Monique Wittig: la fuga che fa dimenticare tutte le altre

Note a margine di Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 77, euro 10.

di Deborah Ardilli

Viviamo, per generale ammissione, in un’epoca in cui i tempi e gli spazi di ascolto concessi alla parola letteraria tendono a comprimersi. O a ridisegnarsi in funzione dell’ascendente esercitato da altri, più remunerativi, codici di comunicazione. Messo a confronto con i suoi fasti novecenteschi, l’accanimento nella ricerca di forme nuove, specie se animato da una tensione utopica e anti-conciliativa, oggi appare fortemente ridimensionato. Un’analoga sorte incombe sulla nostra memoria letteraria, cioè sull’unica riserva simbolica in grado di assicurare le condizioni di un uso rigenerante dei testi del passato. Date queste premesse, un écrivain — questo il nudo appellativo inciso sulla lapide del Père-Lachaise di Parigi — come Monique Wittig (1935-2003) sembrerebbe il candidato ideale a una ben gracile forma di sopravvivenza culturale, affidata per intero alle premure di una cerchia esclusiva di professionisti della parola in possesso delle chiavi per accedere ai suoi libri.

Se così non è, se l’opera di Wittig non è condannata a vegetare come una pianta da serra, insomma se la vita postuma di un’intellettuale di capitale importanza per la storia femminista e lesbica del Novecento può in qualche modo proseguire e confidare di raggiungerci nell’aperto, lo dobbiamo anzitutto al dinamismo di quel che ancora si muove alla periferia dell’accademia e del mercato editoriale. Appartengono a questa piccola schiera di engagées Eva Feole, specialista di letteratura francese, e la sociologa femminista Sara Garbagnoli, entrambe già autrici di diversi lavori su Wittig e su altre esponenti del femminismo materialista francofono, ai quali oggi si aggiunge Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, da poco pubblicato per la collana essentials di DeriveApprodi.

Con la sua perlustrazione limpida, concisa e solidamente informata delle coordinate entro cui gravita l’opera di Wittig, il volume si presenta nella veste di un’agile introduzione per principianti. Già questo basterebbe a raccomandarlo come esempio di divulgazione di qualità, a maggior ragione in una fase in cui torna di moda riavvicinare le parole “femminismo” e “materialismo”, sebbene resti per lo più eluso il confronto con le autrici (Christine Delphy, Monique Wittig, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet) che per prime si sono poste il problema di estendere all’analisi dell’oppressione patriarcale la strumentazione concettuale del materialismo storico. Ma a favore del libretto depone anche un’altra ragione, meno esteriore e più direttamente legata alle iniziative promosse dalle autrici per restituire centralità al contatto diretto con i testi wittighiani: da ultimo, la conduzione del ciclo di letture Nel cantiere letterario di Monique Wittig, organizzato insieme a Lesbiche Bologna e Some Prefer Cake tra gennaio e maggio 2023.

Non è un merito da poco, per chi si adopera a costruire occasioni di questo tipo, riuscire a riaccendere il piacere del testo senza soccombere all’alternativa rovinosa tra “fruire” e “capire”, all’ombra della quale cova la tentazione di scindere la Wittig poeta dalla Wittig politica, e di salvare l’una a spese dell’altra. Dunque, se leggere Wittig «non è altro che un’esortazione a reinventare il mondo» (MW, p. 12), la fatica che Feole e Garbagnoli le consacrano richiede a propria volta di essere recepita non già come un bignami autosufficiente, ma come un vero e proprio invito al viaggio. Nella consapevolezza che la sollecitazione a prendere il largo, anche da collaudati schemi percettivi e interpretativi, potrà essere effettivamente raccolta a patto di non bruciare in un generico conato decostruttivo le tappe che separano il punto di partenza, ossia la comprensione del funzionamento politico e ideologico del regime eterosessuale, dalla destinazione finale, ossia il superamento delle classi/categorie di sesso prodotte e riprodotte da quel regime.

Ai fraintendimenti ancora sussistenti a questo riguardo, Feole e Garbagnoli dedicano alcune battute introduttive, rimarcando da un lato il paradosso costituito dalle interpretazioni differenzialiste di Wittig (a lungo in voga in area anglofona alla voce French Feminism, ma presenti anche nel contesto italiano) e, dall’altro, l’inadeguatezza delle letture inclini a fare della scrittrice una «prodomica manifestazione delle teorie queer» (MW, p. 10): letture per altro parzialmente condivise, sia pure con giudizio di valore negativo, dalla capostipite francese del pensiero della differenza sessuale, Antoinette Fouque [1]. L’ostilità e l’estraneità di entrambe le correnti, differenzialista e queer, al paradigma materialista entro cui Wittig si inscrive (ed entro cui continuerà a inscriversi anche dopo la tempestosa dissoluzione del collettivo editoriale di Questions féministes) è la principale ragione della difficoltà a cogliere i contorni teorici del suo percorso intellettuale. Wittig non risponde al richiamo delle proliferazioni di genere, perché le sa impotenti a scalfire la tenuta del sistema eterosessuale. Analogamente, non si lascia incantare dalle sirene di una differenza più “originaria” di quella posta dal patriarcato, perché riconosce l’inganno delle ontologie fondamentali che proiettano nell’essere le divisioni gerarchiche create dall’organizzazione sociale.  

Chiariti tali aspetti, le direzioni da seguire vengono individuate da Feole e Garbagnoli attraverso cinque lemmi-chiave illustrati, con gli opportuni riferimenti bibliografici, in altrettanti capitoli. Ultimo in ordine di apparizione — preceduto da «Femminismo materialista», «Pensiero straight», «Cantiere letterario», «Corpo lesbico» — «Cavallo di Troia» è il capitolo da cui suggerirei di cominciare. Avere preliminarmente chiaro cosa voglia dire «ridefinire l’universale, sottraendolo alla confisca fattane dai dominanti» (MW, p. 68) è, in effetti, il modo più spedito per rendersi conto di quale sia la sfida lanciata da Wittig a un tempo — il nostro, più ancora di quello della sua vita — talmente ripiegato su rivendicazioni di “parità nella differenza” da non avvertire nemmeno la contraddizione in termini custodita dallo slogan in questione.

Cavallo di Troia, dunque. Tratta dal secondo libro dell’Eneide, (ri)letta da Wittig nella straniante traduzione francese di Pierre Klossowski, la figura della macchina da guerra ideata dai greci per spiazzare le difese nemiche è l’immagine che, con frequenza crescente a partire dalla fine degli anni Settanta, la scrittrice elegge a metafora privilegiata del proprio fare poetico. Potremmo dire, in forzosa sintesi, che quella del cavallo di Troia è l’immagine deputata a descrivere il movimento dialettico che consente al fare poetico di liberare la propria riserva di energia senza disperderla nell’informe e nell’indeterminazione. Da un lato, si tratta infatti di mettere in crisi le convenzioni letterarie ereditate, a partire dai presupposti che fondano la classificazione canonica dei generi letterari; dall’altro, si tratta di procedere al «rimontaggio dei materiali precedentemente smontati e rilavorati che conduce alla costruzione di un senso nuovo» (MW, p. 67). Sotto questo profilo, l’opera letteraria può agire come una macchina da guerra solo sulla base di un alto grado di intertestualità e di un’esplicita intenzione anti-mimetica nei riguardi dell’ipotesto ripreso nella nuova scrittura. Il modello parodiato, ovvero riplasmato dal punto di vista minoritario, perde così il proprio statuto canonico per diventare materiale da lavoro, sottoposto a nuovi fini. Il «cantiere letterario», lo spazio «al contempo concreto e astratto che coincide con la pagina ancora da scrivere», pur contenendo «tutto ciò che è stato già scritto dagli altri scrittori e scrittrici» (MW, p. 39), altro non che è il luogo adibito alla fabbricazione di quegli avatar del cavallo del Troia che i testi wittighiani ambiscono a essere.

L’enfasi sulla scrittura come lavoro applicato al materiale linguistico e la valorizzazione della metafora militare sono i tratti che, con maggiore evidenza, permettono di distinguere la poetica wittighiana da quell’idea di écriture féminine che, a partire dagli anni Settanta, ha largamente influenzato la percezione del rapporto tra femminismo e letteratura, trasformando il primo in un elogio a oltranza della differenza (cioè in un anti-femminismo che si esplicita come tale a fasi alterne, a seconda delle geografie e delle opportunità politiche) e facendo della seconda una sorta di calco simbolico del corpo sessuato. Diversamente, come sottolineano Feole e Garbagnoli, stanno le cose per Wittig. Da questo punto di vista, la figura del cavallo di Troia si impone, in sede di riflessione meta-letteraria, come un morceau choisi sfilato dal fornitissimo arsenale di strumenti offensivi e difensivi, ordigni e marchingegni bellici che appaiono a cadenza regolare nella fiction wittighiana: ausili indispensabili allo scatenamento di quel «furore così perfetto» messo in scena per significare la violenza necessaria a condurre a buon fine l’«ultima guerra possibile della storia» (G, p. 184/ p. 115).

Difficile, in questo senso, non accorgersi di come la presenza massiccia, nei romanzi wittighiani, di archi, frecce, scudi, carabine, specchi capaci di proiettare raggi micidiali, lancia-razzi, mitragliette e pistole laser richiami, per antitesi, un aspetto costante dei rapporti di dominio patriarcali, vale a dire il sottoequipaggiamento tecnologico che priva le dominate di una capacità di intervento sul mondo estesa al di là delle possibilità e dei limiti del corpo fisico. «Non sarà questa», si chiede l’antropologa Paola Tabet, «una delle condizioni necessarie perché le donne stesse siano materialmente utilizzabili nel lavoro, nella riproduzione, nella sessualità?» [2].

Ecco allora che, per annullare le condizioni della reificazione delle donne e della feticizzazione della differenza sessuale, la pagina di Wittig si popola di armi, in modo tale da suggerire un’associazione stretta fra lotta antipatriarcale, apprendistato letterario ed emersione di quella «nuova dimensione dell’umano» costituita, per la scrittrice francese, dal lesbismo. Ne L’opoponax, per limitarsi a un esempio precoce, il desiderio tra Catherine Legrand e Valerie Borge si nutre senz’altro del dono reciproco di versi inventati o prelevati da poeti come Malherbe, Louise Labé, Leopardi e Baudelaire; ma anche delle tre pallottole di carabina che l’una, già avviata all’attività di tiro, mette in mano all’altra pregandola di conservarle (O, p. 267/p.208).

Il momento dello scambio amoroso delle pallottole si colloca, letteralmente, a un passo dal ciclo epico de Le guerrigliere, dal quale apprendiamo che «quelle che vogliono trasformare il mondo» devono «prima di tutto impadronirsi dei fucili» (G, pp. 120-21/p. 74). Se ci fermassimo al versante più agevolmente riconoscibile della frase, forse non coglieremmo altro che un’eco della retorica maoista dilagante nella Francia post-68. Senonché, in mano a Wittig, i problemi della guerra e della strategia assumono una dimensione di portata decisamente più ampia, definita sempre da una relazione fortissima e, non di pura derivazione, con l’insieme della tradizione letteraria.         

«Alla guerra penseranno gli uomini» è, come si ricorderà, la battuta perentoria che Ettore rivolge ad Andromaca nel sesto libro dell’Iliade, uno degli ipotesti alla base de Le guerrigliere. Con un ribaltamento apparentemente clamoroso, la guerra verrà poi qualificata come «un affare di donne» nella Lisistrata di Aristofane, un altro dei testi a cui Wittig fa esplicitamente allusione. Veicolata dal motivo dello sciopero del sesso, la competenza politica delle donne trova la propria fonte di legittimazione, nella commedia aristofanea, nel contributo da queste offerto alla polis in veste di madri: ragion per cui, spetta alle donne escogitare una soluzione per mettere fine a un conflitto ventennale, quello fra Ateniesi e Spartani, che minaccia la tenuta dell’ordine mandando in rovina le famiglie. Per effetto di un altro rovesciamento, sotto la penna di Wittig la stessa frase, «la guerra è un affare di donne» (G, p. 180/p. 112), assume un significato completamente nuovo che, salvo errori, non ha precedenti nella vicenda delle riscritture della Lisistrata — nemmeno nelle versioni a intonazione femminista [3]. A ridosso dell’esplosione del Movimento di liberazione delle donne in Francia, di cui la scrittrice sarà una delle principali istigatrici, si tratta infatti di legittimare il diritto di elles, l’eroe collettivo della moderna epopea guerrigliera, di partecipare non a una guerra qualsiasi, ma di fare la guerra contro ils per liberarsi dalle condizioni della propria soggezione, porsi come soggetti universali di enunciazione di sé e del mondo e affrancarsi dalla necessità di identificarsi con i simboli che esaltano il corpo frammentato e la specificità femminile, ovvero con l’ultimo legame che le stringe a una cultura morta.  

È, questo, solo uno dei molti campioni che si potrebbero prelevare in vivo per verificare cosa intendono Feole e Garbagnoli quando osservano che, per Wittig, si tratta «di far violenza a una lingua e a una letteratura che strutturalmente fanno violenza ai gruppi minoritari negando loro piena soggettività, di far dire al linguaggio e alla letteratura ciò che non sono fatti per dire: la piena umanità e universalità dei soggetti minoritari» (MW, p. 68). Ma è anche un esempio particolarmente idoneo a illuminare, per contrasto, gli ostacoli che si frappongono non solo alla legittimazione, ma alla stessa concepibilità, del conflitto prefigurato da Le Guerrigliere.

«Pensiero straight» è, nel lessico critico messo a punto da Wittig, l’espressione riassuntiva di tali ostacoli. Solo un’interpretazione superficiale della realtà del dominio, e di quello eteropatriarcale in particolare, potrebbe equipararli alla somma delle opinioni sessiste e dei giudizi svalorizzanti che circolano all’interno della società in un dato momento. Ciò che conta, nella definizione del pensiero straight, non sono i contenuti particolari, ma la forma ideologica di un’interpretazione del mondo rintracciabile tanto nella doxa corrente quanto nel discorso delle scienze umane (strutturalismo e psicoanalisi in primis, ma non solo). E questa interpretazione del mondo, condotta dal punto di vista del dominante, non ha altra funzione fuorché quella di agire come schema di occultamento del conflitto: di nascondere e congelare, a ogni livello, gli antagonismi che innervano la struttura sociale. Se quello fra uomini e donne è il più vulnerabile alla presa mistificante dell’ideologia straight, ciò non dipende solo dall’anteriorità storica del patriarcato rispetto a forme moderne di dominazione, ma dal fatto che i meccanismi concreti di appropriazione delle donne da parte degli uomini offrono un terreno propizio alla credenza nella necessità di un rapporto intimo e permanente fra “diversi” e “complementari”. Si radica qui la resistenza tenace a concepire donne e uomini come classi di sesso, anziché come gruppi naturali.

Nell’universo mitico forgiato dall’ideologia straight, in effetti, non esistono dominanti e dominati, appropriate e appropriatori, maggioritari e minoritari, così come non c’è spazio per la dialettica intesa come coscienza pensante della contraddizione reale. Esistono solo i titolari legittimi dell’universale, da un lato, e, dall’altro, differenze e alterità elevate a qualità intrinseche delle classi oppresse per meglio mascherare i rapporti sociali di dominio. La pacificazione garantita dal pensiero straight è sinonimo di riconciliazione con la disuguaglianza e consacrazione delle gerarchie. Come sottolinea “Wittig” (il personaggio messo in scena in Virgile, non) commentando una scena di prostituzione, la denuncia dell’inferno dell’oppressione, e della devastazione umana che ne scaturisce, sarà sempre, dal punto di vista straight, un’esagerazione imputabile al «flagello lesbico». E, in quanto tale, meritevole di censura (VN, p. 42/p. 42.).   

L’accostamento proposto da Feole e Garbagnoli tra la nozione di «pensiero straight» e quella di «ideologia razzista» elaborata da Colette Guillaumin [4] non è importante solo ai fini dell’individuazione di una delle fonti, del resto dichiarate, del pensiero di Wittig. La sovrapponibilità fra «pensiero straight» e «ideologia razzista» rimanda a un sistema globale di percezione basato su un’idea di natura in virtù della quale ai soggetti oppressi viene imputata una «forma di “determinismo endogeno” operante come causa insita del loro essere» (MW, p. 33). Che cos’è questa, se non la forma tipicamente moderna di legittimazione della pratica sociale della subordinazione, dotata di sufficiente plasticità da applicarsi a diverse possibili espressioni del dominio? Se non ci fossero principi moderni da negare nella prassi, se le deroghe agli universali presentati non necessitassero di una giustificazione compatibile con la salvaguardia formale dei criteri di uguaglianza, che senso avrebbe la scomposizione dell’umanità in un catalogo di alterità inemendabili, differenze essenziali, eterogeneità incommensurabili?

Se il femminismo materialista, nel suo insieme, scopre e mette a tema l’ubiquità di questo dispositivo di giustificazione del dominio, correlandolo di volta in volta agli assetti materiali che lo fondano, e in particolare al persistente regime di appropriazione delle donne da parte degli uomini, Wittig è colei che più di tutte punta a riqualificare il lesbismo come «posizione sociale a partire dalla quale è più facilmente possibile muovere una critica radicale al patriarcato» (MW, p. 51), circostanza che le è valsa il duro ostracismo — l’altra faccia dell’inferno — rappresentato nelle pagine di Virgile, non, del Voyage sans fin e di Paris-la-politique. Resta il fatto che nemmeno l’avversione più caparbia all’utopia perseguita da Wittig può negare il contributo offerto dalla scrittrice al riscatto del lesbismo dalla penombra del folklore sessuale: «Dai corpi delle guerrigliere a quelli delle amanti, passando per il corpo delle protagoniste lesbiche di Virgile, non, il “corpo lesbico” è un corpo scritto e immaginato per costringere chi legge a mettere in discussione la rappresentazione univoca, reificata, passiva, appropriata e straight delle donne e dei loro corpi. Alludendo, come la stessa Wittig fa spesso, alla tradizione evangelica, potremmo dire che il “corpo lesbico” non ha la facoltà di redimere e non libera dai peccati, ma apre a chi legge, e alle donne in particolare, un mondo al di là delle categorie di sesso» (MW, p. 60).

Negli Appunti per un dizionario delle amanti, il libro pubblicato da Wittig insieme a Sande Zeig nel 1976, si legge: «Esistono delle fughe simili alle perdite d’acqua nella coscienza di ogni persona. Le fughe o vuoti di memoria sono l’esempio più frequente. Quante amanti davanti a questa emorragia dei loro ricordi, delle loro informazioni e delle loro conoscenze si sono messe a digiunare. […] Esistono anche fughe di interesse, fughe di sentimenti, fughe di energia, fughe di immaginazione. Esiste anche un’altra sorta di fuga detta “fuga in avanti” che ha il vantaggio di far dimenticare tutte le altre» (B, p. 91/pp. 69-70). Meglio di così non si saprebbe descrivere il viaggio a cui Garbagnoli e Feole ci invitano. Che è tutto, fuorché d’evasione.       

SIGLE

B = Monique Wittig, Sande Zeig, Brouillon pour un dictionnaire des amantes, Grasset, Paris 1976; trad. it. di Onna Pas, Appunti per un dizionario delle amanti, Meltemi, Milano 2020.

G = Monique Wittig, Les Guérillères, Minuit, Paris 1969; trad. it. di Ana Cuenca, Le guerrigliere, Lesbacce Incolte, Bologna 1996 (nuova ed. La Porta Terra di donne, Bologna 2019). 

MW = Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023.

O = Monique Wittig, L’Opoponax, Minuit, Paris 1964; trad. it. di Clara Lusignoli, L’opoponax,Einaudi, Torino 1966.

VN = Monique Wittig, Virgile, non, Minuit, Paris 1985; trad. it. di Rosanna Fiocchetto, Virgilɘ, non, Il Dito e La Luna, Milano 2005.

NOTE

[1] Cfr. Qui êtes-vous, Antoinette Fouque? Entretien avec Christophe Bourseiller, des femmes-Anoinette Fouque, Paris 2009, p. 48: «Ciò che interessava a Monique Wittig era dissotterrare una cultura dell’omosessualità femminile, liberare la lesbica dalla donna. Ma è stato necessario attendere due anni [dal 1968 al 1970] perché si risolvesse a farlo. Ciò l’ha condotta a porre una non-mixité assoluta, una sorta di separatismo, per arrivare a un movimento marcato dal femminismo e dal lesbismo che, in fondo, vuole la scomparsa della parola “donna”, la cancellazione delle donne. Alla fine, emigrerà negli Stati Uniti per teorizzare il suo pensiero e inventare il queer».

[2] Paola Tabet, Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», 19, 3-4, 1979, p. 12; trad. it. «Mani, strumenti, armi», in Ead., Le dita tagliate, Ediesse, Roma 2014, p. 190.

[3] Per una rassegna, cfr. Simone Beta, La donna che sconfigge la guerra. Lisistrata racconta la sua storia, Carocci, Roma 2022.

[4] Colette Guillaumin, L’idéologie raciste. Genèse et language actuel, Mouton & Co, Paris 1972 [Gallimard, Paris 2002]; trad. it. di Sara Garbagnoli, L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, il nuovo melangolo, Genova 2023. 

Colette Guillaumin: pensare le categorie di razza e di sesso, ieri e oggi


di Maira Abreu, Jules Falquet, Dominique Fougeyrollas-Schwebel, Camille Noûs [1]

Traduzione di Sara Garbagnoli

In occasione dell’uscita dell’edizione italiana de L’idèologie raciste. Genèse et langage actuel (1972), curato e tradotto da Sara Garbagnoli per la collana Xenos de “il nuovo melangolo” (L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, Genova, 2023), pubblichiamo la traduzione di questo ricchissimo testo sulla figura di Colette Guillaumin, a firma di Maira Abreu, Jules Falquet, Dominique Fougeyrollas-Schwebel e Camille Noûs. Augurandoci che l’ “effetto Guillaumin” si faccia sentire forte anche in Italia.

L’opera di Colette Guillaumin (1934-2017) è stata un’incessante ricerca cha ha avuto per oggetto l’identificazione, la teorizzazione e la destabilizzazione delle relazioni di potere [2]. In un contesto in cui il prisma di una lettura biologica del mondo sociale non smette di avanzare (Lemerle 2014), in cui i movimenti “anti-gender” che fanno uso di un discorso essenzialista continuano ad attrarre seguaci in numerosi paesi del mondo (Kuhar e Paternotte 2018; Garbagnoli 2020), la pionieristica critica mossa da Guillaumin alle forme di legittimazione naturalistica delle relazioni di razza e di sesso non costituisce solo un fondamentale contributo alle scienze sociali, ma si tratta di un’analisi di grande attualità. Se oggi l’idea che il “naturale” sia costruito dalla cultura si è fatta strada in alcuni campi delle scienze sociali, un tale approccio ha preso forma in un contesto e una lotta nei quali il percorso di Guillaumin è esemplare. La teorica femminista, infatti, non si contentava di partire da “realtà anatomico-fisiologiche su cui innestare addobbi quali ‘ruoli’ o ‘riti’” (2016 [1978], p. 73). Il suo obiettivo era, invece, quello di pensare ai gruppi di sesso e ai gruppi di razza come costituiti da dati rapporti di potere. Il pensiero di Guillaumin è andato elaborandosi in un contesto di fermento politico e teorico in cui molti gruppi minoritari stavano diventando soggetti visibili nella storia oltre che oggetti nella teoria (2016 [1981], 229). Come sostiene Guillaumin, mettere in discussione l’evidenza del naturalismo per pensare le relazioni di sesso è stato il prodotto di una “sintesi tra rivolta, attivismo, analisi e coscienza” (2016 [1981], p. 232). Insieme a Monique Wittig, Nicole-Claude Mathieu, Christine Delphy e Colette Capitan Peter, Guillaumin ha partecipato alla scrittura collettiva della rivista Questions féministes (1977-1980) e all’elaborazione di una teoria femminista radicale/materialista che ha lasciato un segno duraturo nel pensiero femminista francese.[3] Guillaumin ha sempre sottolineato la natura collettiva delle produzioni teoriche e l’importanza per il lavoro intellettuale di una “discussione prolungata e basata su preoccupazioni comuni e su un vocabolario condiviso” (2016 [1992], p. 6). Guillaumin ha partecipato a diversi gruppi informali e a comitati di riviste come Feminist Issues [4] o Le genre humain [5] in cui, come scrive, ha potuto “analizzare la stessa questione” che tanto le teneva a cuore.

I concetti si forgiano in specifici contesti storici, politici e teorici. Collocare le idee nel loro contesto di elaborazione permette di rompere l’illusione del senno di poi e di mostrare che esse sono state la risposta a sfide determinate, oggi sovente ignorate. I testi classici, come sono oggi quelli di Guillaumin, non rispondono alle questioni che dibattiamo nel nostro presente e sarebbe riduttivo analizzarli esclusivamente attraverso il prisma delle nostre attuali preoccupazioni. Tuttavia, se continuiamo a leggere e a pensare con e grazie a Guillaumin, è perché il suo pensiero ci fornisce strumenti per riflettere sul presente, come i buoni classici fanno. Il nostro obiettivo è proprio quello di rendere omaggio ad un pensiero vivo e attuale.

In principio era la razza

Dopo aver studiato psicologia e etnografia alla Sorbona negli anni Cinquanta [6], Colette Guillaumin entra a far parte del Groupe d’Ethnologie sociale [7]. Negli anni Sessanta, vi incontra Nicole-Claude Mathieu e Noëlle Bisseret con le quali collabora alla pubblicazione de La femme dans la société. Son image dans différents milieux sociaux (Chombart de Lauwe et al. 1963). Alla fine degli anni Sessanta inizia a pubblicare sul tema di razza e razzismo. Nel 1969 discute la sua tesi di dottorato [8] intitolata Un aspetto dell’alterità sociale: il razzismo. Genesi dell’ideologia razzista e linguaggio attuale pubblicato nel 1972 (e ripubblicato nel 2002) con il titolo Ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale.

A quell’epoca, gli studi sulla razza e sul razzismo non erano molto sviluppati in Francia. Léon Poliakov scriveva allora che “tutto era ancora da fare nel campo della storia del razzismo” (1961, p. 594). In sociologia, la situazione non era molto diversa: Andrée Michel si era principalmente basata su una bibliografia in lingua inglese per redigere il suo articolo “Tendances nouvelles de la sociologie des relations raciales” (1962). A parte i lavori di Andrée Michel, Georges Balandier, Roger Bastide e Albert Memmi, la questione del razzismo non era affrontata nel campo delle scienze sociali francesi. La situazione ha subito un grosso mutamento alla fine degli anni Sessanta con la creazione del Centre d’études des relations interethniques (Centro di studi sulle relazioni interetniche IDERIC) a Nizza [9], di gruppi informali come il Groupe d’étude d’histoire du racisme (Gruppo di studio sulla storia del razzismo) attorno a Poliakov presso la MSH (Maison des Sciences de l’Homme) e di pubblicazioni come quelle della rivista “Ethnies”. Al di là di quanto prodotto dal mondo della ricerca francese, nel suo lavoro di tesi, Guillaumin ha utilizzato la letteratura anglofona, da Franz Boas a Ruth Benedict, nonché autori anticolonialisti e antirazzisti come Frantz Fanon, Aimé Césaire, Cheikh Anta Diop, James Baldwin e Malcolm X.

Due dei principali contributi de L’ideologia razzista sono stati quelli di mostrare la storicità della categoria “razza” e di “dare una prospettiva sociologica a ciò che solitamente viene affrontato come se fosse un fenomeno biologico” (p.11). La razza era allora per lo più considerata come un “oggetto concreto che interviene come fattore scatenante l’atto razzista” (p. 10). Si pensava, pertanto, che il razzismo fosse causato dall’esistenza delle razze. Alla fine degli anni Trenta, alcuni ricercatori e ricercatrici avevano iniziato ad abbandonare l’evidenza di tale nozione e ad interrogarla. Tuttavia, tale processo non è sfociato nella messa in discussione della categoria “razza”, ma nell’apparizione di una “problematica bipolare cultura/razza” che avrebbe a lungo influenzato il campo della ricerca sulle relazioni razziali. Il lavoro di Guillaumin si inserisce in un altro filone analitico che emerge alla fine della Seconda guerra mondiale e che sposta il focus della questione sulle relazioni tra gruppi. Ciò consente un riesame della categoria di razza e “il riconoscimento del suo carattere di categoria storica e di creazione sociale transitoria” (1977, 11).

Attraverso una disamina storica, Guillaumin comprende, da un lato, che l’“alterità” che caratterizza certi gruppi è solo il riflesso di una distribuzione ineguale di potere e, dall’altro, che la particolarità del razzismo è una “biologizzazione del pensiero sociale che [tenta] con questo mezzo di rendere assoluta ogni differenza osservata o supposta” (Guillaumin 2002 [1972], p. 14). Storicamente recente, l’idea di categorizzare l’umanità in “entità anatomico-fisiologiche chiuse” si è affermata nel corso del XIX secolo in un contesto di profonde trasformazioni sociali: colonizzazione, rivoluzioni borghesi e regime schiavista. Fin dalle sue prime pubblicazioni, Guillaumin sottolinea a più riprese l’importanza di opporsi all’idea di definire il razzismo attraverso l’ostilità o la “negatività”. Il razzismo, infatti, può anche esprimersi attraverso giudizi percepiti come “positivi” (vigore sessuale, senso della famiglia, ecc.). Per Guillaumin, la base del razzismo va cercata altrove: nella naturalizzazione di dati gruppi. Guillaumin dimostra, poi, come l’invenzione dell’“idea di Natura” debba essere intesa come l’aspetto mentale di date relazioni di potere. (Non si tratta ancora del concetto di “appropriazione” che emergerà nel suo lavoro qualche anno più tardi).

Ne L’ideologia razzista, Guillaumin mette in evidenza che uno stesso trattamento è riservato alle diverse “categorie di gruppi alienati e oppressi” in nome di un marchio biologico irreversibile. Tali gruppi sono, pertanto, sono “razzizzati” (Guillaumin 2002 [1972], 17). Per lei, il marchio biologico è il criterio fondamentale della nozione di razza, anche se le categorie investite da questo marchio (ad esempio donne, persone omosessuali, persone operaie) lo sono “secondo schemi diversi” (ibid., p. 12). Pur avendo iniziato la sua analisi con le cosiddette categorie “razziali”, Guillaumin ha gradualmente riconosciuto l’esistenza di “una certa identità di trattamento verbale tra categorie il cui denominatore comune era quello di essere ‘alterizzate’”. Ciò l’ha condotta ad andare oltre le “razze nel senso ordinario del termine” e la percezione del razzismo come insieme di “relazioni ostili tra gruppi rigorosamente definiti come razziali” per includerne altre, come per esempio, le relazioni tra colonizzatori e colonizzati, tra persone straniere e nazionali, ma anche tra donne e uomini (Guillaumin, 2002 [1972], 99). Guillaumin include nel suo studio anche le persone omosessuali in un contesto storico in cui una prospettiva che oggi chiameremmo decostruttivista stava appena emergendo [10].

Estendere il concetto di razza non cancella per Guillaumin le distinzioni tra i diversi tipi di razzismo, ma si concentra piuttosto sui meccanismi comuni di naturalizzazione delle persone razzizzate. Infatti, anche se “ogni gruppo razzizzato ha le sue specificità concrete”, la teorica ritiene che “concentrarsi sulla generalità dei razzismi in una data società – e non sulla specificità di un dato razzismo – ci dia la possibilità di individuare la fonte dell’atto razzista e di definire la specificità di chi razzizza” (Guillaumin 2002 [1972], 18).

Questo approccio estensivo al razzismo non più in vigore nel campo degli studi del razzismo, costituisce un’originalità del pensiero di Guillaumin che meriterebbe maggiore attenzione. Affermare, alla fine degli anni Sessanta che i gruppi che si suppone siano naturali (donne, persone nere, persone musulmane, persone ebree, persone omosessuali) sono, in realtà, il prodotto di relazioni di dominio costituisce una vera e propria rottura epistemologica da diversi punti di vista. Una rottura con il naturalismo dominante negli studi su donne, persone nere, persone musulmane, persone ebree, persone omosessuali. L’idea che le categorizzazioni non siano il prodotto di un’esistenza biologica, ma che siano una costruzione sociale e storica e che la loro presunta evidenza serva solo a nascondere relazioni di dominio, stravolge le certezze delle teorie certamente anti-essenzialiste, ma che non spingono la loro critica fino a una rottura radicale con la concezione naturalista di questi “gruppi”. In secondo luogo, si tratta, poi, di una rottura con gli approcci che riconducono tutte le forme di dominio alle relazioni di classe, a una “sovrastruttura” o a un problema di “mentalità”. Sin dai suoi primi scritti, Guillaumin, si oppone a questo tipo di analisi. Se la razza e il sesso sono intesi come prodotti di dati rapporti sociali, questi ultimi non si riducono ai rapporti sociali di produzione. Pensare a una separazione, a livello analitico, tra relazioni di classe e relazioni razziali apre la possibilità di concepire altre forme di dominio in modo diverso, come suggerito da una recensione all’epoca della prima edizione de L’ideologia razzista:

I concetti di “classe sociale”, “lotta di classe” e “imperialismo” perdono forse qui un po’ della loro troppo spesso mantenuta opacità. E il concetto di “potere” sembra assumere un nuovo significato. Potrebbe essere il preludio di un canto diverso da quello funebre di una certa dominazione? (Moreau de Bellaing 1973, p. 206).

Insieme a Guillaumin, Moreau de Bellaing faceva parte di un gruppo si studio informale, il “Laboratoire de sociologie de la dominance” (LSD), che comprendeva anche Colette Capitan-Peter e Nicole-Claude Mathieu. Questo gruppo, esistito per circa dieci anni, focalizzava le ricerche su una problematica “interamente centrata sull’analisi dei sistemi gerarchici e di dominazione” ed era un “luogo di discussione appassionata e inventiva” (Guillaumin 1992, p. 5).

Questi nuovi approcci proposti da Guillaumin implicano nuovi concetti. Il pensiero antirazzista e femminista aveva bisogno di creare nuove parole, nuove categorie per nominare ciò che non poteva essere nominato dal linguaggio dominante. Le recensioni de L’ideologia razzista accolgono con favore questo sforzo: Poliakov associa “l’elaborazione di una tesi radicalmente nuova” a questa necessità di forgiare nuovi concetti (1973, 94). Moreau de Bellaing osserva che l’autrice ha dovuto “forgiare nuovi concetti o rinnovare quelli vecchi che rendono possibile la spiegazione: razzizzante/razzizzato, categorizzante/categorizzato, maggioritario/minoritario. Concetti che non hanno nulla di oscuro poiché il loro significato è espresso dalla dimostrazione che li mette in atto” (1973, 205). Alcuni di questi concetti, che non esistevano o erano stati precedentemente definiti in altri modi, sono poi entrati a far parte del vocabolario quotidiano delle scienze sociali. L’ideologia razzista ha avuto un impatto duraturo sulla riflessione sul razzismo. All’inizio degli anni ‘90, Véronique de Rudder ha affermato che “tutte le analisi contemporanee del razzismo fanno riferimento al lavoro di Guillaumin, e nessuna ricerca seria può farne astrazione” (1991, 78). Da allora, le ricerche sul razzismo si sono sviluppate in modo considerevole e l’opera di Guillaumin ha contribuito certamente a questo ampliamento della ricerca.

La creazione della teoria del sessaggio

Natura-l-mente [11]

Negli anni Cinquanta e Sessanta, sulla scia di Simone de Beauvoir, una generazione di intellettuali e teoriche scrive sulla “questione” o sulla “condizione” delle donne (Chaperon 2001). Un po’ più giovane delle donne di questa generazione, Guillaumin discute la sua tesi di dottorato prima dell’emergere della cosiddetta “seconda ondata” del femminismo. Ne L’ideologia razzista, i suoi riferimenti femministi erano Andrée Michel, Simone de Beauvoir, Evelyne Sullerot, Betty Friedan e Ruth Benedict. Si trattava di un periodo storico caratterizzato dall’emergere di approcci antinaturalisti alle categorie di sesso e razza. Si cercava, infatti, di dissociare biologia e cultura, di allontanarsi da un nesso obbligato tra sesso biologico e “femminilità”. Tuttavia, come ha scritto Nicole-Claude Mathieu all’inizio degli anni Settanta, rispetto alla categoria di sesso nelle ricerche sociologiche permaneva un’ambiguità, dato che sociologia e biologia non venivano disgiunte completamente: “i sessi come prodotto sociale di dati rapporti sociali non erano – cioè – oggetto di riflessione” (Mathieu 1973, p. 101). Sebbene molti lavori pubblicati nel corso degli anni Sessanta si basassero sull’idea che “non si nasceva donna, lo si diventava”, e che non esisteva una corrispondenza obbligatoria tra sesso biologico e “sesso sociale” o genere, il sesso continuava a essere inteso come un dato di natura. La rivista Questions féministes rompe con questo approccio. Estendendo la critica del femminismo rivoluzionario, l’approccio difeso dal collettivo considerava “uomini” e “donne” come delle categorie storicamente costruite, la cui eliminazione sarebbe stata possibile distruggendo il sistema che le costituiva:

donne = classe sociologicamente definita in (da) un rapporto materiale e storico di oppressione, ma la cui oppressione è a sua volta ideologicamente legata dal gruppo dominante a una cosiddetta determinazione biologica della classe oppressa (determinazione biologica che riguarda solo quest’ultima) (QF 1977, p.16).

Delphy, Mathieu, Capitan Peter, Plaza, Lesseps, Hennequin e Wittig hanno elaborato questa critica pionieristica al concetto di sesso, che costituisce una svolta nel pensiero femminista. Guillaumin vi ha dato un contributo importante, basandosi sul suo lavoro sulle persone razzizzate e sull’idea di natura applicata ai gruppi sfruttati.

Tra il   1975 e il 1976, Guillaumin partecipa al gruppo “Categorie di sesso e categorie di classe/Economic Relations in Domestic Groups” [12], che riunisce alcune teoriche che costituiranno la base di Questions féministes e varie femministe inglesi (alcune delle quali partecipano al dibattito sul “lavoro domestico”). Guillaumin vi presenta una prima versione del suo testo “Pratica del potere e idea di natura”.

Questo gruppo è stato creato nel 1975 ed è collegato, da parte francese, alla Maison des Sciences de l’Homme e, da parte inglese, al Social Science Research Council (Londra). È composto da ricercatrici inglesi e francesi come Diana Barker [Leonard], Leonore Davidoff, Jalna Hanmer, Jean Gardiner, Hilary Land, Maxine Molyneux, Jane Shaw e Anne Whitehead per la parte inglese; Noëlle Bisseret, Colette Capitan-Peter, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Emmanuelle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e Ursula Streckeisen per la parte francese.

La creazione della rivista Questions féministes, nel 1977, è stata una risposta a un contesto particolare. La stampa femminista viveva, soprattutto a partire dal 1974, una fase di grande effervescenza. Tuttavia, i giornali femministi avevano la tendenza a pubblicare testi brevi [13]: “spesso rifiutati, i testi più lunghi erano accettati solo da alcune riviste come Les temps modernes” (Delphy s.d., p. 1). Questions féministes nasce, così, per rispondere a questa necessità di uno spazio di discussione teorica. Ma non uno spazio qualsiasi: in quanto “rivista teorica femminista radicale”, QF è ancorata a una prospettiva che si oppone tanto agli approcci femministi essenzialisti/differenzialisti che alla corrente femminista cosiddetta “lotta di classe”.

Il concetto di sessaggio

Uno degli elementi chiave dell’analisi femminista degli anni ‘60 e ’70, tanto negli scritti militanti che nella ricerca teorica, era l’affermazione che i rapporti tra i sessi sono politici. Il primo atto del paradigma teorico delle femministe radicali è la definizione delle donne come una casta, come una classe. Non è il sesso biologico o la maternità – come invece sosteneva Shulamith Firestone (1972 [1970]) – a fondare le classi di sesso, né la sessualità – come riteneva Kate Millet (1971 [1970]) -, ma una relazione di appropriazione che Guillaumin aveva definito “sessaggio” (2016 [1978]). Guillaumin estende la proposta femminista dominante dell’epoca secondo la quale il lavoro gratuito delle donne in seno alla famiglia costituisce la base dell’oppressione e dello sfruttamento delle donne (Dupont [Delphy] 1970; Collettivo italiano 1976). Guillaumin dimostra, infatti, che “il matrimonio è solo la superficie istituzionale (contrattuale) di una relazione generalizzata: l’appropriazione di una classe sessuale da parte dell’altra. Una relazione che riguarda entrambe le classi nel loro insieme e non una parte di ciascuna di esse come potrebbe suggerire la considerazione del solo contratto matrimoniale”. Ma il matrimonio, in quanto forma privata di appropriazione, contraddice l’appropriazione collettiva. “Se [il matrimonio] esprime e limita il sessaggio, restringendo l’uso collettivo di una donna e passando questo uso a un solo individuo, esso priva allo stesso tempo gli altri individui della sua classe dell’uso di questa determinata donna.” (Guillaumin 2016 [1978], pp. 38-43).

Il rapporto di sessaggio si riferisce all’appropriazione delle donne, del loro corpo, del loro lavoro e dei frutti del loro lavoro, un rapporto sociale che implica il mantenimento fisico, emotivo e intellettuale degli esseri umani. Tale mantenimento è effettuato al di fuori dell’economia salariale, in famiglia e/o in altre istituzioni. Diversi mezzi assicurano il mantenimento dell’appropriazione di classe delle donne da parte degli uomini: il mercato del lavoro, dove il salario delle donne rimane inferiore a quello degli uomini, il confinamento spaziale, la dimostrazione di forza da parte degli uomini (percosse), la coercizione sessuale, l’arsenale giuridico e il diritto consuetudinario (Guillaumin 2016 [1978]: 38-43).

Nella teoria del sessaggio, non è solo la forza lavoro delle donne a essere accaparrata, ma la sua origine, il corpo delle donne come serbatoio di forza lavoro (2016 [1978], p.19). Guillaumin è particolarmente attenta alla dimensione ideologica dell’oppressione delle donne: il rapporto materiale di appropriazione e l’effetto ideologico sono pensati come due facce dello stesso fenomeno, l’effetto ideologico (o “lato ideologico-discorsivo” o “discorso della natura”) ne costituisce la sua “forma mentale” (2016 [1978], Parte II: Il discorso della natura). L’autrice mostra così “che i concetti non sono distinguibili dalle relazioni sociali: sono essi stessi una relazione sociale. Non che concetti, idee e teorie siano ‘riflessi’ – considerarli in questo modo non significherebbe altro che lasciare irrisolto il problema dell’origine dei fenomeni mentali dell’“ideologiaˮ. Piuttosto, sono la dimensione mentale di relazioni concrete” (2016 [1981], pp. 216-217, corsivo nel testo) [14]. In questa prospettiva, le analisi di Guillaumin pongono un forte accento, sia empirico che teorico, sulla dimensione corporea che riguarda le pratiche sociali. In numerosi passaggi Guillaumin descrive e analizza approfonditamente il modo di muoversi delle donne nello spazio, sottolineando il ruolo del linguaggio e delle modalità di apprendimento differenziate tra uomini e donne (giochi, atteggiamenti, abbigliamento, ecc.) (Guillaumin, 2016 [1978 e 1992]).

Inoltre, lavorando molto precisamente sul significato del linguaggio, Guillaumin mette in guardia dall’utilizzare il termine “patriarcato” in un senso molto generale, facendone un equivalente di qualsiasi forma di dominio maschile e insiste sul suo contenuto storico ed etnologico (1979). Così, la definizione delle classi di sesso come classi antagoniste non è coestensiva a quella di patriarcato: “la nozione di patriarcato designa una modalità particolare, una variante storicamente e geograficamente delimitata del dominio maschile.” (2017 [1998]). Questa distinzione tra l’identificazione di un rapporto sociale di dominio tra i sessi e le varie modalità che questa relazione assume, è ben lungi dall’essere presa in considerazione dalle critiche più comuni alla teoria del sessaggio tacciata di essere un approccio non storico alle relazioni tra i sessi.

Ricezione della teoria del sessaggio

Tra le prime ad aver criticato la nozione di sessaggio figura la sociologa Irène Théry che in un articolo pubblicato sulla Revue d’en face (1981) [15]. si oppone alla concettualizzazione in termini di “classe di sesso”. L’uso per i rapporti tra i sessi della categoria marxiana di classe viene denunciato come “riduzionismo economicistico”. Per Théry, la teoria femminista materialista non sarebbe in grado di rendere conto delle varie contraddizioni nelle relazioni tra uomini e donne e ridurrebbe l’analisi della sessualità e della procreazione a meri rapporti di produzione. La confutazione dell’antagonismo tra i sessi è uno dei nodi centrali della controversia. Théry rifiuta, poi, di tracciare un parallelismo tra donne sposate e prostituzione come, invece, fa un’analisi della sessualità come uso fisico del corpo delle donne da parte degli uomini. Appaiono già da allora in filigrana le fratture, più o meno profonde, che dividono i diversi movimenti femministi rispetto all’analisi della prostituzione.

Negli anni Settanta e Ottanta, emerge all’interno delle teorie femministe un’altra critica, riguardante ora la natura dei legami tra produzione domestica e produzione capitalistica, l’articolazione del sistema patriarcale e del sistema capitalistico. Questi dibattiti, con toni più o meno accademici, sono stati cruciali per definire strategie o alleanze in seno ai movimenti femministi e hanno all’epoca dato origine a diverse pubblicazioni [16]. Nell’ambito degli studi femministi, gli anni ‘80 hanno visto le prime forme di istituzionalizzazione della ricerca femminista e sulle donne. La creazione in Francia della rete APRE (Atelier/Produzione/Riproduzione) presso il CNRS rispondeva a un desiderio di scambio, di confronto teorico e metodologico [17]. Tuttavia, l’emergere di uno sforzo collettivo mirante a consolidare una concettualizzazione dei rapporti tra i sessi non cancella la grande diversità di approcci presenti. Tra questi, una serie di analisi cerca di prendere le distanze da approcci che privilegiano la relazione di classe tra i sessi rispetto ad altre relazioni sociali, in particolare quelle di classe socio-economica. In tale ottica, le relazioni di sesso non sono un sistema, non sono autonome, ma sono sempre articolate con altre relazioni sociali – di classe, di generazione. Si esprimono nell’intero spazio sociale, nel lavoro, nell’occupazione, nella scuola, nella famiglia, nello Stato e nelle politiche sociali. La promozione del termine “rapporti sociali di sesso” si impone progressivamente in Francia al fine di prendere le distanze dalle analisi in termini di “classi di sesso” (Battagliola et al. 1986; Tahon 2004; Haicault 2000).

In Québec, tuttavia, due sociologhe, Danielle Juteau e Nicole Laurin, hanno usato le analisi di Colette Guillaumin per portare alla luce le trasformazioni in corso del sistema salariale. Secondo loro, non si tratta tanto di vedere una contraddizione tra sessaggio e rapporto salariale, quanto di cogliere una trasformazione del sistema di sessaggio attraverso una generalizzazione delle forme di appropriazione collettiva da parte delle istituzioni statali e capitalistiche. Basandosi sull’ipotesi che l’appropriazione collettiva avvenga nel contesto di particolari relazioni interindividuali tra uomini e donne oltre che nel contesto di relazioni istituzionali generali, le due sociologhe leggono le differenziazioni e le discriminazioni che si manifestano nell’occupazione femminile come espressione della relazione di classe del sesso nell’ambito del lavoro salariato. Le trasformazioni contemporanee del lavoro salariato sarebbero proprio un’espressione dell’appropriazione collettiva, sottolineando, così, l’importanza delle forze patriarcali che si esercitano in seno al mercato del lavoro (Juteau e Laurin 1988). Questo lavoro, nato da un testo discusso al convegno internazionale APRE (appena citato in nota), stabilisce i legami tra l’analisi di Guillaumin e le ricerche sull’articolazione tra relazioni sociali di sesso, classe, generazione ed etnia.

Possiamo, così, affermare che, salvo rare eccezioni, il concetto di sessaggio è poco discusso dagli studi femministi in questo momento: parlare di classe di sesso e designare tanto fortemente la dipendenza delle donne dagli uomini pensandola sotto forma di appropriazione e di riduzione allo stato di cose resta senza alcun dubbio un tabù (Guillaumin 1979) [18]. L’articolo “Donne e teorie della società: osservazioni sugli effetti teorici della collera delle oppresse” (2016 [1981]), pubblicato da Guillaumin sulla rivista quebecchese Sociologie et sociétés, è stato letto e studiato in Francia solo nella seconda metà degli anni Novanta. Negli anni ‘80 e ‘90, Colette Guillaumin ha pubblicato regolarmente su alcune riviste: Le genre humain, Pluriel, L’homme et la société, Sexe et race, Discours et formes d’exclusion au XIXe et XXe siècle [19]. È stato soprattutto il suo lavoro sul razzismo ad essere studiato nelle università francesi nell’ambito degli studi delle relazioni interetniche (in particolare nel laboratorio URMIS – Unità di ricerca sulle migrazioni – dell’Università di Nizza e dell’Università di Parigi Diderot) [20].

Ripubblicazione e riscoperta

A partire dagli anni ‘90, si è diffuso in Francia l’uso del concetto di genere attraverso soprattutto saggi in lingua inglese e, in particolare, a seguito della pubblicazione, da un lato, dell’articolo di Joan Scott “Il genere come utile categoria di analisi storica” che ha toccato un vasto pubblico (Scott, 1988 [1986]) e, dall’altro, del lavoro di Judith Butler (2005 [1990]). Il movimento femminista francese conosce in quel momento un momento di nuovo vigore che trova la sua espressione nella grande manifestazione del 25 novembre 1995 organizzata sfruttando lo slancio politico che veniva da un massiccio sciopero e a seguito dell’effetto prodotto dalla Conferenza mondiale sulle donne organizzata quell’anno dalle Nazioni Unite a Pechino che ha spinto il femminismo verso prospettive più istituzionali, prime fra tutte quelle di una “parità” definita in termini essenzialisti e quella di una concezione della nozione di genere dettata da canoni onussiani [21]. La pubblicazione nel 1991 di una raccolta di saggi e articoli di Nicole-Claude Mathieu (2013 [1991]) e poi, nel 1992, di testi di Guillaumin (2016 [1992]) con il sostegno dell’ANEF (Associazione Nazionale di Studi Femministi, appena creata nel 1989) si sono rivelate fondamentali per rendere questi testi femministi accessibili alle nuove generazioni, in un momento in cui gli insegnamenti su donne, sesso e genere erano in fase di grande rinnovamento [22]. Nel 1995, una selezione di articoli di Guillaumin preceduti da un’importante prefazione di Danielle Juteau è stata pubblicata in inglese dalla celebre casa editrice Routledge, mostrando l’ampiezza del lavoro della teorica e la sua trasversalità rispetto agli ambiti femministi e a quelli delle relazioni interetniche. Se dagli anni Ottanta gli articoli pubblicati in Questions féministes sono stati pubblicati anche in inglese sulla rivista Feminist Issues, la loro riedizione per un pubblico più ampio è stata importante: proprio in quest’ottica, Danièlle Juteau scrive il suo rilevante saggio introduttivo che ricostituisce con grande rigore i diversi contesti storici e politici in cui i testi di Guillaumin sono stati scritti.

È stato soprattutto all’inizio degli anni 2000, quando i virulenti dibattiti sulla questione dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche stavano attraversando la società francese e il movimento femminista dell’epoca, che il lavoro di Guillaumin ha ricevuto una nuova attenzione da parte degli studi femministi in Francia. In università, le analisi che usano il concetto di genere si sono andate progressivamente sviluppando toccando uno spettro disciplinare più ampio e beneficiando di un sostegno istituzionale rafforzato (Fougeyrollas-Schwebel et al. 2003). In un tale contesto, una nuova generazione di ricercatrici e ricercatori comincia ad occuparsi di oggetti di ricerca riguardanti le questioni di genere. Si dibatte, conseguentemente, dell’esistenza di una nuova e “terza ondata” di femminismo (Lamoureux 2006). In concomitanza, si moltiplicano le analisi sull’articolazione tra dominazioni sessiste e razziste che suscitano la traduzione in francese di testi del black feminism [23]. Allo stesso tempo, l’associazione studentesca femminista EFIGIES, creata nel 2003, organizza nel maggio del 2005 le sue prime giornate di studio dedicare al tema “Il genere all’intersezione di altre relazioni di potere”. Questa iniziativa, che si iscrive in continuità col lavoro di Colette Guillaumin e vuole esserne un omaggio, rappresenta per molte studiose, ricercatrici e studentesse, il primo incontro con le sue pubblicazioni.

Letture contemporanee di Guillaumin

Oggi, quindici anni dopo, la società francese è cambiata dal 2005. La presenza e la visibilità delle persone provenienti da migrazioni post-coloniali sono aumentate e il razzismo e l’islamofobia sono diventati sempre più virulenti. Gli studi sul genere e sulla sessualità hanno progressivamente guadagnato molta legittimità, ma sono ormai parte di un’università neoliberalizzata in cui la competizione e la pressione a distinguersi attraverso la produzione accademica sono sempre più esacerbate. Il paradigma dell’intersezionalità si è notevolmente sviluppato sia in ambito accademico che in ambito militante (Dorlin 2005; Palomares e Testenoire 2010; Davis, 2015). L’intersezionalità è diventata una nozione aperta e flessibile nei suoi significati e nei suoi usi al punto che il suo senso può essere vago e essere ormai impiegata da un considerevole numero di attori sociali. Questo fenomeno è stato definito e studiato da alcune ricercatrici femministe come una sua forma di “sbiancamento” (Bilge 2015) e i suoi usi possono esorbitare il campo delle stesse persone razzizzate (Aït Ben Lmadani e Moujoud 2012). Oggi l’intersezionalità è diventata lo strumento e il sinonimo della volontà di articolare razza e sesso, strumento usato per de-invisibilizzare razzismo, persone razzizzate e, soprattutto, donne razzizzate. Per questo motivo, anche quando lascia in ombra le questioni di classe (e in particolare l’analisi del modo di produzione capitalista) [24], il paradigma intersezionale appare comunque utile, dal momento che il femminismo francese soffre di un notevole ritardo nell’ambito delle questioni di razza e razzismo. Contemporaneamente, le prospettive queer e più recentemente trans*, nella loro grande varietà (comprese le analisi queer e trans di colore) hanno acquisito un peso di rilievo nell’attivismo e nell’università. Esse mirano a mettere in discussione il binarismo quanto mai riduttivo “dei generi” e la naturalità del sesso. Infine, le prospettive decoloniali latinoamericane e caraibiche, tradotte in francese ancora più recentemente, affermano che il genere stesso sarebbe un’imposizione coloniale che ha dicotomizzato – su un modello occidentale – società molto più complesse (Lugones 2019 [2008]). Le tante novità di questo contesto ci portano, ora, a fornire elementi per chiarire ciò che, leggendo Guillaumin, può oggi apparire talvolta problematico. Cercheremo, così, di dissipare aspettative anacronistiche e alcune forme di fraintendimento storico [25], per meglio evidenziare le specificità della sua opera e il suo interesse attuale.

Sulla “classe delle donne” e l’“analogia” tra sesso e razza

In passato criticato per riaffermare la preminenza delle classi sociali, il concetto guillauminiano di “classi di sesso” è ora criticato perché sarebbe omogeneizzante e binario. La prima critica (l’omogeneizzazione) è riferita alle differenze o, meglio, agli antagonismi legati alla razza. Eppure, nelle sue analisi Guillaumin non omogeneizza mai le donne, né ignora la diversità delle loro situazioni che derivano, in particolare, dall’appartenenza a vari gruppi razziali, come ha ben analizzato Juteau (2010; 2015). Un testo del 1977 mostra che Guillaumin coglie finemente gli “effetti incrociati” del sesso e delle diverse posizioni di razza in relazione all’attività-lavoro. Analizziamo il seguente estratto:

Nel 1977 in Francia, ad esempio, se ci si trova di fronte a una donna, ci si trova sicuramente di fronte a una persona che svolge un lavoro domestico gratuito, e probabilmente anche a una persona non retribuita, o talvolta retribuita, che pulisce fisicamente i bambini e le persone anziane, in famiglia o in strutture pubbliche e private, ed è molto probabile che ci si trovi di fronte a una di quelle persone che lavorano pagate al salario minimo (se non meno), che sono donne (Guillaumin 2016 [1977], pp. 180-181).

Aggiunge:

Nel 1977, in Francia, se vi trovate di fronte a un uomo “di origine mediterranea” – e non uso volutamente un termine nazionale, perché la nazionalità non c’entra, mentre la regione del mondo è determinata… – è probabile che vi troviate di fronte a uno di questi lavoratori con un tipo di contratto specifico o addirittura a un lavoratore che può non averne affatto e, forse, nemmeno un permesso di soggiorno, qualcuno che lavora più ore degli altri lavoratori, e questo nell’edilizia, nelle miniere o nell’industria pesante. Nel 1977, se ci si trova di fronte a un uomo o a una donna afroamericani, è probabile che ci si trovi di fronte a qualcuno impiegato nel settore terziario, soprattutto nell’ambito dei servizi: ospedali, trasporti, comunicazioni, a qualcuno impiegato nel servizio pubblico (Guillaumin 2016 [1977], pp. 181-182).

E a seguire:

Nel 1977 in Francia, se ci si trova di fronte a una donna “di origine mediterranea”, è probabile che ci si trovi di fronte a una persona che lavora anch’essa nei servizi, ma non nel settore pubblico, nel settore privato questa volta, individualizzato (un datore di lavoro individuale) o collettivo (un’azienda): donna delle pulizie, badante, sguattera, etc.Che ci si trovi di fronte a una persona che svolge lavoro domestico extra-familiare (come donna “di origine mediterranea”) per un salario subalterno e lavoro domestico familiare (come donna) gratuitamente, etc. (Guillaumin 2016 [1977], pp. 181-182).

Questa citazione, molto densa, ricorda la successiva, e molto approfondita, analisi di Evelyn Nakano Glenn (1992) sulla distribuzione delle posizioni occupazionali per razza e sesso negli Stati Uniti. Guillaumin, certamente, non affronta direttamente la conflittualità intracategoriale all’interno delle classi di sesso. Ne è ben consapevole, ma la colloca principalmente nel contesto delle “opposizioni politiche” (torneremo sulla questione). Notiamo già che, a livello politico, Guillaumin ha partecipato attivamente a diversi conflitti all’interno del movimento femminista, posizionandosi in particolare contro l’essenzialismo espresso dal gruppo “Psicoanalisi e politica”. Sul piano teorico, ricordiamo che le canoniche analisi marxiste di classe non impediscono in alcun modo di cogliere il conflitto che attraversa le diverse frazioni di classe. Altrimenti Gramsci non avrebbe mai potuto teorizzare l’egemonia. Pertanto, pensare con Guillaumin che esista una classe di donne non obbliga a omogeneizzarla, né a negare le opposizioni di interessi al suo interno come hanno sostenuto Moujoud e Falquet (2010) in una loro ricerca sulle lavoratrici domestiche e sui loro datori di lavoro.

La seconda critica contemporanea mossa al pensiero di Guillaumin riguarda l’eventualità che pensare in termini di classi di sesso produca un problematico “binarismo” che rischierebbe di avallare l’idea naturalista secondo cui le disuguaglianze di sesso siano in ultima analisi il risultato di un dimorfismo sessuale, ignorando, così, o condannando la molteplicità dei corpi e le diverse espressioni di genere. Una simile critica nasce, tuttavia, da un fraintendimento rispetto alla definizione di “rapporti sociali” che si collocano a un livello di analisi diverso dalle relazioni sociali, confondendone gli effetti e la logica. Il binarismo è, infatti, il “risultato” dell’antagonismo (che implica la creazione di “differenti-altri-inferiori”), antagonismo a sua volta creato dal rapporto sociale di appropriazione (causa). Per questo, la lotta deve mirare all’abolizione dei rapporti sociali di potere (che sono problematici in sé e tendono effettivamente a omogeneizzare il gruppo minoritario) e non a produrre o coltivare la molteplicità all’interno delle diverse classi di sesso, una molteplicità empirica che è molto reale, ma che di per sé non pone fine al sistema. Lo spiega bene Wittig (2001 [1980]) che, in questo, si rifà esplicitamente a Guillaumin per dire che l’esistenza del lesbismo (e non dell’omosessualità femminile) come “luogo terzo” (al di là del maschile e del femminile, al di là degli uomini e alle donne) dimostra la falsità dell’ideologia binaria dominante. Tuttavia, per Wittig, come per Guillaumin, non si tratta di riferirsi al costituirsi delle lesbiche come gruppo identitario con l’unico scopo di condurre una vita separata o di sovvertire le mere (etero)norme, ma piuttosto del loro attaccare con tutte le loro forze e “collettivamente” l’ideologia della differenza sessuale (il “pensiero straight”), aspetto mentale di una “formazione sociale” basata sui rapporti di sessaggio.

Un terzo tema che interroga il lavoro di Guillaumin è quello dell’analogia tra sesso e razza. Analogia è un termine che pone una vera e propria difficoltà semantica poiché può significare “parentela, somiglianza” e consentire paragoni pedagogici ed euristici, ma anche essere connotato in senso peggiorativo se si riferisce a correlazioni affrettate o inoperanti, quando non false. Nell’ambito delle relazioni di razza, la questione è scottante viste le analogie così spesso fatte negli Stati Uniti, prima nel XIX secolo, tra schiavitù e matrimonio e poi, una volta ottenuta l’abolizione, tra razzismo e sessismo, e considerate le potenti critiche delle donne e femministe nere americane contro queste analogie. In particolare, tali militanti hanno sottolineato l’ingenuità di tali analogie di fronte alle terribili realtà vissute dalle persone schiave e si sono rammaricate del fatto che esse abbiano portato all’usurpazione della legittimità delle lotte abolizioniste e antirazziste a favore delle lotte di donne maggioritariamente bianche, impedendo di pensare in modo accurato una di queste realtà, quando non entrambe. Soprattutto, a partire dalla famosa frase attribuita a Sojourner Truth (1851), le femministe nere americane hanno sottolineato la difficoltà di pensare attraverso il prisma dell’analogia alla situazione di persone che sono razzializzate e femminilizzate come ci ricordano Bentouhami e Guénif (2018). Il malessere permane da allora, anche se non possiamo applicare meccanicamente le critiche delle femministe nere americane ai movimenti sociali francesi e alle tradizioni teoriche antirazziste e femministe che derivano da differenti storie schiavistiche, coloniali e migratorie [26]. La duplice influenza del marxismo e dello strutturalismo francese contribuisce, infatti, a collocare Guillaumin “altrove”. Questo vale soprattutto perché, come abbiamo visto, Guillaumin propone un’analisi approfondita del razzismo basata non solo su diversi sistemi di schiavitù coloniale che vanno oltre al caso degli Stati Uniti e includono i Caraibi, ma anche sull’antisemitismo e sulle migrazioni dall’area mediterranea. In questo senso Guillaumin non mette in relazione il sesso (che sarebbe la variabile centrale) con un razzismo superficialmente inteso e confuso con la schiavitù di piantagione americana, ma trae dall’analisi del razzismo riflessioni globali sull’alterizzazione.

Ecco perché l’affermazione di Delphine Naudier e di Eric Soriano (2010) secondo cui Guillaumin avrebbe praticato un’analogia “virtuosa” perché pedagogica si presta a un fraintendimento, visto Guillaumin non formula il tipo di analogia denunciato dalle femministe afroamericane. Notiamo innanzitutto che Guillaumin utilizza i termini “parentela”, di “avvicinamento” possibile tra sessaggio e schiavitù e non quello di “analogia”, essendo molto critica nei confronti della “modalità di approccio che sottende costantemente il ‘pensiero d’ordine’ nel suo rifiuto di analizzare i processi di cambiamento” (Guillaumin 2016 [1978], p. 161). Il pensiero di Guillaumin è anche lontano da una visione antistorica e lacrimevole che farebbe della schiavitù “il senso comune dell’orrore”: si basa invece sull’analisi sociologica e politica di fatti storici. Soprattutto, invece di collocare “classe” e “razza” secondo un’immagine speculare, Guillaumin riflette su un insieme di regimi sociali che comprendono la servitù della gleba, il sistema delle caste e un insieme circostanziato di diverse logiche di schiavitù [27]. Il suo obiettivo è infatti quello di individuare, a monte di questi sistemi variegati e correlati, una logica globale che chiama “la pratica del potere e l’idea di Natura, o i rapporti di appropriazione”.

Pensare le donne razzizzate, pensare l’articolazione dei rapporti sociali di sesso e di razza

Passiamo ora alla questione del “punto cieco” della teoria del sessaggio, ovvero all’idea che tale teorizzazione sia stata pensata principalmente dal punto di vista delle donne bianche (occidentali, di classe privilegiata) e che, di fatto, descriva solo la loro situazione. Esaminiamo una per una le espressioni di appropriazione formulate da Guillaumin: le donne razzizzate non sarebbero appropriate nel loro tempo, nei loro corpi, nei prodotti dei loro corpi, non sopporterebbero il peso della violenza fisica e sessuale della classe sessuale antagonista, non si farebbero carico del peso fisico dei membri invalidi e validi della società? Se guardiamo, ora, ai mezzi della loro appropriazione: non sono forse spinte ai margini del mercato del lavoro, confinate nello spazio, mantenute ai bordi della società da una serie di violenze fisiche e sessuali, vincolate dal diritto consuetudinario e positivo? Non possiamo che concludere affermando che il concetto di sessaggio è assolutamente applicabile alle donne razzizzate. Inoltre, è sufficientemente aperto da consentire l’analisi di una serie di trasformazioni avvenute dopo la sua prima formulazione. Per esempio, la nozione di “confino nello spazio” può essere utilizzata per pensare le restrizioni statali alla mobilità delle donne attraverso le politiche migratorie come suggerito da Jules Falquet rispetto all’eterocircolazione delle donne (2011) o come propone Estelle Miramond analizzando le logiche della “lotta alla tratta” di giovani donne del Laos.

Certamente, le donne razzizzate, nella loro grande diversità, sono appropriate in modo diverso dalle donne razzizzanti, così come dagli uomini razzizzati, è evidente. Ma perché, invece di vedere le donne razzizzate come “doppiamente marginalizzate” attraverso il prisma delle teorie dell’appropriazione di razza e quella di sesso, non capovolgere il punto di vista e considerarle come soggetti centrali dell’appropriazione? E allo stesso tempo perché non concepire gli uomini razzizzati e le donne bianche come gruppi “marginali” rispetto all’appropriazione. Non è l’analisi di Guillaumin a impedirci di farlo, ma, forse, piuttosto il fatto che per molte donne bianche e per molti uomini razzizzati apparire come “casi particolari” di rapporti di potere minerebbe la loro egemonia sulle lotte e sulla teoria.

Appartenere a certi gruppi permette o impedisce di essere lesbiche (non dico omosessuali). Appartenere a certi gruppi ti mette direttamente a confronto con gli uomini a cui appartieni, ma non con tutti gli uomini. Appartenere a certi gruppi significa essere uccise/i per essere nate/i in quel gruppo e uccise/i con il gruppo nel suo insieme. Appartenere a certi gruppi significa essere segregate/i o imprigionate/i o cacciate/i o discriminate/i per il fatto di appartenere a quel gruppo, con il gruppo nel suo insieme. Appartenere a certi gruppi significa confrontarsi direttamente con gli uomini a cui si appartiene e confrontarsi, inoltre e spesso, con gli uomini che dominano gli uomini a cui si appartiene. Appartenere a certi gruppi fa di voi il premio, l’ostaggio o il mezzo nella guerra che questi gruppi fanno ad altri gruppi oppure nella guerra che questi gruppi sono costretti a subire (Guillaumin 2017 [1998]).

Detto questo, ciò che interessa a Guillaumin sono “le scelte politiche” che ciascuna donna compie in un universo di possibilità influenzato, ma non sovradeterminato, dall’appartenere ad un dato gruppo: “non sono le donne a essere diverse (anche se naturalmente sono diverse nella loro esistenza quotidiana), sono le loro scelte politiche a essere diverse” (Guillaumin 2017 [1998]). Nello stesso intervento, Guillaumin distingue tre tendenze profondamente diverse, persino antagoniste, nei movimenti delle donne. Non borghesi contro proletarie, né donne razzizzate contro donne razzizzanti. Queste divisioni possono, certamente, costituire linee di opposizione, ma sono ben lontane dall’esaurirle o dal sovrapporvisi strettamente proprio per il fatto che le relazioni di potere sono tra di loro intrecciate. Guillaumin distingue tra corrente “corporativista”, corrente “sindacale” e corrente “politica”. Quest’ultima rimanda per Guillaumin al fatto di possedere, a partire da una posizione sociale di donna, un progetto globale di società che includa una critica dei rapporti di potere nella loro molteplicità. È con quest’ultima tendenza che Guillaumin si identifica, alla ricerca di un’unità politica strategica della classe delle donne che non esclude in alcun modo tattiche di lotta autonome (per classe, religione, nazione, cultura, “razza” o anche come lesbiche), ma che rifiuta la reificazione identitaria-naturalistica prodotta, appunto, da analisi “tubolari” o monotematiche. In altre parole, Guillaumin sviluppa a partire dalla propria posizione situata nel tempo, nello spazio e nelle diverse relazioni sociali, strumenti che tengono conto della simultaneità di molteplici rapporti sociali e lo fa nel quadro di un progetto di lotta “per la giustizia sociale”. Quest’ultimo, al di là delle dispute concettuali che hanno circondato l’espansione del paradigma intersezionale, costituisce l’obiettivo originario e centrale delle femministe nere (Patricia Hill Collins 2017). Ciò induce a ritenere che pensare alla molteplicità e all’intreccio dei rapporti sociali potrebbe essere più il risultato di diverse “correnti” femministe che la specificità di date “ondate” del femminismo.

Su alcuni “femmages” e usi attuali dell’opera di Guillaumin

Dopo la scomparsa di Guillaumin, diverse pubblicazioni e vari eventi scientifici tenutisi in Francia e in Québec le hanno reso omaggio [28]: nell’ottobre del 2018 una giornata di studio organizzata dalla rete “Genere, classe, razza. Relazioni sociali e costruzione dell’alterità” dell’Associazione francese di Sociologia con la partecipazione di Danielle Juteau, nel giugno del 2019 un convegno internazionale “Penser la (dé)naturalisation de la race et du sexe: actualité de Colette Guillaumin” presso l’Università di Ottawa [29] nell’ottobre del 2019 una giornata organizzata dall’Association Nationale d’Études Féministes (ANEF) nella quale a Guillaumin era associata Nicole-Claude Mathieu (morta nel 2014). Si è, così, potuto constatare l’interesse per l’opera di Guillaumin di un gran numero di ricercatori e ricercatrici provenienti da diverse parti del mondo e attivi/e in diverse discipline.

In Francia, sono in special modo i/le sociologi/sociologhe e gli/le antropologi/antropologhe che hanno ripreso il suo lavoro. All’interno della rete “Genre, classe et race” dell’Associazione francese di sociologia, diversi/e ricercatori/ricercatrici utilizzano il lavoro di Guillaumin per analizzare le migrazioni, le relazioni interetniche e le interazioni negli ambienti militanti (cfr. il lavoro del gruppo di ricerca vicino all’URMIS, Ryzlène Dahhan, Pauline Picot, Damien Trawalé, Claire Cossée e Aude Rabaud); per studiare il lavoro domestico transnazionalizzato delle donne haitiane (Rose-Myrlie Joseph 2015) o per riflettere sulle traiettorie di lesbiche magrebine migranti in Francia o francesi nate da genitori magrebini (Salima Amari, 2018). Nel campo dell’antropologia, Nehara Feldman (2018) utilizza le analisi di Guillaumin per studiare la migrazione delle donne maliane, mentre la sociologa haitiana Sabine Lamour (2017) rivisita con lei il concetto di Poto-mitan [30].

Guillaumin è molto utilizzata anche in Québec, dove ha soggiornato in diverse occasioni. Come è noto, ha profondamente influenzato il campo della ricerca sulle questioni interetniche, di cui Juteau è stata una delle principali specialiste. A partire dall’articolo di Guillaumin sui femminicidi al Politecnico di Montréal [31], si è sviluppato il campo di studio sull’antifemminismo, in particolare con Diane Lamoureux e Anne-Marie Devreux (2012), e poi sul mascolinismo con Mélissa Blais (2018). Guillaumin costituisce un importanre riferimento anche in altre discipline: basti pensare alla ricerca della politologa Linda Pietrantonio sul concetto di “maggioritario” (2005) o a quella di Dominique Bourque sulla presa di parola minoritaria nel campo letterario (2015). La sociologa francese Elsa Galerand (2015), quebecchese d’adozione, si basa sui concetti guillauminiani per studiare la globalizzazione e il lavoro delle donne migranti in Canada. Al colloquio di Ottawa sono intervenuti ricercatori e ricercatrici che utilizzano il lavoro di Guillaumin per affrontare altri temi ancora: l’abilismo, l’appropriazione dei bambini e delle bambine, l’economia politica e la riproduzione sociale, il movimento lesbico, la lingua, i diritti abitativi, il lavoro sessuale, i racconti delle popolazioni indigene del Québec e l’arte delle donne aborigene australiane (Bronwyn Winter 2016). In Italia, la recente pubblicazione della traduzione di Sesso, razza e pratica del potere è la prova dell’esistenza di un gruppo di ricercatrici femministe che si interessano alle sue analisi sul razzismo e sul sessaggio (Garbagnoli et al. 2020).

Infine, la traduzione in spagnolo nel 2005 del suo articolo del 1978 “Pratique du pouvoir et idée de nature” da parte del collettivo transnazionale “Brecha Lésbica” (Curiel e Falquet 2005), e la successiva pubblicazione in portoghese da parte di una delle più antiche associazioni femministe del Nordeste brasiliano, SOS Corpo (Ferreira et al, 2014), hanno alimentato il crescente interesse di ricercatrici e attiviste latinoamericane e caraibiche per le analisi materialiste francofone che entrano in risonanza con diverse tradizioni femministe marxiste e con il lavoro di alcune femministe decoloniali del continente. Ricercatrici che lavorano in Colombia, Brasile, Argentina e Messico utilizzano Guillaumin, insieme ad altre teoriche femministe materialiste per affrontare un’ampia gamma di campi di indagine: Ochy Curiel (2013) la utilizza per teorizzare il carattere fondamentalmente eterosessuale della Costituzione colombiana del 1991; July Angeli Loaiza Zapata (2017) per riflettere sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini armati durante il conflitto colombiano; Mirla Cisne (2014) per affrontare l’intreccio di discriminazioni nel campo del lavoro sociale in Brasile; mentre le filosofe argentine María Luisa Femenías (2019) e Luisina Bolla (2019) la fanno dialogare con la teoria decoloniale. Luisina Bolla è all’origine della formazione di un gruppo di studio femminista materialista all’Università di La Plata [32]. Negli anni ’80, la scrittrice argentina di fantascienza Angélica Gorodischer si era già interessata a Guillaumin. Negli anni ‘80, la scrittrice argentina di fantascienza Angélica Gorodischer si era già interessata a Guillaumin.

NOTE

[1] Il saggio è stato pubblicato come introduzione al numero speciale dei Cahiers du genre dedicato a Colette Guillaumin. n° 68, 2020/1, pp.15 à 53, https://www.cairn.info/revue-cahiers-du-genre-2020-1-page-15.htm. Camille Noûs è il nome di una ricercatrice fittizia, creata nel 2020 su iniziativa del gruppo di difesa della ricerca RogueESR come metafora per protestare contro le politiche di fragilizzazione della ricerca da parte del governo francese. L’associazione di questa co-autrice agli articoli scientifici rimanda al riconoscimento pubblico dei valori della ricerca pubblica.

[2] Juteau Danielle, “La sociologa Colette Guillaumin è morta”, Le Monde, 18 maggio 2017.

[3] Il femminismo materialista è come una corrente femminista formata da teoriche quali Nicole-Claude Mathieu, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Monique Wittig e Paola Tabet, nonché dal collettivo della rivista Questions féministes (1977-1980). L’idea di un “femminismo materialista” come corrente di pensiero strutturata con i contorni che conosciamo oggi è in larga misura una “costruzione retrospettiva” in reazione all’emergere, a partire dagli anni ‘90, di un femminismo cosiddetto “postmoderno”. La rivista Questions féministes si definiva “femminista radicale”. Per una storicizzazione di questa corrente, cfr. Abreu, 2017.

[4] Feminist Issues è una rivista femminista statunitense pubblicata dal marzo 1980. Inizialmente, le direttrici della pubblicazione, Mary Jo Lakeland e Susan Ellis Wolf, intendevano tradurre in inglese e pubblicare i testi usciti in Francia su Questions féministes. Dopo il conflitto che ha posto fine all’esperienza di QF, l’iniziativa è proseguita con parte della precedente redazione. Nel primo numero di FI Wittig figurava come “Editor Advisory”, mentre nel secondo Capitan Peter, Guillaumin, Mathieu e Plaza erano indicati come “corrispondenti”.

[5] Le Genre humain è una rivista creata nel 1981 su iniziativa di Guillaumin, Léon Poliakov e Albert Jacquard dedicata all’analisi del razzismo. Il primo numero era intitolato “La scienza di fronte al razzismo” (Fresco, Olender 2017).

[6] Per ulteriori informazioni biografiche, si vedano Juteau (2017), Lhomond (2017), Naudier e Soriano (2010).

[7] Questo centro, fondato nel 1950 e inizialmente collegato al Centro di studi sociologici, è diretto da Paul-Henry Chombart de Lauwe. Le sue aree di ricerca comprendono: “La famiglia, le donne e gli uomini” e “Le segregazioni di classe e di gruppo etnico”.

[8] Sotto la direzione di Roger Bastide, presso l’École Pratique des Hautes Études.

[9] Il CERIN è stato fondato nel 1966 su iniziativa di Henri Laugier. Questo centro è poi diventato l’Istituto di studi e ricerche interetnici e interculturali (IDERIC).

[10] Mary McIntosh pubblica The Homosexual Role nel 1968. Sull’importanza di questo testo e per una panoramica delle ricerche dell’epoca, si veda, ad esempio, Jeffrey Weeks ([1998] 2011).

[11] Nature-elle-ment (la-natura-mente) è il titolo del numero 3 (maggio 1978) della rivista Questions féministes, in cui Guillaumin pubblica la seconda parte del suo saggio “Pratique du pouvoir et idée de nature”.

[12] Questo gruppo è stato creato nel 1975 ed è collegato, da parte francese, alla Maison des Sciences de l’Homme e, da parte inglese, al Social Science Research Council (Londra). È composto da ricercatrici inglesi e francesi come Diana Barker [Leonard], Leonore Davidoff, Jalna Hanmer, Jean Gardiner, Hilary Land, Maxine Molyneux, Jane Shaw e Anne Whitehead per la parte inglese; Noëlle Bisseret, Colette Capitan-Peter, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Emmanuelle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e Ursula Streckeisen per la parte francese.

[13] Sulla stampa femminista dell’epoca: Kandel 1979; Laroche e Larrouy 2011.

[14] Questa analisi dell’ideologia può essere confrontata con quella di Maurice Godelier (1984), che definisce l’ideale e il materiale come componenti di ogni relazione sociale (Daune-Richard e Haicault 1985).

[15] La Revue d’en face è una rivista politica femminista creata nel maggio 1977 e pubblicata inizialmente da Savelli. Nel novembre 1978, entra a far parte della casa editrice Tierce. Si tratta di una pubblicazione che proponeva un’alternativa analitica sia alla corrente differenzialista di Psychanalyse et Politique sia a quella delle femministe radicali di Questions féministes.

[16] Dalla Costa e James 1973; Delphy e Léger 1998 [1976]; Collectif l’Insoumise 1977; Guillaumin 1979; Bourgeois et al. 1978.

[17] Questo gruppo è stato finanziato dal programma PIRTTEM (Programma di ricerca interdisciplinare sulla tecnologia, il lavoro, l’occupazione e gli stili di vita) del CNRS dal 1985 al 1987 (più di trenta partecipanti); tutti i seminari hanno dato luogo a pubblicazioni (Marie-Agnès Barrère-Maurisson e Annette Langevin erano le responsabili delle pubblicazioni). Un colloquio internazionale, tenutosi nel novembre 1987, ha registrato un’ottima partecipazione. L’APRE, istituito in seguito al gruppo ad hoc di Città del Messico e alla pubblicazione di Sexe du travail, ha riunito la maggior parte delle équipe del CNRS e delle università che lavoravano in quel periodo nel settore (CSU-Paris, LEST-Aix en Provence, GEDISSTt-Paris, Groupe d’étude des rôles de sexes, de la famille et du développement, CEDREF Université Paris VII, Université de Nantes, ecc.).

[18] Dibattito organizzato tra Colette Guillaumin e “amiche militanti passate all’estrema sinistra”.

[19] Rivista creata nel 1985 da Rita Thalmann e pubblicata fino al 1999 dal CERIC (Centre d’études et de recherches inter-européennes contemporaines), Université Paris VII.

[20] L’Università di Parigi VII è stata pioniera nel collegare gli studi di genere o sui rapporti sociali di sesso con quelli sulle minoranze etniche migranti (v. la rete “Donne in migrazione” avviata dal CEDREF e dall’URMIS a partire dal 1997).

[21] Dagli anni Settanta a oggi si delinea così un percorso in qualche modo paradossale della ricerca femminista, a lungo lasciata ai margini della ricerca accademica e descritta come ideologica e militante: il contesto internazionale favorisce ora l’emergere di “esperte” e accademiche (Fougeyrollas-Schwebel 2000; si veda anche Collin 1995).

[22] Pubblicati da “Côté femmes” che continuerà ad esistere attraverso la collana “Bibliothèque du féminisme” edita da L’Harmattan, (1996-2009).

[23] Ricordiamo la pubblicazione in francese di Sister Outsider di Aude Lorde (2003); alcuni numeri speciali di riviste (Cahiers du Genre, 2005 e HS 2006); Cahiers du Cedref, 2006); Dorlin e Rouch (a cura di) Black feminism: anthologie du féminisme africain-américain, 1975-2000 (2008). Nel 2007 è ristampato, Femmes, race et classe di Angela Davis, già pubblicato in francese nel 1983.

[24] Non abbiamo qui lo spazio necessario per trattare a sufficienza la questione della classe: la lasceremo quindi da parte. Notiamo però che Guillaumin sottolinea l’importanza della contraddizione tra rapporti di appropriazione e rapporti di sfruttamento. Jules Falquet segue questa linea analitica, sviluppandola in una prospettiva storica e strutturale, per analizzare la globalizzazione neoliberale attraverso i concetti di “vasi comunicanti” (2015) e di “combinatoria straight” (2016).

[25] Rafforzato dalla sistematica e ricorrente cancellazione della storia femminista che porta alla perpetua illusione dell’anno zero che aveva colpito anche le attiviste e le teoriche del 1970.

[26] Per un’analisi dettagliata del libro pionieristico del 1978 La parole aux Négresses dell’autrice senegalese allora residente in Francia, Awa Thiam, si veda Bruneel e Gomes Silva (2017).

[27] Ad esempio, nel testo del 1978, distingue, da un lato, tra la Roma antica (familia), il XVIII e il XIX secolo nel Nord America e nelle Indie Occidentali e, dall’altro, situazioni di schiavitù con limiti temporali specificati in anni (la società ebraica, la polis ateniese, gli Stati Uniti d’America nel XVII secolo) o, ancora, situazioni di servitù della gleba con limiti temporali di durata pari a giorni della settimana.

[28] Un dossier intitolato “Racisme et sexisme, hommage à Véronique de Rudder, Nicole-Claude Mathieu et Colette Guillaumin” è stato pubblicato nel Journal des anthropologues n° 150-151 del 2016, a cura di Annie Benveniste, Catherine Quiminal e Jules Falquet; Hamel (2018); diversi articoli nella rivista Sociologie et Sociétés (49 (1), 2017) nonché un dossier nella rivista Cahiers de Recherche Sociologique, (67, 2020), sotto la direzione di Elsa Galerand, Danielle Juteau e Linda Pietrantonio.

[29] Ha riunito una trentina di relatori e relatrici dal 21 al 23 giugno 2019 presso l’Università di Ottawa. Gli atti filmati sono disponibili su https://leseditionssansfin.wixsite.com/colloqueguillaumin/videos.

[30] Potomitan è un’espressione creola antillano-guyanese. Si riferisce al palo centrale del tempio vudù, l’oufo. L’espressione può anche essere usata per indicare il “sostegno familiare”, di solito la madre. Il termine si riferisce alla persona al centro della famiglia, l’individuo attorno al quale tutto è organizzato e sostenuto.

[31] Il massacro dell’École Polytechnique è avvenuto il 6 dicembre 1989 all’École Polytechnique di Montreal, in Quebec (Canada). Marc Lépine, 25 anni all’epoca, ha aperto il fuoco su ventotto persone, uccidendone quattordici e ferendone altre tredici (9 donne e 4 uomini) prima di suicidarsi. È stato il massacro più letale nella storia del Canada compiuto in ambito scolastico.

[32] Primera Jornada sobre Feminismo Materialista: debates y relecturas desde el Sur, Università di La Plata, Argentina, 14 novembre 2019.

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Monique Wittig e le lesbiche barbute

Intervista a Monique Wittig di Catherine Deudon, Actuel, novembre 1974, p. 12-14.

Traduzione di Sara Garbagnoli

Monique Wittig ritratta in una foto di Catherine Deudon

Con il suo cappello nero e i suoi blue-jeans blu, assomiglia un po’ a una giusitiziera del Far West. Monique Wittig è una guerrigliera che lotta per la liberazione delle donne e per il riconoscimento dei diritti delle lesbiche. Militante di lunga data, nel 1969 è stata una delle donne che hanno lasciato i gruppi di sinistra (troppo sessisti per i loro gusti) per fondare il MLF (Movimento di Liberazione delle Donne). Oggi che il MLF si sta dividendo in tendenze politiche, Wittig si è unita alle femministe rivoluzionarie. “Poter vivere in una società di donne” è il suo desiderio più caro, un’esclusività lesbica che fa trasalire gli uomini, ma che noi dobbiamo cominciare ad ascoltare e che è un suo sacrosanto diritto volere.
Lo afferma con orgoglio. Perché il personaggio ha talento. Tre libri, tre periodi: L’Opoponax o l’infanzia di una bambina, Le guerrigliere, romanzo del MLF, e infine Il corpo lesbico, il libro più ambizioso perché cerca, molto semplicemente, di inventare un linguaggio femminista, di eliminare l’io inteso come soggetto maschile, un linguaggio che – dice Wittig – diventerebbe persino incomprensibile agli uomini. Una delle sue amiche, Catherine Deudon, ha allegato per la rivista il suo manifesto dedicato a una lesbica barbuta.
Attualmente, il movimento di liberazione delle donne sta attuando concretamente la parola d’ordine di decentramento che viene dalle femministe radicali. In particolare, le femministe, le femministe radicali, le Gouine rouges, le ragazze che hanno animato la fiera delle donne, donne anglofone, donne latinoamericane hanno oggi uno spazio indipendente dalle altre tendenze del movimento che sono Psychanalyse et Politique e il Circolo Dimitrieff. Questo spazio si trova a Parigi (24, cité Trévise, al primo piano a sinistra). Ogni lunedì dalle 19.00 alle 22.00 si tiene l’assemblea generale e l’accoglienza delle “nuove” tel: TAI.-71-50, aperto tutti i giorni dalle 18.00 alle 20.00. Ogni venerdì dalle 19 alle 22 il gruppo lesbico delle Gouines rouges tiene una riunione intitolata “Lesbismo e femminismo”. Stanno ora preparando un raduno di lesbiche che si ritroveranno a Parigi per otto giorni a Pasqua in un luogo ancora da decidere. Tutte le donne sono invitate a partecipare. È perché crediamo che le donne omosessuali abbiano una cultura e una lotta specifica da portare avanti all’interno del movimento che ci separiamo da Psychanalyse et Politique, che, tra l’altro, nega questa cultura e vuole ignorare la specificità dei problemi e della lotta delle donne omosessuali.

Actuel: Qual è il legame tra il movimento di liberazione delle donne e Il corpo lesbico?

Monique: Il movimento delle donne è un cambiamento radicale nella mia vita. Per me c’è un prima e un dopo. Il dopo è ciò che ci sta accadendo oggi. Molte di noi stanno già vivendo in un altro mondo, un mondo di cui non avevano idea prima. Il corpo lesbico è uno dei prodotti diretti di questo cambiamento. Non riesco a cogliere esattamente quanto sia importante il movimento delle donne per la società. A volte mi sembra che siamo solo una piccola spina nella sua carne, e ci vedo come delle pure schizofreniche, completamente scollegate dalla realtà. Questo è il significato del pronome “j/e” che uso nel libro. A volte, invece, mi sembra che, pur essendo così poche, tutte insieme rappresentiamo l’unica forma di protesta veramente radicale all’interno del sistema. In questi momenti, mi sembra che qualcosa inizi a muoversi. Ovunque si parla di donne. Ma soprattutto le donne stesse cominciano a parlare, a parlare tra loro. Non c’è città, nemmeno la più piccola o remota, in cui oggi non si sappia che esiste un movimento di liberazione delle donne. E anche se non si sa esattamente cosa significhi, si sa d’istinto che è molto importante. Quando penso a questo, sento che siamo davvero forti e che esistiamo in questo nuovo mondo che comincia a essere nostro, e grazie all’euforia che provo, scrivo “j/e”, soggetta altra di un altro universo.

Actuel: Un altro mondo, cosa vuoi dire? Intendi dire che le donne insieme creano un nuovo mondo?

Monique: È la cosa più difficile da definire. Non voglio illudermi. Per la maggior parte del tempo viviamo tra donne, e questo non significa che le polemiche, i dissensi o le divergenze siano miracolosamente aboliti. Ma si può immaginare dall’esterno cosa significhi essere una donna e stare in mezzo a donne che lottano insieme? La novità è che le donne sono finalmente insieme: per quanto mi ricordo, questa è l’unica cosa che non mi è mai stata raccontata quando ero bambina. Niente sarà più come prima, questa è la convulsione definitiva che scuoterà la società da cima a fondo. E so che la gente ha paura, compresa la maggior parte delle donne, purtroppo. Ma per quanto riguarda noi che siamo coinvolte in questo processo, sappiamo che è irresistibile. A volte penso che tra dieci anni il movimento delle donne sarà morto e sepolto per mancanza di combattenti, di determinazione, di obiettivi a lungo termine: so con assoluta certezza che se il movimento delle donne muore, io muoio. La mia persona perde ogni realtà, ogni significato, non potrò sopravvivere nel vecchio ordine. Ma so anche che siamo in molte a reagire così. Il movimento è la cosa più vitale per noi, è la nostra sopravvivenza in questa società.

Actuel: Quindi, sei femminista prima di essere scrittrice…

Monique: Sono una donna che scrive di donne e per le donne. È lo stesso atto; non posso separare i due termini “femminista” e “scrittrice”. Si tratta del mio corpo, del mio desiderio, dei miei sogni e della mia speranza.

Actuel: Il lesbismo è un fenomeno a parte, oltre al movimento? Come lo collochi rispetto all’intero movimento?

Monique: Far parte di un movimento che esclude gli uomini è già un atto omosessuale, almeno ideologicamente. Il lesbismo non è solo una pratica sessuale, è anche un comportamento culturale: vivere da sé e per sé, essere in una totale indipendenza dallo sguardo degli uomini, dal modello del mondo che essi hanno costruito. Non sento alcuna differenza culturale con certe amiche “omosessuali” il cui interesse è nettamente focalizzato sulle donne e per le quali la pratica sessuale non è altro che un dettaglio. Inoltre, ultimamente abbiamo visto che questo è un falso problema. La cosiddetta “liberazione sessuale”, la cosiddetta “rivoluzione sessuale” è solo un inganno quando si tratta delle donne, perché con sessualità si intende un’eterosessualità riadattata. Intendo dire che la “sessualità” non è altro che un grande baccano intorno all’eterosessualità. E l’eterosessualità è la sessualità degli uomini. Non so nemmeno se si possa definire “eterosessuale” una donna. Penso che le categorie eterosessuale-omosessuale funzionino come un modo per dividere e distogliere da un problema che è comune a tutte noi: cos’è la nostra sessualità?

Actuel: Insomma, pensi che per le donne come non esiste l’eterosessualità non esista l’omosessualità?

Monique: Aspetta, vai troppo in fretta. Quando il movimento ha iniziato a mettere in discussione la sessualità conosciuta e riconosciuta – l’eterosessualità – le lesbiche radicali (le Gouines rouges) hanno avuto un ruolo determinante. A partire dalla loro pratica omosessuale (negata, non riconosciuta, considerata deviante) hanno messo in discussione la sessualità e l’eterosessualità che, contrariamente a quanto sembra, non hanno nulla di evidente. Alla domanda: “Cosa fa sì che una donna sia attratta da una donna?” rispondono: “Cosa fa sì che una donna desideri un uomo?”. A chi chiede: “Nel rapporto tra donne, tenerezza, sessualità, parola, quale differenza c’è con quelle tra una donna e un uomo?”, rispondono: “Cosa c’è nel lesbismo che ci fa pensare subito alla tenerezza, come se a noi lesbiche mancasse qualcosa, per esempio le palle, per essere violente?”.

Actuel: Per te il lesbismo è solo un passo verso una sessualità liberata?

Monique: Aspetta, no, non sono d’accordo. Il lesbismo non è nato con il movimento di liberazione delle donne. Le lesbiche ci sono sempre state. E non si può ignorare il desiderio e il piacere in nome di principi politici. Quando una donna è attratta dalle donne, quando vive il suo piacere con le donne perché dovrebbe fermarsi e pensare “quando tutto sarà a posto nel migliore dei mondi, desidererò anche gli uomini”? Che cosa ne sappiamo? E perché è scontato pensare che gli uomini, un giorno o l’altro, entreranno nel campo del nostro desiderio? Non si tratta forse di una norma? Non si diventa lesbiche per obbligo o per scelta politica.

Actuel: Le lesbiche sono più fortunate degli uomini omosessuali perché il lesbismo non è soggetto a repressione.

Monique: Assolutamente no. Il peggior tipo di repressione consiste nel negare completamente l’esistenza del lesbismo. Non se ne parla. Recentemente sulla rivista “Elle” in un articolo dedicato all’omosessualità, c’era scritto: “Quali sono i problemi delle madri che hanno figli omosessuali?”. Il lesbismo non viene nemmeno menzionato. Idem per quanto riguarda il programma televisivo di qualche giorno fa, intitolato “Omosessualità”. Il lesbismo: questo sconosciuto. Nei libri di eminenti psichiatri sull’omosessualità, il lesbismo è sempre una piccola aggiunta, un corollario che parla della questione in questi termini: il lesbismo negli harem, i dildi. Oppure si dice: le lesbiche sono donne disgustate dall’autoritarismo degli uomini. Siamo lesbiche contro qualcosa o qualcuno, non per. Desiderio lesbico: questo sconosciuto. Assolutamente inedito, una tenerezza sdolcinata tra donnine che passano il tempo a baciarsi sul collo e a tenersi per mano. Ripugnante: non c’è cultura lesbica, non ci sono luoghi di incontro per lesbiche. Non esistiamo. E quando, nonostante tutte queste barriere, si trovano due ragazze abbastanza ostinate da essere lesbiche, le si interna in ospedali psichiatrici. Esempio recente: i genitori di una ragazza adulta la fanno internare perché è lesbica. In questo modo, la ragazza è privata della sua capacità giuridica, diventa minorenne. E la sua compagna (maggiorenne) viene messa dentro per aver “traviato una minorenne”! O ancora: una ragazza scopre di essere lesbica. Fino ad allora aveva avuto un amante. L’amante in questione le dice: “Ma tu non sei lesbica perché sei venuta a letto con me”. Beh, non è vero. Non verrebbe mai in mente a nessuno di dubitare dell’omosessualità di un uomo che è andato a letto con una donna per sbaglio. Ma, ovviamente, una donna è “segnata” a vita da un uomo, è definitivamente annessa al gruppo degli uomini, non può essere lesbica, tanto il lesbismo è dell’ordine dell’inconsistente. Non è repressione questa? Un altro esempio: per strada, rispondiamo verbalmente all’aggressione di un tipo mandandolo a quel paese. Il ragazzo attonito risponde: “Lesbiche!”. Noi controbattiamo: “Ti disturba?”. Conclusione: ci spacca la faccia. E lo stesso vale per la solita solfa: “Ma cosa potranno mai fare due donne insieme?”. Reinquadramento, aggressioni fisiche, reclusione, derisione, negazione assoluta sono tutte manifestazioni di una repressione che è tanto più riuscita quanto più è strisciante. Ed è vero che ci sono poche lesbiche e molti più uomini omosessuali.

Actuel: Puoi dirmi in che modo il lesbismo si è manifestato per la prima volta nel movimento delle donne? Qualche fatto.

Monique: Nei primi gruppuscoli che si sono formati all’interno dell’MLF abbiamo iniziato a concentrarci sugli aspetti più evidenti dell’oppressione delle donne: l’aborto, la non disposizione dei nostri corpi, lo stupro, il lavoro domestico, il rapporto tra uomini e donne. In questi gruppi c’erano anche donne omosessuali. Ma non ci sentivamo di parlare della nostra omosessualità. Una sorta di imbarazzo. Una paura di spaventare le “donne”, un senso di colpa, la sensazione di non essere al nostro posto. Non eravamo “vere donne” con problemi delle “vere donne”. Avevamo paura che il movimento stesso venisse percepito come un manipolo di lesbiche incazzate. Alla fine, però, è successo: una casuale conversazione sull’omosessualità in una delle case in cui ci riunivamo. Una domanda di pura curiosità: “Come fate tra di voi? Che cos’è il piacere lesbico? Il desiderio lesbico?”. Commenti come: “La cosa disturbante dell’essere lesbica è che non si possono avere figli” o, ancora, “Non se ne può più dell’omosessualità”. Così, alcune di noi si sono sentite aggredite perché questo era l’unico aspetto della nostra oppressione che non veniva affrontato politicamente, era come la “sezione folcloristica” del movimento, la sezione delle attrazioni da vedere. Così, abbiamo pensato che fosse necessario iniziare a parlarne tra di noi, come era stato fatto per tutti gli altri temi. Le Gouines rouges sono nate così. Allo stesso tempo, le ragazze di Arcadie e del movimento hanno creato il FHAR (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire). (All’inizio c’erano solo uno o due uomini).

Actuel: Ha senso, visto che gli omosessuali sono gli unici uomini che non negano il lesbismo.

Monique: È quello che pensavamo. Che avevamo problemi comuni. Gli uomini pensavano che senza le donne il FHAR non sarebbe mai stato radicale perché solo da loro si poteva attaccare lo sciovinismo maschio, compreso quello degli omosessuali. Ma in realtà la nostra storia era molto diversa. Loro avevano per cosi dire la fortuna di dover fronteggiare la repressione poliziesca. Gli uomini omosessuali almeno esistevano, avevano tutta una cultura onorabile dietro di loro, dai greci a Proust, a Genet. Esisteva un ghetto enorme dove almeno potevano incontrarsi, riconoscersi, trovarsi per avere incontri sessuali. Potevano essere in molti, molto rapidamente, grazie ad una sorta di passaparola. Ed è vero, sono venuti numerosissimi alle riunioni del FHAR alle Beaux-Arts. Poi son cominciati gli antagonismi tra gli uomini e le donne presenti. Noi donne non potevamo nemmeno prendere la parola alle assemblee generali senza dover urlare in modo isterico. Gli uomini erano focalizzati sulla loro omosessualità. Erano molto infastiditi dalle lesbiche. Si chiedevano anche loro, come tutti gli uomini, cosa potessero mai fare due donne insieme.

Actuel: Che dire della coppia omosessuale? Non riproduce tutto ciò che rifiutiamo: dipendenza, rapporti di potere, ruoli?

Monique: È un po’ sbrigativo metterla così. Vivere in coppia per due donne è già una vittoria in questo mondo in cui una donna senza un uomo non è considerata una vera donna. Uscire per strada con una donna e non con un uomo, andare al ristorante con una donna, farsi vedere con una donna, giocare a flipper con una donna, condividere gli oneri sociali con una donna, ecco, questa è già una vittoria. Per non parlare della situazione di miseria, dolore e penuria in cui vive la maggior parte di noi. Avere un’amante non è cosa facile e non si ha voglia di perderla. Inoltre, l’analogia tra una coppia lesbica e una coppia etero è molto vaga: in una coppia lesbica i ruoli maschili e femminili sono intercambiabili, se proprio si vuole introdurli a tutti i costi. Quando vedi una “Jules” e una “minette” – una “butch” e una “fem” – insieme, sai che si tratta di una forma di teatro. È più spesso un gioco di quanto si pensi: due donne che interpretano insieme la coppia etero. E poi dietro la coppia lesbica non c’è una base economica e sociale di oppressione come nel caso degli etero.

Actuel: Ma in realtà stai facendo un panegirico della coppia più classica.

Monique: Mi rendo conto che quello che dico può sembrare equivoco. Parlo a nome di tutte le lesbiche isolate o di provincia che potrebbero sentirsi in colpa per la “liberazione” che non sono ancora riuscite a introdurre nel loro stile di vita. Quello che vivono è il risultato di una lunga storia di oppressione. Tuttavia, non voglio negare che esistano anche nel caso delle lesbiche coppie alienate costituite secondo lo schema eterosessuale, con dipendenza reciproca e obbedienza dell’una all’altra. Nel movimento le coppie non durano a lungo. Ci sono poche coppie durature tra noi. Vedrei piuttosto il movimento come una costellazione di individui con qua e là forme di associazioni per affinità. E in ogni caso, non siamo più “tipizzate”, almeno così ci vediamo noi.

Actuel: Ma si incontrano ancora delle “Jules”, anche nel movimento.

Monique: Per fortuna. Non vorrai mica che sembrassimo donne-donne solo perché siamo donne in un movimento liberazione? Inoltre, a volte è necessario prendere in prestito dall’altro sesso, i suoi abiti, i suoi comportamenti, per trovare l’Amazzone che sonnecchhia in noi. Prendere cioè in prestito i segni di ciò che di positivo c’è in loro e in noi: forza, coraggio, non passività, violenza. In realtà, non “prendiamo in prestito” da nessuno dei due sessi perché non sappiamo di cosa siamo fatte fondamentalmente. Ciò che prendiamo in prestito sono i segni di ciò che ci è precluso quando nasciamo in una categoria o nell’altra. Come le “folles”, le checche, e i travestiti siamo alla ricerca di un concetto umano di cui né la mascolinità né la femminilità possono dar conto. Per noi l’idea dell’Amazzone è la più vicina a questa idea di umano. Sebbene ci sia stato insegnato che le Amazzoni siano personaggi mitologici, la loro esistenza ha un significato per noi, qui e ora. Ciò che ci parla di loro è la loro società di donne, il fatto che vivevano in una cultura che poteva appartenere solo a loro. In questa cultura non c’erano i modelli di identificazione che conosciamo, forse non c’erano affatto modelli. In ogni caso, che fossero madri o meno, le Amazzoni erano donne per le quali la maternità era solo un incidente e non un fatto culturale determinante. Un’Amazzone non si preoccupa di essere maschio o femmina e ama i suoi simili. Provarci non è facile perché richiede una metamorfosi delle proprie strutture mentali e soprattutto la fine della paura del ridicolo cioè dello sguardo degli uomini. Vorrei aggiungere, e voglio farlo, che mi è capitato di scrivere IIl corpo lesbico, che mi dà la possibilità di parlare di lesbismo. Ma lo faccio in modo molto abusivo. Non sono una “specialista” dell’argomento. Sono sicura che molte altre donne avrebbero potuto parlarne meglio di me. Mi dispiace che non ne abbiano avuto l’opportunità e chiedo loro di perdonarmi per il diritto che mi sono arrogata, spero di non dire troppe sciocchezze. Lunga vita a tutte noi!

«Una sorta di paradosso, ma non proprio»: il corpo lesbico di Monique Wittig, cinquant’anni dopo

A cinquant’anni dall’uscita di Le corps lesbien, e in vista dell’imminente pubblicazione della nuova versione italiana (a cura di Deborah Ardilli) per VandA Edizioni, proponiamo — nella bella traduzione di Sara Garbagnoli — due testi di Monique Wittig finora inediti in italiano: la Author’s Note che accompagna l’edizione inglese dell’opera (The Lesbian Body, Owen, London 1975) e Some Remarks on The Lesbian Body (1997-2001), scritto su richiesta di Namascar Shaktini e pubblicato nella silloge da lei curata, On Monique Wittig: Theoretical, Political and Literary Essays, per i tipi della University of Illinois Press. Quest’ultimo testo è stato ripreso nella ristampa francese di Le corps lesbien uscita nel gennaio 2023 per le Éditions de Minuit.

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Molte scrittrici hanno fatto sapere (o hanno lasciato che si sapesse) di essere «omosessuali», ma Wittig è stata la prima — e, ad oggi, l’ultima — ad avere collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro del lavoro di scrittura.

Christine Delphy (1985)

Copertina della prima edizione di Le Corps lesbien, Éditions de Minuit, Paris 1973

Nota dell’autore

di Monique Wittig (trad. it. di Sara Garbagnoli)

Il corpo lesbico ha per tema il lesbismo ovvero un tema che non si può nemmeno definire tabù perché non esiste nella storia della letteratura. La letteratura omosessuale maschile ha un passato, ha un presente. Le lesbiche, da parte loro, sono silenziose, come lo sono a tutti i livelli tutte le donne in quanto donne. Quando si sono lette le poesie di Saffo, Il pozzo della solitudine di Radclyffe Hall, le poesie di Sylvia Plath e di Anais Nin, La Bastarda di Violette Leduc, si è letto tutto. Solo il movimento delle donne si è dimostrato capace di produrre testi lesbici in un contesto di totale rottura con la cultura maschile, testi scritti da donne esclusivamente per donne, incuranti dell’approvazione maschile. Il corpo lesbico rientra in questa categoria.

Nel libro, le descrizioni delle isole alludono alle Amazzoni, alle isole delle donne, ai domini delle donne che esistevano in passato e che avevano una cultura propria. Ma alludono anche alle Amazzoni del presente e del futuro. Già abbiamo i nostri isolotti, le nostre isole, siamo già in procinto di vivere in una cultura che ci favorisce. Le Amazzoni sono donne che vivono tra di loro, da sole e per se stesse a tutti i livelli: immaginario, simbolico, reale. Poiché siamo illusorie per la cultura maschile tradizionale, non facciamo distinzione tra i tre livelli. La nostra realtà è la realtà immaginaria accettata socialmente, i nostri simboli negano i simboli tradizionali e sono immaginari per la cultura maschile tradizionale, e noi possediamo un’intera dimensione immaginaria in cui proiettiamo noi stesse e che è già una possibile realtà. È la nostra dimensione immaginaria che ci convalida.

Il corpo del testo sussume tutte le parole del corpo femminile. Il corpo lesbico cerca di affermare la propria realtà. Gli elenchi di nomi contribuiscono a questa attività. Recitare il proprio corpo, recitare il corpo dell’altra, è recitare le parole di cui si compone il libro. La fascinazione per lo scrivere il mai scritto prima e la fascinazione per l’inarrivabile corpo procedono dallo stesso desiderio. Il desiderio di portare il corpo reale violentemente in vita nelle parole del libro (tutto ciò che è scritto esiste), il desiderio di fare violenza, scrivendo, al linguaggio in cui I/o [J/e] può entrare solo di forza. ‘Io’ [Je] come soggetto femminile generico può entrare solo con la forza in un linguaggio che gli è estraneo, perché tutto ciò che è umano (maschile) gli è estraneo, non essendo l’umano femminile, dal punto di vista grammaticale, umano riguarda i pronomi ‘egli’ [il] e ‘essi’ [ils, in francese]. ‘Io’ [Je] nasconde le differenze sessuali delle persone verbali, mentre le specifica nell’interscambio verbale. ‘Io’ [Je] cancella il fatto che ‘essa’ [elle] o ‘esse’ [elles] sono sommerse in ‘esso’ o ‘essi’, cioè che tutte le persone femminili sono complementari a quelle maschili. L’‘Io’ femminile [Je] che parla può fortunatamente dimenticare questa differenza e assumere indifferentemente il linguaggio maschile. Ma l’‘Io’ femminile [Je] che scrive è ricondotto alla sua esperienza specifica di soggetto femminile. L’‘Io’ [Je] che scrive è estraneo alla sua stessa scrittura in ogni parola che scrive perché questo ‘Io’ [Je] usa un linguaggio estraneo all’‘Io’ femminile. Questo ‘Io’ [Je] sperimenta ciò che le è estraneo, poiché questo ‘Io’ [Je] non può essere “uno scrittore”. Se, scrivendo je, adotto il suo linguaggio, questo je non può farlo. J/e è il simbolo dell’esperienza vissuta e lacerante che è la m/ia scrittura, di questo taglio in due che in tutta la letteratura è l’esercizio di un linguaggio che non m/i costituisce come soggetto. J/e pone la questione ideologica e storica dei soggetti femminili. (Alcuni gruppi di donne hanno proposto di scrivere ‘ioo’, jee, o ‘ia’, jeue). Se I/o [J/e] esamina la m/ia situazione specifica di soggetto nella lingua, I/o [J/e] sono fisicamente incapace di scrivere ‘Io’ [Je], I/o [J/e] non ho alcun desiderio di farlo.

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Un moie est apparu… testo di Monique Wittig apparso nel 1972 sul numero 5 di Le torchon brûle, il giornale pubblicato dal Mouvement de Libération des Femmes dal 1970 al 1973.

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Alcune osservazioni su Il corpo lesbico

di Monique Wittig (trad. it. di Sara Garbagnoli)

Per Il corpo lesbico mi sono trovata di fronte alla necessità di scrivere un libro interamente lesbico nella sua tematica, nel suo vocabolario e nella sua struttura, un libro lesbico dall’inizio alla fine, dalla prima alla quarta di copertina. Mi trovavo quindi di fronte a un doppio vuoto: quello della pagina bianca, che tutti gli scrittori devono affrontare quando iniziano un libro, e un altro di natura diversa: la non esistenza di un tale libro fino ad allora. Non mi ero mai trovata di fronte ad una sfida così radicale. Potevo tentare? Ne ero capace? E cosa sarebbe stato questo libro? Ho tenuto il manoscritto in un cassetto per sei mesi prima di consegnarlo al mio editore.

Non c’erano libri lesbici, a parte Saffo; almeno così la vedevo io all’epoca (non conoscevo ancora Djuna Barnes). Saffo era, insieme a Pindaro, uno dei più grandi poeti lirici del V secolo a.C.

Così, ho iniziato a scrivere frammenti in questo territorio vergine, con Saffo come unico orizzonte. Ho perso quei frammenti. Non funzionavano. Ricordo che a quel punto una delle possibilità formali che avevo in mente era quella di utilizzare l’intera opera di Saffo e di comporre intorno ad essa, di mettere l’intera opera di Saffo al centro e di scrivervi attorno, ai suoi margini. Poi, ho visto un’altra possibilità, che sarebbe stata quella di incorporare il testo di Saffo nel mio lavoro, di intertestualizzarlo nel mio lavoro. Ma nemmeno questo ha funzionato, perché i poemi di Saffo venivano da troppo lontano e si riferivano a un luogo, a un’epoca e a personaggi di cui non sapevo nulla.

Di uno dei più grandi poeti di tutti i tempi sopravvivono pochissimi versi. Il più lungo
frammento sopravvissuto è stato spesso imitato come modello di lirica, in particolare da
Louise Labé nel XVI secolo, o da Boileau, autore de L’Art poétique, nel XVII secolo. Saffo
era in grado di esprimere la passione con grande economia di mezzi, ma con estrema potenza.


Quando scrive «quando ti vedo, divento più verde dell’erba», evocando il ruolo degli organi
come il fegato e cistifellea nella passione carnale, o meglio il tormento degli organi fino al
punto estremo in cui ci si sente vicini a soccombere tale è la violenza della passione.
La maggior parte dei frammenti saffici è composta da uno o due versi, a volte solo da due
parole. E in questi frammenti la violenza non è espressa o percepibile. Al contrario, si può
supporre che i personaggi vivessero in un mondo privo di violenza. E in nessun punto le
poesie suggeriscono che ci sia un’oppressione delle donne da parte degli uomini. Gli storici
hanno poi paragonato Saffo a Platone, la sua scuola di Lesbo a quella socratica. Per noi è
rimasta un mistero totale. È un enigma.

Se mi soffermo tanto sull’opera di Saffo, è perché questa idea di prendere lei come il TESTO, la Bibbia, le livre, il libro, e di scrivere intorno ad essa, è un’idea ricorrente per me. Ma non funziona mai. Mi trovo sempre davanti allo spazio bianco della pagina, questo spazio che io chiamo il cantiere letterario. Non insisterò mai abbastanza su questo spazio che, per ogni scrittore, può in ogni momento diventare un abisso, un abisso da cui c’è sempre il rischio di non poter uscire.

Cercare una nuova forma, provare a scrivere di ciò che non osa dire il suo nome, provare a scriverne con forza, questo era il dilemma con cui mi confrontavo. Le cose erano tali che la violenza era al centro e al cuore di questa impresa. È necessario parlare di una violenza della scrittura perché è sempre così per le forme innovative: minacciano le altre forme, fanno loro violenza. Lo si fa con le parole, parole che devono essere investite di una nuova forma e di conseguenza di un nuovo significato. Lo si fa con parole che devono provocare uno shock sui lettori. Se i lettori non sentono lo shock delle parole, non hai fatto il tuo lavoro. Questo vale per qualsiasi opera letteraria. C’è, quindi, fin dall’inizio una violenza fatta al lettore. Un buon lettore può essere colpito da questo processo come da un’esplosione. (È quello che ho provato per strada quando ho letto per la prima volta Tropismi di Nathalie Sarraute. Dopo di allora, la scrittura e la lettura non sono più state le stesse per me).

Il secondo tipo di violenza che ho sentito di dover esprimere in questo libro che non era ancora mai esistito era la violenza della passione. La passione che non osa dire il suo nome – la passione lesbica. Devo qui dire, per spiegare perché il mio libro Il corpo lesbico dovesse essere così criptico e allo stesso tempo realistico nella sua espressione, che l’amore lesbico in letteratura esisteva solo come la forma più evanescente d’amore – ne è il miglior esempio l’opera di Colette – come legame di due esseri vittimizzati dagli uomini che cercavano di trovare insieme una forma di associazione che li univa. Nel contesto letterario in cui mi trovavo, Colette era la scrittrice più famosa. E in un tale contesto, le due povere donne si aiutavano a vicenda – per compassione – a superare l’acme della passione – l’orgasmo –come una suora che aiuta un moribondo.

Le lesbiche sono entrate nella letteratura moderna con Baudelaire, che ha inventato il termine; una prima versione de I fiori del male era intitolata Le lesbiche. Poi Verlaine ha scritto Parallelamente. Erano tempi di abbondanza per il lesbismo come paradigma letterario, con gli stessi uomini gay che nascondevano la loro omosessualità dietro personaggi lesbici. Non che voglia biasimarli. Dove sarei senza di loro? A quindici anni mi hanno detto tutto quello che dovevo sapere.

Ma torniamo al mio cantiere letterario, dove stavo con il fuoco tra i denti e nient’altro che una pagina bianca. Improvvisamente mi si pararono davanti due parole il cui accostamento mi fece scoppiare in una grande risata (si può ridere anche quando si è angosciati): corpo lesbico. Potete rendervi conto di quanto fosse ilare per me? È così che il libro ha cominciato a esistere: con ironia. “Corpo”, parola maschile in francese, era qualificato dalla parola “lesbico”. In altre parole, mi sembrava che “lesbico”, per la sua vicinanza a “corpo”, destabilizzasse la nozione stessa di corpo. Questo è un buon modo per farvi capire che uno scrittore scrive parola per parola, e ogni parola è un’entità sia materiale che concettuale. Da queste due parole si è dipanato l’intero libro Il corpo lesbico. Non tutto in una volta, ma a poco a poco, come si descrive un’armatura. Prima l’elmo, poi il pezzo per le spalle, poi il pezzo per il petto, e così via. Questo era il mio “corpo lesbico”, una sorta di paradosso, ma non proprio, una specie di scherzo, ma non proprio, una specie di impossibilità, ma non proprio.

In ogni caso, grazie a queste prime due parole, tutto ciò che avrei detto, sarebbe stato trasformato. Davanti alla necessità di dover usare il vocabolario anatomico per descrivere il corpo umano, ebbene, lo avrei ripreso per il mio scopo. L’intero lessico di quest’opera di finzione, Il corpo lesbico, è quindi tratto da un rigido vocabolario anatomico. In questo modo, ho acquisito un preciso insieme di parole per parlare del corpo senza metafore, rimanendo concreta e pragmatica, senza sentimentalismi o romanticismi.

Questo corrispondeva anche ad una mia vecchia idea, secondo la quale il vocabolario usato dallo scrittore doveva essere conosciuto in anticipo dal lettore. Ora potevo cominciare a costruire sulla mia pagina bianca. Il lessico anatomico è stato il primo strato dell’edificio. Ho fatto in modo che perforasse il libro da un capo all’altro, rivelando così la sua strumentalità. A partire da questo vocabolario rigoroso, ero in grado di lesbicizzare l’intera mappa dell’amore così come lo conosciamo. (Il mio modello è Alla ricerca del tempo perduto di Proust). Poi, strato dopo strato, ho potuto introdurre molteplici riferimenti all’amore carnale in grado di fondersi insieme per creare quella che ho chiamato passione lesbica.

Questo vocabolario anatomico è freddo e distante. Mi è servito come strumento per incidere la massa di testi dedicati all’amore. All’altro estremo, c’era per me la necessità di usare la violenza testuale come metafora della passione carnale.

Gli scritti da cui ho preso a prestito e ho intertestualizzato, gettato insieme, sono tratti da Ovidio (Le metamorfosi), da Du Bellay, Genet, Baudelaire, Lautréamont, Raymond Roussel, Nathalie Sarraute, dal Nuovo Testamento, dal Cantico dei Cantici, dai poemi omerici, e altro ancora. Mi sono permessa di attingere da questi scritti solo a condizione che la mente del lettore potesse associarli alla violenza. Dovevo rendere questi testi compatibili con l’idea che avevo di una tensione tra il “tu” e l’“io” che sono i protagonisti de Il corpo lesbico. L’intero progetto è una descrizione impassibile della passione lesbica; ho cercato di lasciarmi alle spalle Baudelaire, Lautréamont e Verlaine.

Perché cos’è l’estasi totale tra due amanti se non una morte squisita? Un atto violento (qui attraverso le parole) che può essere riscattato solo da una resurrezione immediata. I grandi amanti della cultura eterosessuale (Don Giovanni, Otello e persino il dolce Orfeo) sono, il primo, uno stupratore, il secondo, un assassino e il terzo un senza cervello. Invece, le amanti de Il corpo lesbico quando uccidono, risorgono, illustrando, così, la frase poetica della Bibbia secondo cui l’amore è più forte della morte. In un certo senso, non lasciamo l’ambito dell’ironia.

Volevo anche parlare dell’amore lesbico da un punto di vista carnale, in modo che sentimenti, abbandono, lacrime, tutti questi segni sociali dell’amore potessero essere annessi dal solo punto di vista carnale, un punto di vista momentaneo. Non ci sono coppie eterne, non c’è un amore rassicurante che porti il lettore all’idea di “felicità eterna”. Sto solo descrivendo un momento, uno stato dell’esistere che può capitare a chiunque e che non può durare. Non è il fondamento di uno stile di vita. Non ha nulla a che fare con la vita sociale. Perché i poemi non sono una rappresentazione della vita reale. E quando le due cose coincidono, il testo della vita e il testo del libro, può essere solo sotto forma di inspiegabili flash come in quei versi di Rimbaud che mi ossessionano e ancora provocano in me uno shock:

Au bois il y a un oiseau

Son chant vous arrête et vous fait rougir.

Nel bosco c’è un uccello,

Il suo canto vi ferma e vi fa arrossire.

Come ho scritto nel mio libro Il pensiero straight, i pronomi personali sono parte integrante di tutta la questione. A volte, penso a Il corpo lesbico come ad una fantasticheria basata sulla bella analisi del linguista Émile Benveniste sui pronomi io e tu. La barra nel mio I/o è un segno di eccesso. Un segno che ci permette di immaginare un eccesso di “Io”, un “Io” esaltato nella sua passione lesbica, un “Io” così potente da poter attaccare l’ordine dell’eterosessualità nei testi e lesbicizzare gli eroi dell’amore, lesbicizzare i simboli, lesbicizzare gli dei e le dee, lesbicizzare Cristo, lesbicizzare uomini e donne. Questo “io” e questo “tu” sono intercambiabili, non c’è una gerarchia tra “io” e “tu”, che è il suo simile. Inoltre, l’“io” e il “tu” sono molteplici. Possono essere visti come protagonisti diversi in ogni frammento.

Come ne Le guerrigliere, anche ne Il corpo lesbico, ho utilizzato una tecnica di montaggio (di composizione) come per un film. Tutti i frammenti erano stesi sul pavimento al fine di essere organizzati. Il libro è stato costruito su questo principio. L’organizzazione finale produce una simmetria asimmetrica. Con ciò intendo dire che ogni frammento è stato duplicato in una forma e in un significato leggermente diversi.

Il libro si compone, quindi, di due parti. Si apre e si chiude su se stesso. La sua forma può essere paragonata a un anacardo, a una mandorla, a una vulva.

«La passione secondo Wittig»

di Christine DelphY*

Ringraziamo Christine Delphy per averci nuovamente permesso di tradurre uno dei suoi scritti. La scelta questa volta è caduta su «La passion selon Wittig», apparso sulle colonne di «Nouvelles Questions Féministes» nel 1985, a ridosso della pubblicazione di Virgile, non di Monique Wittig. Nell’intervallo di tempo trascorso da allora la letteratura critica sulla scrittrice francese è lievitata in volume, ma è su questo breve testo di Delphy che occorre tornare per ritrovare, prima ancora delle tesi, lo spessore auto-coscienziale del «movimento» che ha animato la ricerca teorica, letteraria e politica di Wittig. Perché «il meno citato e il più rimosso dei suoi romanzi» (Rosanna Fiocchetto) si presti particolarmente bene allo scopo, è una questione che rinviamo alla curiosità di chi vorrà proseguire con la lettura, sotto la guida di un’interprete acuta come Delphy.

Lena Vandrey, Monique Wittig oder die Krabbe im Sand

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Quasi contemporaneamente, questa primavera, è stato pubblicato l’ultimo libro di Monique Wittig, Virgile, non, è stata rappresentata la sua ultima pièce, Le voyage sans fin, al teatro del Rond-Point a Parigi, e Vlasta le ha dedicato un numero speciale. Quest’ultimo include due testi inediti di Wittig, testi e riproduzioni di quadri di Lena Vandrey e quattro analisi dei differenti aspetti dell’opera di Wittig, della quale viene fornita anche una bibliografia completa. Queste analisi provengono tutte da ricercatrici e accademiche femministe nord-americane e rappresentano soltanto una piccola parte dei lavori dedicati allo studio di Monique Wittig negli Stati Uniti.

In effetti, sebbene tutti i libri di Wittig siano ben noti alle femministe francesi, finora non sono stati oggetto di studio. Ritardo delle ricercatrici femministe francesi? Indubbiamente, ma anche preferenza, in questo paese, per l’ écriture féminine, che ha suscitato adepte e glosse interpretative. Anche negli Stati Uniti Cixous, Kristeva e Irigaray, tra le altre, vengono studiate e per di più in quanto femministe, il che è per lo meno sconcertante nel caso delle prime due, che proclamano urbi et orbi la propria distanza dal femminismo. Ma almeno Wittig non è dimenticata, anche se talvolta, per effetto di un controsenso al tempo stesso assoluto e inesplicabile, viene messa dalle sue commentatrici nello stesso sacco delle sostenitrici della neo-femminilità che lei stessa denuncia, le apostole della differenza che le danno il voltastomaco, le inventrici della «scrittura di donna» che deride.

Hélène Wenzel, per parte sua, nel «discorso radicale di M. Wittig», una delle analisi pubblicate su Vlasta, non commette questo errore. Wenzel vede chiaramente che l’analisi femminista radicale che è sottesa all’opera letteraria di Wittig, e che è esplicita nei suoi testi teorici, è agli antipodi della corrente della neo-femminilità (o «femminitudine»). Vede anche i legami tra queste posizioni divergenti sulla subordinazione delle donne e la divergenza di posizioni sul lesbismo: Cixous e Psychanalyse et Politique alias «Des femmes» alias il marchio depositato MLF rifiutano il termine «femminista», come rifiutano il termine «lesbica», mentre Wittig li rivendica entrambi. Altre correlazioni che non vengono menzionate dalle autrici di questo numero sono invece significative.

Il secondo libro di Wittig, Les guerrillères (Minuit, 1969) [1], è stata una tappa importante del movimento di liberazione delle donne. Apparve nel 1969, quando Wittig faceva già parte di un gruppo femminista dal 1968. A differenza delle autrici della neo-femminilità, Wittig non è soltanto una scrittrice: è sempre, fin dal principio, una militante. La sua opera letteraria non è separata dalla teoria, né la teoria dall’azione. Se i piccoli gruppi femministi, che esistevano dal 1968, nel 1970 si aggregano per fondare il movimento di liberazione delle donne, è in gran parte grazie a un articolo che Wittig ha scritto con altre tre donne, Pour un mouvement de libération des femmes, e che l’Idiot internationale pubblica nel maggio 1970 sul numero 6, con il titolo Combat pour la libération de la femme (sic) [2]. Ora, questo articolo è stato scritto, poi pubblicato, contro il parere del gruppo di cui Wittig faceva parte, formato da altre quattro donne tra cui — già — Antoinette Fouque, che due anni più tardi formerà il gruppo «Psychanalyse et Politique». Non avendo potuto impedire la creazione del movimento nel 1970, Fouque lo rovinerà propagandando dall’interno, grazie a fondi di origine sconosciuta che finanziano una potente casa editrice («Des femmes»), la linea reazionaria della neo-femminilità — lavoro di sabotaggio che culminerà nel 1979 con la registrazione come marchio commerciale della dicitura «movimento di liberazione delle donne» e della sigla MLF.

Gille e Monique Wittig nel 1974. Foto di Irene Bouaziz

Wittig, presente fin dalla creazione del movimento, partecipante alla sua costruzione, sarà anche una delle fondatrici delle Féministes révolutionnaires, quindi delle Gouines Rouges, il primo raggruppamento di lesbiche (all’epoca si diceva ancora «omosessuali» e la terminologia ha grande importanza) all’interno del movimento. In seguito partecipa per due anni, dagli Stati Uniti dove risiede, alla redazione di Questions féministes, dove pubblica una magnifica «utopia», Un jour mon prince viendra (Q.F. n. 2) e due testi teorici importanti, La pensée straight (Q.F. n. 7) e On ne naît pas femme (Q.F. n. 8) [3]. Quest’ultimo articolo, benché non sia stato all’origine della scissione del collettivo di Q.F. e benché non abbia nemmeno ispirato direttamente il movimento delle «lesbiche radicali» che fu la causa immediata della rottura, tuttavia conteneva già i germi della posizione separatista, il che spiega la posizione che, all’epoca, Wittig prese nel corso della disputa.

Ma per quanto si possano discutere le conclusioni politiche che le separatiste traggono dall’analisi femminista radicale, per quanto si possano giudicare false, o quanto meno goffe, asserzioni come «una lesbica non è una donna» che furono rimproverate a Wittig, si deve pure ammettere che la critica dei presupposti eterosessuali sottesi a molte analisi femministe — e, a maggior ragione, non femministe — costituisce un apporto essenziale alla teorizzazione femminista, e si deve ammirare il percorso personale, intellettuale e politico di Wittig. Molte scrittrici hanno fatto sapere (o hanno lasciato che si sapesse) di essere «omosessuali», ma Wittig è stata la prima — e, ad oggi, l’ultima — ad avere collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro del lavoro di scrittura. Sarebbe troppo lungo argomentarlo, perciò mi accontenterò di affermare quanto segue: la maniera in cui Wittig integra, o piuttosto inventa, il lesbismo è unica negli annali della letteratura francese.

Il pubblico — il vero pubblico degli scrittori, cioè il piccolo mondo dei critici — non si è ingannato: ha fiutato la sovversione e ha smesso di parlare delle opere di Wittig non appena queste hanno iniziato a intitolarsi Les corps lesbien e Brouillon pour une dictionnaire des amantes [4]. Da pupilla — giovane autrice geniale dell’Opoponax (1964), Premio Médicis [5] — della classe letteraria francese Wittig è diventata, in pochi anni, una paria in quel mondo che fa e disfa le carriere letterarie. La messa al bando da parte dell’establishment sanziona, ma misura anche con grande esattezza, l’importanza del ruolo svolto da Wittig nella creazione del movimento femminista e nella considerazione della dimensione lesbica. Ancora una volta, il modo in cui ella introduce questa dimensione può essere soggetto a cauzione e a discussione, ma il fatto che i progressi della teoria femminista passino attraverso la decostruzione degli schemi di analisi eterosessuali che informano implicitamente la nostra visione del mondo è indubitabile. Il fallimento del movimento (considerato globalmente) nel realizzare questa decostruzione, d’altra parte, non ha soltanto conseguenze teoriche; in effetti, come non collegare l’insufficienza della posizione femminista «standard», che integra le lesbiche su una base liberale, come casi sociali, e la situazione con cui facciamo i conti oggi, ovvero l’alienazione delle nuove generazioni di lesbiche dal movimento femminista?

Ma forse l’apporto più duraturo di Wittig, nel senso che è quello che rimarrà nella storia perché richiede un talento anche peggio distribuito del coraggio politico, consiste nell’avere, se non inventato il genere letterario, scritto le forme più perfette di utopia femminista. Nel numero 9/10 di N.Q.F. dicevo che «le utopie femministe, quando sono riuscite, sono oggetti al tempo stesso molto belli e molto utili», facendo l’esempio del Brouillon. Il ruolo dell’utopia nella scrittura rivoluzionaria certamente è già stato studiato. Utopia e teoria sono le due facce di una stessa ricerca: potremmo dire che la teoria è la faccia, o la fase, negativa dell’analisi di ciò che è, e l’utopia è la faccia, o la fase, positiva. Quando si tengono in considerazione le funzioni complementari dell’utopia e della teoria, l’opposizione fra ragionamento e immaginazione viene meno. Perché per contestare ciò che è, bisogna avere un’idea di ciò che potrebbe essere: occorre dell’immaginazione anche per elaborare la teoria a prima vista più «arida»; e, viceversa, è possibile immaginare un altro mondo soltanto a partire da un’analisi delle carenze del nostro. E, tuttavia, l’utopia è un bene più raro della teoria. Forse perché la teoria consiste soprattutto nella critica, e perché «la critica è facile», mentre l’utopia richiede arte, e «l’arte è difficile»? Ad ogni buon conto, l’utopia è altrettanto necessaria della teoria; quest’ultima dice: «le cose non sono necessariamente così» («It ain’t necessarily so» — Porgy and Bess), ma l’utopia lo mostra. La teoria parla astrattamente di altre possibilità, l’utopia dà a vedere la realizzazione di una di queste possibilità, ed è la cosa che ci convince meglio, o più rapidamente, della contingenza del nostro mondo. Se Les guerillères restano una pietra miliare nella storia del femminismo e della letteratura è perché Wittig ha fatto precisamente questo: vi descrive nel dettaglio gli odori, i colori, i rumori, i fiori di un mondo, i vestiti, i movimenti, i sentimenti di esseri che non esistono e non sono mai esistiti, come se li avesse visti, e questa è la definizione esatta dell’utopia. Non è stupefacente che quest’opera abbia riempito di ammirazione, ma soprattutto d’ispirazione, tante donne, fra cui Lena Vandrey, che nello stesso periodo aveva cominciato a dipingere la serie di giganti selvagge intitolata Cycle des amantes imputrescibles, una parte della quale è riprodotta in questo numero di Vlasta. Vandrey ha realizzato anche le scenografie e i costumi della pièce Le voyage sans fin e questa, a propria volta, ha ispirato una nuova serie di quadri, la Féerie pour Quichotte, anch’essa riprodotta in Vlasta. È una cosa buona e bella che Wittig e Vandrey, che si sono ispirate e stimolate reciprocamente per quindici anni, fornendo ciascuna a proprio modo un contributo importante alla creazione di un universo poetico totalmente nuovo, epico e femminista, siano riunite in questo numero. Forse la visione di queste incorruttibili darà origine, a propria volta, a una nuova razza di donne, anche loro «immarcescibili»?

In Virgile, non (Minuit, 1985) [6] due personaggi, Wittig e la sua guida Manastabal percorrono l’inferno e provano a farne uscire alcune «anime dannate». Raggiungono il paradiso, là dove gli angeli cantano «bella cena della sera», soltanto nell’ultimo capitolo e dopo molte scene di orrore. «Donne» e «uomini» sono le due parole assenti dal testo, per lo meno nel loro senso sessuato. Ma la parabola è chiara: le anime dannate, che sono «esse», vengono perseguitate, tenute al guinzaglio, confinate, stuprate, mutilate da individui dai pronomi («egli», «essi») maschili. I diversi luoghi dell’inferno, o meglio le diverse scene di tortura, sono soprattutto allegorie — talvolta a malapena allegoriche, tanti sono gli elementi reali, descrittivi, che vi sono mescolati — dell’oppressione delle donne da parte degli uomini. Si tratta dell’oppressione delle donne nella, e per mezzo della, eterosessualità. Alla quarta pagina un’anima dannata prende la parola (tra parentesi) e ne approfitta per insultare Wittig, trattandola da «lesbica repellente» e anche «puzzolente»; alla quarta pagina inizia il dialogo tra «quella che dice di non esserlo» e «quella che lo è», ma preferisce «farsi fottere, scopare, sbattere, trombare da un nemico che ha quel che serve, piuttosto che da te che non ce l’hai». Si tratta per altro di uno dei modi — l’innocente Wittig lo apprenderà nel corso di questo viaggio iniziatico — con cui «gli individui», alias «i padroni» o «i cacciatori» impediscono alle anime dannate di fuggire: instillando in loro la paura delle lesbiche dal corpo ricoperto di scaglie che le attendono alle porte dell’inferno per fare subire loro sevizie ancora peggiori di quelle inflitte dai «padroni».

Se ci si arresta a questa lettura, si può dire che Virgile, non apporta un messaggio semplicistico e, oltretutto, poco originale. Ma c’è molto di più — e non parlo qui della rinomata bellezza, propriamente letteraria, dello stile di Wittig. In effetti, non è un caso se è proprio una figura di stile a farci visitare l’inferno al seguito non di uno, ma di due personaggi; perché, per tutto il libro, questi personaggi parlano, commentano le scene che vivono, e si parlano. Ed è in questo dialogo che risiede l’energia drammatica del libro, il suo vero movimento, che non è contenuto né nella descrizione statica dei cerchi dell’inferno, né nel messaggio relativo all’eterosessualità che, come abbiamo visto, viene fornito subito.

Fin dall’inizio Manastabal corregge gli errori più grossolani di Wittig che, nella sua foga, metterebbe in pericolo la vita di entrambe senza che questo comporti un beneficio per le anime già spacciate. Manastabal non le insegna soltanto a proteggersi, a venire a patti con l’inferno, a nascondere il fucile, ma anche a preferire l’efficacia allo stile: per esempio, a «riscattare le anime sottobanco». Ma soprattutto, ella appare nel corso delle pagine come la guida classica dei romanzi di iniziazione: il direttore di coscienza che dissimula la propria autorità morale con una tecnica maieutica e che, d’altronde, la nasconde male, perché a p. 38 rimprovera a Wittig la sua «mancanza di etica verso le anime in pena» e le ricorda bruscamente che non ha «alcun diritto di schiacciare le anime con il suo giudizio…». «Tu puoi rallegrarti», le dice Manastabal, «dieci volte, e non una, di avere disertato e di essere una schiava fuggitiva. Tuttavia finché si ha un simile privilegio, è una misera esibizione servirsene per vessare ancora di più le sfortunate creature che ne sono prive».

Come sono lontane, queste frasi di Manastabal, dal discorso separatista che abbiamo conosciuto, e addirittura contrarie ad esso! Potremmo dire che, in Virgile, non, il discorso separatista è rappresentato dal personaggio di Wittig, mentre il personaggio di Manastabal rappresenta la modifica, la revisione di quel discorso. Si potrebbe anche dire che il personaggio di Wittig incarna l’impostazione lesbica radicale (o separatista), mentre quello di Manastabal incarna l’impostazione femminista. Si potrebbe dire, ancora, che entrambe simboleggiano l’ambivalenza di ogni lesbica nei riguardi dell’eterosessualità. Forse si potrebbe addirittura sostenere che ciò che viene messo in scena dalla loro dualità e dal loro dialogo è la lacerazione di ogni coscienza femminista di fronte all’oppressione delle donne. In effetti, non sono soltanto le lesbiche a oscillare senza posa, davanti allo spettacolo delle atrocità subite, tra solidarietà con le vittime e disprezzo per la loro passività reale o immaginata: ogni donna che ha rifiutato una certa — precisa — oppressione è, di fronte a quella che continua a sostenerla, torturata da questa domanda: «davvero non ha altra scelta?», è divisa tra condanna e compassione. E se oscilla tra questi due atteggiamenti è perché esita tra due possibili risposte alla domanda «perché non si ribella?», che bilancia tra l’ipotesi della complicità delle vittime e l’ipotesi della loro non-libertà assoluta.

Il dialogo tra Wittig e Manastabal traduce esattamente questo doppio movimento della coscienza. Laddove Wittig si indigna per la passività delle anime, Manastabal mostra le catene materiali. Ma Manastabal si spinge ancora più in là. Ella non si limita all’unico criterio etico «Non giudichiamo dalla nostra posizione privilegiata», che in fin dei conti implica un’esteriorità. Quando Wittig dice (p. 86): «Tendo sempre a pensare… che solo un certo grado di istupidimento può spiegare perché si resta all’inferno», Manastabal le ritorce contro: «Sono convinta… che le più grandi intelligenze umane si trovano tra le anime dannate… quando esse sono consapevoli di ciò che sta accadendo, vengono sfidate a esercitare questa intelligenza attraverso tutte le leggi che governano il loro mondo». Anche qui, che movimento! In effetti si passa da un atteggiamento eticamente corretto, ma glaciale, di tolleranza, a una comprensione. Allo stesso modo Manastabal non considera le azioni delle anime dannate come puramente determinate dalle necessità della sopravvivenza in un mondo ostile: è lei a spiegare a Wittig che questo spettacolo è orrendo, perché le anime dannate arrivano a suicidarsi reciprocamente piuttosto che lasciarsi uccidere, a mostrare in questo gesto, a una Wittig che vi scorge soltanto morte, la rivolta dello spirito. Alla fine non solo lo spirito, ma lo spirito di rivolta, l’ambivalenza della coscienza femminista che le osserva, vengono attribuite alle anime stesse. Ciò che viene mostrato dalla descrizione di alcune anime che sono «bicefale…con le teste che ballonzolano ora in avanti, ora all’indietro, e i corpi che seguono una direzione ora dorsale, ora frontale… secondo i bisogni, le loro braccia e gambe possono piegarsi sia in avanti, sia all’indietro, poiché i gomiti e le rotule sono reversibili…le teste sono come quelle di Giano, due in una, l’una girata verso il passato, l’altra verso il futuro» (p. 83), è che le anime sono tormentate tanto quanto le loro salvatrici dal doppio volto: che appartengono alla stessa specie.

Siamo lontane dalla condanna separatista, e anche dalla condiscendenza della posizione «etica»; le anime dannate dell’inferno sono identiche agli angeli del paradiso. È un lungo cammino quello che è stato percorso, dall’incomprensione iniziale di Wittig per quelle che vuole salvare, alla confessione di Manastabal: «Non lo nego, è quasi passione quella che provo per l’intelligenza alle prese con se stessa e che non molla». La necessità di percorrere questo cammino, l’affermazione che si tratta di una via crucis, o di un viaggio negli Inferi, sono — ai miei occhi — il vero messaggio di Virgile, non, il suo vero dramma, cioè il suo vero movimento. Di questo movimento si potrebbe dire che è precisamente il movimento oscillatorio e incerto di ogni donna verso tutte le altre. Ma reintegrando in questo modo Wittig in una sorellanza universale, nel migliore dei casi illusoria, nel peggiore sgradevolmente tiepida, non rischiamo di fare dell’ecumenismo a buon mercato? E per di più alle spalle di quel dramma (questa volta nel senso di tragedia) particolare costituito dal dialogo tra sorde che è il dialogo tra lesbiche ed eterosessuali? Si danno in definitiva  — ed è un altro modo di porre la domanda — un cambiamento di posizione in Wittig, come pure un’esplicitazione dell’appello che risuona nelle prime pagine, e formulato più avanti nel libro, in un modo che è stato incompreso o anche platealmente frainteso? Alcune l’hanno messa in croce per avere scritto: «Ci prendono le donne», credendo che lei si ponesse come loro proprietaria putativa, mentre probabilmente, e senza dubbio, Wittig esprimeva la denuncia della lesbica di essere invisibile per le altre donne; se si può «gustare una certa dolcezza nella loro stizza, nel loro risentimento», non è perché il dolore dovuto al fatto che «non una di voi mi guarda» è tanto forte da preferire l’odio all’indifferenza? E la passione di Manastabal — la guida per le anime dannate non era forse già l’amore deluso di Wittig — la — femminista per tutte le donne? Comprese quelle che le «tagliano la strada» (p. 15), che preferiscono a colei che le ama i «cacciatori» e che, ed è la cosa più crudele, non sarà nemmeno confutata — l’accusano di volere, anche lei, «fotterle, scoparle, sbatterle», in breve la confondono con il nemico.           

NOTE

* C. D., «La passion selon Wittig», «Nouvelles Questions Féministes», 11-12, 1985, pp. 151-156.

[1] Le guerrigliere, trad. it. di Ana Cuenca, “Lesbacce incolte”, Bologna 1996 (seconda edizione 2019).

[2] Per un movimento di liberazione delle donne, trad. it. di Deborah Ardilli, in Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), a cura di D. Ardilli, VandA-Morellini, Milano 2018, pp. 231-251.

[3] Il pensiero eterosessuale e Non si nasce donna, trad. it. di Federico Zappino, in Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale, a cura di F. Zappino, ombre corte, Verona 2019, pp. 42-53 e pp. 29-41.

[4] Il corpo lesbico, trad. it. di Christine Bazzin e Elisabetta Rasy, Edizioni delle Donne, Roma 1976; (con Sande Zeig) Appunti per un dizionario delle amanti, trad. it e cura di Onna Pas, Meltemi, Milano 2020.

[5] L’Opoponax, trad. it. di Clara Lusignoli, Einaudi, Torino 1966.   

[6] Virgile, non, trad. it. di Rosanna Fiocchetto, Il Dito e la Luna, Milano 2005.

Sesso e razza: formazioni immaginarie materialmente efficaci

Dialogo su Colette Guillaumin con Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz

 

COLETTE GUILLAUMIN, 14 giugno 1997, Giornate di studio ANEF, Reid Hall Center, Parigi.

Colette Guillaumin (1934-2017) è stata una sociologa femminista e antirazzista francese. Ricercatrice presso il CNRS a partire dal 1962, nel 1969 discute una tesi in sociologia intitolata Un aspect de l’alterité sociale. L’idéologie raciste. A partire da questo lavoro si svilupperà, tre anni più tardi, la monografia L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel, un contributo pionieristico al dibattito delle scienze sociali sul razzismo. Fra il 1969 e il 1972, Guillaumin partecipa al Laboratorio di sociologia del dominio insieme a Nicole-Claude Mathieu, Colette Capitan e Jaques Jenny. Dal 1977 al 1980 fa parte del collettivo di Questions féministes, la rivista del femminismo materialista francofono fondata da Christine Delphy, Colette Capitan Peter, Emmanuelle de Lesseps, Monique Plaza e Nicole-Claude Mathieu, a cui si unirà anche Monique Wittig a partire dal 1978. Sulle colonne di Questions féministes Guillaumin pubblica in due parti l’importante articolo Pratique du pouvoir et idée de nature, successivamente ripreso all’interno del volume Sexe, race e pratique du pouvoir. L’idée de nature, che include scritti composti fra il 1977 e il 1992. Nel 1981 è fra le fondatrici, insieme a Léon Poliakov, della rivista Le genre humain.

In occasione dell’edizione italiana di Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de nature, pubblicata da ombre corte nel 2020 con il titolo Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, abbiamo posto qualche domanda a Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz, traduttrici e curatrici del volume.

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MANASTABAL: Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura (ombre corte, 2020) arriva sette anni dopo Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia (Alegre, 2013), l’antologia dedicata al femminismo materialista francofono curata da Sara e Vincenza, a cui anche Valeria ha contribuito con la sezione dedicata a Nicole-Claude Mathieu. La versione italiana di questa raccolta di saggi a firma di Colette Guillaumin si inserisce, quindi, in un cantiere di traduzione e di riflessione avviato già da tempo. Nel periodo trascorso da allora, a vostro giudizio, si sono create condizioni più favorevoli per la ricezione del femminismo materialista in Italia?  

SARA: Stando alla mia esperienza di militante (e) ricercatrice con mezzo piede in Italia, mezzo in Francia, mezzo dentro l’Università e mezzo fuori, non posso che rispondere positivamente e rallegrarmene. Sì, il femminismo materialista suscita oggi più interesse nel nostro paese: è più letto, più studiato, più tradotto e, soprattutto, più usato come strumento di analisi per comprendere il funzionamento della dominazione sociale. Il lavoro di analisi e di traduzione pubblicato sul vostro Manastabal è per me una delle più convincenti forme di esistenza di questo rinnovato e approfondito interesse. Penso anche alle numerose recenti iniziative editoriali (quattro traduzioni di tre opere di Wittig, la traduzione di Deborah Ardilli dell’ultimo libro di Delphy), ai progetti in cantiere (la traduzione de L’ideologia razzista di Guillaumin, un libro di Eva Feole su Wittig e il linguaggio come arma). Penso, inoltre, a una serie di atelier organizzati da collettivi militanti in diverse occasioni (il Campo femminista e lesbico di Agape, le giornate Lesbicx), penso al rigoroso lavoro di ricerca condotto da studiose come Silvia Nugara e ai dialoghi intessuti con più giovani ricercatrici e militanti femministe antirazziste come Marie Moise. Credo che tale risultato sia l’esito del lavoro paziente e testardo di ognun* di noi, delle occasioni di scambio e confronto che personalmente e collettivamente abbiamo costruito e costruiamo. Nonostante questa nota positiva, non posso però non constatare (e deplorare) la quasi totale assenza tra le categorie analitiche impiegate in Italia nel campo delle scienze sociali, o in quello militante, del concetto di «gruppi minoritari» forgiato dalle femministe materialiste per pensare i gruppi inferiorizzati e naturalizzati secondo diversi assi di gerarchizzazione (il sesso, la razza, la classe, l’età, la validità fisica o psichica). Lo stesso vale per il contestuale permanere, nelle analisi che si vogliono femministe o queer, di categorie naturalistiche come quella di «differenza sessuale», per non parlare del successo che continua a mietere quella grande fabbrica di pensiero eteronormativo che è la psicoanalisi. Detto altrimenti, nonostante questo miglioramento nella ricezione del pensiero femminista materialista, le resistenze intellettuali, politiche, ma anche «affettive» alla diffusione di un paradigma teorico che pensa gli uomini e le donne come classi – ovvero come gruppi costruiti naturalizzati e antagonisti – restano fortissime proprio per gli interessi e i privilegi che una tale analisi va a rendere visibili e a toccare.

VALERIA: Nell’ambito femminista, le esperienze, le pratiche e le riflessioni sono costantemente in movimento, in trasformazione, anche se non sempre è facile registrarle, spesso ne perdiamo anche memoria collettiva essendo in molti casi un lavoro che non lascia traccia in documenti scritti. Sì, mi pare che negli ultimi anni ci siano stati dei cambiamenti, delle aperture che possiamo ricondurre a diversi fattori di lunga durata. La maggior circolazione negli anni Duemila del pensiero queer, una vera e propria galassia, ha dato spazio tra le più giovani a un’autrice come Wittig, anche se non inserita nel contesto del femminismo materialista francofono (Tabet, Mathieu, Guillaumin, Delphy, Wittig), quindi forse in modi in cui non ci si focalizzava sul dialogo tra queste autrici. Alcune giovani sono andate in Francia per studio o per altri motivi e lì hanno scoperto le FMF (femministe materialiste francofone). Una volta tornate in Italia hanno riportato dentro le lotte femministe, in particolare penso a Non una di meno, la radicalità di questo pensiero e visione del mondo. Alcune discussioni sull’uso della nozione di razza credo vadano viste anche in questa direzione, approcci politici diversi su come usare questa parola in una lotta femminista antirazzista. Partendo proprio dal lavoro Guillaumin, penso che la parola razza oggi possa essere impiegata per nominare il rapporto sociale che l’ha prodotta, il razzismo. Rimane il fatto che ancora in poche conoscono il FMF, per la mancanza di traduzione, ma forse anche perché leggere i testi di queste autrici è una sfida per tutte noi ad assumere una prospettiva antiessenzialista con cui osservare tutti gli ambiti della nostra vita. Significa vedere con nuovi occhi le relazioni affettive, professionali, di militanza, assumere una radicalità costante e rinnovata nel tempo. Capita che le studentesse che leggono nei miei corsi Tabet, o le donne che incontro quando presento il pensiero femminista materialista, mi dicano che è una lettura che ha un forte impatto su di loro.

Ci sono discussioni molto dense, in cui sarebbe bello inserire anche il FMF. Penso per esempio al recente dibattito che si è sviluppato sul lavoro di cura nel contesto dell’attuale crisi sanitaria da Covid-19, e le sue importanti connessioni con le questioni poste dall’analisi femminista dell’antropocene. Mi pare che questa importante riflessione potrebbe essere ancora più contundente e politicamente efficace se riuscissimo a integrarvi le analisi delle femministe materialiste sul lavoro domestico. Infine, in ambito accademico mi pare che le cose fatichino di più a muoversi. In questo contesto occuparsi di, o produrre, analisi femministe non è facile: è decisamente più accettato usare o identificare la propria produzione con il termine genere, mentre ricordo che le FMF preferiscono impiegare la nozione di sesso inteso come costrutto sociale, con l’obiettivo di denaturalizzare completamente i rapporti sociali tra uomini e donne. Inoltre il nostro sistema è molto rigido per quanto riguarda i confini disciplinari, e il sapere femminista è invece interdisciplinare. In questo contesto speriamo che questa traduzione apra nuovi spazi di formazione e riflessione.

VINCENZA: È una questione un po’ complicata. Da un certo punto di vista mi sembra di sì, il clima è in parte cambiato. Da una parte, grazie all’intensificarsi degli scambi e alla mobilità per motivi di studio e ricerca di molte verso la Francia, seguendo anche stimoli dati da quanto man mano alcune di noi facevano circolare qui in Italia, e che hanno facilitato la «scoperta» dell’esistenza di un femminismo altro rispetto a quello che per decenni passava qui in Italia come «femminismo francese» (Irigaray eccetera). Dall’altra, c’è stata anche una moltiplicazione delle pubblicazioni, e queste hanno favorito una maggiore circolazione e discussione nel nostro paese degli assunti teorici del femminismo materialista francofono. Penso in particolare, ad esempio, a Le dita tagliate di Paola Tabet (Ediesse, collana sessimo&razzismo, 2014), in cui l’autrice riprende temi e analisi della sua ricerca antropologica sul dominio esercitato dalla classe degli uomini su quella delle donne portata avanti sin dagli anni Settanta (alcuni degli scritti più significativi di questo percorso sono pubblicati in La construction sociale de l’inégalité des sexes. Des outils et des corps, Paris, L’Harmattan, 1998), ma restata a lungo pressoché sconosciuta in Italia. O ancora le recenti traduzioni degli scritti teorico-politici di Monique Wittig (Il pensiero straight e altri saggi, volume nato, come ricorda Silvia Nugara nella recensione pubblicata da «il manifesto», da un lungo percorso di discussioni condivise di varie soggettività poi riunitesi nel collettivo La Lacuna, e il contemporaneo volume Il pensiero eterosessuale curato da Federico Zappino). O, last but not least, la traduzione di Deborah Ardilli per ombre corte del volume Per una teoria generale dello sfruttamento. Forme contemporanee di estorsione del lavoro di Christine Delphy, come anche il lavoro di traduzione/riflessione/diffusione che portate avanti con questo stesso vostro sito. E gli effetti si avvertono sia in ambito «militante» che, seppure in misura minore (come conseguenza della situazione dell’università italiana in termini di accesso, possibilità, eccetera), in ambito accademico grazie al lavoro di quante valorizzano all’interno delle loro ricerche, come anche dei loro corsi, il lavoro delle femministe materialiste francofone (per restare «tra noi» si veda tra le altre il lavoro svolto da Valeria all’Università di Modena). Detto questo, è innegabile che la strada da compiere sia ancora molto lunga. Ad esempio, seppure non si possa più parlare di una vera e propria «egemonia» del femminismo detto «della differenza» come negli anni Ottanta e buona parte dei Novanta, credo che permangano ancora i residui, anche nell’ambito degli studi femministi (di «genere» o di «sesso», come direbbero le «nostre»), di un pensiero «naturalista», non ancora compiutamente antiessenzialista.

MANASTABAL: A caratterizzare la riflessione di Guillaumin è l’approccio sociologico all’idea di razza. Potete chiarire di che cosa si tratta e in che senso questa decostruzione della razza si presta a essere estesa a tutti i gruppi istituzionalmente rivestiti del marchio biologico?

VALERIA: Il lavoro di analisi di Guillaumin sulla razza e sull’ideologia che la sottende, L’Idéologie raciste (1972), è la sua prima opera (la sua tesi dottorato), a cui è utile tornare per comprendere il suo metodo di lavoro. In esso Guillaumin fa una storia e una sociologia della formazione dell’idea di razza e delle idee che hanno interagito con la sua nascita (si pensi, per esempio, all’idea moderna di «ereditarietà»). Che cosa è la razza nella sua analisi? L’invenzione di una categoria naturalistica. Guillaumin decostruisce la definizione corrente della nozione di razza (gruppo naturale), dimostrando allo stesso tempo come questa nozione sia reale, materiale, prodotta da determinati rapporti sociali di potere e oppressione (il razzismo). È forse proprio in questo approccio in cui insieme si decostruisce il nucleo sentito come vero dell’idea di razza (la natura), e al contempo si riconosce la materialità dell’oppressione che essa incarna (il razzismo), che ritroviamo un’analisi imprescindibile per la comprensione dell’emersione storica di quei gruppi istituzionalmente rivestiti del marchio biologico, in primis i sessi. Il saggio sul sistema dei marchi è appassionante (Razza e Natura), proprio perché ci permette di capire come viene prima il rapporto sociale e poi un marchio che lo rappresenta isolandolo dalla sua origine sociale. Oggi si pensa: sono neri, per questo sono stati schiavizzati, e oggi discriminati. Ma invece viene prima il rapporto di oppressione e sfruttamento di un gruppo che casualmente era nero, e poi la legittimazione di tale oppressione con un marchio sentito come biologico, il colore della pelle. Il colore della pelle «secerne» la nostra posizione sociale: questa è una visione essenzialista del mondo, in cui si negano i rapporti materiali.

VINCENZA: Negli anni (primissimi anni Sessanta) in cui Guillaumin comincia la sua ricerca sulla «razza» si credeva ancora nella realtà delle «razze», e che solo successivamente queste, naturalmente presenti, subissero un processo di gerarchizzazione (il razzismo), a causa dell’ostilità e dell’aggressività tra gruppi. Le «razze» erano quindi considerate delle categorie concrete, naturali e a-storiche, che precedevano il razzismo costituendone di fatto il fondamento. Guillaumin opera una rottura radicale di questa prospettiva (rottura che innova completamente anche lo stesso approccio della disciplina sociologica, che all’epoca non era quella che consociamo oggi), problematizzando la «razza» come il prodotto e non come il supporto del razzismo. In questo modo Guillaumin fa emergere il carattere socialmente costruito della categoria di razza, un’«invenzione» sociale, storica, economica e politica che trasforma alcune caratteristiche fisiche, come il colore della pelle, in «marchi naturali», atti a sostenere processi di categorizzazione e gerarchizzazione e a giustificare i rapporti di potere e dominio come fondati in «natura». In questo modo ci vengono offerti gli strumenti per la comprensione del rovesciamento da causa ad effetto attraverso cui operano le diverse forme di oppressione, e quindi anche il sessismo. Un approccio talmente radicale – nel suo contemporaneo innovare completamente il quadro teorico, ma anche anticipare temi che diverranno di cruciale importanza negli anni a venire, come il carattere relazionale di razzismo/sessismo, o la necessità di considerare in questo processo il ruolo del gruppo dominante – che spesso mi meraviglio (e non sono la sola) di quanto, ancora oggi, Guillaumin sia così poco studiata e citata, o citata «male», in particolare nell’ambito degli studi su razza/razzismo.

SARA: A partire dagli anni Sessanta Colette Guillaumin ha elaborato una definizione sociologica della razza intesa come una categoria che è il prodotto storicamente determinato del razzismo, a sua volta da lei definito come un sistema coeso di strutture sociali e mentali di inferiorizzazione, sfruttamento e alterizzazione di un gruppo (i bianchi) su un altro (i non-bianchi). Si tratta di una categoria che non ha alcuna validità biologica, ma che, da un lato, produce effetti sociali feroci e mortiferi e, dall’altro, innerva la società tutta intera. Per riprendere i termini di Guillaumin, la razza è una «formazione immaginaria materialmente efficace» che «è dappertutto». Oltre a ridefinire la razza (e il razzismo), Guillaumin ne indaga il modus operandi. Se per il senso comune il colore della pelle è supposto precedere e giustificare l’esistenza di diversi gruppi che occupano posti differenti nella gerarchia sociale – le persone bianche e le persone non-bianche –, per Guillaumin (e lo stesso vale per le altre femministe materialiste) è un marchio che non sarebbe socialmente pertinente in assenza del rapporto sociale di dominazione che lega i due gruppi in presenza. La teoria di Guillaumin rende così possibile esprimere «la verità e la menzogna» della categoria di razza e capire che la verità – l’esistenza di un gruppo – nutre la menzogna – il fatto che si tratti di un gruppo naturale. Le sue definizioni di razza, razzizzazione e razzismo sono state riprese nel corso degli anni da divers* ricercator* o collettivi antirazzisti. Il diffondersi di un tale approccio costruttivista alla categoria di razza e a una forma di antirazzismo che impiega tali nozioni ha scatenato in questi ultimi anni e in numerosi paesi, in primis in Francia, violentissimi attacchi tanto nel campo politico che nel campo accademico e mediatico.

MANASTABAL: L’esigenza di demistificare l’approccio essenzialista alla realtà sociale, come avete sottolineato tutte e tre, è uno dei moventi fondamentali della riflessione di Guillaumin e, più in generale, del femminismo materialista francofono. Per altro verso, dobbiamo constatare che è raro imbattersi in esplicite e orgogliose rivendicazioni o auto-attribuzioni di essenzialismo. Quello che stiamo maneggiando, in altri termini, è un epiteto delegittimante che circola con grande facilità nel dibattito teorico e politico interno ai movimenti femministi, tanto che nemmeno il femminismo e il lesbismo materialista sono stati risparmiati da questa accusa. Potremmo ricordare, per limitarci a un caso famoso, la requisitoria di Judith Butler nei confronti di Monique Wittig in Questioni di genere. Ma vale la pena segnalare pure l’obiezione contro cui regolarmente urta il ricorso a una categoria come quella di «classi di sesso», e cioè che la (innegabile) mancanza di omogeneità interna del gruppo minoritario «donne», al pari della (innegabile) mancanza di omogeneità interna del gruppo dominante «uomini», renderebbe «essenzialista» — e dunque illegittima, arbitrariamente generalizzante, nemica della complessità, «ideologica», se non addirittura subalterna al pensiero patriarcale — la pretesa di concepirli come classi antagoniste. Quali strumenti ci offre Guillaumin per inquadrare, valutare, ed eventualmente confutare, un’obiezione come questa?

SARA: Rispetto alla prima osservazione che formulate, mi sento di dire che, se è vero che la rivendicazione essenzialista è poco diffusa nel campo delle scienze sociali, o in quello dei movimenti minoritari, le eccezioni non mancano. Penso, da un lato, alle analisi di pensatori come Norman Ajari che affermano la necessità dell’uso della nozione di essenzialismo nella definizione delle identità dei gruppi razzizzati e, dall’altro, a tutte le argomentazioni essenzialiste che avanzano (appena appena) mascherate. Mi riferisco a tutte le prospettive teoriche o politiche destoricizzate e psicologizzanti che usano categorie quali «differenza sessuale», «femminile», «maschile», «materno», «paterno», «uomo», «donna», «bianco», «nero» come fossero dati di natura, o che impiegano altre nozioni direttamente prelevate dalla dottrina psicoanalitica, in particolare, nella sua versione lacaniana («il Nome del Padre», «il Fallo», «l’Edipo», «la Castrazione»). Per non palare, poi, dei presupposti funzionalisti, culturalisti, biologizzanti, ergo pseudo-materialisti, di molte delle analisi ancora prodotte nel campo delle scienze sociali che, non interrogando il rapporto di potere sociale e storico alla base della costituzione dei gruppi sociali, comportano, ciascuna, una forma assai poco residuale di pensiero naturalista.

Venendo, ora, allo specifico oggetto della vostra domanda, mi pare che, per comodità, possiamo distinguere due ordini di argomentazioni, non di rado usate congiuntamente dai detrattori e dalle detrattrici dell’approccio femminista materialista. Le femministe materialiste teorizzano il rapporto di appropriazione che a loro giudizio costituisce le classi di sesso e lo considerano come il fattore esplicativo delle disuguaglianze di potere tra uomini e donne. Secondo il primo degli argomenti che criticano questo approccio, dire che le donne sono una classe significa essenzializzarle. Questa obiezione mi pare patentemente auto-contraddittoria. Sappiamo come il concetto di classe sia stato costruito, da Marx in poi e nella differenza delle teorizzazioni, come totalmente antinomico a quello di gruppo naturale: una volta distrutto il rapporto sociale che costituisce i gruppi secondo un dato asse di dominazione – il capitalismo, il sistema patriarcale, il sistema razzista – le corrispondenti classi spariscono. Purtroppo siamo ben lontani da questo esito, ma il fine utopistico di una teoria che si vuole strumento di lotta non la rende per questo meno pertinente o meno necessaria. Stando al secondo tipo di critiche, dire che le donne sono una classe vuol dire negare che il gruppo delle donne è attraversato da altre forme di dominazione (di classe sociale, di razza, di sessualità, e così via). Anche qui, la confusione logica è evidente: perché mai affermare l’esistenza di una classe, anzi, per essere precis*, di due classi, che, repetita iuvant, sono costituite da un rapporto sociale, che sono antagoniste e interdipendenti, implicherebbe la loro omogeneità? La classe capitalistica e la classe lavoratrice non esistono perché eterogenee al loro interno? «Uomo», «donna», e così vale per «bianco», «nero»: si tratta di categorie politiche naturalizzate. La vostra domanda è tanto pertinente quanto utile perché permette di esplicitare una componente dell’approccio femminista materialista di cui si parla ancora meno del poco di cui si discute di questo paradigma. L’analisi femminista materialista non è riducibile ad un approccio analogico tra dominazione di sesso e dominazione di razza. Affermare che i gruppi di sesso e i gruppi di razza sono costituiti, ciascuno, da un rapporto sociale specifico, e che le categorie di razza e di sesso funzionano in modo analogico (reificazione, alterizzazione e naturalizzazione dei gruppi oppressi), non significa che i diversi gruppi non siano eterogenei al loro interno. Al contrario, queste teoriche affermano che occorre prendere in considerazione gli altri rapporti sociali che caratterizzano uomini e donne, bianchi e non bianchi e studiarne «i legami organici» (come dicono Guillaumin e Danielle Juteau), le modalità di «intreccio» (come dice Jules Falquet), di «intersezione» (come dice Sylvia Walby). Ma ciò non significa ridurre l’oppressione delle donne a questi altri rapporti sociali e, ancor meno, evacuare il meccanismo centrale della produzione delle classi di sesso, che rimanda a due gruppi antagonisti i quali, nelle relative differenze, condividono situazioni ed esperienze di potere (per gli uni) o di non-potere (per le altre) comuni.  Guillaumin analizza questa «coesistenza dell’indissociabile omogeneità ed eterogeneità della classe delle donne» – l’espressione è di Danielle Juteau – in numerosi passaggi di Sesso, razza e pratica del potere, ma anche in un articolo meno noto intitolato La confrontation des féministes en particulier au racisme en général. Remarques sur les relations du féminisme à ses sociétés. Guillaumin mostra, da un lato, che il sistema di oppressione delle donne ha modi di estrinsecazione altri che capitalistici e altri che privati e, dall’altro, che esso si dispiega attraverso forme di appropriazione tanto collettiva che privata che producono diverse contraddizioni e posizionamenti all’interno di una stessa classe di sesso. Altra questione ancora è il rapporto tra appartenenza ad una classe di sesso, coscienza di classe e margine di manovra individuale (su cui Delphy ha scritto), o quella delle lesbiche come «transfughe» della classe di sesso-donne (su cui Wittig ha scritto) o, ancora, quella delle «trasgressioni di sesso attraverso il genere» (su cui Mathieu ha scritto)…

VINCENZA: Concordo con quanto sottolineate, ovvero che l’accusa di «essenzialismo» circola oggi con una certa «disinvoltura» nel dibattito teorico/politico, fino a colpire paradossalmente anche approcci caratterizzati da un pensiero radicalmente anti-essenzialista come quello teorizzato dal femminismo materialista francofono (e specifico francofono vista l’emergenza, negli ultimi anni, di altre correnti femministe e queer che si definiscono, o sono definite, «materialiste»). Penso che questo paradosso vada necessariamente collocato in un quadro complesso, in cui l’«accusa» di essenzialismo viene mossa da (e contro) realtà e soggettività molto diverse sia per il tipo di «posizionamento» che per gli strumenti e (gli scopi) teorici e politici messi in campo. Del resto, come notavo in una delle risposte precedenti, è innegabile che ancora oggi persistano, anche all’interno degli studi di genere/femministi e nella teoria e pratica politica di diversi gruppi minoritari, residui di un approccio/pensiero che possiamo definire essenzialisti. Residui che si manifestano però – molto spesso – in forme non solo meno esplicite, ma anche non immediatamente sovrapponibili a quelle ampiamente discusse e tematizzate criticamente in passato. Lo stesso concetto di «essenzialismo», del resto, è stato negli ultimi anni reinterpretato in forme inedite, penso ad esempio all’«essenzialismo strategico» come «errore necessario» proposto da Gayatri Chakravorty Spivak in un saggio del 1990, una mossa contingente attraverso cui alcuni gruppi subalterni hanno potuto utilizzare criticamente determinate contrapposizioni binarie (uomo/donna, omosessuale/eterosessuale, Primo/ Terzo mondo…) per rendere visibili rapporti di potere e dominio. Un quadro quindi complesso in cui si scontrano istanze teoriche e politiche diverse, che hanno effetti diversi e richiedono da parte nostra risposte e spiegazioni molto differenti. Da una parte vanno collocate quelle che, a mio parere, sono le forme più esplicite (e preoccupanti) dell’utilizzo dell’accusa di essenzialismo, ovvero quelle che vengono agite, a vari livelli e in diversi ambiti disciplinari e/o politici, con lo scopo palese di delegittimare le lotte e le teorizzazioni delle/dei subalterni, e quindi invisibilizzare in un solo colpo il carattere sistemico dei rapporti di dominio e i privilegi dei gruppi dominanti. Nelle loro espressioni più rozze queste forme si caratterizzano anche per l’invenzione/utilizzo di alcuni di quegli pseudo-concetti che Sara evoca nella sua parte di introduzione al volume («razzismo anti-bianchi», «sessismo anti-uomini» o «eterofobia»). Dall’altra, fattori molto diversi mi sembrano invece caratterizzare (alcune) delle critiche e delle «accuse» di «essenzialismo» che si sono espresse all’interno del dibattito teorico/politico nei confronti del femminismo materialista francofono. Critiche che – anche quando palesemente infondate e/o basate su una lettura approssimativa dei testi – ho sempre trovato estremamente stimolanti. Danno infatti la possibilità di verificare, sul terreno concreto della teoria e della pratica politica femminista, le questioni ancora «oscure» in un corpus concettuale molto complesso come quello del femminismo materialista, ovvero cosa è necessario esplicitare e/o spiegare, come stiamo facendo in questa intervista, per far emergere la radicalità di questo pensiero, la sua attualità e l’utilità di farlo dialogare anche con altri quadri concettuali come quelli dei femminismi postcoloniali e intersezionali. In questa prospettiva la categoria di «classi di sesso» è indubbiamente stata, fin dagli anni Settanta (ad esempio si vedano le critiche mosse da Michèle Barrett e Mary McIntosh a Christine Delphy nel saggio del 1979), quella che ha suscitato i maggiori malintesi poiché interpretata come una categoria «omogeneizzante» e che non darebbe conto, fino a invisibilizzarle, delle divisioni esistenti tra donne in virtù della loro appartenenza a diverse classi sociali e/o gruppi «razziali». Quello che sfugge è che la teorizzazione del gruppo sociale delle donne e del gruppo sociale degli uomini, che sono configurate come classi antagoniste, non implica affatto che vi sia una omogeneità all’interno di ogni classe (classi che sono invece pensate come eterogenee al loro interno, in quanto implicate in altri specifici, e connessi, rapporti sociali di dominio), ma piuttosto mira  a far emergere il rapporto di appropriazione, collettiva e privata, dell’intera classe delle donne da parte dell’intera classe degli uomini o, per dirla con le parole di Guillaumin, «l’atto di forza permanente attraverso cui si dispiega l’appropriazione della classe delle donne da parte della classe degli uomini» (dal saggio Pratica del potere e idea di Natura). L’incomprensione su questo punto cruciale è determinante anche per l’altra obiezione spesso rivolta al femminismo materialista francofono, ovvero il presunto approccio in termini «analogici» al rapporto sesso/razza. Un’obiezione che è stata tra l’altro al centro dell’acceso dibattito innescato, come ricordate, dalla famosa requisitoria di Judith Butler contro Monique Wittig in Gender Trouble e alla quale fece seguito l’altrettanto famosa contro-requisitoria di Teresa De Lauretis. Nonostante l’uso frequente e diversificato della forma analogica nell’opera (teorica ma anche soprattutto letteraria) di Wittig meriterebbe di essere maggiormente valutato e contestualizzato (per una ricostruzione del dibattito il saggio di Stéphanie Kunert, L’analogie «sexisme/racisme»: une lecture de Wittig), così come su un piano diverso si colloca, e andrebbe quindi discusso e collocato, l’uso dell’analogia sesso/razza in alcuni dei testi di Christine Delphy dei primi anni Settanta, anche su questo nodo fondamentale Guillaumin ci offre, come abbiamo sottolineato nell’introduzione, strumenti preziosi non solo per «smontare» o tematizzare questa e altre obiezioni, ma anche e soprattutto per comprendere come i diversi rapporti sociali (di classe, razza, sesso…) si producono (e operano) simultaneamente e organicamente, e quindi indicarci anche le modalità per combatterli.

VALERIA: Grazie per la domanda, molto utile poiché è un commento o critica che spesso è rivolta al femminismo materialista francofono e al concetto di classe di donne. Definire le donne come una classe non implica cancellare le esperienze diverse che ciascuna di essa fa del sessaggio e di altre forme di oppressione. Quando uso la categoria classe di donne, sto mettendo in evidenza che le donne esistono come gruppo nel rapporto sociale con gli uomini, che a loro volta costituiscono una classe proprio nel rapporto sociale con le donne. Il fatto di appartenere alla classe delle donne è comprensibile solo ed esclusivamente se consideriamo il rapporto sociale che mi produce come donna, ovvero il rapporto sociale di sesso. Ed è qualcosa che ci accomuna, anche se non costituisce di per sé un terreno di lotta comune. Non esistono donne, né uomini, al di fuori di questo rapporto sociale, la categoria donna non precede il rapporto sociale tra i sessi, ma ne è il prodotto, il risultato di una forma specifica di appropriazione collettiva e individuale, materiale e ideologica, il sessaggio. Questo approccio non cancella e non può cancellare le altre esperienze di oppressione che le donne fanno nella loro vita materiale, e quindi anche nei rapporti tra donne, come il razzismo, l’oppressione di classe e in base alla sessualità. Proprio perché non esiste di per sé una categoria «donne» a cui apparteniamo prima dei rapporti sociali materiali che viviamo con gli uomini, non può esserci un’identità essenzialista della classe «donne». Ribalterei così l’accusa di essenzialismo rivolta alla categoria classi di sesso. Nel leggere Guillaumin noi ci immergiamo completamente nell’approccio materialista e quindi riconosciamo che non c’è omogeneità interna al gruppo «classe di sesso», ma c’è un rapporto sociale e storico che ci produce come donne, e che questo rapporto sociale co-esiste con altri rapporti di oppressione basati sulla razza, sulla classe e sessualità. Questo approccio comporta riconoscere che le donne possono avere interessi diversi. E questo tra l’altro significa riconoscere, nel dialogo tra donne, che per alcune l’oppressione di razza possa essere riconosciuta come più pressante e violenta nella propria vita. È in questo modo che è possibile un riconoscimento reciproco e porsi la questione delle alleanze tra donne. A questo proposito, la femminista decoloniale afro-domenicana Ochy Curiel, fine lettrice di Guillaumin e delle altre femministe materialiste, riflettendo sulle difficoltà di alcune a considerare insieme le discriminazioni di razza, sesso e orientamento sessuale, ricorda come «quando appare la resistenza ad abbordare questo tipo di discriminazione (quella per orientamento sessuale, n.d.t.), in connessione con l’elemento ‘razziale’ e di genere, la discussione gira attorno alla questione di sapere se noi siamo per prima cosa nere, donne o lesbiche» (Pour un féminisme qui articule race, sexe et classe, «Nouvelles questions féministes», 20, 3, 1999). Credo che la categoria di sessaggio, insieme al lavoro di Guillaumin sul razzismo, ci permettano di guardare alla materialità delle condizioni di esistenza, ai rapporti sociali come la matrice dei gruppi che vediamo come naturali, e quindi a non fossilizzarci su cosa viene prima, ma a vedere ciò che li produce. Nel 1998 Guillaumin ha partecipato a un convegno dell’Association Nationale des Études Féministes, dal titolo Les féministes face à l’antisémitisme et au racisme. Il testo del suo intervento offre una riflessione, ancora attuale, su femminismo e altri movimenti di gruppi minoritari (nei rapporti di potere), e sul rapporto tra movimento femminista a movimenti antirazzisti. In questa riflessione, Guillaumin ricorda che non sono le donne ad essere differenti: ciò infatti implicherebbe l’idea che esista una categoria «donne» in sé, negando che le donne esistono solo nel rapporto sociale con gli uomini, e che gli uomini sono a loro volta immersi in rapporti di potere. Ad essere differenti sono le possibilità materiali in cui vivono le donne, che comportano scelte concrete certamente differenti.

MANASTABAL: Al pari delle altre teoriche femministe materialiste, Guillaumin punta a costruire una teoria generale del dominio sociale e della sue razionalizzazioni ideologiche. L’approccio materialista permette, in altri termini, di analizzare il dominio razzista e il dominio patriarcale a partire da meccanismi che operano in maniera analoga in entrambe le configurazioni, per esempio quello che presiede alla naturalizzazione dei gruppi dominati. Per altro verso verifichiamo quotidianamente, anche negli ambienti progressisti, la resistenza a prendere sul serio le analogie: chi non ha difficoltà a caratterizzare come integralmente sociale e antagonistica la relazione fra bianchi e non bianchi all’interno delle società occidentali, può averne invece moltissime a rappresentarsi negli stessi termini quella fra uomini e donne. Allo stesso modo, chi non ha alcuna difficoltà a interpretare in termini materialisti lo sfruttamento salariale recalcitra a estendere la considerazione materialista a quello domestico. Come si spiega secondo voi il fatto che, quando è in gioco il rapporto sociale di sesso, il residuo ideologico del naturalismo non manca di esercitare il proprio influsso?  

VINCENZA: Come mostrano mirabilmente gli scritti di Guillaumin, così come quelli delle altre femministe materialiste francofone, la credenza nella «naturalità» dei rapporti di dominio che legano la classe (dominante) degli uomini a quella (dominata) delle donne, ha uno dei suoi punti di forza nella sua assoluta pervasività, che investe cioè ogni ambito ed espressione dell’esistenza e in questo senso alcuni dei saggi contenuti nel volume Sesso, razza e pratica del potere sono assolutamente  illuminanti. Tuttavia, e soprattutto a così tanti anni di distanza, è legittimo chiedersi perché, anche in quei contesti che definite «progressisti», e dove la comprensione del meccanismo che presiede alla naturalizzazione dei gruppi dominati ha portato a leggere in termini di rapporti sociali i conflitti di classe e il razzismo, questo non funziona ancora oggi con i rapporti sociali di sesso. Posso solo provare ad abbozzare una risposta, a partire anche dalla constatazione che storicamente, prima dell’emergenza del movimento femminista in particolare materialista, il concetto di «sesso», ha sempre avuto, nel pensiero politico contemporaneo, uno statuto molto diverso da quello di «classe». È anche una questione di tempi: come ci ricorda Paola Tabet in Le dita tagliate, ci sono voluti secoli prima di giungere, ad esempio, ad analisi materialiste dei rapporti di classe. In seguito la predominanza della classe come categoria di analisi è stata molto forte in una larga parte dei movimenti degli anni Settanta e questo ha contribuito all’instaurarsi di una sorta di «gerarchia» delle lotte, in cui quella delle donne era vista come «secondaria». Anche la categoria di «razza» ha avuto a lungo uno statuto «debole» (simile, anche se con traiettorie diverse, a quello di «sesso») e ha cominciato ad acquisire una certa legittimità e diffusione come categoria analitica solo a partire dagli anni Sessanta-Settanta (sulla spinta soprattutto delle lotte anti-coloniali, del «potere nero» negli USA e, per quanto concerne la storia delle donne, grazie alle lotte e agli scritti dei femminismi neri, decoloniali e diasporici). Per la categoria di «sesso» – ovvero la comprensione del rapporto tra i sessi come rapporto sociale e non come dato naturale – le resistenze sono state, e sono tuttora, molto più tenaci, anche se possiamo sperare in un progressivo cambiamento di prospettiva, grazie all’apporto decisivo del femminismo materialista francofono. Al momento è per certi versi sconcertante quanto suoni ancora attuale talvolta, a cinquant’anni di distanza, l’amara constatazione delle autrici di Combat pour la libération de la femme (1970), tra le quali Monique Wittig:

Ci sentiamo sempre dire che la nostra lotta è un «problema secondario». Molto rari sono coloro che ci accordano altrettanta importanza che a quella dei neri negli Usa oppure a quella dei lavoratori immigrati qui […]. D’altronde cosa rappresenta la nostra lotta per loro? Lotta domestica, lotta prosaica, lotta di serve …

Questo anche perché il gruppo sociale delle donne, pur nelle «differenze» (da intendersi, in primo luogo, come diseguaglianze) che posizionano ogni singola donna lungo diversi assi di differenziazione – «razza», «classe», sessualità, età … – nel contesto sociale, economico e politico (e ognuna rispetto all’altra), sono un gruppo trasversale a tutti gli altri gruppi sociali. E questo le espone maggiormente ai meccanismi di appropriazione, sfruttamento e subordinazione da parte del gruppo sociale degli uomini nel suo insieme. Questo avviene, come ci mostrano le femministe materialiste, in tutti gli ambiti, dal piano collettivo a quello cosiddetto «privato». Ben pochi uomini, anche «progressisti», sono disponibili a rinunciare al proprio privilegio e a molti continua ad apparire come normale, naturale, che l’insieme delle attività domestiche e di cura siano svolte dalle donne, o gratuitamente (come madri, mogli, compagne, figlie…) o come lavoratrici sotto-pagate, via anche la progressiva e massiccia razzializzazione di questo tipo di lavoro.

SARA: Direi che sono proprio i testi delle femministe a offrire i migliori elementi di risposta alla vostra più che pertinente domanda. Queste teoriche si sono ampiamente interrogate sulla forza e la pervasività della credenza naturalista secondo la quale uomini e donne sarebbero gruppi naturali e naturalmente complementari. Nella relativa differenza dei concetti forgiati e utilizzati dall’una o dall’altra di queste pensatrici, la risposta è convergente: l’oppressione materiale subita dalla classe delle donne da parte della classe degli uomini è sostenuta e incoraggiata da un sistema categoriale, discorsivo, ma anche percettivo che inculca nelle teste, negli automatismi motori e linguistici la credenza «dura come il cemento», scrive Guillaumin, nell’esistenza di una «natura» differente e complementare per gli uomini e per le donne e la iscrive nelle istituzioni, nelle strutture sociali che definiscono la trama del mondo in cui viviamo. La doppia forma di esistenza di questa credenza naturalista – una forma oggettivata, nelle cose, e una forma soggettivata, nelle teste, nei corpi – e la complicità sotterranea che lega l’una forma all’altra spiegano la forza di questa credenza. A proposito della pervasività dell’ideologia naturalista, Wittig conia la nozione di «pensiero straight» che opera attraverso la destoricizzazione e la naturalizzazione delle bicategorizzazioni «uno/altro», «referente/differente», «uomo/donna», «bianco/nero». Delphy parla del genere come di una «cosmologia» e, nel suo inconfondibile stile fatto di rigore e ironia, si chiede senza gli uomini e le donne come si potrebbe mai fare? «Non ci sarebbe né alto, né basso, né sole, né luna, né, ça va sans dire, amore: l’umanità stessa sarebbe in pericolo». Mi piace ricordare qui che un sociologo caro a Guillaumin e a Delphy, Erving Goffman, in un breve folgorante testo del 1977, The Arrangement between the Sexes, aveva definito il genere come il «vero oppio dei popoli» (naturalmente il genere come insieme di strutture sociali che naturalizzano i gruppi di sesso, e non il genere come concetto che fa vedere come tale naturalizzazione operi). Basta guardarsi attorno, come non essere d’accordo?

VALERIA: Guillaumin è attenta a non affermare che ci sia una pura analogia tra oppressione razzista e patriarcale, ben consapevole dei rischi di questa affermazione, ma, come dite voi, proprio perché osserva i rapporti sociali nella loro materialità, riconosce come le oppressioni di razza e sesso si producano e si legittimino attraverso una certa idea di natura. Guillaumin analizza i processi di naturalizzazione di rapporti sociali di razza e sesso, che non vengono assunti in quanto tali, soprattutto dal gruppo dominante. Per riprendere la vostra domanda, credo che una risposta possa essere trovata nella difesa del privilegio da parte del gruppo dominante, in questo caso gli uomini. Il naturalismo permette di accettare confortevolmente, di non mettere in discussione la propria posizione dominante in rapporti nell’ambito domestico, professionale, ma anche nella militanza. Ammettere che si è dentro un rapporto di potere strutturale e che se ne traggono i vantaggi è qualcosa che non si vuole fare, poiché potrebbe aprire un varco per dei cambiamenti: occuparsi di lavori meno gratificanti, avere meno tempo per sé, parlare di meno, occupare meno spazi di potere, ascoltare e legittimare il punto di vista delle e degli oppressi. Si tratterebbe di riconoscere l’insieme dei rapporti sociali di sesso, e andare oltre l’orizzonte individuale, con il classico «io a casa lavo i piatti, ecc.». Questa resistenza a estendere l’analisi materialista ai rapporti sociali di sesso è una tappa di un processo lungo di trasformazione. Noi continueremo a leggere Guillaumin, ora anche in italiano, e altre autrici, per smontare questo approccio naturalista. 

MANASTABAL: Una delle implicazioni più importanti del discorso di Guillaumin è costituita dalla rottura con quel tenace assunto di senso comune secondo cui razzismo e sessismo sarebbero definiti anzitutto, se non esclusivamente, dall’ostilità dei dominanti verso gruppi oggettivamente differenti: in una parola, dalla paura e dal rigetto dell’alterità. Sempre in base a questo assunto, la promozione e la valorizzazione delle «differenze», per esempio nei contesti scolastici, rappresenterebbero l’antidoto alla riproduzione di assetti gerarchici lungo gli assi della razza e del genere. Che cosa replicherebbe Guillaumin a questa enfatica volontà di celebrare le «differenze»? 

VINCENZA: Su questo punto Guillaumin è nei suoi testi, a partire da L’idéologie raciste, estremamente chiara. Se il suo approccio rompe radicalmente con la visione di razzismo e sessismo come generati da sentimenti di ostilità/aggressività/paura del gruppo dominante nei confronti dei soggetti dominati, parimenti mette in evidenza come sovente i processi di alterizzazione/subordinazione all’opera nei rapporti di dominio si appoggiano anche sull’esaltazione e sulla celebrazione di determinate qualità che sarebbero specifiche del gruppo dominato. Per il sessismo pensiamo per esempio alla celebrazione delle cosiddette virtù femminili, in primis quelle «materne», e per il razzismo l’enfasi posta sulla presunta superiorità o maggiore «bravura» dei/delle neri/e nello sport, nel canto o nella danza, come anche alcuni processi di estetizzazione razzializzata della bellezza e dei corpi. Queste forme celebrative non scardinano i rapporti gerarchici e di potere, ma anzi li rafforzano e li riproducono. Per quanto concerne la promozione e valorizzazione delle «differenze» nei contesti scolastici, indicazioni preziose ci vengono anche dalla ricerca sulla percezione della «razza» nelle/nei bambine/i di Paola Tabet, confluita poi nel volume La pelle giusta (Einaudi, 1997), come anche dal libro curato dalla stessa Tabet con Silvana Di Bella, Io non sono razzista ma … Strumenti per disimparare il razzismo (Anicia, 1998). Nelle riflessioni di Tabet notevole è il distacco critico dalle riduzioni del razzismo alla questione della comunicazione-conoscenza tra culture che informano numerose esperienze di educazione interculturale nelle scuole. Non solo per i rischi impliciti all’assunzione della «differenza culturale» come un dato primo (gli anni in cui Tabet scriveva questo testo erano quelli in cui emergeva con forza, anche qui in Italia, il cosiddetto neorazzismo), ma anche perché la mancanza di uno sguardo più ampio sulle dissimmetrie di potere economico e politico che caratterizzano l’insieme dei rapporti sociali può contribuire a falsare il problema, e concorrere a riprodurlo. Piuttosto, credo che molto si possa fare a livello educativo/scolastico lavorando sui libri di testo per offrire nuovi modelli identificativi non «stereotipati» e/o vittimizzanti e approfondimenti su questioni spesso lasciate ai margini (o affrontate dal punto di vista dei dominanti), come la storia del colonialismo italiano o la storia delle donne/dei femminismi. Importante sarebbe poi offrire agli/alle insegnanti (con corsi di formazione o altro) quell’insieme di strumenti teorici e metodologici utili per affrontare questioni cruciali quali il privilegio, la bianchezza, i rapporti di dominio. 

VALERIA: Difficile domanda, posso dirvi come rispondo io usando Guillaumin. Intanto Guillaumin è imprescindibile proprio per la sua descrizione di come il nucleo del razzismo e del sessismo, non è l’ostilità verso «altri diversi», poiché il rapporto di oppressione si produce anche attraverso altri meccanismi che sono per esempio la valorizzazione restrittiva che permette di riprodurre efficacemente sistemi di oppressione. Guillaumin ci chiama a riflettere su cosa è la differenza, chi definisce chi è differente, e differente da chi? (si veda Questione di differenza). Con queste domande diventa chiaro che celebrare le differenze, parlare di alterità, non è una strategia efficace di lotta contro i rapporti di oppressione basati sulla razza o il sesso. E soprattutto con queste domande Guillaumin nomina il Referente, il gruppo socialmente definito bianco, che non si vede o si pone come neutro, come elemento centrale per comprendere come si riproduce il razzismo. I bambini e giovani delle scuole italiane non hanno bisogno della valorizzazione della cucina marocchina, ma di qualcuno che li aiuti a discutere insieme dei rapporti di potere che vedono e vivono quotidianamente e di quelli del passato, hanno bisogno che i docenti bianchi propongano narrazioni in cui gli oppressi (quel magma che viene definito con «migranti/immigrati») siano soggetti, individui attivi, e non solo vittime passive o individui pericolosi. Mediamente in Italia i docenti credono che non esista razzismo nel nostro paese, o che i bambini non possono essere razzisti perché non sanno quello che dicono: questa visione è parte del problema, siamo già nella logica razzista che nega che esiste razzismo, e che rifiuta di vedere che i bambini riproducono quello che vivono attorno a loro (si veda lo splendido lavoro di Paola Tabet, La pelle giusta). Per il sessismo, la situazione più frequente è una vaga idea di pari opportunità (in Italia trattiamo allo stesso modo bambini e bambine) alla cui base vi è la convinzione che se alla fine alle bambine piace stare più con le bambine, allora vuol dire che è «naturale». Offrire la possibilità ai bambini di giocare con le bambole non cambia i rapporti sociali di sesso. In questo momento storico, c’è poco spazio e legittimità per discutere con i docenti e per preparare i docenti ad altri modi di affrontare il razzismo e il sessismo, che appunto mettano in discussione l’idea di natura come fulcro dei gruppi sociali di uomini e donne, bianchi e neri.

SARA: Che il razzismo (il sessismo) non si possa limitare all’espressione di ostilità è una delle principali conseguenze delle analisi proposte da Guillaumin ne L’idéologie raciste, il testo citato in precedenza da Vincenza (ne riuscirà a breve una riedizione dopo quella del 2001). Nel corso di tutto il suo lavoro, Guillaumin mostra come la celebrazione de la-differenza che sarebbe propria di specifici gruppi sia un’altra forma attraverso la quale si produce l’inferiorizzazione e l’alterizzazione dei gruppi socialmente oppressi. Qualunque forma di rivendicazione de la-differenza è, pertanto, a suo giudizio funesta politicamente perché rafforza quell’ideologia naturalista che sostiene l’oppressione materiale dei gruppi subordinati. Ma Guillaumin insiste anche su un secondo aspetto. Non solo il razzismo non si limita alle manifestazioni individuali di odio, comprendendo forme di celebrazione differenziale e compensatoria dei dominati, ma il razzismo opera al di là delle mere volontà individuali. Si tratta di un sistema che gerarchizza e naturalizza due gruppi asimmetrici in termini di potere. Questo sistema attraversa e intacca le diverse strutture sociali e mentali che definiscono il mondo sociale in cui viviamo. Una tale prospettiva ha una duplice conseguenza in termini analitici e politici. Da un lato, mostra la non pertinenza di nozioni quali «razzismo anti-bianchi», «razzismo anti-uomini» o «eterofobia» usati oggi da alcuni degli attori e dei gruppi che attaccano i saperi e le lotte minoritarie. Dall’altro, permette di rendere visibile che i gruppi dominanti secondo i diversi assi di categorizzazione (razza, genere, sessualità), benché eterogenei al loro interno, godono di un sistema di privilegi che corrisponde al sistema di privazioni dei gruppi oppressi. Nel saggio Pratique du pouvoir et idée de nature pubblicato nel 1978 su Questions féministes, Guillaumin scrive: «si dice dei Neri che sono neri rispetto ai Bianchi, ma i Bianchi sono solo bianchi. Non è, tra l’altro, affatto certo che i Bianchi siano di un qualsivoglia colore». I bianchi non fanno parte delle «persone di colore»: «il bianco», il referente, non ha colore. Analogamente, nella designazione dell’appartenenza di sesso, la categoria differenziale è quella di «donna». «L’uomo» («l’eterosessuale») è il non-detto, l’implicito delle categorie sessuali. Guillaumin enuncia, così, il vantaggio strutturale dei dominanti: l’essere bianchi – lo stesso vale per l’essere uomini, l’essere eterosessuali – rimanda al sistema normativo in vigore ovvero ad un sistema di privilegi materiali e simbolici che non si pensa, né vede come tale, ma si dà come «normalità», «natura», «universale».

MANASTABAL: Tradurre significa anche forzare la lingua di arrivo introducendo termini nuovi, non ancora consacrati dall’uso. Nel caso di Guillaumin spicca il conio sexage, che voi avete scelto di rendere in italiano con «sessaggio». Potete spiegare a chi ci legge che cos’è il sessaggio? In quale misura, a vostro parere, questo concetto si presta ad analizzare le dimensioni attuali della subordinazione patriarcale delle donne? Qualche esempio?

SARA: Al momento dell’ideazione e della preparazione di Non si nasce donna che proponeva, insieme a brevi introduzioni al pensiero delle femministe materialiste, alcune traduzioni dei loro articoli, ho avuto la possibilità e il privilegio di discutere con Mathieu, Guillaumin e Delphy. Molti degli scambi riguardavano l’importanza che ognuna di loro attribuiva alla traduzione. Una tale attenzione al linguaggio non stupisce coloro che conoscono i testi di queste teoriche. Una parola non è mai usata a caso o fuori posto. Figuriamoci un concetto. Non è difficile capire il perché: per queste teoriche il linguaggio è un’arma a doppio taglio. Da un lato, è un vettore di oppressione (pensiamo semplicemente al fatto che nella gran parte delle lingue parlate non si può non dire il sesso), dall’altro è uno strumento di possibile emancipazione quando è reinvestito dai soggetti minoritari per nominare e far vedere forme di dominazione invisibili in assenza della teorizzazione minoritaria. Una dei celebri passaggi de Les Guérillères di Wittig afferma che «ogni parola deve essere passata al vaglio». Nicole-Claude Mathieu ha scelto questa frase come esergo del primo tomo de L’anatomie politique. Tradurre i concetti cercando di restituire al meglio il rigore con cui erano stati elaborati e di rendere la loro portata epistemologica è stato il nostro imperativo durante la realizzazione del libro. Nel caso del concetto di sexage la scelta è stata semplice. È Guillaumin a creare in francese il neologismo sexage, coniato per vicinanza e assonanza coi termini esclavage (schiavitù) e servage (servaggio), per esprimere il rapporto di classe che lega quella degli uomini a quella delle donne. Si tratta di un rapporto di reificazione, di alterizzazione, di appropriazione. Non c’è, pertanto, mai stato alcun dubbio (nemmeno per Guillaumin, tra l’altro): «sessaggio» rendeva in italiano il sexage francese. Tra i «mezzi concreti» attraverso cui il sessaggio si dispiega, Guillaumin e, più in generale, le femministe materialiste individuano diverse istituzioni e processi e ne analizzano il funzionamento. Tra di essi: il lavoro domestico, il contratto di matrimonio, i processi di socializzazione infantile, la rigida sessualizzazione dello spazio (privato e pubblico), l’accudimento materiale ed emotivo degli individui più deboli in seno alla famiglia o alla società, il sotto-equipaggiamento tecnologico delle donne rispetto agli uomini, l’uso della violenza psicologica o fisica da parte della classe degli uomini contro le donne per soggiogare o anche solo per intimidire e ridurre al silenzio ciascuna donna e per esprimere i diritti di proprietà che ciascun uomo può vantare sulla classe delle donne.

VINCENZA: Sì, tradurre è anche «forzare» la lingua di arrivo, che è anche un’enorme responsabilità vista l’attenzione che storicamente tutti i gruppi minoritari (nel senso datole da Guillaumin) hanno dato al linguaggio in quanto terreno non «neutro», che riflette, veicola e riproduce i rapporti di dominio. Sono note, e citatissime, in questo senso le pagine che bell hooks dedica al linguaggio come «luogo di lotta» (in uno dei saggi da poco riediti tra l’altro da Tamu Edizioni). Non è un caso che la produzione militante e teorica dei movimenti degli ultimi decenni, da quelli femministi a quelli lgbtqi, dai movimenti postcoloniali a quelli decoloniali, sia caratterizzata anche dalla produzione di neologismi, necessari per nominare e dare «corpo» a nuovi concetti e pratiche, per autorappresentarsi e autodefinirsi fuori dalle logiche anche linguistiche di dominio. Nelle femministe materialiste questa attenzione al linguaggio è fortissima, come emerge chiaramente dai loro testi, coniugandosi, come hanno potuto sperimentare direttamente quante di noi hanno avuto la preziosa possibilità di un confronto anche solo con alcune di loro, a quel rigore estremo che viene dalla consapevolezza di esprimere (e restituire) un tipo di approccio che rompe radicalmente gli schemi analitici precedenti. Per venire al termine sexage coniato da Guillaumin per indicare il rapporto di appropriazione da parte del gruppo sociale degli uomini della classe delle donne, la traduzione con sessaggio ci è sembrata valida (nonostante l’esistenza del termine in italiano per indicare altro) pur se non mantiene e restituisce del tutto, come in francese sexage, l’assonanza con, e l’insieme di significati veicolati da, i termini esclavage (schiavitù) e servage (servaggio). Abbiamo comunque ritenuto, ad ogni occorrenza del termine, di rinviare a scanso di equivoci (e a maggior ragione visto che si tratta di una raccolta di saggi che possono anche essere letti separatamente e non necessariamente nella loro sequenza di pubblicazione), alla pagina in cui Guillaumin nomina per la prima volta il neologismo dandone spiegazione. All’interno del volume Guillaumin offre molteplici esempi, tra l’altro in una continua connessione con il lavoro delle altre femministe materialiste, degli ambiti e dei meccanismi attraverso i quali opera questa appropriazione della classe delle donne da parte della classe degli uomini, un’appropriazione che investe sia la dimensione «fisica» che quella «mentale», e che opera sia sul piano individuale/privato che collettivo/pubblico. E nonostante i progressi dovuti alle mobilitazioni femministe di questi ultimi decenni (anche a partire da quelle portate avanti dalle femministe materialiste, che oltre che delle teoriche sono state, vale la pena ricordarlo, anche delle militanti impegnate in prima persona nel movimento femminista delle anni Settanta e oltre), il sessaggio, in varie forme, permane ancora oggi, come del resto abbiamo potuto osservare chiaramente, ad esempio, per quanto concerne l’ambito del lavoro domestico e di cura, nella crisi generata dalla pandemia Covid-19 in questi mesi.

VALERIA: Il lavoro sulla lingua è uno dei tratti più contundenti nella produzione delle femministe materialiste, penso non solo ovviamente a Wittig, ma anche a Mathieu, all’assidua attenzione nella scelta delle parole nelle sue analisi. Al pari di Sara e Vincenza, ho avuto l’immenso piacere di discutere con Mathieu, Guillaumin e Tabet e in questi incontri tutte scavavano nella lingua per trovare il modo di esprimere al meglio ciò che si esaminava. Si potrebbe suggerire che, di fronte alla negazione e/o invisibilizzazione di un rapporto di oppressione, il conio di nuovi termini può aiutare a vederli, a nominare quello che viviamo quotidianamente (sappiamo quanto è importante nominare, e farlo collettivamente). Il sessaggio è un rapporto sociale di appropriazione fisica da parte della classe degli uomini della classe delle donne, del loro corpo inteso come unità produttrice e riproduttrice della forza lavoro. Ora, oggi questa nozione può sembrare dissonante, soprattutto per gli uomini, perché si pensa che siamo meno appropriate rispetto alle nostre madri o nonne, o che non lo siamo affatto. Non è necessario negare i cambiamenti e i miglioramenti, per osservare il quadro attuale con uno sguardo attento e riconoscere come si riproducono queste forme di appropriazione pur in condizioni di maggior autodeterminazione per le donne rispetto al passato. Innanzitutto dobbiamo andare oltre a una visione individuale e osservare la società nel suo insieme, per poi anche osservare i casi individuali collocati in una struttura più ampia. Un esempio di sessaggio lo abbiamo avuto durante il lockdown: nel lavoro accademico, a livello globale, è brutalmente diminuito il numero di articoli proposti da donne alle riviste, mentre è aumentato quello proposto da uomini, ovvero quando vengono meno i servizi sociali come la scuola o il supporto di altre donne, il lavoro domestico e riproduttivo ricade tutto sulle donne. Si è trattato di una forma di appropriazione della forza lavoro delle donne, del loro intero corpo, inclusa la loro capacità di essere compagne intellettuali con cui ci si confronta sulla proposta di articolo. E questa appropriazione è successa in modo «naturale», per molti/e in modo che sembra «automatico». Oppure se vogliamo guardare l’Italia, un esempio di sessaggio è l’appropriazione del corpo riproduttivo delle donne, con lo svuotamento della legge 194 e la conseguente difficoltà ad interrompere una gravidanza in sicurezza nel servizio pubblico. Alle donne è di fatto impedito di autodeterminarsi, di decidere del proprio corpo, in questo senso il passaggio sulla pillola RU486 di questa estate è importante. Lo svuotamento della 194 va di pari passo con la richiesta di fare più figli o di fare figli tout court. La mancanza di uno stato sociale che offra alle persone anziane soluzioni dignitose per vivere e curarsi, è una forma di sessaggio, poiché la cura di queste persone ricade sulle donne, che siano interne alla famiglia, o esterne ad essa e a pagamento. Ma voglio ricordare che la caratteristica del sessaggio non è solo l’appropriazione sul piano materiale, poiché essa è sempre accompagnata dall’appropriazione psicologica sul piano individuale, sia nei termini di lavoro mentale, sia nei termini di ideologia. Cosa vuol dire? Che noi crediamo che sia naturale, innato, questo tipo di rapporto, che sia l’unico possibile, o anche che sia giusto così, e invece non è l’unico possibile! Leggere Guillaumin è una boccata d’aria per dirci insieme che questo non è l’unico modo di vivere le relazioni tra quei gruppi che abbiamo imparato a considerare naturali, uomini e donne, ma che naturali non sono.

Mi piace pensare che questa traduzione permetta di far entrare in dialogo il lavoro di Guillaumin con quello di tante altre femministe che oggi innervano la riflessione femminista in Italia, e con quello di autrici ancora poco note, penso alle femministe decoloniali, ricordando che in America latina la traduzione di Guillaumin e di altre FMF è arrivata ben prima di qui, forse anche per la radicalità delle lotte delle donne razzizzate in questa regione.

MANASTABAL: In Questione di differenza, uno dei saggi già citati da Valeria, Guillaumin non risparmia critiche pungenti ai gruppi minoritari che riducono la propria politica a gesti di «rivendicazione culturale» e ostentano un’indifferenza sdegnosa per il potere che comunque non hanno, bollando questo atteggiamento come una «reazione di fuga». A ben vedere non si tratta di osservazioni isolate, o estranee alla sensibilità di altre animatrici del collettivo di Questions féministes: già nel 1970 Delphy concludeva l’articolo Il nemico principale sostenendo che il movimento di liberazione delle donne avrebbe dovuto prepararsi per una lotta «rivoluzionaria», intendendo dire che la distruzione del sistema di produzione e riproduzione patriarcale non si sarebbe compiuta senza «presa del potere politico». Si tratta di una prospettiva sicuramente anomala rispetto a quella abbracciata da tradizioni femministe più consolidate nel nostro paese: una prospettiva distante sia dal proposito (lonziano, per capirsi) di muoversi su un piano totalmente altro rispetto a quello del potere, sia dall’idea che restituire potere alla dominate equivalga a istituire quote rosa, sfondare tetti di cristallo o distribuire cariche di prestigio a una frazione privilegiata di donne chiamata a cogestire l’esistente. Ora, a decenni di distanza, e in una fase in cui la memoria storica è stata azzerata, alla cultura egemone riesce sin troppo facile ironizzare sullo slancio rivoluzionario che motivava l’appello alla «presa del potere politico», a maggior ragione se declinata in chiave femminista. Altrettanto facile, per la cultura egemone, è indulgere nella sopravvalutazione dell’effettivo potere sociale dei gruppi minoritari, grazie all’uso disinvolto di concetti come empowerment ed agency. Resta il fatto che un meccanismo sociale di appropriazione materiale e ideologica delle donne come quello ricapitolato dal concetto di sessaggio si è dimostrato relativamente invulnerabile alle rivendicazioni culturali delle minoranze. E dunque, come si disarmano gli appropriatori? Il dominante, dice Guillaumin, teme più di tutto l’eventualità dell’«autonomia concreta» delle dominate: come si costruiscono, collettivamente, «la ricerca e l’acquisizione dei mezzi pratici e concreti dell’indipendenza»?      

VALERIA: È una questione complessa, e, a partire dalla mia esperienza, anche come antropologa femminista, la risposta non credo possa essere una sola, non esiste una sola formula, ma tante pratiche che funzionano a seconda dei contesti e dei momenti, e che contribuiscono ad acquisire i mezzi pratici e concreti dell’indipendenza. Se penso alle proposte di legge elaborate da Marielle Franco, consigliera comunale nera, socialista, femminista, madre, lesbica e abitante delle favelas uccisa a Rio de Janeiro nel marzo del 2018, riconosco proprio questo tipo di azione politica che cerca di produrre un’autonomia concreta, in particolare delle donne nere, lesbiche, madri, abitanti delle periferie. Il fatto di essere eletta e di entrare nel consiglio comunale, uno spazio bianco, maschile ed eterosessuale, con un progetto politico di riconoscimento delle lotte portate avanti dalle lesbiche, dalle donne nere delle periferie è stato un atto dirompente, che ha prodotto la sensazione di un attacco al potere, in tutte le sue vesti. La sua presenza in quello spazio è stata percepita come un’azione volta a disarmare gli appropriatori, e questo elemento certamente va considerato quando pensiamo alle motivazioni dietro alla sua uccisione (sul piano giudiziario si sa ancora molto poco). La sua traiettoria politica, la sua vita è stata spezzata anche dalla violenza maschile, associata ad altre forme di violenza come il razzismo e la lesbofobia, proprio nel momento in cui lei esercitava un’autonomia concreta per i gruppi che rappresentava. La sua traiettoria ci ricorda anche che lei è parte di una lunga storia, un punto in una lotta che l’ha preceduta e che continua, che oggi per esempio vede tante nuove donne nere e lesbiche presenti in spazi istituzionali bianchi, maschili e eterosessuali in cui portano avanti azioni politiche concrete per rendere le donne, le donne nere e povere meno dipendenti e meno appropriate. Tuttavia la traiettoria di Marielle Franco e di altre donne e trans nere oggi presenti nelle istituzioni brasiliane, non può essere ricondotta a qualcosa di simile alle quote rosa. Questo perché dietro alla singola, c’è un lavoro collettivo, una pratica condivisa di lotte che sono dirette a combattere l’appropriazione, che Marielle Franco ha saputo restituire, con un’incredibile capacità analitica e comunicativa, come appropriazione su più piani: come donne, nere, lesbiche, abitanti delle periferie. Non credo che gli appropriatori si disarmino solo con le leggi, anche se esse sono necessarie. L’esercizio dell’autonomia concreta, l’autonomia economica delle donne, delle lesbiche, è costantemente sotto attacco e solo un progetto collettivo può creare delle fratture in sistemi solidi come la dominazione degli uomini. Se pensiamo a come la sessualità sia uno spazio politico di oppressione delle donne, per esempio riprendendo il lavoro di Tabet sullo scambio sessuo-economico (disponibile in italiano), capiamo come si produce l’appropriazione e la dipendenza, tra l’altro non solo nelle società occidentali, e come servano trasformazioni strutturali. In Italia, la rivendicazione per un reddito per l’autodeterminazione, portata avanti da diversi gruppi femministi, tra cui Amatrix e oggi Non una di meno, è una tappa per esercitare la propria indipendenza, per uscire dalla famiglia.

SARA: Il ragionamento di Delphy mi pare cristallino e coerente: le donne non sono né un gruppo naturale, né un club che federa le portatrici di una data forma di «alterità» o «differenza». Le donne sono una classe oppressa, ovvero un gruppo costituito da un dato sistema di oppressione. Tale oppressione permea tutte le strutture sociali (in questo senso, è un sistema) e, come lo mostrano bene le analisi di Guillaumin e Wittig a proposito della pervasività del senso comune eteronormato, è incorporata quale fosse una «seconda natura» negli automatismi categoriali e motori dei membri delle due classi di sesso. La «liberazione» della classe (di sesso) oppressa necessita, dunque, la contestuale realizzazione di due condizioni: la distruzione delle basi materiali e simboliche su cui si fonda la nostra società – il che non è proprio un’inezia da realizzare –  e la perdita da parte della classe degli oppressori degli smisurati poteri e privilegi che essi detengono – idem come sopra. Come ciò può avvenire? Occorre fare una rivoluzione, e una rivoluzione si fa… facendo la rivoluzione, dice Delphy. Detto altrimenti, la rivoluzione si fa – cito Delphy – «non prendendo un aperitivo insieme», ma prendendo insieme il potere politico. Leggendola, e leggendo le altre femministe materialiste, si capisce bene il fatto che tali teoriche pensino il potere politico tanto nel senso proprio, quanto nel senso più largo del termine. Basti pensare alla loro visione teorica e alla loro pratica politica del diritto come arma (pensiamo, ad esempio, all’engament di Delphy per l’adozione della legge che ha autorizzato l’interruzione volontaria di gravidanza, o quella per la criminalizzazione dello stupro, o quella per la «parità in politica» da lei difesa come strumento di «affirmative action»). Lungi dal produrre per le donne e, più in generale, per i soggetti minoritari una reale uguaglianza «in termini di poter fare o di poter dire», «l’acquisizione di un dato statuto giuridico» rappresenta – sto citando Guillaumin –  una fondamentale «rottura della soglia percettiva» che produce per il soggetto minoritario un «nome reale e irrevocabile: ciò che il diritto nomina esiste». Le conquiste giuridiche da parte dei gruppi minoritari, pertanto, danno vita per queste teoriche non solo a una maggiore uguaglianza formale (che è già qualcosa), ma anche a una «resistenza nuova» nei confronti dei dispositivi ideologici – religiosi, morali, (pseudo)scientifici – e materiali che contribuiscono pesantemente all’inferiorizzazione dei gruppi minoritari. In altre parole, la rivoluzione deve essere declinata in tutti i modi in cui si declina il sistema dell’oppressione e investire tutte le strutture sociali e le categorie mentali. Come scrive Delphy nel lungo saggio che apre L’ennemi principal: penser le genre, la lotta femminista e, più in generale, la lotta minoritaria rivela l’esistenza di una serie di gerarchizzazioni sociali che per il senso comune sono considerate essere frontiere «naturali», «evidenti», quindi intoccabili: quella tra uomini e donne, tra eterosessuali e non-eterosessuali, tra pubblico e privato… La lotta femminista e, più in generale, la lotta minoritaria è, pertanto, una lotta che mira a distruggere l’efficienza del sistema di dominazione che ha costituito il gruppo minoritario. Per queste pensatrici la lotta rivoluzionaria minoritaria è, pertanto, ad un tempo, lotta politica situazionale – spostamento delle frontiere, diversa inclinazione delle gerarchizzazioni – e lotta politica utopica che immagina una loro sparizione. In tale ottica, i gruppi minoritari non sono né un’«illusione da dissipare» per via di «integrazione» o di «assimilazione», né una «natura a parte», sempre e comunque «differente» e «marginale». L’«assimilazionismo» e il «marginalismo» sono per queste teoriche due forme equivalenti di disfattismo politico che non intaccano né il principio di visione e di divisione sessista ed eteronormativo che regge la pratica del potere, né il rapporto sociale che produce gli uomini e le donne come gruppi naturali e naturalmente complementari.

VINCENZA: Prima di provare a rispondere alla domanda, una piccola nota. Mi sembra che la prospettiva di una lotta femminista «rivoluzionaria» nei termini tratteggiati da Delphy nel saggio che citate (tra l’altro uno dei pochi a essere stato tradotto in Italia, e in ben due traduzioni diverse, poco tempo dopo la sua pubblicazione in Francia) non sia del tutto «anomala» se confrontata (pure nelle diversità di approcci e quadri concettuali proposti) con alcune delle elaborazioni e pratiche politiche portate avanti da alcuni gruppi femministi italiani degli anni Settanta, molto lontane da quelle che giustamente definite le «tradizioni femministe più consolidate nel nostro paese». Erano infatti esperienze che si muovevano intrecciando e tenendo insieme i due piani, ovvero sia quello «rivendicativo» e quindi di negoziazione con lo Stato e le sue leggi — dalle lotte per il diritto all’aborto libero e gratuito alla richiesta di un salario per il lavoro domestico/contro il lavoro domestico —, che della lotta autonoma, per la totale rimessa in discussione delle strutture sociali che sostengono l’appropriazione materiale e ideologica delle donne. Quindi anche con delle «assonanze» (nonostante differenze non da poco sul piano analitico) con la traiettoria politica delle femministe materialiste francofone, molte delle quali sono state, come sappiamo, anche militanti della prima ora nel Mouvement de libération des femmes, impegnate nelle lotte per i diritti delle donne (ad esempio Christine Delphy e Monique Wittig sono tra le firmatarie di quello che è noto come le manifeste des 343 del 1971), e di altri gruppi minoritari. Quindi non c’è, da parte delle femministe materialiste un rifiuto del piano dei diritti formali/giuridici, ma piuttosto la consapevolezza che sono nello stesso tempo necessari e non sufficienti. Come sottolinea infatti Guillaumin in Questioni di differenza la conquista di determinati diritti (e tra gli esempi cita la conquista dell’indipendenza giuridica dei paesi colonizzati o dei diritti civili da parte degli afro-americani) non ha storicamente prodotto automaticamente un’uguaglianza «reale». Anche noi donne, scrive ancora Guillaumin, abbiamo legalmente diritto allo stesso salario degli uomini, ma nella realtà non abbiamo lo stesso salario. Ma questo non equivale a dire che le lotte per i diritti siano inutili, sono anzi necessarie per (e cito quasi integralmente):

1) la presa di coscienza del carattere politico della situazione dei dominati 2) la dimostrazione ai dominanti dell’esistenza dei dominati 3) e per gli interessi pratici reali conseguenti all’applicazione di ciò che era stato ottenuto e per le possibilità di altre lotte che queste tappe implicavano.

Quindi, i diritti, le leggi servono ma non bastano, poiché non sufficienti per smantellare le strutture di potere che determinano l’appropriazione materiale e ideologica delle donne e degli altri gruppi minoritari. Ma quindi, per provare finalmente a rispondere alla vostra domanda, come possiamo trovare e costruire i mezzi pratici e concreti per una reale indipendenza? Penso che oggi questa strada vada cercata, individualmente e collettivamente, in due direzioni strettamente connesse. Da una parte penso sia fondamentale, costruendo alleanze transnazionali con altre soggettività oppresse, continuare a lottare sia per l’ottenimento di quei diritti fondamentali di cui in tante/i sono oggi ancora prive/i, sia per difendere quei diritti già ottenuti (faticosamente tra l’altro) ma oggi sotto attacco. Dall’altra penso che a partire dalla «coscienza esatta del posto che si occupa nella società», ognuna/o di noi, individualmente e collettivamente, possa e debba continuare a «pensare» nuove modalità/mezzi concreti per scardinare nelle fondamenta le strutture sociali, materiali e ideologiche alla base della dominazione nelle sue varie forme (un esempio mi sembra essere la risignificazione della modalità classica dello sciopero messa in opera con lo sciopero globale delle donne), perché come scrive Guillaumin a proposito degli effetti teorici della collera delle oppresse (e di altre soggettività minoritarie), «pensare è già modificare. Pensare un fatto è già modificare questo fatto».

Manifesti femministi / Una conversazione sul femminismo radicale

Ripubblichiamo da Operaviva Magazine

Questa conversazione prende spunto dalla pubblicazione del libro Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici 1964-1977 VandA / Morellini, 2018, a cura di Deborah Ardilli

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VandA (e-book) / Morellini, Milano 2018 Pagina fb Manifesti femministi

Federico Zappino: Qualche tempo fa, ma in realtà accade periodicamente, venni sollecitato a replicare alle affermazioni, giudicate omofobiche e transfobiche, di alcune femministe che si definivano «radicali». Affermazioni che, come immagini, vertono attorno a questioni conflittuali come la gestazione per altri, il sex work o il transgenderismo. Ora, al di là del contenuto specifico di queste affermazioni, su cui non mi sembra utile soffermarsi, o almeno non nei termini in cui vengono correntemente formulate (e nemmeno, purtroppo, in quelli che solitamente caratterizzano le risposte di parte opposta), a colpirmi di quell’intervista fu che ben prima di articolare una risposta, mi ritrovai affannosamente a spiegare, o a provarci, che l’appropriazione dell’aggettivo «radicale», da parte di quelle esponenti del femminismo, occultasse in realtà un «differenzialismo», o un «essenzialismo». E non era solo una questione di parole. Era una questione storica, e politica. Com’era accaduto che il femminismo radicale – quello cioè in cui qualunque minoranza di genere e sessuale dovrebbe trovare importanti spunti teorici a sostegno della propria lotta, dal momento che il suo obiettivo consiste nella sovversione del sistema sociale etero-patriarcale – fosse finito per coincidere, nella vulgata, con il femminismo differenzialista, o essenzialista? Al di là del fatto che la presa di distanza dall’essenzialismo, attorno a cui convergono i gender studies accademici, non costituisca di per sé nulla di automaticamente promettente, mi sembra in ogni caso che l’opportuna pubblicazione di Manifesti femministi, a tua cura, consenta di appianare questo equivoco, tanto per iniziare. Mi sembra che questo disagio sia vissuto come tale da quant* ritengono impellente mettersi sulle tracce delle inestimabili risorse che storicamente hanno consentito loro di pensare, oggi, la necessità di «un più ampio movimento politico che miri ad abolire il sistema eterosessuale», come scrisse Louise Turcotte a commento dell’opera di Monique Wittig.Deborah Ardilli: Quando l’editrice mi ha proposto di curare un’antologia di manifesti della «seconda ondata» femminista, ho pensato che valesse la pena cogliere l’occasione per provare a mettere in discussione una rappresentazione del femminismo radicale che, ancora troppo spesso, rasenta la caricatura. Servirebbe forse un rimando ad altri volumi per raccontare in maniera dettagliata in che modo quella rappresentazione si sia insediata nel senso comune, dando luogo all’equivoco che hai appena richiamato. Qui mi limito a segnalare che, a partire dagli ultimi due decenni del Novecento, quando da più parti si annunciava la transizione verso costellazioni post-patriarcali, sono stati versati fiumi di inchiostro per dipingere la «seconda ondata» del femminismo come un blocco omogeneo, compattamente attestato su posizioni «essenzialiste» – il peggior insulto che il gergo accademico possa concepire.

Stando alla vulgata, il femminismo di quegli anni costituirebbe lo stadio primitivo di una ricerca che, con l’avanzare del tempo, sarebbe progredita in direzione di una maggiore complessità teorica e di uno sguardo più scaltrito sulle questioni di genere. In nome della complessità, pareva finalmente possibile scrollarsi di dosso la zavorra ideologica con cui le femministe radicali avevano sovraccaricato pratiche e discorsi. Ora, è chiaro che se si parte dal presupposto che la «seconda ondata» rappresenti uno stadio infantile del femminismo da cui occorre congedarsi senza indugi, molte cose sono destinate a passare inosservate. Non ultimo il fatto che, all’epoca, femminismo radicale e pensiero della differenza sessuale costituivano tendenze distinte e rivali all’interno del movimento di liberazione delle donne. In Francia, per esempio, l’area «differenzialista» raccolta intorno a Psychanalyse et Politique rifiutava persino di definirsi «femminista» ed era in conflitto aperto con le Féministes révolutionnaires di Christine Delphy e Monique Wittig.

Ripristinare canali di comunicazione con il passato può, allora, essere un primo passo per mettere in questione l’idea che la radicalità del femminismo coincida con la feticizzazione di un dato anatomico, o con la rivendicazione della potenza generativa del materno, o di qualsiasi altra forma di valorizzazione di una specificità sessuata. Capita ancora spesso, per altro, di imbattersi in giudizi portati a demonizzare la scelta separatista con l’argomento che soltanto un rozzo pregiudizio naturalistico potrebbe motivarla. Il mio auspicio è che restituire un minimo di respiro storico ai nostri ragionamenti aiuti non solo a vedere che le cose non stanno così, ma anche a comprendere che la presa di distanza dal feticismo biologico non necessariamente coincide, per il femminismo radicale, con l’obiettivo di prolungare con altri mezzi i dispositivi di inclusione della tolleranza liberale.

Un esempio tratto da Manifesti femministi: quando le Redstockings di Shulamith Firestone scrivono, nel loro manifesto del 1969, che «le donne sono una classe oppressa», che «poiché abbiamo vissuto in intimità con i nostri oppressori, isolate le une delle altre, ci è stato impedito di vedere nella nostra sofferenza individuale una condizione politica», che «il nostro compito principale in questo momento è creare una coscienza di classe femminile condividendo la nostra esperienza e denunciando pubblicamente il fondamento sessista di tutte le nostre istituzioni», la problematica che si impone, con ogni evidenza, non è quella della valorizzazione della differenza sessuale. C’è indubbiamente una politica femminista del corpo; ma, a giustificarla, non è l’idea che l’anatomia costituisca di per sé un principio di classificazione sociale. Diversamente, non si spiegherebbe il ricorso alla categoria di classe di sesso: non si spiegherebbe, in altre parole, per quale motivo le frange più innovative del femminismo radicale abbiano ritenuto di poter estendere al genere l’analisi materialista. L’implicazione logica della rivolta delle donne è che la loro condizione può essere modificata, che il rapporto sociale che le definisce come la natura, il sesso, la differenza, l’alterità complementare all’uomo, può essere sovvertito. Fino a che punto si sarebbe dovuta spingere la trasformazione per poter effettivamente parlare di estinzione del patriarcato, lo avrebbe chiarito poco più tardi la stessa Firestone nelle pagine di The Dialectic of Sex (1970): «E proprio come lo scopo della rivoluzione socialista non era soltanto l’eliminazione del privilegio economico di classe, ma della distinzione di classe in quanto tale, allo stesso modo lo scopo della rivoluzione femminista deve essere, diversamente dal primo movimento femminista, non soltanto l’eliminazione del privilegio maschile, ma della distinzione sessuale in quanto tale: le differenze genitali tra esseri umani non dovrebbero più avere importanza culturale».

Zappino: Una rappresentazione piuttosto efficace di ciò che potrebbe significare «sovversione dell’eterosessualità».

Ardilli: Senz’altro. Ma permettimi un’ulteriore precisazione, in relazione alla rivolta delle donne e alle sue implicazioni. Se seguiamo le peripezie dell’aggettivo «radicale» a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta ci accorgiamo subito che il mutamento semantico riflette uno spostamento politico, non la convalida di un assunto biologico. Prendiamo il caso statunitense, che mi pare idoneo a illuminare processi di soggettivazione politica che, negli stessi anni, si attivano anche al di qua dell’Atlantico. Fino alla seconda metà degli anni Sessanta, per una giovane donna nord-americana essere una radical woman equivaleva a gravitare nell’orbita della Nuova Sinistra, cioè di quella frastagliata area politica, comportamentale e contro-culturale che comprendeva l’attivismo studentesco, il movimento per i diritti civili, la protesta contro la guerra del Vietnam e il riferimento obbligato ai movimenti di liberazione nei paesi del cosiddetto Terzo mondo. Alla fine del decennio, lo stesso aggettivo passa invece a qualificare quella componente – numericamente minoritaria, ma politicamente significativa – del movimento delle donne che, da un lato, mette fine alla militanza di servizio all’interno del movimento misto, mentre dall’altro lato prende le distanze dall’emancipazionismo di organizzazioni femminili di impronta riformista, come la NOW (National Organization for Women) di Betty Friedan. Che cosa comporta questa politicizzazione del privato, se non una vigorosa spinta verso la sua de-naturalizzazione? Che cosa motiva la doppia demarcazione polemica, se non la scoperta di una matrice autonoma di oppressione, che impone di spingere l’analisi politica nei territori del privato, della famiglia, della sessualità, del lavoro domestico?

Zappino: Se c’è qualcosa che accomuna l’odierno movimento femminista, da una parte, e quello gay, lesbico e trans*, dall’altra, sembra essere invece proprio la difficoltà di riconoscere l’esistenza di una matrice di oppressione. Non si capisce da dove venga questa nostra oppressione, e in realtà a volte non è nemmeno chiaro se concordiamo attorno al fatto di essere soggette a una qualche forma di oppressione. Nei casi migliori, riconosciamo l’esistenza di qualcosa che si chiama «capitalismo», o «neoliberismo», qualcosa che sortisce effetti tangibili sulla materialità delle nostre vite. Ma raramente siamo pronte ad accordare a qualcosa che si chiama invece «eterosessualità», o «etero-patriarcato», lo stesso potere di determinare le nostre esistenze, nonché di porsi come discrimine tra gli effetti sortiti differenzialmente, dallo stesso capitalismo, sulle «vite», a seconda del fatto che le vite siano quelle degli uomini o quelle delle donne, quelle degli uomini cis-eterosessuali e quelle dei gay o delle persone trans*. A volte, capita di leggere pagine e pagine di testi che dichiarano di ispirarsi al femminismo, o al queer, ma senza che in essi vi compaia mai, se non timidamente, un riferimento specifico al sistema sociale eterosessuale, o all’eterosessualità come modo di produzione patriarcale delle cosiddette «differenze» di genere.

Senza dubbio, una delle cause di questa distorsione percettiva è costituita proprio dall’affermazione della razionalità liberale, per cui non esiste alcuna matrice di oppressione, né alcun rapporto sociale di forza, ma solo individui che stipulano coscientemente un contratto sociale con altri individui, altrettanto liberi e uguali, in piena autodeterminazione, libertà di scelta, responsabilità (e colpa, di conseguenza, per i propri personali fallimenti). Tutte parole che, a ben vedere, sono ampiamente confluite nel lessico degli odierni movimenti femministi o Lgbtq. Al contempo, sappiamo anche che questa non è l’unica causa, dal momento che la difficoltà di mettersi d’accordo a proposito di una matrice di oppressione sembra permeare anche ampi strati del movimento più vicini alla critica marxista.

Ardilli: È una delle cause, appunto, ma non l’unica. Anche perché non sono sicura che il lessico degli odierni movimenti femministi o Lgbtq sia totalmente e indistintamente intriso di retorica liberale, o neoliberale. In fondo, sappiamo bene che una vigorosa retorica anti-neoliberale, o anche anti-capitalista, può essere del tutto compatibile con il misconoscimento dell’etero-patriarcato come sistema sociale. Può ben darsi che l’eco dei conflitti che, negli anni Settanta, hanno diviso marxisti e femministe oggi si sia affievolita. Ciò non significa, tuttavia, che i nodi fondamentali di quella discussione abbiano perso pertinenza.

Certamente, è innegabile che oggi sia diffusa – molto più di allora – la propensione a prosciugare il discorso sulle determinanti che influenzano le nostre vite: riconoscersi non solo condizionate, ma oppresse, è difficile. E doloroso. Mi sembra che il prestigio che circonda la reinterpretazione dei rapporti sociali in chiave di cooperazione volontaria tra soggettività libere e autodeterminate dipenda, molto più che dalla forza esplicativa di questo modello, dalla sua capacità di rassicurarci: perché perseguire faticosi progetti politici di liberazione, se la nostra autodeterminazione può esprimersi già qui e ora? In queste condizioni, tendono a moltiplicarsi discorsi che mettono l’accento sull’individuo, sulla sua postura volitiva o desiderante, sulla sua agency, sul suo empowerment. Da questo punto di vista, poni chiaramente un problema affine a quello sollevato in un intervento del 1990 di Catharine MacKinnon, emblematicamente intitolato Il liberalismo e la morte del femminismo. In quel discorso, MacKinnon si chiedeva dove fosse finito il movimento femminista che, negli anni Settanta, era stato capace di criticare concetti sacri come quelli di «scelta» e «consenso», che cosa fosse rimasto di quel movimento consapevole del fatto che «quando le condizioni materiali ti precludono il 99% delle opzioni, non ha senso definire il restante 1% – ciò che stai facendo – una scelta». E nonostante negli ultimi anni la questione del rapporto tra femminismo e neoliberalismo sia stata ampiamente dibattuta, sembra che ciò sia avvenuto in termini rovesciati rispetto a quelli proposti da MacKinnon. Mi sembra che il suo approccio colga il problema dell’impatto negativo della razionalità liberale in modo per noi più pertinente di quanto riescano a fare altre prospettive – su tutte, quella di Nancy Fraser – portate invece a rimproverare al movimento femminista degli anni Settanta di avere contribuito all’ascesa del neoliberalismo attraverso la critica del salario familiare. Il testo di Silvia Federici incluso in Manifesti femministi consente invece di comprendere quale fosse la portata reale della critica al salario familiare sviluppata, in particolare, dai gruppi per il salario al/contro il lavoro domestico: critica che mi pare grossolanamente fraintesa se interpretata, in chiave emancipazionista, come una richiesta di maggiore integrazione delle donne ai processi di valorizzazione capitalistica.

Quello che mi preme sottolineare, per tornare alla questione, è che il riferimento all’egemonia della razionalità neoliberale ci aiuta a cogliere solo un aspetto della questione. Come accennavo sopra, nel quadro dell’odierna «terza ondata» femminista non è affatto raro imbattersi in critiche della razionalità neoliberale (e del suo doppiofondo neofondamentalista, come sai bene), anche molto affilate, ma che, tuttavia, tendono a perdere mordente quando si tratta di pronunciarsi sull’etero-patriarcato. Certamente il sostantivo «patriarcato» e l’aggettivo «patriarcale» compaiono ancora nei documenti prodotti dal movimento odierno. Contrariamente alle apparenze, però, questo non significa che il concetto di patriarcato – o, come mi sembra più corretto dire, di etero-patriarcato – conservi il peso determinante che aveva avuto per il femminismo radicale.

Provo a spiegarmi meglio: la maggioranza del movimento femminista attuale è assolutamente disposta a riconoscere che le politiche neo-liberali hanno effetti devastanti sulla vita delle donne e delle minoranze di genere. I problemi sorgono non appena si tratta di rispondere a domande come queste: perché la privatizzazione dello stato sociale si traduce in un aggravio di lavoro sulle spalle delle donne? Perché sono in stragrande maggioranza femminili, o femminilizzati, i corpi di servizio – incluso quello sessuale – che affluiscono verso le società occidentali da paesi messi in ginocchio dal debito e dai programmi di riaggiustamento strutturale? È sulla risposta da dare a interrogativi come questi che si palesano le divergenze tra chi ritiene indispensabile utilizzare il concetto di etero-patriarcato e chi, al contrario, ritiene di poterne fare a meno. L’area del femminismo socialista, per esempio, è propensa a sostenere che 1) questi fenomeni vanno messi sul conto della crisi della riproduzione sociale che investe le società capitalistiche e 2) che il capitale resta il principale agente, oltre che l’unico beneficiario, di tali forme di sfruttamento. Per quale strano motivo proprio le donne vengano assegnate alla «sfera riproduttiva» non viene chiarito dalle teorie che escludono programmaticamente il riferimento a un modo di produzione eteropatriarcale. Veniamo invece sollecitate a interrogare il modo in cui il capitale utilizza a proprio vantaggio la differenza sessuale. Ma come venga prodotta quella «differenza», nel quadro di quale rapporto sociale, resta un mistero. A differenza del femminismo radicale, il femminismo socialista sembra suggerirci che la differenza tra uomini e donne, semplicemente, c’è: è un dato biologico, pre-sociale, una distinzione funzionale necessaria alla riproduzione sessuale che destina la maggior parte delle donne a un’intimità permanente con gli uomini, in vista della rigenerazione della forza-lavoro su base quotidiana e generazionale. Credo si debba tener conto di questa ipoteca differenzialista per comprendere l’insistenza a parlare di lavoro riproduttivo (anche a dispetto del fatto che i servizi prodotti possiedano un valore di scambio, dato che è possibile trasferirli sul mercato) e a tacere il fatto che gli uomini, proletari inclusi, sono beneficiari diretti del lavoro che riescono a estorcere gratuitamente alle donne. Va per altro precisato, a scanso di equivoci, che lo sfruttamento domestico non esaurisce il campo dell’oppressione etero-patriarcale. Senonché, è proprio quando volgiamo lo sguardo verso altri fenomeni macroscopici del dominio etero-patriarcale, come la violenza sessuale, che diventa ancora più problematico chiamare in causa il capitale, o il neoliberalismo. Correlare uno stupro al plusvalore, o a una crisi di sovrapproduzione, mi riesce decisamente più difficile che non associarlo all’esistenza un sistema eterosessuale finalizzato all’appropriazione del lavoro, della sessualità e della coscienza delle donne. E tu potresti fare questo stesso discorso, come già fai, per altre forme di violenza di genere, parlando del pestaggio nei riguardi della persona trans* o del ragazzo gay ammazzato di botte al termine del suo primo giorno di lavoro al centro commerciale. D’altronde: come si spiega la sovra-rappresentazione delle persone trans* tra le fila dei disoccupati? È sufficiente riferirsi alla dinamica capitalistica come fattore «in ultima istanza» determinante, per capire come mai alcune fasce di popolazione stentano più di altre ad accedere ai circuiti dell’economia formale?

Periodicamente mi cadono sotto gli occhi articoli che documentano, con una certa passione dimostrativa, impennate di violenza contro le donne a partire dalla crisi economica del 2007-08. Il messaggio di questi contributi è chiaro: la crisi economica e la relativa precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro induce gli uomini alla violenza. Vorrei fosse altrettanto chiara, però, l’esigenza che abbiamo di conservare il senso delle proporzioni, evitando di trasformare una correlazione statistica in una teoria dell’oppressione. Sospetto, per altro, che anche le femministe socialiste avvertano questa difficoltà. Non è un caso che non si siano completamente estinte le concessioni alla retorica femminista: il ricorso residuale all’aggettivo «patriarcale», o al sostantivo, «patriarcato» potrebbero veicolare un’implicita ammissione dell’insufficienza del quadro analitico marxista. Tuttavia, questo omaggio formale alla terminologia del femminismo radicale raramente si spinge al di là di una definizione che circoscrive il patriarcato alla sfera delle mentalità, degli stereotipi, dei pregiudizi: il sistema sociale di riferimento resta uno solo, il capitalismo. E questo mi sembra un ostacolo serio a indagare le cause delle nostra oppressione.

Zappino: Pensavo che è curioso che ci troviamo a interrogarci attorno a tali questioni nel tempo dell’intersezionalità. O meglio, di una versione rimasticata e distorta dell’intersezionalità – una produzione etero-patriarcale dell’intersezionalità, mi verrebbe da definirla. È infatti strano, non trovi?, che nell’ora della piena affermazione delle retoriche dell’intersezionalità, o dell’alleanza, femministe e altre minoranze di genere continuino tranquillamente a confliggere, e che non concordino nemmeno attorno al fatto di essere soggette a una comune matrice di oppressione. E spesso è difficile non cedere alla tentazione che dietro alle retoriche dell’intersezionalità si celi solo un inganno, per noi. L’intersezionalità consiste forse nel non focalizzarsi mai nemmeno per sbaglio sulla specificità delle forme di oppressione, nel guardare indistintamente a tutto (ossia, a nulla), affinché le ingiunzioni alla salvaguardia del movimento misto, dietro lo spauracchio del separatismo, possano tranquillamente occultare, e dunque perpetuare, il dominio maschile ed eterosessuale al suo interno? È questo che vogliamo?

Ardilli: La mia impressione è che, nel discorso corrente, la parola «intersezionalità» abbia assunto il valore di una formazione di compromesso. A un primo sguardo, si direbbe che la sua diffusione rifletta un certo grado di consenso intorno alla necessità di abbandonare lo schema che induce a graduare le oppressioni su una scala gerarchica. Nella pratica, vediamo però che le cose funzionano diversamente: il richiamo all’«intersezionalità» opera come un principio di universalizzazione astratta che finisce col ristabilire silenziosamente le gerarchie che, in linea teorica, si volevano eliminare. Mi sembra chiaro, per esempio, che precipitarsi a proclamare manifestazioni antifasciste e antirazziste ogniqualvolta l’autore di una violenza contro le donne è un soggetto razzializzato equivale a dire che, di fronte al rischio (tutt’altro che improbabile) di strumentalizzazioni a destra, la protesta contro la violenza sessuale deve passare in secondo piano. Anziché agire come moltiplicatore e intensificatore dei fronti di lotta, l’intersezionalità rischia di inibirne alcune, o di moderarne le pretese, in nome di un irresistibile richiamo all’unità. Noblesse oblige. Al contrario, per le femministe radicali di cui mi occupo in Manifesti femministi era del tutto ovvio che «le persone non si radicalizzano combattendo le battaglie degli altri». Mi sembra che oggi quell’intuizione si sia come capovolta: mettere tra pudiche parentesi la propria oppressione, combattere le battaglie degli altri, rinunciare all’auto-legittimazione che proviene dall’essere contemporaneamente soggetto e oggetto della propria liberazione – insomma, quel complesso di attitudini che Monique Wittig e le altre autrici di Per un movimento di liberazione delle donne non esitavano a squalificare come «altruismo cristiano e piccolo-borghese» – oggi sono considerate qualità politiche di prim’ordine.

Nell’appello per lo sciopero dell’8 marzo 2019 diffuso da Ni Una Menos, per esempio, si legge che l’importanza del movimento femminista odierno dipende dall’essere diventato «cassa di risonanza per tutti i conflitti sociali». Ecco, l’immagine del movimento femminista come una cavità aperta in cui si amplificano suoni emessi altrove potrebbe essere una metafora eloquente di quella che tu definisci una «produzione etero-patriarcale dell’intersezionalità».

[pagina fb con estratti dal libro: Manifesti femministi]

La sabbia negli occhi

Continuum della violenza e regime politico dell’eterosessualità

di Deborah Ardilli

Secondo l’antropologa argentina Rita Laura Segato, le forme contemporanee della violenza contro le donne presentano caratteristiche inedite, tali da mettere in crisi il quadro analitico elaborato dal femminismo. L’errore delle femministe, a giudizio della studiosa, consiste nel continuare a credere che la violenza di genere abbia a che fare con i rapporti tra uomini e donne, anziché con la trasformazione della struttura della guerra. Sempre più caotico, dai contorni sempre meno definiti, il conflitto contemporaneo si orienta — per Segato — verso l’esercizio gratuito di una crudeltà in cui il corpo sacrificale della donna, svuotato dell’antica pienezza ontologica, funziona come segno all’interno di uno scambio simbolico tra uomini. In questo articolo, distanziandoci dall’impostazione differenzialista sottesa all’analisi dell’antropologa e adottando gli strumenti messi a punto dal femminismo radicale materialista, sosteniamo invece che la scena contemporanea del conflitto tende non a sfumare, ma a inasprire la dialettica sociale tra i sessi, rilanciandola su larga scala. Precisamente per questo motivo è necessaria un’alleanza femminista transnazionale per far saltare il regime di accumulazione etero-patriarcale.

 

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Pat Parker (1944-1989)

C’è una poesia di Pat Parker, la poeta nera e lesbica che nel 1976 prese la parola a nome della delegazione statunitense al Tribunale internazionale di Bruxelles per i crimini contro le donne, che recita così: «Brother / i don’t want to hear / about / how my real enemy / is the system. / i’m no genius, / but i do know / that system / you hit me with / is called / a fist» (Fratello / non venirmi a raccontare / che / il mio vero nemico / è il sistema. / non sono un genio, / ma so / che il sistema / con cui mi picchi / si chiama / pugno) [1].

Con una semplicità perfidamente ingannevole, i versi di Parker ci ricordano che una delle conquiste del movimento femminista più duramente osteggiate, anche dagli altri movimenti progressisti, è stata mettere all’ordine del giorno il tema della violenza contro le donne: vederla, nel senso pregnante del termine. E produrne intelligenza politica, cogliendola come dimensione costitutiva (e non avventizia) della nostra inserzione nel genere attraverso l’eterosessualità obbligatoria — come hanno insegnato, fra le altre, Monique Wittig e Adrienne Rich [2]. In questo senso si può ben affermare, con Christine Delphy, che fare luce sulla violenza contro le donne non equivale a esumare una città sepolta sotto metri di sabbia: è dagli occhi che bisogna togliere la sabbia, in un processo continuo di risveglio che non può mai dirsi concluso una volta per tutte [3]. Ciò non toglie, naturalmente, che sia privo di senso domandarsi che cosa abbia sedimentato nel corso del tempo, sul piano della concettualizzazione, l’attivazione di uno sguardo femminista radicale sulla violenza contro le donne.

In un articolo ormai classico, Jane Caputi e Diana Russell inscrivono il femicidio (oggi diremmo, più appropriatamente, femminicidio) al polo estremo di uno spettro che include un’ampia varietà di abusi fisici e verbali, come lo stupro, la tortura, la schiavitù sessuale, l’abuso incestuoso ed extra-familiare delle bambine, l’aggressione fisica, la molestia sessuale, le mutilazioni genitali, le operazioni ginecologiche non necessarie, la maternità obbligatoria, l’eterosessualità obbligatoria. [4] Come chiarisce Jill Radford nell’introduzione al volume in cui è incluso l’articolo, «il concetto di continuum ci permette di identificare un ventaglio di esperienze eterosessuali coercitive. Inoltre, la nozione di continuum facilita l’analisi della violenza sessuale maschile come una forma di controllo centrale per il mantenimento dell’etero-patriarcato» [5]. Il riconoscimento dell’eterosessualità in quanto istituzione sociale oppressiva, anziché in quanto preferenza sessuale privata — prosegue Radford — informa di sé la comprensione del femminicidio e costituisce un aspetto organico dell’analisi femminista radicale [6].

Ferri vecchi da consegnare a un’epoca definitivamente trascorsa? Se ci rivolgiamo a indagini a noi cronologicamente più vicine, non si direbbe. Secondo Jules Faquet, che alla questione della riorganizzazione della violenza contro le donne nel quadro della globalizzazione neoliberale ha dedicato una parte consistente delle proprie ricerche, gli assi dell’analisi femminista radicale restano punti fermi irrinunciabili. Di qui la sollecitazione di Falquet a individuare, in contesti geopolitici differenziati, il continuum della violenza contro le donne, nelle sue espressioni fisiche, sessuali, emotive, economiche, ideali; e a riconoscere il peso della sua dimensione materiale e del suo impiego eminentemente strumentale [7]. A queste indicazioni si potrebbe forse aggiungere una terza coordinata, connessa al funzionamento dissimmetrico della violenza di genere, su cui ha richiamato l’attenzione Nicole-Claude Mathieu: essere l’esposizione delle donne alla violenza non già la conseguenza di una condizione naturale di fragilità, ma il risultato della proibizione sociale alle donne di avere il minimo comportamento di resistenza violenta contro gli uomini, con la conseguente sottrazione di tutto un sapere tecnico legato alla difesa e all’attacco [8].

Si tratta, per altro, di un’osservazione in linea con quanto la stessa Falquet registra sul terreno della dialettica dei sessi che percorre la nuova composizione globale del mercato del lavoro, rilevando come questa tenda a consolidare uno degli archetipi di genere più tenaci: gli uomini come guerrieri e le donne come bottino [9]. Per la maggior parte delle donne non privilegiate del pianeta, l’ingresso sul mercato del lavoro e l’accesso a un reddito di sussistenza sono mediati dallo svolgimento di mansioni di servizio che interessano l’area delle pulizie, della cura nelle sue diverse forme e delle attività associate al sesso — un complesso di attività di cui, in regime di produzione domestica, gli uomini possono appropriarsi in blocco a titolo gratuito; in regime di produzione capitalistica, quel che si perde in termini di gratuità delle prestazioni è abbondantemente compensato dalla realizzazione di enormi guadagni tramite l’impiego di manodopera femminile a basso costo e debolmente sindacalizzata. Per gli uomini, sembrano invece moltiplicarsi a ritmo crescente le occasioni di generare reddito reggendo un’arma: per conto di un esercito, di una polizia, di una milizia privata, in una prigione, in un supermercato, in un bordello, in una zona residenziale, in un giardino pubblico, in un’organizzazione terrorista o in una piccola banda locale. Ma non è tutto qui. Polarizzazione crescente e implicazione reciproca dei termini del rapporto sono elementi inscindibili di questa dialettica di genere, se è vero — come sostiene Falquet — che «nel contesto dei rapporti sociali di sesso esistenti e del “sistema politico dell’eterosessualità” quale l’ha descritto Monique Wittig, l’esistenza stessa di uomini in armi crea una domanda di lavoro nel campo del sesso, per la quale si fa in larga maggioranza appello alle donne» [10].

Sembra dunque che non ci sia modo di decifrare il continuum della violenza senza chiamare in causa il regime politico dell’eterosessualità. Viceversa, non si intende la riproduzione “allargata” dell’eterosessualità senza chiamare in causa la violenza materiale come operatore strategico ai fini della conservazione di classi di sesso (eufemisticamente definite) “differenti e complementari”, dell’intensificazione su scala globale delle tecniche di appropriazione e sfruttamento del lavoro delle donne, della disorganizzazione e demoralizzazione dei segmenti femminili e razzializzati della forza-lavoro che rivestono un ruolo cruciale nella produzione e nella riproduzione sociale. In questo senso, l’analisi dei femminicidi lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti ha costituito un importante banco di prova per mettere in luce le inadempienze di letture culturalistiche o psicologizzanti della violenza contro le donne.

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Alicia Schmidt Camacho, per esempio, ha rilevato come diversi attori politici ed economici, locali e globali, abbiano contribuito alla denazionalizzazione dello spazio della frontiera messicana intensificando all’estremo le condizioni di cittadinanza dimidiata che interessano le messicane povere: condizioni, cioè, in cui il valore economico delle donne deriva direttamente dalla loro mancanza di accesso ai diritti più elementari. La femminilizzazione del lavoro si inscrive di un progetto di governance che ha generato nuove forme e nuovi spazi di creazione di reddito attraverso la mercificazione dei corpi delle donne povere e una cittadinanza limitata. Immagini di donne usate per vendere turismo, merci, lavoro e sesso riempiono le città di confine in modi che erotizzano deliberatamente l’esercizio del dominio. Di qui la studiosa fa discendere la necessità di leggere i femminicidi di Ciudad Juárez, nonché i tassi elevatissimi di impunità assicurati ai loro esecutori, non già come una manifestazione di regressione culturale, di malfunzionamento delle agenzie statali o di incompetenza dei funzionari addetti alle indagini, bensì come l’«espressione razionale» delle contraddizioni che sorgono dal codice di genere in cui è inviluppato lo sviluppo neoliberale. I femminicidi, suggerisce Schmidt Camacho, accompagnano come un’ombra il «progetto di produrre una popolazione femminilizzata senza diritti, facilmente appropriabile per fornire lavoro e servizi sia sui mercati del lavoro legali che su quelli illegali. La produzione culturale di questo gruppo subalterno ha implicato la sessualizzazione dei corpi delle messicane povere […] Le maquiladoras e l’industria del turismo, che specula così vistosamente sulle capacità fisiche delle donne, sono soltanto i luoghi più ovvi di erotizzazione del super-sfruttamento delle donne messicane» [11].

La violenza di genere in America Latina, tuttavia, è stata anche l’occasione per provare a mettere in crisi il paradigma femminista radicale. Da quanto detto finora, sembrerebbe in effetti lecito dedurre che esista un nesso significativo tra l’esercizio della violenza e l’identità sociale delle vittime. E sembrerebbe pure lecito spingere l’indagine in direzione della funzione strumentale che la violenza svolge in questo scenario di super-sfruttamento. Ma è precisamente a questo punto che ci viene chiesto di fare un passo indietro e rivedere le acquisizioni precedenti in fatto di femminicidio. È il caso della proposta interpretativa avanzata dall’antropologa argentina Rita Laura Segato, a cui una parte del movimento italiano guarda con crescente interesse [12].

A dire il vero, non è del tutto chiaro a quali aree di pensiero o di movimento si riferisca esattamente Segato quando rimprovera alla riflessione femminista di non avere ancora fatto i conti con la dimensione politica della violenza contro le donne e di averla confinata alla sfera dell’intimità, contribuendo in questo modo a consolidare «lo stereotipo che incapsula la donna in un’atmosfera domestica» [13]. Dovrebbe essere chiaro, in ogni caso, che quando Segato ripudia enfaticamente l’ipotesi che la violenza di genere abbia qualcosa a che fare con l’organizzazione etero-sociale dei rapporti tra i sessi anche quando si scatena fuori dal teatro domestico [14], quella che si sta facendo avanti è una prospettiva che punta a rompere i ponti con il femminismo.

Togliere le donne dal ghetto, in vista di alleanze e di proiezioni politiche più larghe di quelle ancorate alla linea del genere, è l’esortazione che Segato ci rivolge a partire da un’interrogazione della violenza patriarcale quale espressione paradigmatica della violenza predatoria che caratterizza la «fase apocalittica del capitale». In questa prospettiva, la violenza contro le donne assume rilievo strategico per effetto della posizione che occupa in uno scenario bellico sempre più segnato dall’anomia sociale. Senza uniformi e insegne ufficiali, senza dichiarazioni formali di guerra, di tregua o di resa, senza delimitazioni spaziali o temporali precise, senza linee di demarcazione nitide tra operazioni belliche e azioni criminali, il conflitto contemporaneo tende inesorabilmente, a giudizio di Segato, all’informalizzazione e all’indeterminazione. Fazioni, bande, gruppi tribali, mafie, formazioni statali e parastatali di vario tipo alimentano una nuova filiera armata la cui violenza corporativa e anomica, arbitraria e discrezionale, si esprime in modo esemplare e privilegiato nell’aggressione al corpo delle donne. Il corpo vittimario delle donne, per Segato, reclama dunque attenzione nella misura in cui porta incisi i segni attraverso i quali la struttura contemporanea della guerra si manifesta. Nella brutalità truculenta dei femminicidi sud-americani si rivelerebbe una modalità inedita di esercizio del potere che, per l’antropologa, risponde a una strategia complessiva di riproduzione del sistema definibile come pedagogia della crudeltà. In questa guerra non convenzionale, si rinnova l’immaginario coloniale che dà significato allo stupro come oltraggio indelebile per la vittima e per tutti coloro che detengono una capacità di tutela sul suo corpo (padre, fratelli, marito, autorità politiche). Ed è precisamente questo immaginario coloniale, secondo Segato, a installare il genere come struttura binaria e gerarchica mediante la quale la «posizione maschile» confisca per sé l’universale, relegando all’insignificanza la «posizione femminile».

All’interno di questo quadro analitico, Segato procede al recupero dello schema elaborato da Claude Lévi-Strauss ne Le strutture elementari della parentela, in base al quale le donne sono trattate come segni [15], per trasferirlo alla comprensione delle strutture elementari della violenza [16]. Risalire alle strutture elementari della violenza di genere, per l’antropologa, comporta innanzitutto accentuarne al massimo il valore espressivo, a discapito di quello strumentale. Una volta messa fuori gioco ogni ipotesi utilitaristica, Segato può presentare la scena della violenza come una complessa macchina simbolica adibita allo scambio di messaggi tra interlocutori maschili, siano essi fisicamente presenti sulla scena della violenza oppure idealmente inclusi come destinatari del messaggio nel paesaggio mentale del soggetto dell’enunciazione. Attraverso la violenza, l’aggressore si rivolge ai suoi pari, esibisce spettacolarmente la propria capacità offensiva, mostra di avere le carte in regola per integrarsi alla confraternita virile mafiosa. Sono dunque altri uomini, non la vittima, a dare senso e consistenza alla scena della violenza contro le donne. Nel linguaggio del femminicidio, secondo Segato, il corpo martoriato delle donne indica il resto, lo scarto, ciò che può essere sacrificato per un bene più alto, quale sarebbe appunto la costruzione della confraternita virile.

Ora, anche senza bisogno di disconoscere i risvolti espressivi connessi all’esercizio della violenza di genere, restano forti perplessità di fronte al fatto che la selezione delle vittime passi così drasticamente in secondo piano. La donna come segno, evidentemente, è cosa diversa dalle donne come classe di sesso. Se alla donna come segno sembra inerire naturalmente la posizione di supporto materiale dello scambio simbolico virile, tanto da dover concludere che è l’eliminazione sistematica di un «tipo umano» — la posizione femminile in quanto tale — ciò che il «femminigenocidio» ha di mira [17], per le donne come classe di sesso dovrebbe invece avere ancora senso chiedersi almeno: perché proprio loro? Non meritano attenzione, per esempio, la direzione in cui la violenza circola e la circostanza per cui non si dà la costruzione di sorellanze femminili attraverso il sacrificio estremo di corpi maschili? E se la violenza è costruita discorsivamente, perché escludere in partenza che quel discorso sia indirizzato, se non esclusivamente, certamente anche alle donne assassinate e alle loro simili? Perché restringere la cerchia dei destinatari alla confraternita maschile? Perché impedirsi di pensare che la funzione espressiva della violenza ne veicoli una strumentale, finalizzata a ottenere un risultato ottimale con il minimo dispendio di mezzi: terrorizzare tutte le donne, tenerle al loro posto, costringerle a lottare sul terreno della mera sopravvivenza (o del ritrovamento dei cadaveri delle compagne), ritardando le iniziative che potrebbero svilupparsi su altri fronti? Chi ha interesse a frenare, compromettere, scoraggiare le lotte delle “donne di servizio” e la loro costituzione in soggetto politico autonomo? Possiamo davvero scartare con tanta disinvoltura l’ipotesi che lo sfruttamento delimiti un campo di interessi in cui essere uomini o donne, appartenere all’una o all’altra classe di sesso, ha ancora un’importanza decisiva?

A scanso di equivoci, è bene chiarire subito che queste domande non sottendono il proposito di correggere, ridimensionare o negare la percezione dell’enorme portato di violenza che colpisce le donne, in America Latina e non solo. Non è per favorire l’assuefazione alla crudeltà che questi interrogativi vengono sollevati, e tanto meno per assecondare un ritornello che, con il nobile pretesto di mettere fine all’abuso di retoriche vittimizzanti, punta a silenziare qualsiasi discorso che prenda sul serio l’oppressione delle donne.

È importante, invece, mettere a fuoco l’insidia contenuta nel riferimento di Segato al corpo sacrificale delle donne. Il rischio è che, sganciato da un’analisi più puntuale dei rapporti sociali di genere nei quali è immerso, quel corpo sacrificale si converta rapidamente in metafora del corpo mistico della comunità in rovina, innescando una catena associativa (non propriamente inedita nel copione culturale occidentale) che allinea in un’unica sequenza la posizione femminile minacciata, il mondo-villaggio, l’empatia, la valorizzazione della funzione materna, l’affidabilità quotidiana, il sacro — altrettante figure di un’armonia prestabilita che soltanto l’azione corrosiva di un agente estraneo potrebbe incrinare. Paradossalmente, l’esortazione a togliere le donne dal ghetto finisce per spalancare le porte alla riproposizione di modelli già collaudati di feticizzazione della coesione comunitaria e del vincolo eterosessuale. C’è da temere, insomma, che l’enfasi di Segato sulle solidarietà locali come polo integro di resistenza alla furia devastatrice del neoliberalismo operi a tutto vantaggio della naturalizzazione di legami che custodiscono un potenziale letale per le donne.

Non per nulla, al momento di spiegare l’irruzione della violenza di genere all’interno della comunità e il passaggio da una fase di «patriarcato a bassa intensità» a una fase di «patriarcato ad alta intensità», Segato è costretta a introdurre l’ipotesi di un’alterazione antropologica di derivazione esogena. La connessione dei crimini contro le donne con la fase attuale del neoliberalismo si specificherebbe, cioè, tramite la cattura da parte della mascolinità bianca di una mascolinità dotata di prerogative già esistenti, ma compatibili con tassi ridotti di conflittualità di genere. Per effetto di questa sconfitta storica, l’uomo indigeno si trasforma nel colonizzatore di casa, mimando le gesta del patriarca metropolitano e trasferendo «la violenza appropriatrice del mondo esterno che arriva all’interno delle relazioni del suo stesso mondo» [18]. Si instaura così il Soggetto Universale della sfera pubblica. Di questo soggetto forgiato sulle ceneri della comunità veniamo a sapere che, «per marchio di origine e genealogia», sarà «1) maschile; 2) figlio della conquista coloniale e, pertanto, a) bianco o imbiancato; b) proprietario; c) istruito; d) pater familias». Curiosamente, a tali attributi si accompagna questo inciso: «(descriverlo come “eterosessuale” non è adeguato, visto che della sessualità propriamente detta del patriarca sappiamo molto poco)» [19]. L’ipotesi di partenza, secondo cui lo spessore politico delle nuove forme di violenza di genere può apparire soltanto a patto di dissociarle dalla sessualità e dalla centralità del rapporto uomini/donne tematizzato dalle femministe, si ritrova così tautologicamente confermata. La catena genealogica di trasmissione della violenza si interrompe, senza spiegazioni, alla voce “eterosessualità”.

All’alterazione antropologica indotta dal contatto con la controparte colonizzatrice sembrano invece miracolosamente scampare le donne, presentate come soggetti intrinsecamente vocati al vincolo comunitario e dunque per definizione impermeabili a ogni influenza corruttrice. Non è probabilmente un caso che il linguaggio adoperato per descrivere la comunità rifletta più i modi dell’ontologia, che quelli della storia o della sociologia. La struttura del mondo che precede l’invasione da parte del fronte statale-coloniale è presentata come una struttura «duale» ma, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, «guidata da una reciprocità ferrea vincolante» [20]. «Il duale» prosegue Segato «è una delle varianti del molteplice e tra i termini della dualità ci sono transizioni ed è possibile la commutabilità delle posizioni. Nel mondo duale, entrambi i termini sono ontologicamente pieni, completi, sebbene possano mantenere una posizione gerarchica. Non c’è inglobamento di uno da parte dell’altro: lo spazio pubblico, abitato dagli uomini con i propri compiti, la politica e l’intermediazione (gli affari, il dibattito e la guerra), non ingloba né sussume lo spazio domestico, abitato dalle donne, dalle famiglie, con i loro molteplici tipi di compiti e di attività condivise» [21].

C’è un’involontaria ironia nel descrivere il mondo della comunità indigena con accenti che ricalcano quasi letteralmente i modi occidentali più tipici di occultamento del conflitto, come se i rapporti sociali di sesso fossero una questione di controllo dell’equilibrio delle risorse e di negoziazioni nel quadro di rapporti simmetrici tra “differenze”; o come se la concentrazione quasi esclusiva sul sentimento di sé e sulle costruzioni identitarie obbligasse a dedurre un allentamento della gerarchia che produce tali identità e l’insignificanza della matrice eterosessuale di tale gerarchia. L’idea di commutabilità delle posizioni suppone che nel «mondo duale» entrambe le «pienezze ontologiche» abbiano qualcosa da mettere sulla bilancia: la costruzione del concetto annuncia l’esistenza del potere delle donne proprio nel momento in cui congela i termini della partecipazione alla divisione del lavoro nello schema eterosessuale.

A questo punto, sarebbe interessante capire in quale misura la proposta di Segato incroci il movimento che, nel continente sudamericano, proprio a partire dalla questione della violenza di genere, ha ricostruito la pratica dello sciopero femminista dal lavoro riproduttivo e produttivo. Quanto a noi, vale forse la pena ricordare che neanche il mondo occidentale ha mai riassorbito lo spazio domestico fino al punto da rendere marginale l’esistenza di un serbatoio tanto cruciale di estrazione di lavoro gratuito e/o svalorizzato [22]. Laddove possibile, ne ha semmai trasferito le caratteristiche ai segmenti più sfruttati del mercato del lavoro. Potrebbe essere questa la premessa di un’alleanza femminista transnazionale per far saltare il regime di accumulazione etero-patriarcale, anziché l’ennesima occasione per riempirci gli occhi di sabbia chiamando “differenza” le condizioni della nostra comune subalternità.

 

delphy

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NOTE

[1] Pat Parker, Brother, in Ead., Movement in Black, Firebrand Books, Ithaca, New York 1999, p. 77.

[2] Cfr. Monique Wittig, The Straight Mind and Other Essays, Beacon Press, Boston 1992; Adrienne Rich, Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence, in Ead., Blood, Bread and Poetry, Norton & Company, New York 1986, pp. 23-75.

[3] Cfr. Christine Delphy, Violences contre les femmes (1997), in Ead., Un universalisme si particulier. Féminisme et exception française (1980-2010), Éditions Syllepse, Paris 2010, p. 212.

[4] Cfr. Jane Caputi, Diana E. H. Russell, Femicide: Sexist Terrorism Against Women, in Jill Radford, Diana E. H. Russell, Femicide. The Politics of Woman Killing, Twayne, New York 1992, p. 15. Sulla base della teorizzazione di Marcela Lagarde, oggi è preferibile usare il termine “femminicidio” al posto di “femicidio”, per evitare impropri effetti di simmetrizzazione tra femicidio e omicidio.

[5] Jill Radford, Introduction, in Jill Radford, Diana E. H. Russell, Femicide, cit., p. 4.

[6] Ivi, p. 8.

[7] Jules Falquet, Pax neoliberalia. Perspectives féministes sur (la réorganisation de) la violence, Éditions iXe, Donnemarie-Dontilly 2016, p. 8.

[8] Nicole-Claude Mathieu, “Origines” ou mécanismes de l’oppression des femmes? (1994), in Ead. L’anatomie politique 2. Usage, déréliction et résilience des femmes, La Dispute, Paris 2014, p. 186.

[9] Cfr. Jules Falquet, De gré ou de force. Les femmes dans la mondialisation. La Dispute, Paris 2007, pp. 51-82.

[10] Ivi, p. 60.

[11] Alicia Schmidt Camacho, Ciudadana X. Gender violence and the denationalization of women’s rights in Ciudad Juárez, Mexico, in Rosa-Linda Fregoso, Cynthia Bejarano (eds.), Terrorizing Women. Feminicide in the Américas, Duke University Press, Durham-London 2010, p. 279.

[12] Cfr. Rita Laura Segato, Patriarcato: dal margine al centro. Disciplinamento, territorialità e crudeltà nella fase apocalittica del capitale e Le nuove forme di guerra e il corpo delle donne, in Roberta Pompili, Adalgiso Amendola (a cura di), La linea del genere. Politiche dell’identità e produzione di soggettività, ombre corte, Verona 2018, rispettivamente alle pp. 57-74 e 153-186.

[13] Rita Laura Segato, Le nuove forme di guerra e il corpo delle donne, cit., p. 185.

[14] Si veda la traduzione dell’intervista a Segato di Alejandra Ojeda e Florencia Vizzi, apparsa il 17 settembre 2017 su «Dinamopress» con il titolo Femminicidi e pedagogia della crudeltà, in cui si legge: «Una delle difficoltà, tra i limiti del pensiero femminista, è credere che il problema della violenza di genere sia un problema tra uomini e donne. E in alcuni casi persino tra un uomo e una donna. E credo che sia un sintomo della storia, degli eventi che attraversano la società. E a questo punto sollevo la questione della precarietà della vita».

[15] Cfr. Claude-Lévi Strauss, Le strutture elementari della parentela (1947), Feltrinelli, Milano 2003, pp. 633-634.

[16] Cfr. Rita Laura Segato, Territory, Sovereignity, and Crime of the Second State, in Rosa-Linda Fregoso, Cynthia Bejarano (eds.), Terrorizing Women, cit. pp. 70-92. L’articolo riassume le tesi esposte più diffusamente da Segato in Las estructuras elementales de la violencia. Ensayos sobre género entre la psicología, el psicoanálisis y los derechos humanos, Universidad Nacional de Quilmes/Prometeo, Buenos Aires 2003.

[17] Rita Laura Segato, Le nuove forme di guerra e il corpo delle donne, cit., p. 182.

[18] Rita Laura Segato, Patriarcato: dal margine al centro, cit., p. 59.

[19] Ivi, p. 60.

[20] Ivi, p. 59.

[21] Ibidem

[22] Su questo cfr. Melinda Cooper, Family Values. Between Neoliberalism and the New Social Conservatism, Zone Books, New York 2017.