980) e all’elaborazione di una teoria femminista radicale/materialista che ha lasciato un segno duraturo nel pensiero femminista francese.[3] Guillaumin ha sempre sottolineato la natura collettiva delle produzioni teoriche e l’importanza per il lavoro intellettuale di una “discussione prolungata e basata su preoccupazioni comuni e su un vocabolario condiviso” (2016 [1992], p. 6). Guillaumin ha partecipato a diversi gruppi informali e a comitati di riviste come Feminist Issues [4] o Le genre humain [5] in cui, come scrive, ha potuto “analizzare la stessa questione” che tanto le teneva a cuore.

I concetti si forgiano in specifici contesti storici, politici e teorici. Collocare le idee nel loro contesto di elaborazione permette di rompere l’illusione del senno di poi e di mostrare che esse sono state la risposta a sfide determinate, oggi sovente ignorate. I testi classici, come sono oggi quelli di Guillaumin, non rispondono alle questioni che dibattiamo nel nostro presente e sarebbe riduttivo analizzarli esclusivamente attraverso il prisma delle nostre attuali preoccupazioni. Tuttavia, se continuiamo a leggere e a pensare con e grazie a Guillaumin, è perché il suo pensiero ci fornisce strumenti per riflettere sul presente, come i buoni classici fanno. Il nostro obiettivo è proprio quello di rendere omaggio ad un pensiero vivo e attuale.

In principio era la razza

Dopo aver studiato psicologia e etnografia alla Sorbona negli anni Cinquanta [6], Colette Guillaumin entra a far parte del Groupe d’Ethnologie sociale [7]. Negli anni Sessanta, vi incontra Nicole-Claude Mathieu e Noëlle Bisseret con le quali collabora alla pubblicazione de La femme dans la société. Son image dans différents milieux sociaux (Chombart de Lauwe et al. 1963). Alla fine degli anni Sessanta inizia a pubblicare sul tema di razza e razzismo. Nel 1969 discute la sua tesi di dottorato [8] intitolata Un aspetto dell’alterità sociale: il razzismo. Genesi dell’ideologia razzista e linguaggio attuale pubblicato nel 1972 (e ripubblicato nel 2002) con il titolo Ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale.

A quell’epoca, gli studi sulla razza e sul razzismo non erano molto sviluppati in Francia. Léon Poliakov scriveva allora che “tutto era ancora da fare nel campo della storia del razzismo” (1961, p. 594). In sociologia, la situazione non era molto diversa: Andrée Michel si era principalmente basata su una bibliografia in lingua inglese per redigere il suo articolo “Tendances nouvelles de la sociologie des relations raciales” (1962). A parte i lavori di Andrée Michel, Georges Balandier, Roger Bastide e Albert Memmi, la questione del razzismo non era affrontata nel campo delle scienze sociali francesi. La situazione ha subito un grosso mutamento alla fine degli anni Sessanta con la creazione del Centre d’études des relations interethniques (Centro di studi sulle relazioni interetniche IDERIC) a Nizza [9], di gruppi informali come il Groupe d’étude d’histoire du racisme (Gruppo di studio sulla storia del razzismo) attorno a Poliakov presso la MSH (Maison des Sciences de l’Homme) e di pubblicazioni come quelle della rivista “Ethnies”. Al di là di quanto prodotto dal mondo della ricerca francese, nel suo lavoro di tesi, Guillaumin ha utilizzato la letteratura anglofona, da Franz Boas a Ruth Benedict, nonché autori anticolonialisti e antirazzisti come Frantz Fanon, Aimé Césaire, Cheikh Anta Diop, James Baldwin e Malcolm X.

Due dei principali contributi de L’ideologia razzista sono stati quelli di mostrare la storicità della categoria “razza” e di “dare una prospettiva sociologica a ciò che solitamente viene affrontato come se fosse un fenomeno biologico” (p.11). La razza era allora per lo più considerata come un “oggetto concreto che interviene come fattore scatenante l’atto razzista” (p. 10). Si pensava, pertanto, che il razzismo fosse causato dall’esistenza delle razze. Alla fine degli anni Trenta, alcuni ricercatori e ricercatrici avevano iniziato ad abbandonare l’evidenza di tale nozione e ad interrogarla. Tuttavia, tale processo non è sfociato nella messa in discussione della categoria “razza”, ma nell’apparizione di una “problematica bipolare cultura/razza” che avrebbe a lungo influenzato il campo della ricerca sulle relazioni razziali. Il lavoro di Guillaumin si inserisce in un altro filone analitico che emerge alla fine della Seconda guerra mondiale e che sposta il focus della questione sulle relazioni tra gruppi. Ciò consente un riesame della categoria di razza e “il riconoscimento del suo carattere di categoria storica e di creazione sociale transitoria” (1977, 11).

Attraverso una disamina storica, Guillaumin comprende, da un lato, che l’“alterità” che caratterizza certi gruppi è solo il riflesso di una distribuzione ineguale di potere e, dall’altro, che la particolarità del razzismo è una “biologizzazione del pensiero sociale che [tenta] con questo mezzo di rendere assoluta ogni differenza osservata o supposta” (Guillaumin 2002 [1972], p. 14). Storicamente recente, l’idea di categorizzare l’umanità in “entità anatomico-fisiologiche chiuse” si è affermata nel corso del XIX secolo in un contesto di profonde trasformazioni sociali: colonizzazione, rivoluzioni borghesi e regime schiavista. Fin dalle sue prime pubblicazioni, Guillaumin sottolinea a più riprese l’importanza di opporsi all’idea di definire il razzismo attraverso l’ostilità o la “negatività”. Il razzismo, infatti, può anche esprimersi attraverso giudizi percepiti come “positivi” (vigore sessuale, senso della famiglia, ecc.). Per Guillaumin, la base del razzismo va cercata altrove: nella naturalizzazione di dati gruppi. Guillaumin dimostra, poi, come l’invenzione dell’“idea di Natura” debba essere intesa come l’aspetto mentale di date relazioni di potere. (Non si tratta ancora del concetto di “appropriazione” che emergerà nel suo lavoro qualche anno più tardi).

Ne L’ideologia razzista, Guillaumin mette in evidenza che uno stesso trattamento è riservato alle diverse “categorie di gruppi alienati e oppressi” in nome di un marchio biologico irreversibile. Tali gruppi sono, pertanto, sono “razzizzati” (Guillaumin 2002 [1972], 17). Per lei, il marchio biologico è il criterio fondamentale della nozione di razza, anche se le categorie investite da questo marchio (ad esempio donne, persone omosessuali, persone operaie) lo sono “secondo schemi diversi” (ibid., p. 12). Pur avendo iniziato la sua analisi con le cosiddette categorie “razziali”, Guillaumin ha gradualmente riconosciuto l’esistenza di “una certa identità di trattamento verbale tra categorie il cui denominatore comune era quello di essere ‘alterizzate’”. Ciò l’ha condotta ad andare oltre le “razze nel senso ordinario del termine” e la percezione del razzismo come insieme di “relazioni ostili tra gruppi rigorosamente definiti come razziali” per includerne altre, come per esempio, le relazioni tra colonizzatori e colonizzati, tra persone straniere e nazionali, ma anche tra donne e uomini (Guillaumin, 2002 [1972], 99). Guillaumin include nel suo studio anche le persone omosessuali in un contesto storico in cui una prospettiva che oggi chiameremmo decostruttivista stava appena emergendo [10].

Estendere il concetto di razza non cancella per Guillaumin le distinzioni tra i diversi tipi di razzismo, ma si concentra piuttosto sui meccanismi comuni di naturalizzazione delle persone razzizzate. Infatti, anche se “ogni gruppo razzizzato ha le sue specificità concrete”, la teorica ritiene che “concentrarsi sulla generalità dei razzismi in una data società – e non sulla specificità di un dato razzismo – ci dia la possibilità di individuare la fonte dell’atto razzista e di definire la specificità di chi razzizza” (Guillaumin 2002 [1972], 18).

Questo approccio estensivo al razzismo non più in vigore nel campo degli studi del razzismo, costituisce un’originalità del pensiero di Guillaumin che meriterebbe maggiore attenzione. Affermare, alla fine degli anni Sessanta che i gruppi che si suppone siano naturali (donne, persone nere, persone musulmane, persone ebree, persone omosessuali) sono, in realtà, il prodotto di relazioni di dominio costituisce una vera e propria rottura epistemologica da diversi punti di vista. Una rottura con il naturalismo dominante negli studi su donne, persone nere, persone musulmane, persone ebree, persone omosessuali. L’idea che le categorizzazioni non siano il prodotto di un’esistenza biologica, ma che siano una costruzione sociale e storica e che la loro presunta evidenza serva solo a nascondere relazioni di dominio, stravolge le certezze delle teorie certamente anti-essenzialiste, ma che non spingono la loro critica fino a una rottura radicale con la concezione naturalista di questi “gruppi”. In secondo luogo, si tratta, poi, di una rottura con gli approcci che riconducono tutte le forme di dominio alle relazioni di classe, a una “sovrastruttura” o a un problema di “mentalità”. Sin dai suoi primi scritti, Guillaumin, si oppone a questo tipo di analisi. Se la razza e il sesso sono intesi come prodotti di dati rapporti sociali, questi ultimi non si riducono ai rapporti sociali di produzione. Pensare a una separazione, a livello analitico, tra relazioni di classe e relazioni razziali apre la possibilità di concepire altre forme di dominio in modo diverso, come suggerito da una recensione all’epoca della prima edizione de L’ideologia razzista:

I concetti di “classe sociale”, “lotta di classe” e “imperialismo” perdono forse qui un po’ della loro troppo spesso mantenuta opacità. E il concetto di “potere” sembra assumere un nuovo significato. Potrebbe essere il preludio di un canto diverso da quello funebre di una certa dominazione? (Moreau de Bellaing 1973, p. 206).

Insieme a Guillaumin, Moreau de Bellaing faceva parte di un gruppo si studio informale, il “Laboratoire de sociologie de la dominance” (LSD), che comprendeva anche Colette Capitan-Peter e Nicole-Claude Mathieu. Questo gruppo, esistito per circa dieci anni, focalizzava le ricerche su una problematica “interamente centrata sull’analisi dei sistemi gerarchici e di dominazione” ed era un “luogo di discussione appassionata e inventiva” (Guillaumin 1992, p. 5).

Questi nuovi approcci proposti da Guillaumin implicano nuovi concetti. Il pensiero antirazzista e femminista aveva bisogno di creare nuove parole, nuove categorie per nominare ciò che non poteva essere nominato dal linguaggio dominante. Le recensioni de L’ideologia razzista accolgono con favore questo sforzo: Poliakov associa “l’elaborazione di una tesi radicalmente nuova” a questa necessità di forgiare nuovi concetti (1973, 94). Moreau de Bellaing osserva che l’autrice ha dovuto “forgiare nuovi concetti o rinnovare quelli vecchi che rendono possibile la spiegazione: razzizzante/razzizzato, categorizzante/categorizzato, maggioritario/minoritario. Concetti che non hanno nulla di oscuro poiché il loro significato è espresso dalla dimostrazione che li mette in atto” (1973, 205). Alcuni di questi concetti, che non esistevano o erano stati precedentemente definiti in altri modi, sono poi entrati a far parte del vocabolario quotidiano delle scienze sociali. L’ideologia razzista ha avuto un impatto duraturo sulla riflessione sul razzismo. All’inizio degli anni ‘90, Véronique de Rudder ha affermato che “tutte le analisi contemporanee del razzismo fanno riferimento al lavoro di Guillaumin, e nessuna ricerca seria può farne astrazione” (1991, 78). Da allora, le ricerche sul razzismo si sono sviluppate in modo considerevole e l’opera di Guillaumin ha contribuito certamente a questo ampliamento della ricerca.

La creazione della teoria del sessaggio

Natura-l-mente [11]

Negli anni Cinquanta e Sessanta, sulla scia di Simone de Beauvoir, una generazione di intellettuali e teoriche scrive sulla “questione” o sulla “condizione” delle donne (Chaperon 2001). Un po’ più giovane delle donne di questa generazione, Guillaumin discute la sua tesi di dottorato prima dell’emergere della cosiddetta “seconda ondata” del femminismo. Ne L’ideologia razzista, i suoi riferimenti femministi erano Andrée Michel, Simone de Beauvoir, Evelyne Sullerot, Betty Friedan e Ruth Benedict. Si trattava di un periodo storico caratterizzato dall’emergere di approcci antinaturalisti alle categorie di sesso e razza. Si cercava, infatti, di dissociare biologia e cultura, di allontanarsi da un nesso obbligato tra sesso biologico e “femminilità”. Tuttavia, come ha scritto Nicole-Claude Mathieu all’inizio degli anni Settanta, rispetto alla categoria di sesso nelle ricerche sociologiche permaneva un’ambiguità, dato che sociologia e biologia non venivano disgiunte completamente: “i sessi come prodotto sociale di dati rapporti sociali non erano – cioè – oggetto di riflessione” (Mathieu 1973, p. 101). Sebbene molti lavori pubblicati nel corso degli anni Sessanta si basassero sull’idea che “non si nasceva donna, lo si diventava”, e che non esisteva una corrispondenza obbligatoria tra sesso biologico e “sesso sociale” o genere, il sesso continuava a essere inteso come un dato di natura. La rivista Questions féministes rompe con questo approccio. Estendendo la critica del femminismo rivoluzionario, l’approccio difeso dal collettivo considerava “uomini” e “donne” come delle categorie storicamente costruite, la cui eliminazione sarebbe stata possibile distruggendo il sistema che le costituiva:

donne = classe sociologicamente definita in (da) un rapporto materiale e storico di oppressione, ma la cui oppressione è a sua volta ideologicamente legata dal gruppo dominante a una cosiddetta determinazione biologica della classe oppressa (determinazione biologica che riguarda solo quest’ultima) (QF 1977, p.16).

Delphy, Mathieu, Capitan Peter, Plaza, Lesseps, Hennequin e Wittig hanno elaborato questa critica pionieristica al concetto di sesso, che costituisce una svolta nel pensiero femminista. Guillaumin vi ha dato un contributo importante, basandosi sul suo lavoro sulle persone razzizzate e sull’idea di natura applicata ai gruppi sfruttati.

Tra il   1975 e il 1976, Guillaumin partecipa al gruppo “Categorie di sesso e categorie di classe/Economic Relations in Domestic Groups” [12], che riunisce alcune teoriche che costituiranno la base di Questions féministes e varie femministe inglesi (alcune delle quali partecipano al dibattito sul “lavoro domestico”). Guillaumin vi presenta una prima versione del suo testo “Pratica del potere e idea di natura”.

Questo gruppo è stato creato nel 1975 ed è collegato, da parte francese, alla Maison des Sciences de l’Homme e, da parte inglese, al Social Science Research Council (Londra). È composto da ricercatrici inglesi e francesi come Diana Barker [Leonard], Leonore Davidoff, Jalna Hanmer, Jean Gardiner, Hilary Land, Maxine Molyneux, Jane Shaw e Anne Whitehead per la parte inglese; Noëlle Bisseret, Colette Capitan-Peter, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Emmanuelle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e Ursula Streckeisen per la parte francese.

La creazione della rivista Questions féministes, nel 1977, è stata una risposta a un contesto particolare. La stampa femminista viveva, soprattutto a partire dal 1974, una fase di grande effervescenza. Tuttavia, i giornali femministi avevano la tendenza a pubblicare testi brevi [13]: “spesso rifiutati, i testi più lunghi erano accettati solo da alcune riviste come Les temps modernes” (Delphy s.d., p. 1). Questions féministes nasce, così, per rispondere a questa necessità di uno spazio di discussione teorica. Ma non uno spazio qualsiasi: in quanto “rivista teorica femminista radicale”, QF è ancorata a una prospettiva che si oppone tanto agli approcci femministi essenzialisti/differenzialisti che alla corrente femminista cosiddetta “lotta di classe”.

Il concetto di sessaggio

Uno degli elementi chiave dell’analisi femminista degli anni ‘60 e ’70, tanto negli scritti militanti che nella ricerca teorica, era l’affermazione che i rapporti tra i sessi sono politici. Il primo atto del paradigma teorico delle femministe radicali è la definizione delle donne come una casta, come una classe. Non è il sesso biologico o la maternità – come invece sosteneva Shulamith Firestone (1972 [1970]) – a fondare le classi di sesso, né la sessualità – come riteneva Kate Millet (1971 [1970]) -, ma una relazione di appropriazione che Guillaumin aveva definito “sessaggio” (2016 [1978]). Guillaumin estende la proposta femminista dominante dell’epoca secondo la quale il lavoro gratuito delle donne in seno alla famiglia costituisce la base dell’oppressione e dello sfruttamento delle donne (Dupont [Delphy] 1970; Collettivo italiano 1976). Guillaumin dimostra, infatti, che “il matrimonio è solo la superficie istituzionale (contrattuale) di una relazione generalizzata: l’appropriazione di una classe sessuale da parte dell’altra. Una relazione che riguarda entrambe le classi nel loro insieme e non una parte di ciascuna di esse come potrebbe suggerire la considerazione del solo contratto matrimoniale”. Ma il matrimonio, in quanto forma privata di appropriazione, contraddice l’appropriazione collettiva. “Se [il matrimonio] esprime e limita il sessaggio, restringendo l’uso collettivo di una donna e passando questo uso a un solo individuo, esso priva allo stesso tempo gli altri individui della sua classe dell’uso di questa determinata donna.” (Guillaumin 2016 [1978], pp. 38-43).

Il rapporto di sessaggio si riferisce all’appropriazione delle donne, del loro corpo, del loro lavoro e dei frutti del loro lavoro, un rapporto sociale che implica il mantenimento fisico, emotivo e intellettuale degli esseri umani. Tale mantenimento è effettuato al di fuori dell’economia salariale, in famiglia e/o in altre istituzioni. Diversi mezzi assicurano il mantenimento dell’appropriazione di classe delle donne da parte degli uomini: il mercato del lavoro, dove il salario delle donne rimane inferiore a quello degli uomini, il confinamento spaziale, la dimostrazione di forza da parte degli uomini (percosse), la coercizione sessuale, l’arsenale giuridico e il diritto consuetudinario (Guillaumin 2016 [1978]: 38-43).

Nella teoria del sessaggio, non è solo la forza lavoro delle donne a essere accaparrata, ma la sua origine, il corpo delle donne come serbatoio di forza lavoro (2016 [1978], p.19). Guillaumin è particolarmente attenta alla dimensione ideologica dell’oppressione delle donne: il rapporto materiale di appropriazione e l’effetto ideologico sono pensati come due facce dello stesso fenomeno, l’effetto ideologico (o “lato ideologico-discorsivo” o “discorso della natura”) ne costituisce la sua “forma mentale” (2016 [1978], Parte II: Il discorso della natura). L’autrice mostra così “che i concetti non sono distinguibili dalle relazioni sociali: sono essi stessi una relazione sociale. Non che concetti, idee e teorie siano ‘riflessi’ – considerarli in questo modo non significherebbe altro che lasciare irrisolto il problema dell’origine dei fenomeni mentali dell’“ideologiaˮ. Piuttosto, sono la dimensione mentale di relazioni concrete” (2016 [1981], pp. 216-217, corsivo nel testo) [14]. In questa prospettiva, le analisi di Guillaumin pongono un forte accento, sia empirico che teorico, sulla dimensione corporea che riguarda le pratiche sociali. In numerosi passaggi Guillaumin descrive e analizza approfonditamente il modo di muoversi delle donne nello spazio, sottolineando il ruolo del linguaggio e delle modalità di apprendimento differenziate tra uomini e donne (giochi, atteggiamenti, abbigliamento, ecc.) (Guillaumin, 2016 [1978 e 1992]).

Inoltre, lavorando molto precisamente sul significato del linguaggio, Guillaumin mette in guardia dall’utilizzare il termine “patriarcato” in un senso molto generale, facendone un equivalente di qualsiasi forma di dominio maschile e insiste sul suo contenuto storico ed etnologico (1979). Così, la definizione delle classi di sesso come classi antagoniste non è coestensiva a quella di patriarcato: “la nozione di patriarcato designa una modalità particolare, una variante storicamente e geograficamente delimitata del dominio maschile.” (2017 [1998]). Questa distinzione tra l’identificazione di un rapporto sociale di dominio tra i sessi e le varie modalità che questa relazione assume, è ben lungi dall’essere presa in considerazione dalle critiche più comuni alla teoria del sessaggio tacciata di essere un approccio non storico alle relazioni tra i sessi.

Ricezione della teoria del sessaggio

Tra le prime ad aver criticato la nozione di sessaggio figura la sociologa Irène Théry che in un articolo pubblicato sulla Revue d’en face (1981) [15]. si oppone alla concettualizzazione in termini di “classe di sesso”. L’uso per i rapporti tra i sessi della categoria marxiana di classe viene denunciato come “riduzionismo economicistico”. Per Théry, la teoria femminista materialista non sarebbe in grado di rendere conto delle varie contraddizioni nelle relazioni tra uomini e donne e ridurrebbe l’analisi della sessualità e della procreazione a meri rapporti di produzione. La confutazione dell’antagonismo tra i sessi è uno dei nodi centrali della controversia. Théry rifiuta, poi, di tracciare un parallelismo tra donne sposate e prostituzione come, invece, fa un’analisi della sessualità come uso fisico del corpo delle donne da parte degli uomini. Appaiono già da allora in filigrana le fratture, più o meno profonde, che dividono i diversi movimenti femministi rispetto all’analisi della prostituzione.

Negli anni Settanta e Ottanta, emerge all’interno delle teorie femministe un’altra critica, riguardante ora la natura dei legami tra produzione domestica e produzione capitalistica, l’articolazione del sistema patriarcale e del sistema capitalistico. Questi dibattiti, con toni più o meno accademici, sono stati cruciali per definire strategie o alleanze in seno ai movimenti femministi e hanno all’epoca dato origine a diverse pubblicazioni [16]. Nell’ambito degli studi femministi, gli anni ‘80 hanno visto le prime forme di istituzionalizzazione della ricerca femminista e sulle donne. La creazione in Francia della rete APRE (Atelier/Produzione/Riproduzione) presso il CNRS rispondeva a un desiderio di scambio, di confronto teorico e metodologico [17]. Tuttavia, l’emergere di uno sforzo collettivo mirante a consolidare una concettualizzazione dei rapporti tra i sessi non cancella la grande diversità di approcci presenti. Tra questi, una serie di analisi cerca di prendere le distanze da approcci che privilegiano la relazione di classe tra i sessi rispetto ad altre relazioni sociali, in particolare quelle di classe socio-economica. In tale ottica, le relazioni di sesso non sono un sistema, non sono autonome, ma sono sempre articolate con altre relazioni sociali – di classe, di generazione. Si esprimono nell’intero spazio sociale, nel lavoro, nell’occupazione, nella scuola, nella famiglia, nello Stato e nelle politiche sociali. La promozione del termine “rapporti sociali di sesso” si impone progressivamente in Francia al fine di prendere le distanze dalle analisi in termini di “classi di sesso” (Battagliola et al. 1986; Tahon 2004; Haicault 2000).

In Québec, tuttavia, due sociologhe, Danielle Juteau e Nicole Laurin, hanno usato le analisi di Colette Guillaumin per portare alla luce le trasformazioni in corso del sistema salariale. Secondo loro, non si tratta tanto di vedere una contraddizione tra sessaggio e rapporto salariale, quanto di cogliere una trasformazione del sistema di sessaggio attraverso una generalizzazione delle forme di appropriazione collettiva da parte delle istituzioni statali e capitalistiche. Basandosi sull’ipotesi che l’appropriazione collettiva avvenga nel contesto di particolari relazioni interindividuali tra uomini e donne oltre che nel contesto di relazioni istituzionali generali, le due sociologhe leggono le differenziazioni e le discriminazioni che si manifestano nell’occupazione femminile come espressione della relazione di classe del sesso nell’ambito del lavoro salariato. Le trasformazioni contemporanee del lavoro salariato sarebbero proprio un’espressione dell’appropriazione collettiva, sottolineando, così, l’importanza delle forze patriarcali che si esercitano in seno al mercato del lavoro (Juteau e Laurin 1988). Questo lavoro, nato da un testo discusso al convegno internazionale APRE (appena citato in nota), stabilisce i legami tra l’analisi di Guillaumin e le ricerche sull’articolazione tra relazioni sociali di sesso, classe, generazione ed etnia.

Possiamo, così, affermare che, salvo rare eccezioni, il concetto di sessaggio è poco discusso dagli studi femministi in questo momento: parlare di classe di sesso e designare tanto fortemente la dipendenza delle donne dagli uomini pensandola sotto forma di appropriazione e di riduzione allo stato di cose resta senza alcun dubbio un tabù (Guillaumin 1979) [18]. L’articolo “Donne e teorie della società: osservazioni sugli effetti teorici della collera delle oppresse” (2016 [1981]), pubblicato da Guillaumin sulla rivista quebecchese Sociologie et sociétés, è stato letto e studiato in Francia solo nella seconda metà degli anni Novanta. Negli anni ‘80 e ‘90, Colette Guillaumin ha pubblicato regolarmente su alcune riviste: Le genre humain, Pluriel, L’homme et la société, Sexe et race, Discours et formes d’exclusion au XIXe et XXe siècle [19]. È stato soprattutto il suo lavoro sul razzismo ad essere studiato nelle università francesi nell’ambito degli studi delle relazioni interetniche (in particolare nel laboratorio URMIS – Unità di ricerca sulle migrazioni – dell’Università di Nizza e dell’Università di Parigi Diderot) [20].

Ripubblicazione e riscoperta

A partire dagli anni ‘90, si è diffuso in Francia l’uso del concetto di genere attraverso soprattutto saggi in lingua inglese e, in particolare, a seguito della pubblicazione, da un lato, dell’articolo di Joan Scott “Il genere come utile categoria di analisi storica” che ha toccato un vasto pubblico (Scott, 1988 [1986]) e, dall’altro, del lavoro di Judith Butler (2005 [1990]). Il movimento femminista francese conosce in quel momento un momento di nuovo vigore che trova la sua espressione nella grande manifestazione del 25 novembre 1995 organizzata sfruttando lo slancio politico che veniva da un massiccio sciopero e a seguito dell’effetto prodotto dalla Conferenza mondiale sulle donne organizzata quell’anno dalle Nazioni Unite a Pechino che ha spinto il femminismo verso prospettive più istituzionali, prime fra tutte quelle di una “parità” definita in termini essenzialisti e quella di una concezione della nozione di genere dettata da canoni onussiani [21]. La pubblicazione nel 1991 di una raccolta di saggi e articoli di Nicole-Claude Mathieu (2013 [1991]) e poi, nel 1992, di testi di Guillaumin (2016 [1992]) con il sostegno dell’ANEF (Associazione Nazionale di Studi Femministi, appena creata nel 1989) si sono rivelate fondamentali per rendere questi testi femministi accessibili alle nuove generazioni, in un momento in cui gli insegnamenti su donne, sesso e genere erano in fase di grande rinnovamento [22]. Nel 1995, una selezione di articoli di Guillaumin preceduti da un’importante prefazione di Danielle Juteau è stata pubblicata in inglese dalla celebre casa editrice Routledge, mostrando l’ampiezza del lavoro della teorica e la sua trasversalità rispetto agli ambiti femministi e a quelli delle relazioni interetniche. Se dagli anni Ottanta gli articoli pubblicati in Questions féministes sono stati pubblicati anche in inglese sulla rivista Feminist Issues, la loro riedizione per un pubblico più ampio è stata importante: proprio in quest’ottica, Danièlle Juteau scrive il suo rilevante saggio introduttivo che ricostituisce con grande rigore i diversi contesti storici e politici in cui i testi di Guillaumin sono stati scritti.

È stato soprattutto all’inizio degli anni 2000, quando i virulenti dibattiti sulla questione dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche stavano attraversando la società francese e il movimento femminista dell’epoca, che il lavoro di Guillaumin ha ricevuto una nuova attenzione da parte degli studi femministi in Francia. In università, le analisi che usano il concetto di genere si sono andate progressivamente sviluppando toccando uno spettro disciplinare più ampio e beneficiando di un sostegno istituzionale rafforzato (Fougeyrollas-Schwebel et al. 2003). In un tale contesto, una nuova generazione di ricercatrici e ricercatori comincia ad occuparsi di oggetti di ricerca riguardanti le questioni di genere. Si dibatte, conseguentemente, dell’esistenza di una nuova e “terza ondata” di femminismo (Lamoureux 2006). In concomitanza, si moltiplicano le analisi sull’articolazione tra dominazioni sessiste e razziste che suscitano la traduzione in francese di testi del black feminism [23]. Allo stesso tempo, l’associazione studentesca femminista EFIGIES, creata nel 2003, organizza nel maggio del 2005 le sue prime giornate di studio dedicare al tema “Il genere all’intersezione di altre relazioni di potere”. Questa iniziativa, che si iscrive in continuità col lavoro di Colette Guillaumin e vuole esserne un omaggio, rappresenta per molte studiose, ricercatrici e studentesse, il primo incontro con le sue pubblicazioni.

Letture contemporanee di Guillaumin

Oggi, quindici anni dopo, la società francese è cambiata dal 2005. La presenza e la visibilità delle persone provenienti da migrazioni post-coloniali sono aumentate e il razzismo e l’islamofobia sono diventati sempre più virulenti. Gli studi sul genere e sulla sessualità hanno progressivamente guadagnato molta legittimità, ma sono ormai parte di un’università neoliberalizzata in cui la competizione e la pressione a distinguersi attraverso la produzione accademica sono sempre più esacerbate. Il paradigma dell’intersezionalità si è notevolmente sviluppato sia in ambito accademico che in ambito militante (Dorlin 2005; Palomares e Testenoire 2010; Davis, 2015). L’intersezionalità è diventata una nozione aperta e flessibile nei suoi significati e nei suoi usi al punto che il suo senso può essere vago e essere ormai impiegata da un considerevole numero di attori sociali. Questo fenomeno è stato definito e studiato da alcune ricercatrici femministe come una sua forma di “sbiancamento” (Bilge 2015) e i suoi usi possono esorbitare il campo delle stesse persone razzizzate (Aït Ben Lmadani e Moujoud 2012). Oggi l’intersezionalità è diventata lo strumento e il sinonimo della volontà di articolare razza e sesso, strumento usato per de-invisibilizzare razzismo, persone razzizzate e, soprattutto, donne razzizzate. Per questo motivo, anche quando lascia in ombra le questioni di classe (e in particolare l’analisi del modo di produzione capitalista) [24], il paradigma intersezionale appare comunque utile, dal momento che il femminismo francese soffre di un notevole ritardo nell’ambito delle questioni di razza e razzismo. Contemporaneamente, le prospettive queer e più recentemente trans*, nella loro grande varietà (comprese le analisi queer e trans di colore) hanno acquisito un peso di rilievo nell’attivismo e nell’università. Esse mirano a mettere in discussione il binarismo quanto mai riduttivo “dei generi” e la naturalità del sesso. Infine, le prospettive decoloniali latinoamericane e caraibiche, tradotte in francese ancora più recentemente, affermano che il genere stesso sarebbe un’imposizione coloniale che ha dicotomizzato – su un modello occidentale – società molto più complesse (Lugones 2019 [2008]). Le tante novità di questo contesto ci portano, ora, a fornire elementi per chiarire ciò che, leggendo Guillaumin, può oggi apparire talvolta problematico. Cercheremo, così, di dissipare aspettative anacronistiche e alcune forme di fraintendimento storico [25], per meglio evidenziare le specificità della sua opera e il suo interesse attuale.

Sulla “classe delle donne” e l’“analogia” tra sesso e razza

In passato criticato per riaffermare la preminenza delle classi sociali, il concetto guillauminiano di “classi di sesso” è ora criticato perché sarebbe omogeneizzante e binario. La prima critica (l’omogeneizzazione) è riferita alle differenze o, meglio, agli antagonismi legati alla razza. Eppure, nelle sue analisi Guillaumin non omogeneizza mai le donne, né ignora la diversità delle loro situazioni che derivano, in particolare, dall’appartenenza a vari gruppi razziali, come ha ben analizzato Juteau (2010; 2015). Un testo del 1977 mostra che Guillaumin coglie finemente gli “effetti incrociati” del sesso e delle diverse posizioni di razza in relazione all’attività-lavoro. Analizziamo il seguente estratto:

Nel 1977 in Francia, ad esempio, se ci si trova di fronte a una donna, ci si trova sicuramente di fronte a una persona che svolge un lavoro domestico gratuito, e probabilmente anche a una persona non retribuita, o talvolta retribuita, che pulisce fisicamente i bambini e le persone anziane, in famiglia o in strutture pubbliche e private, ed è molto probabile che ci si trovi di fronte a una di quelle persone che lavorano pagate al salario minimo (se non meno), che sono donne (Guillaumin 2016 [1977], pp. 180-181).

Aggiunge:

Nel 1977, in Francia, se vi trovate di fronte a un uomo “di origine mediterranea” – e non uso volutamente un termine nazionale, perché la nazionalità non c’entra, mentre la regione del mondo è determinata… – è probabile che vi troviate di fronte a uno di questi lavoratori con un tipo di contratto specifico o addirittura a un lavoratore che può non averne affatto e, forse, nemmeno un permesso di soggiorno, qualcuno che lavora più ore degli altri lavoratori, e questo nell’edilizia, nelle miniere o nell’industria pesante. Nel 1977, se ci si trova di fronte a un uomo o a una donna afroamericani, è probabile che ci si trovi di fronte a qualcuno impiegato nel settore terziario, soprattutto nell’ambito dei servizi: ospedali, trasporti, comunicazioni, a qualcuno impiegato nel servizio pubblico (Guillaumin 2016 [1977], pp. 181-182).

E a seguire:

Nel 1977 in Francia, se ci si trova di fronte a una donna “di origine mediterranea”, è probabile che ci si trovi di fronte a una persona che lavora anch’essa nei servizi, ma non nel settore pubblico, nel settore privato questa volta, individualizzato (un datore di lavoro individuale) o collettivo (un’azienda): donna delle pulizie, badante, sguattera, etc.Che ci si trovi di fronte a una persona che svolge lavoro domestico extra-familiare (come donna “di origine mediterranea”) per un salario subalterno e lavoro domestico familiare (come donna) gratuitamente, etc. (Guillaumin 2016 [1977], pp. 181-182).

Questa citazione, molto densa, ricorda la successiva, e molto approfondita, analisi di Evelyn Nakano Glenn (1992) sulla distribuzione delle posizioni occupazionali per razza e sesso negli Stati Uniti. Guillaumin, certamente, non affronta direttamente la conflittualità intracategoriale all’interno delle classi di sesso. Ne è ben consapevole, ma la colloca principalmente nel contesto delle “opposizioni politiche” (torneremo sulla questione). Notiamo già che, a livello politico, Guillaumin ha partecipato attivamente a diversi conflitti all’interno del movimento femminista, posizionandosi in particolare contro l’essenzialismo espresso dal gruppo “Psicoanalisi e politica”. Sul piano teorico, ricordiamo che le canoniche analisi marxiste di classe non impediscono in alcun modo di cogliere il conflitto che attraversa le diverse frazioni di classe. Altrimenti Gramsci non avrebbe mai potuto teorizzare l’egemonia. Pertanto, pensare con Guillaumin che esista una classe di donne non obbliga a omogeneizzarla, né a negare le opposizioni di interessi al suo interno come hanno sostenuto Moujoud e Falquet (2010) in una loro ricerca sulle lavoratrici domestiche e sui loro datori di lavoro.

La seconda critica contemporanea mossa al pensiero di Guillaumin riguarda l’eventualità che pensare in termini di classi di sesso produca un problematico “binarismo” che rischierebbe di avallare l’idea naturalista secondo cui le disuguaglianze di sesso siano in ultima analisi il risultato di un dimorfismo sessuale, ignorando, così, o condannando la molteplicità dei corpi e le diverse espressioni di genere. Una simile critica nasce, tuttavia, da un fraintendimento rispetto alla definizione di “rapporti sociali” che si collocano a un livello di analisi diverso dalle relazioni sociali, confondendone gli effetti e la logica. Il binarismo è, infatti, il “risultato” dell’antagonismo (che implica la creazione di “differenti-altri-inferiori”), antagonismo a sua volta creato dal rapporto sociale di appropriazione (causa). Per questo, la lotta deve mirare all’abolizione dei rapporti sociali di potere (che sono problematici in sé e tendono effettivamente a omogeneizzare il gruppo minoritario) e non a produrre o coltivare la molteplicità all’interno delle diverse classi di sesso, una molteplicità empirica che è molto reale, ma che di per sé non pone fine al sistema. Lo spiega bene Wittig (2001 [1980]) che, in questo, si rifà esplicitamente a Guillaumin per dire che l’esistenza del lesbismo (e non dell’omosessualità femminile) come “luogo terzo” (al di là del maschile e del femminile, al di là degli uomini e alle donne) dimostra la falsità dell’ideologia binaria dominante. Tuttavia, per Wittig, come per Guillaumin, non si tratta di riferirsi al costituirsi delle lesbiche come gruppo identitario con l’unico scopo di condurre una vita separata o di sovvertire le mere (etero)norme, ma piuttosto del loro attaccare con tutte le loro forze e “collettivamente” l’ideologia della differenza sessuale (il “pensiero straight”), aspetto mentale di una “formazione sociale” basata sui rapporti di sessaggio.

Un terzo tema che interroga il lavoro di Guillaumin è quello dell’analogia tra sesso e razza. Analogia è un termine che pone una vera e propria difficoltà semantica poiché può significare “parentela, somiglianza” e consentire paragoni pedagogici ed euristici, ma anche essere connotato in senso peggiorativo se si riferisce a correlazioni affrettate o inoperanti, quando non false. Nell’ambito delle relazioni di razza, la questione è scottante viste le analogie così spesso fatte negli Stati Uniti, prima nel XIX secolo, tra schiavitù e matrimonio e poi, una volta ottenuta l’abolizione, tra razzismo e sessismo, e considerate le potenti critiche delle donne e femministe nere americane contro queste analogie. In particolare, tali militanti hanno sottolineato l’ingenuità di tali analogie di fronte alle terribili realtà vissute dalle persone schiave e si sono rammaricate del fatto che esse abbiano portato all’usurpazione della legittimità delle lotte abolizioniste e antirazziste a favore delle lotte di donne maggioritariamente bianche, impedendo di pensare in modo accurato una di queste realtà, quando non entrambe. Soprattutto, a partire dalla famosa frase attribuita a Sojourner Truth (1851), le femministe nere americane hanno sottolineato la difficoltà di pensare attraverso il prisma dell’analogia alla situazione di persone che sono razzializzate e femminilizzate come ci ricordano Bentouhami e Guénif (2018). Il malessere permane da allora, anche se non possiamo applicare meccanicamente le critiche delle femministe nere americane ai movimenti sociali francesi e alle tradizioni teoriche antirazziste e femministe che derivano da differenti storie schiavistiche, coloniali e migratorie [26]. La duplice influenza del marxismo e dello strutturalismo francese contribuisce, infatti, a collocare Guillaumin “altrove”. Questo vale soprattutto perché, come abbiamo visto, Guillaumin propone un’analisi approfondita del razzismo basata non solo su diversi sistemi di schiavitù coloniale che vanno oltre al caso degli Stati Uniti e includono i Caraibi, ma anche sull’antisemitismo e sulle migrazioni dall’area mediterranea. In questo senso Guillaumin non mette in relazione il sesso (che sarebbe la variabile centrale) con un razzismo superficialmente inteso e confuso con la schiavitù di piantagione americana, ma trae dall’analisi del razzismo riflessioni globali sull’alterizzazione.

Ecco perché l’affermazione di Delphine Naudier e di Eric Soriano (2010) secondo cui Guillaumin avrebbe praticato un’analogia “virtuosa” perché pedagogica si presta a un fraintendimento, visto Guillaumin non formula il tipo di analogia denunciato dalle femministe afroamericane. Notiamo innanzitutto che Guillaumin utilizza i termini “parentela”, di “avvicinamento” possibile tra sessaggio e schiavitù e non quello di “analogia”, essendo molto critica nei confronti della “modalità di approccio che sottende costantemente il ‘pensiero d’ordine’ nel suo rifiuto di analizzare i processi di cambiamento” (Guillaumin 2016 [1978], p. 161). Il pensiero di Guillaumin è anche lontano da una visione antistorica e lacrimevole che farebbe della schiavitù “il senso comune dell’orrore”: si basa invece sull’analisi sociologica e politica di fatti storici. Soprattutto, invece di collocare “classe” e “razza” secondo un’immagine speculare, Guillaumin riflette su un insieme di regimi sociali che comprendono la servitù della gleba, il sistema delle caste e un insieme circostanziato di diverse logiche di schiavitù [27]. Il suo obiettivo è infatti quello di individuare, a monte di questi sistemi variegati e correlati, una logica globale che chiama “la pratica del potere e l’idea di Natura, o i rapporti di appropriazione”.

Pensare le donne razzizzate, pensare l’articolazione dei rapporti sociali di sesso e di razza

Passiamo ora alla questione del “punto cieco” della teoria del sessaggio, ovvero all’idea che tale teorizzazione sia stata pensata principalmente dal punto di vista delle donne bianche (occidentali, di classe privilegiata) e che, di fatto, descriva solo la loro situazione. Esaminiamo una per una le espressioni di appropriazione formulate da Guillaumin: le donne razzizzate non sarebbero appropriate nel loro tempo, nei loro corpi, nei prodotti dei loro corpi, non sopporterebbero il peso della violenza fisica e sessuale della classe sessuale antagonista, non si farebbero carico del peso fisico dei membri invalidi e validi della società? Se guardiamo, ora, ai mezzi della loro appropriazione: non sono forse spinte ai margini del mercato del lavoro, confinate nello spazio, mantenute ai bordi della società da una serie di violenze fisiche e sessuali, vincolate dal diritto consuetudinario e positivo? Non possiamo che concludere affermando che il concetto di sessaggio è assolutamente applicabile alle donne razzizzate. Inoltre, è sufficientemente aperto da consentire l’analisi di una serie di trasformazioni avvenute dopo la sua prima formulazione. Per esempio, la nozione di “confino nello spazio” può essere utilizzata per pensare le restrizioni statali alla mobilità delle donne attraverso le politiche migratorie come suggerito da Jules Falquet rispetto all’eterocircolazione delle donne (2011) o come propone Estelle Miramond analizzando le logiche della “lotta alla tratta” di giovani donne del Laos.

Certamente, le donne razzizzate, nella loro grande diversità, sono appropriate in modo diverso dalle donne razzizzanti, così come dagli uomini razzizzati, è evidente. Ma perché, invece di vedere le donne razzizzate come “doppiamente marginalizzate” attraverso il prisma delle teorie dell’appropriazione di razza e quella di sesso, non capovolgere il punto di vista e considerarle come soggetti centrali dell’appropriazione? E allo stesso tempo perché non concepire gli uomini razzizzati e le donne bianche come gruppi “marginali” rispetto all’appropriazione. Non è l’analisi di Guillaumin a impedirci di farlo, ma, forse, piuttosto il fatto che per molte donne bianche e per molti uomini razzizzati apparire come “casi particolari” di rapporti di potere minerebbe la loro egemonia sulle lotte e sulla teoria.

Appartenere a certi gruppi permette o impedisce di essere lesbiche (non dico omosessuali). Appartenere a certi gruppi ti mette direttamente a confronto con gli uomini a cui appartieni, ma non con tutti gli uomini. Appartenere a certi gruppi significa essere uccise/i per essere nate/i in quel gruppo e uccise/i con il gruppo nel suo insieme. Appartenere a certi gruppi significa essere segregate/i o imprigionate/i o cacciate/i o discriminate/i per il fatto di appartenere a quel gruppo, con il gruppo nel suo insieme. Appartenere a certi gruppi significa confrontarsi direttamente con gli uomini a cui si appartiene e confrontarsi, inoltre e spesso, con gli uomini che dominano gli uomini a cui si appartiene. Appartenere a certi gruppi fa di voi il premio, l’ostaggio o il mezzo nella guerra che questi gruppi fanno ad altri gruppi oppure nella guerra che questi gruppi sono costretti a subire (Guillaumin 2017 [1998]).

Detto questo, ciò che interessa a Guillaumin sono “le scelte politiche” che ciascuna donna compie in un universo di possibilità influenzato, ma non sovradeterminato, dall’appartenere ad un dato gruppo: “non sono le donne a essere diverse (anche se naturalmente sono diverse nella loro esistenza quotidiana), sono le loro scelte politiche a essere diverse” (Guillaumin 2017 [1998]). Nello stesso intervento, Guillaumin distingue tre tendenze profondamente diverse, persino antagoniste, nei movimenti delle donne. Non borghesi contro proletarie, né donne razzizzate contro donne razzizzanti. Queste divisioni possono, certamente, costituire linee di opposizione, ma sono ben lontane dall’esaurirle o dal sovrapporvisi strettamente proprio per il fatto che le relazioni di potere sono tra di loro intrecciate. Guillaumin distingue tra corrente “corporativista”, corrente “sindacale” e corrente “politica”. Quest’ultima rimanda per Guillaumin al fatto di possedere, a partire da una posizione sociale di donna, un progetto globale di società che includa una critica dei rapporti di potere nella loro molteplicità. È con quest’ultima tendenza che Guillaumin si identifica, alla ricerca di un’unità politica strategica della classe delle donne che non esclude in alcun modo tattiche di lotta autonome (per classe, religione, nazione, cultura, “razza” o anche come lesbiche), ma che rifiuta la reificazione identitaria-naturalistica prodotta, appunto, da analisi “tubolari” o monotematiche. In altre parole, Guillaumin sviluppa a partire dalla propria posizione situata nel tempo, nello spazio e nelle diverse relazioni sociali, strumenti che tengono conto della simultaneità di molteplici rapporti sociali e lo fa nel quadro di un progetto di lotta “per la giustizia sociale”. Quest’ultimo, al di là delle dispute concettuali che hanno circondato l’espansione del paradigma intersezionale, costituisce l’obiettivo originario e centrale delle femministe nere (Patricia Hill Collins 2017). Ciò induce a ritenere che pensare alla molteplicità e all’intreccio dei rapporti sociali potrebbe essere più il risultato di diverse “correnti” femministe che la specificità di date “ondate” del femminismo.

Su alcuni “femmages” e usi attuali dell’opera di Guillaumin

Dopo la scomparsa di Guillaumin, diverse pubblicazioni e vari eventi scientifici tenutisi in Francia e in Québec le hanno reso omaggio [28]: nell’ottobre del 2018 una giornata di studio organizzata dalla rete “Genere, classe, razza. Relazioni sociali e costruzione dell’alterità” dell’Associazione francese di Sociologia con la partecipazione di Danielle Juteau, nel giugno del 2019 un convegno internazionale “Penser la (dé)naturalisation de la race et du sexe: actualité de Colette Guillaumin” presso l’Università di Ottawa [29] nell’ottobre del 2019 una giornata organizzata dall’Association Nationale d’Études Féministes (ANEF) nella quale a Guillaumin era associata Nicole-Claude Mathieu (morta nel 2014). Si è, così, potuto constatare l’interesse per l’opera di Guillaumin di un gran numero di ricercatori e ricercatrici provenienti da diverse parti del mondo e attivi/e in diverse discipline.

In Francia, sono in special modo i/le sociologi/sociologhe e gli/le antropologi/antropologhe che hanno ripreso il suo lavoro. All’interno della rete “Genre, classe et race” dell’Associazione francese di sociologia, diversi/e ricercatori/ricercatrici utilizzano il lavoro di Guillaumin per analizzare le migrazioni, le relazioni interetniche e le interazioni negli ambienti militanti (cfr. il lavoro del gruppo di ricerca vicino all’URMIS, Ryzlène Dahhan, Pauline Picot, Damien Trawalé, Claire Cossée e Aude Rabaud); per studiare il lavoro domestico transnazionalizzato delle donne haitiane (Rose-Myrlie Joseph 2015) o per riflettere sulle traiettorie di lesbiche magrebine migranti in Francia o francesi nate da genitori magrebini (Salima Amari, 2018). Nel campo dell’antropologia, Nehara Feldman (2018) utilizza le analisi di Guillaumin per studiare la migrazione delle donne maliane, mentre la sociologa haitiana Sabine Lamour (2017) rivisita con lei il concetto di Poto-mitan [30].

Guillaumin è molto utilizzata anche in Québec, dove ha soggiornato in diverse occasioni. Come è noto, ha profondamente influenzato il campo della ricerca sulle questioni interetniche, di cui Juteau è stata una delle principali specialiste. A partire dall’articolo di Guillaumin sui femminicidi al Politecnico di Montréal [31], si è sviluppato il campo di studio sull’antifemminismo, in particolare con Diane Lamoureux e Anne-Marie Devreux (2012), e poi sul mascolinismo con Mélissa Blais (2018). Guillaumin costituisce un importanre riferimento anche in altre discipline: basti pensare alla ricerca della politologa Linda Pietrantonio sul concetto di “maggioritario” (2005) o a quella di Dominique Bourque sulla presa di parola minoritaria nel campo letterario (2015). La sociologa francese Elsa Galerand (2015), quebecchese d’adozione, si basa sui concetti guillauminiani per studiare la globalizzazione e il lavoro delle donne migranti in Canada. Al colloquio di Ottawa sono intervenuti ricercatori e ricercatrici che utilizzano il lavoro di Guillaumin per affrontare altri temi ancora: l’abilismo, l’appropriazione dei bambini e delle bambine, l’economia politica e la riproduzione sociale, il movimento lesbico, la lingua, i diritti abitativi, il lavoro sessuale, i racconti delle popolazioni indigene del Québec e l’arte delle donne aborigene australiane (Bronwyn Winter 2016). In Italia, la recente pubblicazione della traduzione di Sesso, razza e pratica del potere è la prova dell’esistenza di un gruppo di ricercatrici femministe che si interessano alle sue analisi sul razzismo e sul sessaggio (Garbagnoli et al. 2020).

Infine, la traduzione in spagnolo nel 2005 del suo articolo del 1978 “Pratique du pouvoir et idée de nature” da parte del collettivo transnazionale “Brecha Lésbica” (Curiel e Falquet 2005), e la successiva pubblicazione in portoghese da parte di una delle più antiche associazioni femministe del Nordeste brasiliano, SOS Corpo (Ferreira et al, 2014), hanno alimentato il crescente interesse di ricercatrici e attiviste latinoamericane e caraibiche per le analisi materialiste francofone che entrano in risonanza con diverse tradizioni femministe marxiste e con il lavoro di alcune femministe decoloniali del continente. Ricercatrici che lavorano in Colombia, Brasile, Argentina e Messico utilizzano Guillaumin, insieme ad altre teoriche femministe materialiste per affrontare un’ampia gamma di campi di indagine: Ochy Curiel (2013) la utilizza per teorizzare il carattere fondamentalmente eterosessuale della Costituzione colombiana del 1991; July Angeli Loaiza Zapata (2017) per riflettere sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini armati durante il conflitto colombiano; Mirla Cisne (2014) per affrontare l’intreccio di discriminazioni nel campo del lavoro sociale in Brasile; mentre le filosofe argentine María Luisa Femenías (2019) e Luisina Bolla (2019) la fanno dialogare con la teoria decoloniale. Luisina Bolla è all’origine della formazione di un gruppo di studio femminista materialista all’Università di La Plata [32]. Negli anni ’80, la scrittrice argentina di fantascienza Angélica Gorodischer si era già interessata a Guillaumin. Negli anni ‘80, la scrittrice argentina di fantascienza Angélica Gorodischer si era già interessata a Guillaumin.

NOTE

[1] Il saggio è stato pubblicato come introduzione al numero speciale dei Cahiers du genre dedicato a Colette Guillaumin. n° 68, 2020/1, pp.15 à 53, https://www.cairn.info/revue-cahiers-du-genre-2020-1-page-15.htm. Camille Noûs è il nome di una ricercatrice fittizia, creata nel 2020 su iniziativa del gruppo di difesa della ricerca RogueESR come metafora per protestare contro le politiche di fragilizzazione della ricerca da parte del governo francese. L’associazione di questa co-autrice agli articoli scientifici rimanda al riconoscimento pubblico dei valori della ricerca pubblica.

[2] Juteau Danielle, “La sociologa Colette Guillaumin è morta”, Le Monde, 18 maggio 2017.

[3] Il femminismo materialista è come una corrente femminista formata da teoriche quali Nicole-Claude Mathieu, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Monique Wittig e Paola Tabet, nonché dal collettivo della rivista Questions féministes (1977-1980). L’idea di un “femminismo materialista” come corrente di pensiero strutturata con i contorni che conosciamo oggi è in larga misura una “costruzione retrospettiva” in reazione all’emergere, a partire dagli anni ‘90, di un femminismo cosiddetto “postmoderno”. La rivista Questions féministes si definiva “femminista radicale”. Per una storicizzazione di questa corrente, cfr. Abreu, 2017.

[4] Feminist Issues è una rivista femminista statunitense pubblicata dal marzo 1980. Inizialmente, le direttrici della pubblicazione, Mary Jo Lakeland e Susan Ellis Wolf, intendevano tradurre in inglese e pubblicare i testi usciti in Francia su Questions féministes. Dopo il conflitto che ha posto fine all’esperienza di QF, l’iniziativa è proseguita con parte della precedente redazione. Nel primo numero di FI Wittig figurava come “Editor Advisory”, mentre nel secondo Capitan Peter, Guillaumin, Mathieu e Plaza erano indicati come “corrispondenti”.

[5] Le Genre humain è una rivista creata nel 1981 su iniziativa di Guillaumin, Léon Poliakov e Albert Jacquard dedicata all’analisi del razzismo. Il primo numero era intitolato “La scienza di fronte al razzismo” (Fresco, Olender 2017).

[6] Per ulteriori informazioni biografiche, si vedano Juteau (2017), Lhomond (2017), Naudier e Soriano (2010).

[7] Questo centro, fondato nel 1950 e inizialmente collegato al Centro di studi sociologici, è diretto da Paul-Henry Chombart de Lauwe. Le sue aree di ricerca comprendono: “La famiglia, le donne e gli uomini” e “Le segregazioni di classe e di gruppo etnico”.

[8] Sotto la direzione di Roger Bastide, presso l’École Pratique des Hautes Études.

[9] Il CERIN è stato fondato nel 1966 su iniziativa di Henri Laugier. Questo centro è poi diventato l’Istituto di studi e ricerche interetnici e interculturali (IDERIC).

[10] Mary McIntosh pubblica The Homosexual Role nel 1968. Sull’importanza di questo testo e per una panoramica delle ricerche dell’epoca, si veda, ad esempio, Jeffrey Weeks ([1998] 2011).

[11] Nature-elle-ment (la-natura-mente) è il titolo del numero 3 (maggio 1978) della rivista Questions féministes, in cui Guillaumin pubblica la seconda parte del suo saggio “Pratique du pouvoir et idée de nature”.

[12] Questo gruppo è stato creato nel 1975 ed è collegato, da parte francese, alla Maison des Sciences de l’Homme e, da parte inglese, al Social Science Research Council (Londra). È composto da ricercatrici inglesi e francesi come Diana Barker [Leonard], Leonore Davidoff, Jalna Hanmer, Jean Gardiner, Hilary Land, Maxine Molyneux, Jane Shaw e Anne Whitehead per la parte inglese; Noëlle Bisseret, Colette Capitan-Peter, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Emmanuelle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e Ursula Streckeisen per la parte francese.

[13] Sulla stampa femminista dell’epoca: Kandel 1979; Laroche e Larrouy 2011.

[14] Questa analisi dell’ideologia può essere confrontata con quella di Maurice Godelier (1984), che definisce l’ideale e il materiale come componenti di ogni relazione sociale (Daune-Richard e Haicault 1985).

[15] La Revue d’en face è una rivista politica femminista creata nel maggio 1977 e pubblicata inizialmente da Savelli. Nel novembre 1978, entra a far parte della casa editrice Tierce. Si tratta di una pubblicazione che proponeva un’alternativa analitica sia alla corrente differenzialista di Psychanalyse et Politique sia a quella delle femministe radicali di Questions féministes.

[16] Dalla Costa e James 1973; Delphy e Léger 1998 [1976]; Collectif l’Insoumise 1977; Guillaumin 1979; Bourgeois et al. 1978.

[17] Questo gruppo è stato finanziato dal programma PIRTTEM (Programma di ricerca interdisciplinare sulla tecnologia, il lavoro, l’occupazione e gli stili di vita) del CNRS dal 1985 al 1987 (più di trenta partecipanti); tutti i seminari hanno dato luogo a pubblicazioni (Marie-Agnès Barrère-Maurisson e Annette Langevin erano le responsabili delle pubblicazioni). Un colloquio internazionale, tenutosi nel novembre 1987, ha registrato un’ottima partecipazione. L’APRE, istituito in seguito al gruppo ad hoc di Città del Messico e alla pubblicazione di Sexe du travail, ha riunito la maggior parte delle équipe del CNRS e delle università che lavoravano in quel periodo nel settore (CSU-Paris, LEST-Aix en Provence, GEDISSTt-Paris, Groupe d’étude des rôles de sexes, de la famille et du développement, CEDREF Université Paris VII, Université de Nantes, ecc.).

[18] Dibattito organizzato tra Colette Guillaumin e “amiche militanti passate all’estrema sinistra”.

[19] Rivista creata nel 1985 da Rita Thalmann e pubblicata fino al 1999 dal CERIC (Centre d’études et de recherches inter-européennes contemporaines), Université Paris VII.

[20] L’Università di Parigi VII è stata pioniera nel collegare gli studi di genere o sui rapporti sociali di sesso con quelli sulle minoranze etniche migranti (v. la rete “Donne in migrazione” avviata dal CEDREF e dall’URMIS a partire dal 1997).

[21] Dagli anni Settanta a oggi si delinea così un percorso in qualche modo paradossale della ricerca femminista, a lungo lasciata ai margini della ricerca accademica e descritta come ideologica e militante: il contesto internazionale favorisce ora l’emergere di “esperte” e accademiche (Fougeyrollas-Schwebel 2000; si veda anche Collin 1995).

[22] Pubblicati da “Côté femmes” che continuerà ad esistere attraverso la collana “Bibliothèque du féminisme” edita da L’Harmattan, (1996-2009).

[23] Ricordiamo la pubblicazione in francese di Sister Outsider di Aude Lorde (2003); alcuni numeri speciali di riviste (Cahiers du Genre, 2005 e HS 2006); Cahiers du Cedref, 2006); Dorlin e Rouch (a cura di) Black feminism: anthologie du féminisme africain-américain, 1975-2000 (2008). Nel 2007 è ristampato, Femmes, race et classe di Angela Davis, già pubblicato in francese nel 1983.

[24] Non abbiamo qui lo spazio necessario per trattare a sufficienza la questione della classe: la lasceremo quindi da parte. Notiamo però che Guillaumin sottolinea l’importanza della contraddizione tra rapporti di appropriazione e rapporti di sfruttamento. Jules Falquet segue questa linea analitica, sviluppandola in una prospettiva storica e strutturale, per analizzare la globalizzazione neoliberale attraverso i concetti di “vasi comunicanti” (2015) e di “combinatoria straight” (2016).

[25] Rafforzato dalla sistematica e ricorrente cancellazione della storia femminista che porta alla perpetua illusione dell’anno zero che aveva colpito anche le attiviste e le teoriche del 1970.

[26] Per un’analisi dettagliata del libro pionieristico del 1978 La parole aux Négresses dell’autrice senegalese allora residente in Francia, Awa Thiam, si veda Bruneel e Gomes Silva (2017).

[27] Ad esempio, nel testo del 1978, distingue, da un lato, tra la Roma antica (familia), il XVIII e il XIX secolo nel Nord America e nelle Indie Occidentali e, dall’altro, situazioni di schiavitù con limiti temporali specificati in anni (la società ebraica, la polis ateniese, gli Stati Uniti d’America nel XVII secolo) o, ancora, situazioni di servitù della gleba con limiti temporali di durata pari a giorni della settimana.

[28] Un dossier intitolato “Racisme et sexisme, hommage à Véronique de Rudder, Nicole-Claude Mathieu et Colette Guillaumin” è stato pubblicato nel Journal des anthropologues n° 150-151 del 2016, a cura di Annie Benveniste, Catherine Quiminal e Jules Falquet; Hamel (2018); diversi articoli nella rivista Sociologie et Sociétés (49 (1), 2017) nonché un dossier nella rivista Cahiers de Recherche Sociologique, (67, 2020), sotto la direzione di Elsa Galerand, Danielle Juteau e Linda Pietrantonio.

[29] Ha riunito una trentina di relatori e relatrici dal 21 al 23 giugno 2019 presso l’Università di Ottawa. Gli atti filmati sono disponibili su https://leseditionssansfin.wixsite.com/colloqueguillaumin/videos.

[30] Potomitan è un’espressione creola antillano-guyanese. Si riferisce al palo centrale del tempio vudù, l’oufo. L’espressione può anche essere usata per indicare il “sostegno familiare”, di solito la madre. Il termine si riferisce alla persona al centro della famiglia, l’individuo attorno al quale tutto è organizzato e sostenuto.

[31] Il massacro dell’École Polytechnique è avvenuto il 6 dicembre 1989 all’École Polytechnique di Montreal, in Quebec (Canada). Marc Lépine, 25 anni all’epoca, ha aperto il fuoco su ventotto persone, uccidendone quattordici e ferendone altre tredici (9 donne e 4 uomini) prima di suicidarsi. È stato il massacro più letale nella storia del Canada compiuto in ambito scolastico.

[32] Primera Jornada sobre Feminismo Materialista: debates y relecturas desde el Sur, Università di La Plata, Argentina, 14 novembre 2019.

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