Monique Wittig: la fuga che fa dimenticare tutte le altre

Note a margine di Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 77, euro 10.

di Deborah Ardilli

Viviamo, per generale ammissione, in un’epoca in cui i tempi e gli spazi di ascolto concessi alla parola letteraria tendono a comprimersi. O a ridisegnarsi in funzione dell’ascendente esercitato da altri, più remunerativi, codici di comunicazione. Messo a confronto con i suoi fasti novecenteschi, l’accanimento nella ricerca di forme nuove, specie se animato da una tensione utopica e anti-conciliativa, oggi appare fortemente ridimensionato. Un’analoga sorte incombe sulla nostra memoria letteraria, cioè sull’unica riserva simbolica in grado di assicurare le condizioni di un uso rigenerante dei testi del passato. Date queste premesse, un écrivain — questo il nudo appellativo inciso sulla lapide del Père-Lachaise di Parigi — come Monique Wittig (1935-2003) sembrerebbe il candidato ideale a una ben gracile forma di sopravvivenza culturale, affidata per intero alle premure di una cerchia esclusiva di professionisti della parola in possesso delle chiavi per accedere ai suoi libri.

Se così non è, se l’opera di Wittig non è condannata a vegetare come una pianta da serra, insomma se la vita postuma di un’intellettuale di capitale importanza per la storia femminista e lesbica del Novecento può in qualche modo proseguire e confidare di raggiungerci nell’aperto, lo dobbiamo anzitutto al dinamismo di quel che ancora si muove alla periferia dell’accademia e del mercato editoriale. Appartengono a questa piccola schiera di engagées Eva Feole, specialista di letteratura francese, e la sociologa femminista Sara Garbagnoli, entrambe già autrici di diversi lavori su Wittig e su altre esponenti del femminismo materialista francofono, ai quali oggi si aggiunge Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, da poco pubblicato per la collana essentials di DeriveApprodi.

Con la sua perlustrazione limpida, concisa e solidamente informata delle coordinate entro cui gravita l’opera di Wittig, il volume si presenta nella veste di un’agile introduzione per principianti. Già questo basterebbe a raccomandarlo come esempio di divulgazione di qualità, a maggior ragione in una fase in cui torna di moda riavvicinare le parole “femminismo” e “materialismo”, sebbene resti per lo più eluso il confronto con le autrici (Christine Delphy, Monique Wittig, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet) che per prime si sono poste il problema di estendere all’analisi dell’oppressione patriarcale la strumentazione concettuale del materialismo storico. Ma a favore del libretto depone anche un’altra ragione, meno esteriore e più direttamente legata alle iniziative promosse dalle autrici per restituire centralità al contatto diretto con i testi wittighiani: da ultimo, la conduzione del ciclo di letture Nel cantiere letterario di Monique Wittig, organizzato insieme a Lesbiche Bologna e Some Prefer Cake tra gennaio e maggio 2023.

Non è un merito da poco, per chi si adopera a costruire occasioni di questo tipo, riuscire a riaccendere il piacere del testo senza soccombere all’alternativa rovinosa tra “fruire” e “capire”, all’ombra della quale cova la tentazione di scindere la Wittig poeta dalla Wittig politica, e di salvare l’una a spese dell’altra. Dunque, se leggere Wittig «non è altro che un’esortazione a reinventare il mondo» (MW, p. 12), la fatica che Feole e Garbagnoli le consacrano richiede a propria volta di essere recepita non già come un bignami autosufficiente, ma come un vero e proprio invito al viaggio. Nella consapevolezza che la sollecitazione a prendere il largo, anche da collaudati schemi percettivi e interpretativi, potrà essere effettivamente raccolta a patto di non bruciare in un generico conato decostruttivo le tappe che separano il punto di partenza, ossia la comprensione del funzionamento politico e ideologico del regime eterosessuale, dalla destinazione finale, ossia il superamento delle classi/categorie di sesso prodotte e riprodotte da quel regime.

Ai fraintendimenti ancora sussistenti a questo riguardo, Feole e Garbagnoli dedicano alcune battute introduttive, rimarcando da un lato il paradosso costituito dalle interpretazioni differenzialiste di Wittig (a lungo in voga in area anglofona alla voce French Feminism, ma presenti anche nel contesto italiano) e, dall’altro, l’inadeguatezza delle letture inclini a fare della scrittrice una «prodomica manifestazione delle teorie queer» (MW, p. 10): letture per altro parzialmente condivise, sia pure con giudizio di valore negativo, dalla capostipite francese del pensiero della differenza sessuale, Antoinette Fouque [1]. L’ostilità e l’estraneità di entrambe le correnti, differenzialista e queer, al paradigma materialista entro cui Wittig si inscrive (ed entro cui continuerà a inscriversi anche dopo la tempestosa dissoluzione del collettivo editoriale di Questions féministes) è la principale ragione della difficoltà a cogliere i contorni teorici del suo percorso intellettuale. Wittig non risponde al richiamo delle proliferazioni di genere, perché le sa impotenti a scalfire la tenuta del sistema eterosessuale. Analogamente, non si lascia incantare dalle sirene di una differenza più “originaria” di quella posta dal patriarcato, perché riconosce l’inganno delle ontologie fondamentali che proiettano nell’essere le divisioni gerarchiche create dall’organizzazione sociale.  

Chiariti tali aspetti, le direzioni da seguire vengono individuate da Feole e Garbagnoli attraverso cinque lemmi-chiave illustrati, con gli opportuni riferimenti bibliografici, in altrettanti capitoli. Ultimo in ordine di apparizione — preceduto da «Femminismo materialista», «Pensiero straight», «Cantiere letterario», «Corpo lesbico» — «Cavallo di Troia» è il capitolo da cui suggerirei di cominciare. Avere preliminarmente chiaro cosa voglia dire «ridefinire l’universale, sottraendolo alla confisca fattane dai dominanti» (MW, p. 68) è, in effetti, il modo più spedito per rendersi conto di quale sia la sfida lanciata da Wittig a un tempo — il nostro, più ancora di quello della sua vita — talmente ripiegato su rivendicazioni di “parità nella differenza” da non avvertire nemmeno la contraddizione in termini custodita dallo slogan in questione.

Cavallo di Troia, dunque. Tratta dal secondo libro dell’Eneide, (ri)letta da Wittig nella straniante traduzione francese di Pierre Klossowski, la figura della macchina da guerra ideata dai greci per spiazzare le difese nemiche è l’immagine che, con frequenza crescente a partire dalla fine degli anni Settanta, la scrittrice elegge a metafora privilegiata del proprio fare poetico. Potremmo dire, in forzosa sintesi, che quella del cavallo di Troia è l’immagine deputata a descrivere il movimento dialettico che consente al fare poetico di liberare la propria riserva di energia senza disperderla nell’informe e nell’indeterminazione. Da un lato, si tratta infatti di mettere in crisi le convenzioni letterarie ereditate, a partire dai presupposti che fondano la classificazione canonica dei generi letterari; dall’altro, si tratta di procedere al «rimontaggio dei materiali precedentemente smontati e rilavorati che conduce alla costruzione di un senso nuovo» (MW, p. 67). Sotto questo profilo, l’opera letteraria può agire come una macchina da guerra solo sulla base di un alto grado di intertestualità e di un’esplicita intenzione anti-mimetica nei riguardi dell’ipotesto ripreso nella nuova scrittura. Il modello parodiato, ovvero riplasmato dal punto di vista minoritario, perde così il proprio statuto canonico per diventare materiale da lavoro, sottoposto a nuovi fini. Il «cantiere letterario», lo spazio «al contempo concreto e astratto che coincide con la pagina ancora da scrivere», pur contenendo «tutto ciò che è stato già scritto dagli altri scrittori e scrittrici» (MW, p. 39), altro non che è il luogo adibito alla fabbricazione di quegli avatar del cavallo del Troia che i testi wittighiani ambiscono a essere.

L’enfasi sulla scrittura come lavoro applicato al materiale linguistico e la valorizzazione della metafora militare sono i tratti che, con maggiore evidenza, permettono di distinguere la poetica wittighiana da quell’idea di écriture féminine che, a partire dagli anni Settanta, ha largamente influenzato la percezione del rapporto tra femminismo e letteratura, trasformando il primo in un elogio a oltranza della differenza (cioè in un anti-femminismo che si esplicita come tale a fasi alterne, a seconda delle geografie e delle opportunità politiche) e facendo della seconda una sorta di calco simbolico del corpo sessuato. Diversamente, come sottolineano Feole e Garbagnoli, stanno le cose per Wittig. Da questo punto di vista, la figura del cavallo di Troia si impone, in sede di riflessione meta-letteraria, come un morceau choisi sfilato dal fornitissimo arsenale di strumenti offensivi e difensivi, ordigni e marchingegni bellici che appaiono a cadenza regolare nella fiction wittighiana: ausili indispensabili allo scatenamento di quel «furore così perfetto» messo in scena per significare la violenza necessaria a condurre a buon fine l’«ultima guerra possibile della storia» (G, p. 184/ p. 115).

Difficile, in questo senso, non accorgersi di come la presenza massiccia, nei romanzi wittighiani, di archi, frecce, scudi, carabine, specchi capaci di proiettare raggi micidiali, lancia-razzi, mitragliette e pistole laser richiami, per antitesi, un aspetto costante dei rapporti di dominio patriarcali, vale a dire il sottoequipaggiamento tecnologico che priva le dominate di una capacità di intervento sul mondo estesa al di là delle possibilità e dei limiti del corpo fisico. «Non sarà questa», si chiede l’antropologa Paola Tabet, «una delle condizioni necessarie perché le donne stesse siano materialmente utilizzabili nel lavoro, nella riproduzione, nella sessualità?» [2].

Ecco allora che, per annullare le condizioni della reificazione delle donne e della feticizzazione della differenza sessuale, la pagina di Wittig si popola di armi, in modo tale da suggerire un’associazione stretta fra lotta antipatriarcale, apprendistato letterario ed emersione di quella «nuova dimensione dell’umano» costituita, per la scrittrice francese, dal lesbismo. Ne L’opoponax, per limitarsi a un esempio precoce, il desiderio tra Catherine Legrand e Valerie Borge si nutre senz’altro del dono reciproco di versi inventati o prelevati da poeti come Malherbe, Louise Labé, Leopardi e Baudelaire; ma anche delle tre pallottole di carabina che l’una, già avviata all’attività di tiro, mette in mano all’altra pregandola di conservarle (O, p. 267/p.208).

Il momento dello scambio amoroso delle pallottole si colloca, letteralmente, a un passo dal ciclo epico de Le guerrigliere, dal quale apprendiamo che «quelle che vogliono trasformare il mondo» devono «prima di tutto impadronirsi dei fucili» (G, pp. 120-21/p. 74). Se ci fermassimo al versante più agevolmente riconoscibile della frase, forse non coglieremmo altro che un’eco della retorica maoista dilagante nella Francia post-68. Senonché, in mano a Wittig, i problemi della guerra e della strategia assumono una dimensione di portata decisamente più ampia, definita sempre da una relazione fortissima e, non di pura derivazione, con l’insieme della tradizione letteraria.         

«Alla guerra penseranno gli uomini» è, come si ricorderà, la battuta perentoria che Ettore rivolge ad Andromaca nel sesto libro dell’Iliade, uno degli ipotesti alla base de Le guerrigliere. Con un ribaltamento apparentemente clamoroso, la guerra verrà poi qualificata come «un affare di donne» nella Lisistrata di Aristofane, un altro dei testi a cui Wittig fa esplicitamente allusione. Veicolata dal motivo dello sciopero del sesso, la competenza politica delle donne trova la propria fonte di legittimazione, nella commedia aristofanea, nel contributo da queste offerto alla polis in veste di madri: ragion per cui, spetta alle donne escogitare una soluzione per mettere fine a un conflitto ventennale, quello fra Ateniesi e Spartani, che minaccia la tenuta dell’ordine mandando in rovina le famiglie. Per effetto di un altro rovesciamento, sotto la penna di Wittig la stessa frase, «la guerra è un affare di donne» (G, p. 180/p. 112), assume un significato completamente nuovo che, salvo errori, non ha precedenti nella vicenda delle riscritture della Lisistrata — nemmeno nelle versioni a intonazione femminista [3]. A ridosso dell’esplosione del Movimento di liberazione delle donne in Francia, di cui la scrittrice sarà una delle principali istigatrici, si tratta infatti di legittimare il diritto di elles, l’eroe collettivo della moderna epopea guerrigliera, di partecipare non a una guerra qualsiasi, ma di fare la guerra contro ils per liberarsi dalle condizioni della propria soggezione, porsi come soggetti universali di enunciazione di sé e del mondo e affrancarsi dalla necessità di identificarsi con i simboli che esaltano il corpo frammentato e la specificità femminile, ovvero con l’ultimo legame che le stringe a una cultura morta.  

È, questo, solo uno dei molti campioni che si potrebbero prelevare in vivo per verificare cosa intendono Feole e Garbagnoli quando osservano che, per Wittig, si tratta «di far violenza a una lingua e a una letteratura che strutturalmente fanno violenza ai gruppi minoritari negando loro piena soggettività, di far dire al linguaggio e alla letteratura ciò che non sono fatti per dire: la piena umanità e universalità dei soggetti minoritari» (MW, p. 68). Ma è anche un esempio particolarmente idoneo a illuminare, per contrasto, gli ostacoli che si frappongono non solo alla legittimazione, ma alla stessa concepibilità, del conflitto prefigurato da Le Guerrigliere.

«Pensiero straight» è, nel lessico critico messo a punto da Wittig, l’espressione riassuntiva di tali ostacoli. Solo un’interpretazione superficiale della realtà del dominio, e di quello eteropatriarcale in particolare, potrebbe equipararli alla somma delle opinioni sessiste e dei giudizi svalorizzanti che circolano all’interno della società in un dato momento. Ciò che conta, nella definizione del pensiero straight, non sono i contenuti particolari, ma la forma ideologica di un’interpretazione del mondo rintracciabile tanto nella doxa corrente quanto nel discorso delle scienze umane (strutturalismo e psicoanalisi in primis, ma non solo). E questa interpretazione del mondo, condotta dal punto di vista del dominante, non ha altra funzione fuorché quella di agire come schema di occultamento del conflitto: di nascondere e congelare, a ogni livello, gli antagonismi che innervano la struttura sociale. Se quello fra uomini e donne è il più vulnerabile alla presa mistificante dell’ideologia straight, ciò non dipende solo dall’anteriorità storica del patriarcato rispetto a forme moderne di dominazione, ma dal fatto che i meccanismi concreti di appropriazione delle donne da parte degli uomini offrono un terreno propizio alla credenza nella necessità di un rapporto intimo e permanente fra “diversi” e “complementari”. Si radica qui la resistenza tenace a concepire donne e uomini come classi di sesso, anziché come gruppi naturali.

Nell’universo mitico forgiato dall’ideologia straight, in effetti, non esistono dominanti e dominati, appropriate e appropriatori, maggioritari e minoritari, così come non c’è spazio per la dialettica intesa come coscienza pensante della contraddizione reale. Esistono solo i titolari legittimi dell’universale, da un lato, e, dall’altro, differenze e alterità elevate a qualità intrinseche delle classi oppresse per meglio mascherare i rapporti sociali di dominio. La pacificazione garantita dal pensiero straight è sinonimo di riconciliazione con la disuguaglianza e consacrazione delle gerarchie. Come sottolinea “Wittig” (il personaggio messo in scena in Virgile, non) commentando una scena di prostituzione, la denuncia dell’inferno dell’oppressione, e della devastazione umana che ne scaturisce, sarà sempre, dal punto di vista straight, un’esagerazione imputabile al «flagello lesbico». E, in quanto tale, meritevole di censura (VN, p. 42/p. 42.).   

L’accostamento proposto da Feole e Garbagnoli tra la nozione di «pensiero straight» e quella di «ideologia razzista» elaborata da Colette Guillaumin [4] non è importante solo ai fini dell’individuazione di una delle fonti, del resto dichiarate, del pensiero di Wittig. La sovrapponibilità fra «pensiero straight» e «ideologia razzista» rimanda a un sistema globale di percezione basato su un’idea di natura in virtù della quale ai soggetti oppressi viene imputata una «forma di “determinismo endogeno” operante come causa insita del loro essere» (MW, p. 33). Che cos’è questa, se non la forma tipicamente moderna di legittimazione della pratica sociale della subordinazione, dotata di sufficiente plasticità da applicarsi a diverse possibili espressioni del dominio? Se non ci fossero principi moderni da negare nella prassi, se le deroghe agli universali presentati non necessitassero di una giustificazione compatibile con la salvaguardia formale dei criteri di uguaglianza, che senso avrebbe la scomposizione dell’umanità in un catalogo di alterità inemendabili, differenze essenziali, eterogeneità incommensurabili?

Se il femminismo materialista, nel suo insieme, scopre e mette a tema l’ubiquità di questo dispositivo di giustificazione del dominio, correlandolo di volta in volta agli assetti materiali che lo fondano, e in particolare al persistente regime di appropriazione delle donne da parte degli uomini, Wittig è colei che più di tutte punta a riqualificare il lesbismo come «posizione sociale a partire dalla quale è più facilmente possibile muovere una critica radicale al patriarcato» (MW, p. 51), circostanza che le è valsa il duro ostracismo — l’altra faccia dell’inferno — rappresentato nelle pagine di Virgile, non, del Voyage sans fin e di Paris-la-politique. Resta il fatto che nemmeno l’avversione più caparbia all’utopia perseguita da Wittig può negare il contributo offerto dalla scrittrice al riscatto del lesbismo dalla penombra del folklore sessuale: «Dai corpi delle guerrigliere a quelli delle amanti, passando per il corpo delle protagoniste lesbiche di Virgile, non, il “corpo lesbico” è un corpo scritto e immaginato per costringere chi legge a mettere in discussione la rappresentazione univoca, reificata, passiva, appropriata e straight delle donne e dei loro corpi. Alludendo, come la stessa Wittig fa spesso, alla tradizione evangelica, potremmo dire che il “corpo lesbico” non ha la facoltà di redimere e non libera dai peccati, ma apre a chi legge, e alle donne in particolare, un mondo al di là delle categorie di sesso» (MW, p. 60).

Negli Appunti per un dizionario delle amanti, il libro pubblicato da Wittig insieme a Sande Zeig nel 1976, si legge: «Esistono delle fughe simili alle perdite d’acqua nella coscienza di ogni persona. Le fughe o vuoti di memoria sono l’esempio più frequente. Quante amanti davanti a questa emorragia dei loro ricordi, delle loro informazioni e delle loro conoscenze si sono messe a digiunare. […] Esistono anche fughe di interesse, fughe di sentimenti, fughe di energia, fughe di immaginazione. Esiste anche un’altra sorta di fuga detta “fuga in avanti” che ha il vantaggio di far dimenticare tutte le altre» (B, p. 91/pp. 69-70). Meglio di così non si saprebbe descrivere il viaggio a cui Garbagnoli e Feole ci invitano. Che è tutto, fuorché d’evasione.       

SIGLE

B = Monique Wittig, Sande Zeig, Brouillon pour un dictionnaire des amantes, Grasset, Paris 1976; trad. it. di Onna Pas, Appunti per un dizionario delle amanti, Meltemi, Milano 2020.

G = Monique Wittig, Les Guérillères, Minuit, Paris 1969; trad. it. di Ana Cuenca, Le guerrigliere, Lesbacce Incolte, Bologna 1996 (nuova ed. La Porta Terra di donne, Bologna 2019). 

MW = Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023.

O = Monique Wittig, L’Opoponax, Minuit, Paris 1964; trad. it. di Clara Lusignoli, L’opoponax,Einaudi, Torino 1966.

VN = Monique Wittig, Virgile, non, Minuit, Paris 1985; trad. it. di Rosanna Fiocchetto, Virgilɘ, non, Il Dito e La Luna, Milano 2005.

NOTE

[1] Cfr. Qui êtes-vous, Antoinette Fouque? Entretien avec Christophe Bourseiller, des femmes-Anoinette Fouque, Paris 2009, p. 48: «Ciò che interessava a Monique Wittig era dissotterrare una cultura dell’omosessualità femminile, liberare la lesbica dalla donna. Ma è stato necessario attendere due anni [dal 1968 al 1970] perché si risolvesse a farlo. Ciò l’ha condotta a porre una non-mixité assoluta, una sorta di separatismo, per arrivare a un movimento marcato dal femminismo e dal lesbismo che, in fondo, vuole la scomparsa della parola “donna”, la cancellazione delle donne. Alla fine, emigrerà negli Stati Uniti per teorizzare il suo pensiero e inventare il queer».

[2] Paola Tabet, Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», 19, 3-4, 1979, p. 12; trad. it. «Mani, strumenti, armi», in Ead., Le dita tagliate, Ediesse, Roma 2014, p. 190.

[3] Per una rassegna, cfr. Simone Beta, La donna che sconfigge la guerra. Lisistrata racconta la sua storia, Carocci, Roma 2022.

[4] Colette Guillaumin, L’idéologie raciste. Genèse et language actuel, Mouton & Co, Paris 1972 [Gallimard, Paris 2002]; trad. it. di Sara Garbagnoli, L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, il nuovo melangolo, Genova 2023. 

Colette Guillaumin: pensare le categorie di razza e di sesso, ieri e oggi


di Maira Abreu, Jules Falquet, Dominique Fougeyrollas-Schwebel, Camille Noûs [1]

Traduzione di Sara Garbagnoli

In occasione dell’uscita dell’edizione italiana de L’idèologie raciste. Genèse et langage actuel (1972), curato e tradotto da Sara Garbagnoli per la collana Xenos de “il nuovo melangolo” (L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, Genova, 2023), pubblichiamo la traduzione di questo ricchissimo testo sulla figura di Colette Guillaumin, a firma di Maira Abreu, Jules Falquet, Dominique Fougeyrollas-Schwebel e Camille Noûs. Augurandoci che l’ “effetto Guillaumin” si faccia sentire forte anche in Italia.

L’opera di Colette Guillaumin (1934-2017) è stata un’incessante ricerca cha ha avuto per oggetto l’identificazione, la teorizzazione e la destabilizzazione delle relazioni di potere [2]. In un contesto in cui il prisma di una lettura biologica del mondo sociale non smette di avanzare (Lemerle 2014), in cui i movimenti “anti-gender” che fanno uso di un discorso essenzialista continuano ad attrarre seguaci in numerosi paesi del mondo (Kuhar e Paternotte 2018; Garbagnoli 2020), la pionieristica critica mossa da Guillaumin alle forme di legittimazione naturalistica delle relazioni di razza e di sesso non costituisce solo un fondamentale contributo alle scienze sociali, ma si tratta di un’analisi di grande attualità. Se oggi l’idea che il “naturale” sia costruito dalla cultura si è fatta strada in alcuni campi delle scienze sociali, un tale approccio ha preso forma in un contesto e una lotta nei quali il percorso di Guillaumin è esemplare. La teorica femminista, infatti, non si contentava di partire da “realtà anatomico-fisiologiche su cui innestare addobbi quali ‘ruoli’ o ‘riti’” (2016 [1978], p. 73). Il suo obiettivo era, invece, quello di pensare ai gruppi di sesso e ai gruppi di razza come costituiti da dati rapporti di potere. Il pensiero di Guillaumin è andato elaborandosi in un contesto di fermento politico e teorico in cui molti gruppi minoritari stavano diventando soggetti visibili nella storia oltre che oggetti nella teoria (2016 [1981], 229). Come sostiene Guillaumin, mettere in discussione l’evidenza del naturalismo per pensare le relazioni di sesso è stato il prodotto di una “sintesi tra rivolta, attivismo, analisi e coscienza” (2016 [1981], p. 232). Insieme a Monique Wittig, Nicole-Claude Mathieu, Christine Delphy e Colette Capitan Peter, Guillaumin ha partecipato alla scrittura collettiva della rivista Questions féministes (1977-1980) e all’elaborazione di una teoria femminista radicale/materialista che ha lasciato un segno duraturo nel pensiero femminista francese.[3] Guillaumin ha sempre sottolineato la natura collettiva delle produzioni teoriche e l’importanza per il lavoro intellettuale di una “discussione prolungata e basata su preoccupazioni comuni e su un vocabolario condiviso” (2016 [1992], p. 6). Guillaumin ha partecipato a diversi gruppi informali e a comitati di riviste come Feminist Issues [4] o Le genre humain [5] in cui, come scrive, ha potuto “analizzare la stessa questione” che tanto le teneva a cuore.

I concetti si forgiano in specifici contesti storici, politici e teorici. Collocare le idee nel loro contesto di elaborazione permette di rompere l’illusione del senno di poi e di mostrare che esse sono state la risposta a sfide determinate, oggi sovente ignorate. I testi classici, come sono oggi quelli di Guillaumin, non rispondono alle questioni che dibattiamo nel nostro presente e sarebbe riduttivo analizzarli esclusivamente attraverso il prisma delle nostre attuali preoccupazioni. Tuttavia, se continuiamo a leggere e a pensare con e grazie a Guillaumin, è perché il suo pensiero ci fornisce strumenti per riflettere sul presente, come i buoni classici fanno. Il nostro obiettivo è proprio quello di rendere omaggio ad un pensiero vivo e attuale.

In principio era la razza

Dopo aver studiato psicologia e etnografia alla Sorbona negli anni Cinquanta [6], Colette Guillaumin entra a far parte del Groupe d’Ethnologie sociale [7]. Negli anni Sessanta, vi incontra Nicole-Claude Mathieu e Noëlle Bisseret con le quali collabora alla pubblicazione de La femme dans la société. Son image dans différents milieux sociaux (Chombart de Lauwe et al. 1963). Alla fine degli anni Sessanta inizia a pubblicare sul tema di razza e razzismo. Nel 1969 discute la sua tesi di dottorato [8] intitolata Un aspetto dell’alterità sociale: il razzismo. Genesi dell’ideologia razzista e linguaggio attuale pubblicato nel 1972 (e ripubblicato nel 2002) con il titolo Ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale.

A quell’epoca, gli studi sulla razza e sul razzismo non erano molto sviluppati in Francia. Léon Poliakov scriveva allora che “tutto era ancora da fare nel campo della storia del razzismo” (1961, p. 594). In sociologia, la situazione non era molto diversa: Andrée Michel si era principalmente basata su una bibliografia in lingua inglese per redigere il suo articolo “Tendances nouvelles de la sociologie des relations raciales” (1962). A parte i lavori di Andrée Michel, Georges Balandier, Roger Bastide e Albert Memmi, la questione del razzismo non era affrontata nel campo delle scienze sociali francesi. La situazione ha subito un grosso mutamento alla fine degli anni Sessanta con la creazione del Centre d’études des relations interethniques (Centro di studi sulle relazioni interetniche IDERIC) a Nizza [9], di gruppi informali come il Groupe d’étude d’histoire du racisme (Gruppo di studio sulla storia del razzismo) attorno a Poliakov presso la MSH (Maison des Sciences de l’Homme) e di pubblicazioni come quelle della rivista “Ethnies”. Al di là di quanto prodotto dal mondo della ricerca francese, nel suo lavoro di tesi, Guillaumin ha utilizzato la letteratura anglofona, da Franz Boas a Ruth Benedict, nonché autori anticolonialisti e antirazzisti come Frantz Fanon, Aimé Césaire, Cheikh Anta Diop, James Baldwin e Malcolm X.

Due dei principali contributi de L’ideologia razzista sono stati quelli di mostrare la storicità della categoria “razza” e di “dare una prospettiva sociologica a ciò che solitamente viene affrontato come se fosse un fenomeno biologico” (p.11). La razza era allora per lo più considerata come un “oggetto concreto che interviene come fattore scatenante l’atto razzista” (p. 10). Si pensava, pertanto, che il razzismo fosse causato dall’esistenza delle razze. Alla fine degli anni Trenta, alcuni ricercatori e ricercatrici avevano iniziato ad abbandonare l’evidenza di tale nozione e ad interrogarla. Tuttavia, tale processo non è sfociato nella messa in discussione della categoria “razza”, ma nell’apparizione di una “problematica bipolare cultura/razza” che avrebbe a lungo influenzato il campo della ricerca sulle relazioni razziali. Il lavoro di Guillaumin si inserisce in un altro filone analitico che emerge alla fine della Seconda guerra mondiale e che sposta il focus della questione sulle relazioni tra gruppi. Ciò consente un riesame della categoria di razza e “il riconoscimento del suo carattere di categoria storica e di creazione sociale transitoria” (1977, 11).

Attraverso una disamina storica, Guillaumin comprende, da un lato, che l’“alterità” che caratterizza certi gruppi è solo il riflesso di una distribuzione ineguale di potere e, dall’altro, che la particolarità del razzismo è una “biologizzazione del pensiero sociale che [tenta] con questo mezzo di rendere assoluta ogni differenza osservata o supposta” (Guillaumin 2002 [1972], p. 14). Storicamente recente, l’idea di categorizzare l’umanità in “entità anatomico-fisiologiche chiuse” si è affermata nel corso del XIX secolo in un contesto di profonde trasformazioni sociali: colonizzazione, rivoluzioni borghesi e regime schiavista. Fin dalle sue prime pubblicazioni, Guillaumin sottolinea a più riprese l’importanza di opporsi all’idea di definire il razzismo attraverso l’ostilità o la “negatività”. Il razzismo, infatti, può anche esprimersi attraverso giudizi percepiti come “positivi” (vigore sessuale, senso della famiglia, ecc.). Per Guillaumin, la base del razzismo va cercata altrove: nella naturalizzazione di dati gruppi. Guillaumin dimostra, poi, come l’invenzione dell’“idea di Natura” debba essere intesa come l’aspetto mentale di date relazioni di potere. (Non si tratta ancora del concetto di “appropriazione” che emergerà nel suo lavoro qualche anno più tardi).

Ne L’ideologia razzista, Guillaumin mette in evidenza che uno stesso trattamento è riservato alle diverse “categorie di gruppi alienati e oppressi” in nome di un marchio biologico irreversibile. Tali gruppi sono, pertanto, sono “razzizzati” (Guillaumin 2002 [1972], 17). Per lei, il marchio biologico è il criterio fondamentale della nozione di razza, anche se le categorie investite da questo marchio (ad esempio donne, persone omosessuali, persone operaie) lo sono “secondo schemi diversi” (ibid., p. 12). Pur avendo iniziato la sua analisi con le cosiddette categorie “razziali”, Guillaumin ha gradualmente riconosciuto l’esistenza di “una certa identità di trattamento verbale tra categorie il cui denominatore comune era quello di essere ‘alterizzate’”. Ciò l’ha condotta ad andare oltre le “razze nel senso ordinario del termine” e la percezione del razzismo come insieme di “relazioni ostili tra gruppi rigorosamente definiti come razziali” per includerne altre, come per esempio, le relazioni tra colonizzatori e colonizzati, tra persone straniere e nazionali, ma anche tra donne e uomini (Guillaumin, 2002 [1972], 99). Guillaumin include nel suo studio anche le persone omosessuali in un contesto storico in cui una prospettiva che oggi chiameremmo decostruttivista stava appena emergendo [10].

Estendere il concetto di razza non cancella per Guillaumin le distinzioni tra i diversi tipi di razzismo, ma si concentra piuttosto sui meccanismi comuni di naturalizzazione delle persone razzizzate. Infatti, anche se “ogni gruppo razzizzato ha le sue specificità concrete”, la teorica ritiene che “concentrarsi sulla generalità dei razzismi in una data società – e non sulla specificità di un dato razzismo – ci dia la possibilità di individuare la fonte dell’atto razzista e di definire la specificità di chi razzizza” (Guillaumin 2002 [1972], 18).

Questo approccio estensivo al razzismo non più in vigore nel campo degli studi del razzismo, costituisce un’originalità del pensiero di Guillaumin che meriterebbe maggiore attenzione. Affermare, alla fine degli anni Sessanta che i gruppi che si suppone siano naturali (donne, persone nere, persone musulmane, persone ebree, persone omosessuali) sono, in realtà, il prodotto di relazioni di dominio costituisce una vera e propria rottura epistemologica da diversi punti di vista. Una rottura con il naturalismo dominante negli studi su donne, persone nere, persone musulmane, persone ebree, persone omosessuali. L’idea che le categorizzazioni non siano il prodotto di un’esistenza biologica, ma che siano una costruzione sociale e storica e che la loro presunta evidenza serva solo a nascondere relazioni di dominio, stravolge le certezze delle teorie certamente anti-essenzialiste, ma che non spingono la loro critica fino a una rottura radicale con la concezione naturalista di questi “gruppi”. In secondo luogo, si tratta, poi, di una rottura con gli approcci che riconducono tutte le forme di dominio alle relazioni di classe, a una “sovrastruttura” o a un problema di “mentalità”. Sin dai suoi primi scritti, Guillaumin, si oppone a questo tipo di analisi. Se la razza e il sesso sono intesi come prodotti di dati rapporti sociali, questi ultimi non si riducono ai rapporti sociali di produzione. Pensare a una separazione, a livello analitico, tra relazioni di classe e relazioni razziali apre la possibilità di concepire altre forme di dominio in modo diverso, come suggerito da una recensione all’epoca della prima edizione de L’ideologia razzista:

I concetti di “classe sociale”, “lotta di classe” e “imperialismo” perdono forse qui un po’ della loro troppo spesso mantenuta opacità. E il concetto di “potere” sembra assumere un nuovo significato. Potrebbe essere il preludio di un canto diverso da quello funebre di una certa dominazione? (Moreau de Bellaing 1973, p. 206).

Insieme a Guillaumin, Moreau de Bellaing faceva parte di un gruppo si studio informale, il “Laboratoire de sociologie de la dominance” (LSD), che comprendeva anche Colette Capitan-Peter e Nicole-Claude Mathieu. Questo gruppo, esistito per circa dieci anni, focalizzava le ricerche su una problematica “interamente centrata sull’analisi dei sistemi gerarchici e di dominazione” ed era un “luogo di discussione appassionata e inventiva” (Guillaumin 1992, p. 5).

Questi nuovi approcci proposti da Guillaumin implicano nuovi concetti. Il pensiero antirazzista e femminista aveva bisogno di creare nuove parole, nuove categorie per nominare ciò che non poteva essere nominato dal linguaggio dominante. Le recensioni de L’ideologia razzista accolgono con favore questo sforzo: Poliakov associa “l’elaborazione di una tesi radicalmente nuova” a questa necessità di forgiare nuovi concetti (1973, 94). Moreau de Bellaing osserva che l’autrice ha dovuto “forgiare nuovi concetti o rinnovare quelli vecchi che rendono possibile la spiegazione: razzizzante/razzizzato, categorizzante/categorizzato, maggioritario/minoritario. Concetti che non hanno nulla di oscuro poiché il loro significato è espresso dalla dimostrazione che li mette in atto” (1973, 205). Alcuni di questi concetti, che non esistevano o erano stati precedentemente definiti in altri modi, sono poi entrati a far parte del vocabolario quotidiano delle scienze sociali. L’ideologia razzista ha avuto un impatto duraturo sulla riflessione sul razzismo. All’inizio degli anni ‘90, Véronique de Rudder ha affermato che “tutte le analisi contemporanee del razzismo fanno riferimento al lavoro di Guillaumin, e nessuna ricerca seria può farne astrazione” (1991, 78). Da allora, le ricerche sul razzismo si sono sviluppate in modo considerevole e l’opera di Guillaumin ha contribuito certamente a questo ampliamento della ricerca.

La creazione della teoria del sessaggio

Natura-l-mente [11]

Negli anni Cinquanta e Sessanta, sulla scia di Simone de Beauvoir, una generazione di intellettuali e teoriche scrive sulla “questione” o sulla “condizione” delle donne (Chaperon 2001). Un po’ più giovane delle donne di questa generazione, Guillaumin discute la sua tesi di dottorato prima dell’emergere della cosiddetta “seconda ondata” del femminismo. Ne L’ideologia razzista, i suoi riferimenti femministi erano Andrée Michel, Simone de Beauvoir, Evelyne Sullerot, Betty Friedan e Ruth Benedict. Si trattava di un periodo storico caratterizzato dall’emergere di approcci antinaturalisti alle categorie di sesso e razza. Si cercava, infatti, di dissociare biologia e cultura, di allontanarsi da un nesso obbligato tra sesso biologico e “femminilità”. Tuttavia, come ha scritto Nicole-Claude Mathieu all’inizio degli anni Settanta, rispetto alla categoria di sesso nelle ricerche sociologiche permaneva un’ambiguità, dato che sociologia e biologia non venivano disgiunte completamente: “i sessi come prodotto sociale di dati rapporti sociali non erano – cioè – oggetto di riflessione” (Mathieu 1973, p. 101). Sebbene molti lavori pubblicati nel corso degli anni Sessanta si basassero sull’idea che “non si nasceva donna, lo si diventava”, e che non esisteva una corrispondenza obbligatoria tra sesso biologico e “sesso sociale” o genere, il sesso continuava a essere inteso come un dato di natura. La rivista Questions féministes rompe con questo approccio. Estendendo la critica del femminismo rivoluzionario, l’approccio difeso dal collettivo considerava “uomini” e “donne” come delle categorie storicamente costruite, la cui eliminazione sarebbe stata possibile distruggendo il sistema che le costituiva:

donne = classe sociologicamente definita in (da) un rapporto materiale e storico di oppressione, ma la cui oppressione è a sua volta ideologicamente legata dal gruppo dominante a una cosiddetta determinazione biologica della classe oppressa (determinazione biologica che riguarda solo quest’ultima) (QF 1977, p.16).

Delphy, Mathieu, Capitan Peter, Plaza, Lesseps, Hennequin e Wittig hanno elaborato questa critica pionieristica al concetto di sesso, che costituisce una svolta nel pensiero femminista. Guillaumin vi ha dato un contributo importante, basandosi sul suo lavoro sulle persone razzizzate e sull’idea di natura applicata ai gruppi sfruttati.

Tra il   1975 e il 1976, Guillaumin partecipa al gruppo “Categorie di sesso e categorie di classe/Economic Relations in Domestic Groups” [12], che riunisce alcune teoriche che costituiranno la base di Questions féministes e varie femministe inglesi (alcune delle quali partecipano al dibattito sul “lavoro domestico”). Guillaumin vi presenta una prima versione del suo testo “Pratica del potere e idea di natura”.

Questo gruppo è stato creato nel 1975 ed è collegato, da parte francese, alla Maison des Sciences de l’Homme e, da parte inglese, al Social Science Research Council (Londra). È composto da ricercatrici inglesi e francesi come Diana Barker [Leonard], Leonore Davidoff, Jalna Hanmer, Jean Gardiner, Hilary Land, Maxine Molyneux, Jane Shaw e Anne Whitehead per la parte inglese; Noëlle Bisseret, Colette Capitan-Peter, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Emmanuelle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e Ursula Streckeisen per la parte francese.

La creazione della rivista Questions féministes, nel 1977, è stata una risposta a un contesto particolare. La stampa femminista viveva, soprattutto a partire dal 1974, una fase di grande effervescenza. Tuttavia, i giornali femministi avevano la tendenza a pubblicare testi brevi [13]: “spesso rifiutati, i testi più lunghi erano accettati solo da alcune riviste come Les temps modernes” (Delphy s.d., p. 1). Questions féministes nasce, così, per rispondere a questa necessità di uno spazio di discussione teorica. Ma non uno spazio qualsiasi: in quanto “rivista teorica femminista radicale”, QF è ancorata a una prospettiva che si oppone tanto agli approcci femministi essenzialisti/differenzialisti che alla corrente femminista cosiddetta “lotta di classe”.

Il concetto di sessaggio

Uno degli elementi chiave dell’analisi femminista degli anni ‘60 e ’70, tanto negli scritti militanti che nella ricerca teorica, era l’affermazione che i rapporti tra i sessi sono politici. Il primo atto del paradigma teorico delle femministe radicali è la definizione delle donne come una casta, come una classe. Non è il sesso biologico o la maternità – come invece sosteneva Shulamith Firestone (1972 [1970]) – a fondare le classi di sesso, né la sessualità – come riteneva Kate Millet (1971 [1970]) -, ma una relazione di appropriazione che Guillaumin aveva definito “sessaggio” (2016 [1978]). Guillaumin estende la proposta femminista dominante dell’epoca secondo la quale il lavoro gratuito delle donne in seno alla famiglia costituisce la base dell’oppressione e dello sfruttamento delle donne (Dupont [Delphy] 1970; Collettivo italiano 1976). Guillaumin dimostra, infatti, che “il matrimonio è solo la superficie istituzionale (contrattuale) di una relazione generalizzata: l’appropriazione di una classe sessuale da parte dell’altra. Una relazione che riguarda entrambe le classi nel loro insieme e non una parte di ciascuna di esse come potrebbe suggerire la considerazione del solo contratto matrimoniale”. Ma il matrimonio, in quanto forma privata di appropriazione, contraddice l’appropriazione collettiva. “Se [il matrimonio] esprime e limita il sessaggio, restringendo l’uso collettivo di una donna e passando questo uso a un solo individuo, esso priva allo stesso tempo gli altri individui della sua classe dell’uso di questa determinata donna.” (Guillaumin 2016 [1978], pp. 38-43).

Il rapporto di sessaggio si riferisce all’appropriazione delle donne, del loro corpo, del loro lavoro e dei frutti del loro lavoro, un rapporto sociale che implica il mantenimento fisico, emotivo e intellettuale degli esseri umani. Tale mantenimento è effettuato al di fuori dell’economia salariale, in famiglia e/o in altre istituzioni. Diversi mezzi assicurano il mantenimento dell’appropriazione di classe delle donne da parte degli uomini: il mercato del lavoro, dove il salario delle donne rimane inferiore a quello degli uomini, il confinamento spaziale, la dimostrazione di forza da parte degli uomini (percosse), la coercizione sessuale, l’arsenale giuridico e il diritto consuetudinario (Guillaumin 2016 [1978]: 38-43).

Nella teoria del sessaggio, non è solo la forza lavoro delle donne a essere accaparrata, ma la sua origine, il corpo delle donne come serbatoio di forza lavoro (2016 [1978], p.19). Guillaumin è particolarmente attenta alla dimensione ideologica dell’oppressione delle donne: il rapporto materiale di appropriazione e l’effetto ideologico sono pensati come due facce dello stesso fenomeno, l’effetto ideologico (o “lato ideologico-discorsivo” o “discorso della natura”) ne costituisce la sua “forma mentale” (2016 [1978], Parte II: Il discorso della natura). L’autrice mostra così “che i concetti non sono distinguibili dalle relazioni sociali: sono essi stessi una relazione sociale. Non che concetti, idee e teorie siano ‘riflessi’ – considerarli in questo modo non significherebbe altro che lasciare irrisolto il problema dell’origine dei fenomeni mentali dell’“ideologiaˮ. Piuttosto, sono la dimensione mentale di relazioni concrete” (2016 [1981], pp. 216-217, corsivo nel testo) [14]. In questa prospettiva, le analisi di Guillaumin pongono un forte accento, sia empirico che teorico, sulla dimensione corporea che riguarda le pratiche sociali. In numerosi passaggi Guillaumin descrive e analizza approfonditamente il modo di muoversi delle donne nello spazio, sottolineando il ruolo del linguaggio e delle modalità di apprendimento differenziate tra uomini e donne (giochi, atteggiamenti, abbigliamento, ecc.) (Guillaumin, 2016 [1978 e 1992]).

Inoltre, lavorando molto precisamente sul significato del linguaggio, Guillaumin mette in guardia dall’utilizzare il termine “patriarcato” in un senso molto generale, facendone un equivalente di qualsiasi forma di dominio maschile e insiste sul suo contenuto storico ed etnologico (1979). Così, la definizione delle classi di sesso come classi antagoniste non è coestensiva a quella di patriarcato: “la nozione di patriarcato designa una modalità particolare, una variante storicamente e geograficamente delimitata del dominio maschile.” (2017 [1998]). Questa distinzione tra l’identificazione di un rapporto sociale di dominio tra i sessi e le varie modalità che questa relazione assume, è ben lungi dall’essere presa in considerazione dalle critiche più comuni alla teoria del sessaggio tacciata di essere un approccio non storico alle relazioni tra i sessi.

Ricezione della teoria del sessaggio

Tra le prime ad aver criticato la nozione di sessaggio figura la sociologa Irène Théry che in un articolo pubblicato sulla Revue d’en face (1981) [15]. si oppone alla concettualizzazione in termini di “classe di sesso”. L’uso per i rapporti tra i sessi della categoria marxiana di classe viene denunciato come “riduzionismo economicistico”. Per Théry, la teoria femminista materialista non sarebbe in grado di rendere conto delle varie contraddizioni nelle relazioni tra uomini e donne e ridurrebbe l’analisi della sessualità e della procreazione a meri rapporti di produzione. La confutazione dell’antagonismo tra i sessi è uno dei nodi centrali della controversia. Théry rifiuta, poi, di tracciare un parallelismo tra donne sposate e prostituzione come, invece, fa un’analisi della sessualità come uso fisico del corpo delle donne da parte degli uomini. Appaiono già da allora in filigrana le fratture, più o meno profonde, che dividono i diversi movimenti femministi rispetto all’analisi della prostituzione.

Negli anni Settanta e Ottanta, emerge all’interno delle teorie femministe un’altra critica, riguardante ora la natura dei legami tra produzione domestica e produzione capitalistica, l’articolazione del sistema patriarcale e del sistema capitalistico. Questi dibattiti, con toni più o meno accademici, sono stati cruciali per definire strategie o alleanze in seno ai movimenti femministi e hanno all’epoca dato origine a diverse pubblicazioni [16]. Nell’ambito degli studi femministi, gli anni ‘80 hanno visto le prime forme di istituzionalizzazione della ricerca femminista e sulle donne. La creazione in Francia della rete APRE (Atelier/Produzione/Riproduzione) presso il CNRS rispondeva a un desiderio di scambio, di confronto teorico e metodologico [17]. Tuttavia, l’emergere di uno sforzo collettivo mirante a consolidare una concettualizzazione dei rapporti tra i sessi non cancella la grande diversità di approcci presenti. Tra questi, una serie di analisi cerca di prendere le distanze da approcci che privilegiano la relazione di classe tra i sessi rispetto ad altre relazioni sociali, in particolare quelle di classe socio-economica. In tale ottica, le relazioni di sesso non sono un sistema, non sono autonome, ma sono sempre articolate con altre relazioni sociali – di classe, di generazione. Si esprimono nell’intero spazio sociale, nel lavoro, nell’occupazione, nella scuola, nella famiglia, nello Stato e nelle politiche sociali. La promozione del termine “rapporti sociali di sesso” si impone progressivamente in Francia al fine di prendere le distanze dalle analisi in termini di “classi di sesso” (Battagliola et al. 1986; Tahon 2004; Haicault 2000).

In Québec, tuttavia, due sociologhe, Danielle Juteau e Nicole Laurin, hanno usato le analisi di Colette Guillaumin per portare alla luce le trasformazioni in corso del sistema salariale. Secondo loro, non si tratta tanto di vedere una contraddizione tra sessaggio e rapporto salariale, quanto di cogliere una trasformazione del sistema di sessaggio attraverso una generalizzazione delle forme di appropriazione collettiva da parte delle istituzioni statali e capitalistiche. Basandosi sull’ipotesi che l’appropriazione collettiva avvenga nel contesto di particolari relazioni interindividuali tra uomini e donne oltre che nel contesto di relazioni istituzionali generali, le due sociologhe leggono le differenziazioni e le discriminazioni che si manifestano nell’occupazione femminile come espressione della relazione di classe del sesso nell’ambito del lavoro salariato. Le trasformazioni contemporanee del lavoro salariato sarebbero proprio un’espressione dell’appropriazione collettiva, sottolineando, così, l’importanza delle forze patriarcali che si esercitano in seno al mercato del lavoro (Juteau e Laurin 1988). Questo lavoro, nato da un testo discusso al convegno internazionale APRE (appena citato in nota), stabilisce i legami tra l’analisi di Guillaumin e le ricerche sull’articolazione tra relazioni sociali di sesso, classe, generazione ed etnia.

Possiamo, così, affermare che, salvo rare eccezioni, il concetto di sessaggio è poco discusso dagli studi femministi in questo momento: parlare di classe di sesso e designare tanto fortemente la dipendenza delle donne dagli uomini pensandola sotto forma di appropriazione e di riduzione allo stato di cose resta senza alcun dubbio un tabù (Guillaumin 1979) [18]. L’articolo “Donne e teorie della società: osservazioni sugli effetti teorici della collera delle oppresse” (2016 [1981]), pubblicato da Guillaumin sulla rivista quebecchese Sociologie et sociétés, è stato letto e studiato in Francia solo nella seconda metà degli anni Novanta. Negli anni ‘80 e ‘90, Colette Guillaumin ha pubblicato regolarmente su alcune riviste: Le genre humain, Pluriel, L’homme et la société, Sexe et race, Discours et formes d’exclusion au XIXe et XXe siècle [19]. È stato soprattutto il suo lavoro sul razzismo ad essere studiato nelle università francesi nell’ambito degli studi delle relazioni interetniche (in particolare nel laboratorio URMIS – Unità di ricerca sulle migrazioni – dell’Università di Nizza e dell’Università di Parigi Diderot) [20].

Ripubblicazione e riscoperta

A partire dagli anni ‘90, si è diffuso in Francia l’uso del concetto di genere attraverso soprattutto saggi in lingua inglese e, in particolare, a seguito della pubblicazione, da un lato, dell’articolo di Joan Scott “Il genere come utile categoria di analisi storica” che ha toccato un vasto pubblico (Scott, 1988 [1986]) e, dall’altro, del lavoro di Judith Butler (2005 [1990]). Il movimento femminista francese conosce in quel momento un momento di nuovo vigore che trova la sua espressione nella grande manifestazione del 25 novembre 1995 organizzata sfruttando lo slancio politico che veniva da un massiccio sciopero e a seguito dell’effetto prodotto dalla Conferenza mondiale sulle donne organizzata quell’anno dalle Nazioni Unite a Pechino che ha spinto il femminismo verso prospettive più istituzionali, prime fra tutte quelle di una “parità” definita in termini essenzialisti e quella di una concezione della nozione di genere dettata da canoni onussiani [21]. La pubblicazione nel 1991 di una raccolta di saggi e articoli di Nicole-Claude Mathieu (2013 [1991]) e poi, nel 1992, di testi di Guillaumin (2016 [1992]) con il sostegno dell’ANEF (Associazione Nazionale di Studi Femministi, appena creata nel 1989) si sono rivelate fondamentali per rendere questi testi femministi accessibili alle nuove generazioni, in un momento in cui gli insegnamenti su donne, sesso e genere erano in fase di grande rinnovamento [22]. Nel 1995, una selezione di articoli di Guillaumin preceduti da un’importante prefazione di Danielle Juteau è stata pubblicata in inglese dalla celebre casa editrice Routledge, mostrando l’ampiezza del lavoro della teorica e la sua trasversalità rispetto agli ambiti femministi e a quelli delle relazioni interetniche. Se dagli anni Ottanta gli articoli pubblicati in Questions féministes sono stati pubblicati anche in inglese sulla rivista Feminist Issues, la loro riedizione per un pubblico più ampio è stata importante: proprio in quest’ottica, Danièlle Juteau scrive il suo rilevante saggio introduttivo che ricostituisce con grande rigore i diversi contesti storici e politici in cui i testi di Guillaumin sono stati scritti.

È stato soprattutto all’inizio degli anni 2000, quando i virulenti dibattiti sulla questione dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche stavano attraversando la società francese e il movimento femminista dell’epoca, che il lavoro di Guillaumin ha ricevuto una nuova attenzione da parte degli studi femministi in Francia. In università, le analisi che usano il concetto di genere si sono andate progressivamente sviluppando toccando uno spettro disciplinare più ampio e beneficiando di un sostegno istituzionale rafforzato (Fougeyrollas-Schwebel et al. 2003). In un tale contesto, una nuova generazione di ricercatrici e ricercatori comincia ad occuparsi di oggetti di ricerca riguardanti le questioni di genere. Si dibatte, conseguentemente, dell’esistenza di una nuova e “terza ondata” di femminismo (Lamoureux 2006). In concomitanza, si moltiplicano le analisi sull’articolazione tra dominazioni sessiste e razziste che suscitano la traduzione in francese di testi del black feminism [23]. Allo stesso tempo, l’associazione studentesca femminista EFIGIES, creata nel 2003, organizza nel maggio del 2005 le sue prime giornate di studio dedicare al tema “Il genere all’intersezione di altre relazioni di potere”. Questa iniziativa, che si iscrive in continuità col lavoro di Colette Guillaumin e vuole esserne un omaggio, rappresenta per molte studiose, ricercatrici e studentesse, il primo incontro con le sue pubblicazioni.

Letture contemporanee di Guillaumin

Oggi, quindici anni dopo, la società francese è cambiata dal 2005. La presenza e la visibilità delle persone provenienti da migrazioni post-coloniali sono aumentate e il razzismo e l’islamofobia sono diventati sempre più virulenti. Gli studi sul genere e sulla sessualità hanno progressivamente guadagnato molta legittimità, ma sono ormai parte di un’università neoliberalizzata in cui la competizione e la pressione a distinguersi attraverso la produzione accademica sono sempre più esacerbate. Il paradigma dell’intersezionalità si è notevolmente sviluppato sia in ambito accademico che in ambito militante (Dorlin 2005; Palomares e Testenoire 2010; Davis, 2015). L’intersezionalità è diventata una nozione aperta e flessibile nei suoi significati e nei suoi usi al punto che il suo senso può essere vago e essere ormai impiegata da un considerevole numero di attori sociali. Questo fenomeno è stato definito e studiato da alcune ricercatrici femministe come una sua forma di “sbiancamento” (Bilge 2015) e i suoi usi possono esorbitare il campo delle stesse persone razzizzate (Aït Ben Lmadani e Moujoud 2012). Oggi l’intersezionalità è diventata lo strumento e il sinonimo della volontà di articolare razza e sesso, strumento usato per de-invisibilizzare razzismo, persone razzizzate e, soprattutto, donne razzizzate. Per questo motivo, anche quando lascia in ombra le questioni di classe (e in particolare l’analisi del modo di produzione capitalista) [24], il paradigma intersezionale appare comunque utile, dal momento che il femminismo francese soffre di un notevole ritardo nell’ambito delle questioni di razza e razzismo. Contemporaneamente, le prospettive queer e più recentemente trans*, nella loro grande varietà (comprese le analisi queer e trans di colore) hanno acquisito un peso di rilievo nell’attivismo e nell’università. Esse mirano a mettere in discussione il binarismo quanto mai riduttivo “dei generi” e la naturalità del sesso. Infine, le prospettive decoloniali latinoamericane e caraibiche, tradotte in francese ancora più recentemente, affermano che il genere stesso sarebbe un’imposizione coloniale che ha dicotomizzato – su un modello occidentale – società molto più complesse (Lugones 2019 [2008]). Le tante novità di questo contesto ci portano, ora, a fornire elementi per chiarire ciò che, leggendo Guillaumin, può oggi apparire talvolta problematico. Cercheremo, così, di dissipare aspettative anacronistiche e alcune forme di fraintendimento storico [25], per meglio evidenziare le specificità della sua opera e il suo interesse attuale.

Sulla “classe delle donne” e l’“analogia” tra sesso e razza

In passato criticato per riaffermare la preminenza delle classi sociali, il concetto guillauminiano di “classi di sesso” è ora criticato perché sarebbe omogeneizzante e binario. La prima critica (l’omogeneizzazione) è riferita alle differenze o, meglio, agli antagonismi legati alla razza. Eppure, nelle sue analisi Guillaumin non omogeneizza mai le donne, né ignora la diversità delle loro situazioni che derivano, in particolare, dall’appartenenza a vari gruppi razziali, come ha ben analizzato Juteau (2010; 2015). Un testo del 1977 mostra che Guillaumin coglie finemente gli “effetti incrociati” del sesso e delle diverse posizioni di razza in relazione all’attività-lavoro. Analizziamo il seguente estratto:

Nel 1977 in Francia, ad esempio, se ci si trova di fronte a una donna, ci si trova sicuramente di fronte a una persona che svolge un lavoro domestico gratuito, e probabilmente anche a una persona non retribuita, o talvolta retribuita, che pulisce fisicamente i bambini e le persone anziane, in famiglia o in strutture pubbliche e private, ed è molto probabile che ci si trovi di fronte a una di quelle persone che lavorano pagate al salario minimo (se non meno), che sono donne (Guillaumin 2016 [1977], pp. 180-181).

Aggiunge:

Nel 1977, in Francia, se vi trovate di fronte a un uomo “di origine mediterranea” – e non uso volutamente un termine nazionale, perché la nazionalità non c’entra, mentre la regione del mondo è determinata… – è probabile che vi troviate di fronte a uno di questi lavoratori con un tipo di contratto specifico o addirittura a un lavoratore che può non averne affatto e, forse, nemmeno un permesso di soggiorno, qualcuno che lavora più ore degli altri lavoratori, e questo nell’edilizia, nelle miniere o nell’industria pesante. Nel 1977, se ci si trova di fronte a un uomo o a una donna afroamericani, è probabile che ci si trovi di fronte a qualcuno impiegato nel settore terziario, soprattutto nell’ambito dei servizi: ospedali, trasporti, comunicazioni, a qualcuno impiegato nel servizio pubblico (Guillaumin 2016 [1977], pp. 181-182).

E a seguire:

Nel 1977 in Francia, se ci si trova di fronte a una donna “di origine mediterranea”, è probabile che ci si trovi di fronte a una persona che lavora anch’essa nei servizi, ma non nel settore pubblico, nel settore privato questa volta, individualizzato (un datore di lavoro individuale) o collettivo (un’azienda): donna delle pulizie, badante, sguattera, etc.Che ci si trovi di fronte a una persona che svolge lavoro domestico extra-familiare (come donna “di origine mediterranea”) per un salario subalterno e lavoro domestico familiare (come donna) gratuitamente, etc. (Guillaumin 2016 [1977], pp. 181-182).

Questa citazione, molto densa, ricorda la successiva, e molto approfondita, analisi di Evelyn Nakano Glenn (1992) sulla distribuzione delle posizioni occupazionali per razza e sesso negli Stati Uniti. Guillaumin, certamente, non affronta direttamente la conflittualità intracategoriale all’interno delle classi di sesso. Ne è ben consapevole, ma la colloca principalmente nel contesto delle “opposizioni politiche” (torneremo sulla questione). Notiamo già che, a livello politico, Guillaumin ha partecipato attivamente a diversi conflitti all’interno del movimento femminista, posizionandosi in particolare contro l’essenzialismo espresso dal gruppo “Psicoanalisi e politica”. Sul piano teorico, ricordiamo che le canoniche analisi marxiste di classe non impediscono in alcun modo di cogliere il conflitto che attraversa le diverse frazioni di classe. Altrimenti Gramsci non avrebbe mai potuto teorizzare l’egemonia. Pertanto, pensare con Guillaumin che esista una classe di donne non obbliga a omogeneizzarla, né a negare le opposizioni di interessi al suo interno come hanno sostenuto Moujoud e Falquet (2010) in una loro ricerca sulle lavoratrici domestiche e sui loro datori di lavoro.

La seconda critica contemporanea mossa al pensiero di Guillaumin riguarda l’eventualità che pensare in termini di classi di sesso produca un problematico “binarismo” che rischierebbe di avallare l’idea naturalista secondo cui le disuguaglianze di sesso siano in ultima analisi il risultato di un dimorfismo sessuale, ignorando, così, o condannando la molteplicità dei corpi e le diverse espressioni di genere. Una simile critica nasce, tuttavia, da un fraintendimento rispetto alla definizione di “rapporti sociali” che si collocano a un livello di analisi diverso dalle relazioni sociali, confondendone gli effetti e la logica. Il binarismo è, infatti, il “risultato” dell’antagonismo (che implica la creazione di “differenti-altri-inferiori”), antagonismo a sua volta creato dal rapporto sociale di appropriazione (causa). Per questo, la lotta deve mirare all’abolizione dei rapporti sociali di potere (che sono problematici in sé e tendono effettivamente a omogeneizzare il gruppo minoritario) e non a produrre o coltivare la molteplicità all’interno delle diverse classi di sesso, una molteplicità empirica che è molto reale, ma che di per sé non pone fine al sistema. Lo spiega bene Wittig (2001 [1980]) che, in questo, si rifà esplicitamente a Guillaumin per dire che l’esistenza del lesbismo (e non dell’omosessualità femminile) come “luogo terzo” (al di là del maschile e del femminile, al di là degli uomini e alle donne) dimostra la falsità dell’ideologia binaria dominante. Tuttavia, per Wittig, come per Guillaumin, non si tratta di riferirsi al costituirsi delle lesbiche come gruppo identitario con l’unico scopo di condurre una vita separata o di sovvertire le mere (etero)norme, ma piuttosto del loro attaccare con tutte le loro forze e “collettivamente” l’ideologia della differenza sessuale (il “pensiero straight”), aspetto mentale di una “formazione sociale” basata sui rapporti di sessaggio.

Un terzo tema che interroga il lavoro di Guillaumin è quello dell’analogia tra sesso e razza. Analogia è un termine che pone una vera e propria difficoltà semantica poiché può significare “parentela, somiglianza” e consentire paragoni pedagogici ed euristici, ma anche essere connotato in senso peggiorativo se si riferisce a correlazioni affrettate o inoperanti, quando non false. Nell’ambito delle relazioni di razza, la questione è scottante viste le analogie così spesso fatte negli Stati Uniti, prima nel XIX secolo, tra schiavitù e matrimonio e poi, una volta ottenuta l’abolizione, tra razzismo e sessismo, e considerate le potenti critiche delle donne e femministe nere americane contro queste analogie. In particolare, tali militanti hanno sottolineato l’ingenuità di tali analogie di fronte alle terribili realtà vissute dalle persone schiave e si sono rammaricate del fatto che esse abbiano portato all’usurpazione della legittimità delle lotte abolizioniste e antirazziste a favore delle lotte di donne maggioritariamente bianche, impedendo di pensare in modo accurato una di queste realtà, quando non entrambe. Soprattutto, a partire dalla famosa frase attribuita a Sojourner Truth (1851), le femministe nere americane hanno sottolineato la difficoltà di pensare attraverso il prisma dell’analogia alla situazione di persone che sono razzializzate e femminilizzate come ci ricordano Bentouhami e Guénif (2018). Il malessere permane da allora, anche se non possiamo applicare meccanicamente le critiche delle femministe nere americane ai movimenti sociali francesi e alle tradizioni teoriche antirazziste e femministe che derivano da differenti storie schiavistiche, coloniali e migratorie [26]. La duplice influenza del marxismo e dello strutturalismo francese contribuisce, infatti, a collocare Guillaumin “altrove”. Questo vale soprattutto perché, come abbiamo visto, Guillaumin propone un’analisi approfondita del razzismo basata non solo su diversi sistemi di schiavitù coloniale che vanno oltre al caso degli Stati Uniti e includono i Caraibi, ma anche sull’antisemitismo e sulle migrazioni dall’area mediterranea. In questo senso Guillaumin non mette in relazione il sesso (che sarebbe la variabile centrale) con un razzismo superficialmente inteso e confuso con la schiavitù di piantagione americana, ma trae dall’analisi del razzismo riflessioni globali sull’alterizzazione.

Ecco perché l’affermazione di Delphine Naudier e di Eric Soriano (2010) secondo cui Guillaumin avrebbe praticato un’analogia “virtuosa” perché pedagogica si presta a un fraintendimento, visto Guillaumin non formula il tipo di analogia denunciato dalle femministe afroamericane. Notiamo innanzitutto che Guillaumin utilizza i termini “parentela”, di “avvicinamento” possibile tra sessaggio e schiavitù e non quello di “analogia”, essendo molto critica nei confronti della “modalità di approccio che sottende costantemente il ‘pensiero d’ordine’ nel suo rifiuto di analizzare i processi di cambiamento” (Guillaumin 2016 [1978], p. 161). Il pensiero di Guillaumin è anche lontano da una visione antistorica e lacrimevole che farebbe della schiavitù “il senso comune dell’orrore”: si basa invece sull’analisi sociologica e politica di fatti storici. Soprattutto, invece di collocare “classe” e “razza” secondo un’immagine speculare, Guillaumin riflette su un insieme di regimi sociali che comprendono la servitù della gleba, il sistema delle caste e un insieme circostanziato di diverse logiche di schiavitù [27]. Il suo obiettivo è infatti quello di individuare, a monte di questi sistemi variegati e correlati, una logica globale che chiama “la pratica del potere e l’idea di Natura, o i rapporti di appropriazione”.

Pensare le donne razzizzate, pensare l’articolazione dei rapporti sociali di sesso e di razza

Passiamo ora alla questione del “punto cieco” della teoria del sessaggio, ovvero all’idea che tale teorizzazione sia stata pensata principalmente dal punto di vista delle donne bianche (occidentali, di classe privilegiata) e che, di fatto, descriva solo la loro situazione. Esaminiamo una per una le espressioni di appropriazione formulate da Guillaumin: le donne razzizzate non sarebbero appropriate nel loro tempo, nei loro corpi, nei prodotti dei loro corpi, non sopporterebbero il peso della violenza fisica e sessuale della classe sessuale antagonista, non si farebbero carico del peso fisico dei membri invalidi e validi della società? Se guardiamo, ora, ai mezzi della loro appropriazione: non sono forse spinte ai margini del mercato del lavoro, confinate nello spazio, mantenute ai bordi della società da una serie di violenze fisiche e sessuali, vincolate dal diritto consuetudinario e positivo? Non possiamo che concludere affermando che il concetto di sessaggio è assolutamente applicabile alle donne razzizzate. Inoltre, è sufficientemente aperto da consentire l’analisi di una serie di trasformazioni avvenute dopo la sua prima formulazione. Per esempio, la nozione di “confino nello spazio” può essere utilizzata per pensare le restrizioni statali alla mobilità delle donne attraverso le politiche migratorie come suggerito da Jules Falquet rispetto all’eterocircolazione delle donne (2011) o come propone Estelle Miramond analizzando le logiche della “lotta alla tratta” di giovani donne del Laos.

Certamente, le donne razzizzate, nella loro grande diversità, sono appropriate in modo diverso dalle donne razzizzanti, così come dagli uomini razzizzati, è evidente. Ma perché, invece di vedere le donne razzizzate come “doppiamente marginalizzate” attraverso il prisma delle teorie dell’appropriazione di razza e quella di sesso, non capovolgere il punto di vista e considerarle come soggetti centrali dell’appropriazione? E allo stesso tempo perché non concepire gli uomini razzizzati e le donne bianche come gruppi “marginali” rispetto all’appropriazione. Non è l’analisi di Guillaumin a impedirci di farlo, ma, forse, piuttosto il fatto che per molte donne bianche e per molti uomini razzizzati apparire come “casi particolari” di rapporti di potere minerebbe la loro egemonia sulle lotte e sulla teoria.

Appartenere a certi gruppi permette o impedisce di essere lesbiche (non dico omosessuali). Appartenere a certi gruppi ti mette direttamente a confronto con gli uomini a cui appartieni, ma non con tutti gli uomini. Appartenere a certi gruppi significa essere uccise/i per essere nate/i in quel gruppo e uccise/i con il gruppo nel suo insieme. Appartenere a certi gruppi significa essere segregate/i o imprigionate/i o cacciate/i o discriminate/i per il fatto di appartenere a quel gruppo, con il gruppo nel suo insieme. Appartenere a certi gruppi significa confrontarsi direttamente con gli uomini a cui si appartiene e confrontarsi, inoltre e spesso, con gli uomini che dominano gli uomini a cui si appartiene. Appartenere a certi gruppi fa di voi il premio, l’ostaggio o il mezzo nella guerra che questi gruppi fanno ad altri gruppi oppure nella guerra che questi gruppi sono costretti a subire (Guillaumin 2017 [1998]).

Detto questo, ciò che interessa a Guillaumin sono “le scelte politiche” che ciascuna donna compie in un universo di possibilità influenzato, ma non sovradeterminato, dall’appartenere ad un dato gruppo: “non sono le donne a essere diverse (anche se naturalmente sono diverse nella loro esistenza quotidiana), sono le loro scelte politiche a essere diverse” (Guillaumin 2017 [1998]). Nello stesso intervento, Guillaumin distingue tre tendenze profondamente diverse, persino antagoniste, nei movimenti delle donne. Non borghesi contro proletarie, né donne razzizzate contro donne razzizzanti. Queste divisioni possono, certamente, costituire linee di opposizione, ma sono ben lontane dall’esaurirle o dal sovrapporvisi strettamente proprio per il fatto che le relazioni di potere sono tra di loro intrecciate. Guillaumin distingue tra corrente “corporativista”, corrente “sindacale” e corrente “politica”. Quest’ultima rimanda per Guillaumin al fatto di possedere, a partire da una posizione sociale di donna, un progetto globale di società che includa una critica dei rapporti di potere nella loro molteplicità. È con quest’ultima tendenza che Guillaumin si identifica, alla ricerca di un’unità politica strategica della classe delle donne che non esclude in alcun modo tattiche di lotta autonome (per classe, religione, nazione, cultura, “razza” o anche come lesbiche), ma che rifiuta la reificazione identitaria-naturalistica prodotta, appunto, da analisi “tubolari” o monotematiche. In altre parole, Guillaumin sviluppa a partire dalla propria posizione situata nel tempo, nello spazio e nelle diverse relazioni sociali, strumenti che tengono conto della simultaneità di molteplici rapporti sociali e lo fa nel quadro di un progetto di lotta “per la giustizia sociale”. Quest’ultimo, al di là delle dispute concettuali che hanno circondato l’espansione del paradigma intersezionale, costituisce l’obiettivo originario e centrale delle femministe nere (Patricia Hill Collins 2017). Ciò induce a ritenere che pensare alla molteplicità e all’intreccio dei rapporti sociali potrebbe essere più il risultato di diverse “correnti” femministe che la specificità di date “ondate” del femminismo.

Su alcuni “femmages” e usi attuali dell’opera di Guillaumin

Dopo la scomparsa di Guillaumin, diverse pubblicazioni e vari eventi scientifici tenutisi in Francia e in Québec le hanno reso omaggio [28]: nell’ottobre del 2018 una giornata di studio organizzata dalla rete “Genere, classe, razza. Relazioni sociali e costruzione dell’alterità” dell’Associazione francese di Sociologia con la partecipazione di Danielle Juteau, nel giugno del 2019 un convegno internazionale “Penser la (dé)naturalisation de la race et du sexe: actualité de Colette Guillaumin” presso l’Università di Ottawa [29] nell’ottobre del 2019 una giornata organizzata dall’Association Nationale d’Études Féministes (ANEF) nella quale a Guillaumin era associata Nicole-Claude Mathieu (morta nel 2014). Si è, così, potuto constatare l’interesse per l’opera di Guillaumin di un gran numero di ricercatori e ricercatrici provenienti da diverse parti del mondo e attivi/e in diverse discipline.

In Francia, sono in special modo i/le sociologi/sociologhe e gli/le antropologi/antropologhe che hanno ripreso il suo lavoro. All’interno della rete “Genre, classe et race” dell’Associazione francese di sociologia, diversi/e ricercatori/ricercatrici utilizzano il lavoro di Guillaumin per analizzare le migrazioni, le relazioni interetniche e le interazioni negli ambienti militanti (cfr. il lavoro del gruppo di ricerca vicino all’URMIS, Ryzlène Dahhan, Pauline Picot, Damien Trawalé, Claire Cossée e Aude Rabaud); per studiare il lavoro domestico transnazionalizzato delle donne haitiane (Rose-Myrlie Joseph 2015) o per riflettere sulle traiettorie di lesbiche magrebine migranti in Francia o francesi nate da genitori magrebini (Salima Amari, 2018). Nel campo dell’antropologia, Nehara Feldman (2018) utilizza le analisi di Guillaumin per studiare la migrazione delle donne maliane, mentre la sociologa haitiana Sabine Lamour (2017) rivisita con lei il concetto di Poto-mitan [30].

Guillaumin è molto utilizzata anche in Québec, dove ha soggiornato in diverse occasioni. Come è noto, ha profondamente influenzato il campo della ricerca sulle questioni interetniche, di cui Juteau è stata una delle principali specialiste. A partire dall’articolo di Guillaumin sui femminicidi al Politecnico di Montréal [31], si è sviluppato il campo di studio sull’antifemminismo, in particolare con Diane Lamoureux e Anne-Marie Devreux (2012), e poi sul mascolinismo con Mélissa Blais (2018). Guillaumin costituisce un importanre riferimento anche in altre discipline: basti pensare alla ricerca della politologa Linda Pietrantonio sul concetto di “maggioritario” (2005) o a quella di Dominique Bourque sulla presa di parola minoritaria nel campo letterario (2015). La sociologa francese Elsa Galerand (2015), quebecchese d’adozione, si basa sui concetti guillauminiani per studiare la globalizzazione e il lavoro delle donne migranti in Canada. Al colloquio di Ottawa sono intervenuti ricercatori e ricercatrici che utilizzano il lavoro di Guillaumin per affrontare altri temi ancora: l’abilismo, l’appropriazione dei bambini e delle bambine, l’economia politica e la riproduzione sociale, il movimento lesbico, la lingua, i diritti abitativi, il lavoro sessuale, i racconti delle popolazioni indigene del Québec e l’arte delle donne aborigene australiane (Bronwyn Winter 2016). In Italia, la recente pubblicazione della traduzione di Sesso, razza e pratica del potere è la prova dell’esistenza di un gruppo di ricercatrici femministe che si interessano alle sue analisi sul razzismo e sul sessaggio (Garbagnoli et al. 2020).

Infine, la traduzione in spagnolo nel 2005 del suo articolo del 1978 “Pratique du pouvoir et idée de nature” da parte del collettivo transnazionale “Brecha Lésbica” (Curiel e Falquet 2005), e la successiva pubblicazione in portoghese da parte di una delle più antiche associazioni femministe del Nordeste brasiliano, SOS Corpo (Ferreira et al, 2014), hanno alimentato il crescente interesse di ricercatrici e attiviste latinoamericane e caraibiche per le analisi materialiste francofone che entrano in risonanza con diverse tradizioni femministe marxiste e con il lavoro di alcune femministe decoloniali del continente. Ricercatrici che lavorano in Colombia, Brasile, Argentina e Messico utilizzano Guillaumin, insieme ad altre teoriche femministe materialiste per affrontare un’ampia gamma di campi di indagine: Ochy Curiel (2013) la utilizza per teorizzare il carattere fondamentalmente eterosessuale della Costituzione colombiana del 1991; July Angeli Loaiza Zapata (2017) per riflettere sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini armati durante il conflitto colombiano; Mirla Cisne (2014) per affrontare l’intreccio di discriminazioni nel campo del lavoro sociale in Brasile; mentre le filosofe argentine María Luisa Femenías (2019) e Luisina Bolla (2019) la fanno dialogare con la teoria decoloniale. Luisina Bolla è all’origine della formazione di un gruppo di studio femminista materialista all’Università di La Plata [32]. Negli anni ’80, la scrittrice argentina di fantascienza Angélica Gorodischer si era già interessata a Guillaumin. Negli anni ‘80, la scrittrice argentina di fantascienza Angélica Gorodischer si era già interessata a Guillaumin.

NOTE

[1] Il saggio è stato pubblicato come introduzione al numero speciale dei Cahiers du genre dedicato a Colette Guillaumin. n° 68, 2020/1, pp.15 à 53, https://www.cairn.info/revue-cahiers-du-genre-2020-1-page-15.htm. Camille Noûs è il nome di una ricercatrice fittizia, creata nel 2020 su iniziativa del gruppo di difesa della ricerca RogueESR come metafora per protestare contro le politiche di fragilizzazione della ricerca da parte del governo francese. L’associazione di questa co-autrice agli articoli scientifici rimanda al riconoscimento pubblico dei valori della ricerca pubblica.

[2] Juteau Danielle, “La sociologa Colette Guillaumin è morta”, Le Monde, 18 maggio 2017.

[3] Il femminismo materialista è come una corrente femminista formata da teoriche quali Nicole-Claude Mathieu, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Monique Wittig e Paola Tabet, nonché dal collettivo della rivista Questions féministes (1977-1980). L’idea di un “femminismo materialista” come corrente di pensiero strutturata con i contorni che conosciamo oggi è in larga misura una “costruzione retrospettiva” in reazione all’emergere, a partire dagli anni ‘90, di un femminismo cosiddetto “postmoderno”. La rivista Questions féministes si definiva “femminista radicale”. Per una storicizzazione di questa corrente, cfr. Abreu, 2017.

[4] Feminist Issues è una rivista femminista statunitense pubblicata dal marzo 1980. Inizialmente, le direttrici della pubblicazione, Mary Jo Lakeland e Susan Ellis Wolf, intendevano tradurre in inglese e pubblicare i testi usciti in Francia su Questions féministes. Dopo il conflitto che ha posto fine all’esperienza di QF, l’iniziativa è proseguita con parte della precedente redazione. Nel primo numero di FI Wittig figurava come “Editor Advisory”, mentre nel secondo Capitan Peter, Guillaumin, Mathieu e Plaza erano indicati come “corrispondenti”.

[5] Le Genre humain è una rivista creata nel 1981 su iniziativa di Guillaumin, Léon Poliakov e Albert Jacquard dedicata all’analisi del razzismo. Il primo numero era intitolato “La scienza di fronte al razzismo” (Fresco, Olender 2017).

[6] Per ulteriori informazioni biografiche, si vedano Juteau (2017), Lhomond (2017), Naudier e Soriano (2010).

[7] Questo centro, fondato nel 1950 e inizialmente collegato al Centro di studi sociologici, è diretto da Paul-Henry Chombart de Lauwe. Le sue aree di ricerca comprendono: “La famiglia, le donne e gli uomini” e “Le segregazioni di classe e di gruppo etnico”.

[8] Sotto la direzione di Roger Bastide, presso l’École Pratique des Hautes Études.

[9] Il CERIN è stato fondato nel 1966 su iniziativa di Henri Laugier. Questo centro è poi diventato l’Istituto di studi e ricerche interetnici e interculturali (IDERIC).

[10] Mary McIntosh pubblica The Homosexual Role nel 1968. Sull’importanza di questo testo e per una panoramica delle ricerche dell’epoca, si veda, ad esempio, Jeffrey Weeks ([1998] 2011).

[11] Nature-elle-ment (la-natura-mente) è il titolo del numero 3 (maggio 1978) della rivista Questions féministes, in cui Guillaumin pubblica la seconda parte del suo saggio “Pratique du pouvoir et idée de nature”.

[12] Questo gruppo è stato creato nel 1975 ed è collegato, da parte francese, alla Maison des Sciences de l’Homme e, da parte inglese, al Social Science Research Council (Londra). È composto da ricercatrici inglesi e francesi come Diana Barker [Leonard], Leonore Davidoff, Jalna Hanmer, Jean Gardiner, Hilary Land, Maxine Molyneux, Jane Shaw e Anne Whitehead per la parte inglese; Noëlle Bisseret, Colette Capitan-Peter, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Emmanuelle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e Ursula Streckeisen per la parte francese.

[13] Sulla stampa femminista dell’epoca: Kandel 1979; Laroche e Larrouy 2011.

[14] Questa analisi dell’ideologia può essere confrontata con quella di Maurice Godelier (1984), che definisce l’ideale e il materiale come componenti di ogni relazione sociale (Daune-Richard e Haicault 1985).

[15] La Revue d’en face è una rivista politica femminista creata nel maggio 1977 e pubblicata inizialmente da Savelli. Nel novembre 1978, entra a far parte della casa editrice Tierce. Si tratta di una pubblicazione che proponeva un’alternativa analitica sia alla corrente differenzialista di Psychanalyse et Politique sia a quella delle femministe radicali di Questions féministes.

[16] Dalla Costa e James 1973; Delphy e Léger 1998 [1976]; Collectif l’Insoumise 1977; Guillaumin 1979; Bourgeois et al. 1978.

[17] Questo gruppo è stato finanziato dal programma PIRTTEM (Programma di ricerca interdisciplinare sulla tecnologia, il lavoro, l’occupazione e gli stili di vita) del CNRS dal 1985 al 1987 (più di trenta partecipanti); tutti i seminari hanno dato luogo a pubblicazioni (Marie-Agnès Barrère-Maurisson e Annette Langevin erano le responsabili delle pubblicazioni). Un colloquio internazionale, tenutosi nel novembre 1987, ha registrato un’ottima partecipazione. L’APRE, istituito in seguito al gruppo ad hoc di Città del Messico e alla pubblicazione di Sexe du travail, ha riunito la maggior parte delle équipe del CNRS e delle università che lavoravano in quel periodo nel settore (CSU-Paris, LEST-Aix en Provence, GEDISSTt-Paris, Groupe d’étude des rôles de sexes, de la famille et du développement, CEDREF Université Paris VII, Université de Nantes, ecc.).

[18] Dibattito organizzato tra Colette Guillaumin e “amiche militanti passate all’estrema sinistra”.

[19] Rivista creata nel 1985 da Rita Thalmann e pubblicata fino al 1999 dal CERIC (Centre d’études et de recherches inter-européennes contemporaines), Université Paris VII.

[20] L’Università di Parigi VII è stata pioniera nel collegare gli studi di genere o sui rapporti sociali di sesso con quelli sulle minoranze etniche migranti (v. la rete “Donne in migrazione” avviata dal CEDREF e dall’URMIS a partire dal 1997).

[21] Dagli anni Settanta a oggi si delinea così un percorso in qualche modo paradossale della ricerca femminista, a lungo lasciata ai margini della ricerca accademica e descritta come ideologica e militante: il contesto internazionale favorisce ora l’emergere di “esperte” e accademiche (Fougeyrollas-Schwebel 2000; si veda anche Collin 1995).

[22] Pubblicati da “Côté femmes” che continuerà ad esistere attraverso la collana “Bibliothèque du féminisme” edita da L’Harmattan, (1996-2009).

[23] Ricordiamo la pubblicazione in francese di Sister Outsider di Aude Lorde (2003); alcuni numeri speciali di riviste (Cahiers du Genre, 2005 e HS 2006); Cahiers du Cedref, 2006); Dorlin e Rouch (a cura di) Black feminism: anthologie du féminisme africain-américain, 1975-2000 (2008). Nel 2007 è ristampato, Femmes, race et classe di Angela Davis, già pubblicato in francese nel 1983.

[24] Non abbiamo qui lo spazio necessario per trattare a sufficienza la questione della classe: la lasceremo quindi da parte. Notiamo però che Guillaumin sottolinea l’importanza della contraddizione tra rapporti di appropriazione e rapporti di sfruttamento. Jules Falquet segue questa linea analitica, sviluppandola in una prospettiva storica e strutturale, per analizzare la globalizzazione neoliberale attraverso i concetti di “vasi comunicanti” (2015) e di “combinatoria straight” (2016).

[25] Rafforzato dalla sistematica e ricorrente cancellazione della storia femminista che porta alla perpetua illusione dell’anno zero che aveva colpito anche le attiviste e le teoriche del 1970.

[26] Per un’analisi dettagliata del libro pionieristico del 1978 La parole aux Négresses dell’autrice senegalese allora residente in Francia, Awa Thiam, si veda Bruneel e Gomes Silva (2017).

[27] Ad esempio, nel testo del 1978, distingue, da un lato, tra la Roma antica (familia), il XVIII e il XIX secolo nel Nord America e nelle Indie Occidentali e, dall’altro, situazioni di schiavitù con limiti temporali specificati in anni (la società ebraica, la polis ateniese, gli Stati Uniti d’America nel XVII secolo) o, ancora, situazioni di servitù della gleba con limiti temporali di durata pari a giorni della settimana.

[28] Un dossier intitolato “Racisme et sexisme, hommage à Véronique de Rudder, Nicole-Claude Mathieu et Colette Guillaumin” è stato pubblicato nel Journal des anthropologues n° 150-151 del 2016, a cura di Annie Benveniste, Catherine Quiminal e Jules Falquet; Hamel (2018); diversi articoli nella rivista Sociologie et Sociétés (49 (1), 2017) nonché un dossier nella rivista Cahiers de Recherche Sociologique, (67, 2020), sotto la direzione di Elsa Galerand, Danielle Juteau e Linda Pietrantonio.

[29] Ha riunito una trentina di relatori e relatrici dal 21 al 23 giugno 2019 presso l’Università di Ottawa. Gli atti filmati sono disponibili su https://leseditionssansfin.wixsite.com/colloqueguillaumin/videos.

[30] Potomitan è un’espressione creola antillano-guyanese. Si riferisce al palo centrale del tempio vudù, l’oufo. L’espressione può anche essere usata per indicare il “sostegno familiare”, di solito la madre. Il termine si riferisce alla persona al centro della famiglia, l’individuo attorno al quale tutto è organizzato e sostenuto.

[31] Il massacro dell’École Polytechnique è avvenuto il 6 dicembre 1989 all’École Polytechnique di Montreal, in Quebec (Canada). Marc Lépine, 25 anni all’epoca, ha aperto il fuoco su ventotto persone, uccidendone quattordici e ferendone altre tredici (9 donne e 4 uomini) prima di suicidarsi. È stato il massacro più letale nella storia del Canada compiuto in ambito scolastico.

[32] Primera Jornada sobre Feminismo Materialista: debates y relecturas desde el Sur, Università di La Plata, Argentina, 14 novembre 2019.

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Il patriarcato, il femminismo e le loro intellettuali

di Christine Delphy (*)

“Quanto a noi, femministe radicali che rivendicano un’impostazione materialista, siamo arrivate alla conclusione provvisoria, dopo anni di riflessione, che per comprendere il patriarcato occorre rimettere in questione l’ideologia patriarcale in modo radicale: rigettarne tutti i presupposti, inclusi quelli che non sembrano tali ma si presentano come categorie fornite direttamente dal reale, per esempio le categorie di «donne» e «uomini»”: così Christine Delphy nell’ormai lontano 1981. Che cosa voglia dire mettere in questione fino in fondo i presupposti dell’ideologia patriarcale — anche polemizzando, se necessario, con correnti femministe che si sono fermate a metà del guado — è quanto la sociologa francese chiarisce nel saggio Le patriarcat, le féminisme et leurs intellectuelles, originariamente apparso su «Nouvelles Questions féministes», e qui presentato per la prima volta in traduzione italiana.

***

Il termine «patriarcato» era poco utilizzato fino all’inizio degli anni Settanta, vale a dire fino alla rinascita del femminismo nei paesi occidentali. Il termine faceva comunque parte del linguaggio corrente, ma soprattutto nella forma aggettivale: «patriarcale». D’altra parte è soprattutto la letteratura, e in particolare la letteratura del XIX secolo, che ne ha fatto una parola familiare. Le scienze umane invece la ignoravano e, per lo più, la ignorano ancora.

Curiosamente, nemmeno coloro che, come Bachofen, Morgan e Engels, hanno difeso una visione evoluzionista della storia delle società umane fondata sul postulato — assai problematico — di un matriarcato originario, che poi sarebbe stato «rovesciato», hanno ritenuto utile definire «patriarcali» le tappe successive a questo «rovesciamento». E quando si trova «patriarcale» sotto la penna di Marx, ciò avviene con la stessa connotazione a-temporale e, a dirla tutta, poetica, che il termine ha in Victor Hugo. Per loro, come per tutti gli autori che lo usano, questo aggettivo ha una connotazione eminentemente positiva; il più delle volte è preceduto dalla parola «virtù», la più grande delle quali è la «semplicità di costumi patriarcale». In che cosa consistono questi costumi «semplici»? Passandoli in rassegna, i poeti che parlano delle «virtù» patriarcali evocano lo stesso tipo di società a cui si riferiscono i sociologi che, come Tönnies e Durkheim all’inizio del secolo, esaltano la Gemeinschaft (antica società comunitaria) e la «solidarietà meccanica» a spese della Gesellschaft (società moderna e atomizzata) e della «solidarietà organica», e gli antropologi contemporanei, in genere marxisti, che oppongono le società primitive senza classi e senza sfruttamento — dicono loro — alle società moderne, stratificate e basate sullo sfruttamento. Queste opposizioni, più o meno chiaramente mitiche, esprimono tutte la stessa cosa: la nostalgia di un’«età dell’oro» dell’umanità fondata sul consenso e non sul conflitto. Ora, questa utopia per loro è strettamente associata all’immagine di un gruppo umano in cui l’organizzazione familiare è, al tempo stesso, la principale base concreta e il modello di tutti i rapporti sociali. Questi miti — siano essi riconosciuti come tali, o accreditati da una parvenza scientifica — dipendono tutti, dunque, dalla stessa credenza: che la pace, la coesione sociale e l’assenza di gerarchie fra «classi» (intendete: fra uomini) esigono che la gerarchia familiare, in se stessa buona e naturale — buona perché naturale, di fatto definita naturale perché ritenuta buona — sia invece in vigore e accettata.

L’introduzione del sostantivo «patriarcato» si deve però al movimento femminista. E non è sulla scena letteraria o accademica che i movimenti femministi negli anni Settanta introducono questo termine, ma esattamente là dove questi movimenti si situano: sulla scena politica. Prima del neo-femminismo il termine «patriarcato» non aveva un senso esplicito e, soprattutto, non un senso esplicitamente politico. Non è il caso di stupirsene: fa parte della natura del patriarcato — come di ogni sistema di oppressione — negarsi in quanto tale. Le femministe, dunque, in un certo senso hanno inventato questo termine, nell’accezione e soprattutto nella funzione che gli attribuiscono. E certamente, per le femministe, la sua connotazione non è più positiva, bensì negativa. Tuttavia non è un caso se le femministe — se noi — abbiamo scelto questo termine per nominare il responsabile della nostra oppressione. Un’analisi di contenuto sistematica rivelerebbe senza dubbio che tutti i significati espliciti che le femministe attribuiscono al termine «patriarcato» sono in germe, come ho cercato di mostrare brevemente, nell’uso letterario e inconsapevole, ovvero patriarcale, dell’aggettivo «patriarcale». Si potrebbe caratterizzare la rinascita del femminismo alla fine degli anni Sessanta in molti modi. Il neo-femminismo ha operato una rottura molto netta sia nei riguardi di quello che restava — logoro, imbastardito e riformista — dei movimenti femministi precedenti, sia nei riguardi degli altri movimenti politici contemporanei. Ha introdotto un modo nuovo di interpretare la situazione delle donne e, con questo, la situazione di tutti i gruppi sociali; contemporaneamente, ha creato un modo nuovo di fare politica. Di conseguenza il femminismo ha creato molti nuovi concetti necessari per esprimere queste visioni differenti. E sotto questi due riguardi, quello della concezione della condizione femminile e della società da una parte, quello della concezione del politico e della rivoluzione dall’altra parte, quello di «patriarcato» è senza dubbio uno dei concetti più importanti, se non il più importante. Tuttavia la sua utilità non è oggetto di un consenso unanime tra femministe; il ruolo che gli viene assegnato nelle diverse analisi è rivelatore delle fratture più importanti che esistono in seno al movimento femminista.

In Francia la linea di demarcazione è chiara: l’impiego del termine «patriarcato» differenzia nettamente le femministe radicali dalle femministe socialiste (chiamate in Francia «tendenza lotta di classe»). Notiamo che, se l’opposizione fra queste due correnti è stata una costante del neo-femminismo in tutti i paesi, da dieci anni a questa parte si sono prodotti degli spostamenti. Il movimento femminista è cambiato e, in Francia come altrove, si è — nel complesso — radicalizzato. Questa radicalizzazione è attestata dall’impiego sempre più frequente del termine «patriarcato» da parte delle femministe socialiste. Non al punto che il termine cessi di essere problematico, tuttavia, né al punto di smettere di essere la parola d’ordine della tendenza radicale. A Parigi, l’8 marzo 1980, le femministe radicali sfilavano dietro a uno striscione che diceva: «Qui si lotta contro il patriarcato», il che dimostra che non erano sicure che questo fosse vero per l’insieme delle manifestanti. Do per scontata una familiarità con la situazione dei movimenti femministi e con il contenuto del disaccordo tra queste due correnti sufficiente a rendere inutile una lunga digressione sulle ragioni per cui quella di patriarcato è una nozione controversa. Per le femministe socialiste, l’oppressione delle donne è dovuta in ultima analisi al capitalismo, e i suoi beneficiari principali sono i capitalisti, mentre per le femministe radicali l’oppressione delle donne è principalmente dovuta a un sistema differente, originale, che, sebbene strettamente intrecciato nella società concreta con il sistema capitalista, tuttavia non può essere confuso con questo. Gli uomini sono i beneficiari di questo sistema e questo sistema è il patriarcato. Viceversa, la ragione profonda della trasformazione di questo termine in concetto fondamentale di una teoria della condizione delle donne, è la percezione del fatto che l’oppressione delle donne è sistemica. Questa percezione deriva dal postulato principale e comune che fonda il neo-femminismo: l’oppressione delle donne non è un fenomeno individuale, né naturale, bensì un fenomeno politico. Questa percezione, tuttavia, ha implicazioni differenti a seconda delle diverse analisi: così le femministe socialiste non negano che l’oppressione delle donne sia sistemica, ma pensano che le determinanti di tale sistema possano essere rintracciate nel capitalismo, vale a dire che questo sistema oppressivo sia fondamentalmente identico a quello subito dai lavoratori.

Questa posizione presenta numerosi punti deboli, rivelati dal fatto che le femministe socialiste non sono mai state in grado di produrre un’analisi di qualche aspetto dell’oppressione delle donne che faccia appello esclusivamente e fino in fondo soltanto al capitalismo. Ed è senza dubbio per questo motivo, oltre che in ragione di un’autentica radicalizzazione che per altro non può essere negata, che esse sono sempre più spesso obbligate a ricorrere al termine «patriarcato» e all’aggettivo «patriarcale». Se questo ricorso testimonia la debolezza della loro posizione, secondo la quale esisterebbe soltanto un sistema di oppressione, in compenso esso mette anche in luce che il termine «patriarcato» non è sinonimo del concetto «patriarcato». In effetti, le femministe socialiste utilizzano il termine in un modo che mostra bene come continuino a rifiutare di considerare il patriarcato un sistema. L’impiego del termine «patriarcato» non è, dunque, una panacea teorica: non è garanzia di un’analisi femminista radicale.

È così che alcuni usi del termine «patriarcato» da parte delle femministe socialiste appaiono come un modo per consolidare distinzioni che il femminismo radicale rimette violentemente in questione: quella fra l’ambito del «privato» e l’ambito del «politico», quella fra il naturale e il sociale. Nei primi testi femministi socialisti in cui appare il patriarcato, esso appare anche come un guazzabuglio, per di più senza statuto teorico. Non si sa se si tratta di un sistema globale di relazioni sociali, come nell’analisi femminista radicale, o di una parte di un sistema, o ancora di un’ideologia, o persino di un tratto psicologico. Si tratta di un deus ex machina che esce da non si sa dove per rendere conto di ciò che i concetti marxisti ortodossi non sono riusciti a spiegare. Deus ex machina, ma anche pattumiera in cui si ritrovano pezzi eterocliti, scarti che non rientrano nella teoria marxista ortodossa.

E soprattutto, il patriarcato si trova rigettato sul versante delle mentalità. Ma non sul versante delle mentalità collegate a un sistema sociale: no, sul versante delle mentalità fondamentali e a-storiche, insomma sul versante di una «natura umana». Si ritrovano nel testo di Bland, Brundson, Hobson e Winship [1], le connotazioni associate all’uso classico, cioè pre-femminista, dell’aggettivo «patriarcale», connotazioni psicologizzanti e biologizzanti. Il patriarcato è, in quest’uso, una specie di nucleo al tempo stesso inesplicabile e irriducibile della «natura umana». Juliet Mitchell, in Psicoanalisi e femminismo [2], ha offerto la formulazione più esplicita di questo recupero del termine «patriarcato» da parte di coloro che ne rigettano la definizione femminista e dunque l’utilità teorica — che negano la sua natura di sistema sociale. La sua definizione di patriarcato è stata criticata nel dettaglio da McDonough e Harrison e da Beechey [3], pertanto non ripeterò questa critica. Mi limiterò a segnalare che tutte le incoerenze analitiche e teoriche, così come tutte le implicazioni reazionarie di questo impiego del termine «patriarcato», sono, in Mitchell, caricaturali. Il patriarcato viene rigettato, questa volta in maniera esplicita, nel sovrastrutturale: viene definito non solo come un’ideologia, ma come l’Ideologia. Per Mitchell non solo un’oppressione materiale — quella delle donne — è causata semplicemente da un’ideologia, ma questa ideologia è, curiosamente, quella del capitalismo; ma non solo del capitalismo. In effetti, secondo Mitchell, il patriarcato è al tempo stesso l’ideologia del capitalismo e quella delle società precapitalistiche fino alla preistoria e addirittura fino alle «origini» ignote e inconoscibili. Se da un lato il patriarcato sembra rientrare nella storia, dato che viene definito «ideologia», cosa che suppone un sistema sociale preciso, con lo stesso movimento viene anche destoricizzato: il patriarcato è visto come una struttura mentale a-storica, prodotta non da una o diverse società concrete, ma dalla Società. In effetti, viene presentato come la base stessa della costituzione di ogni società. Le implicazioni politiche sono chiare: se il patriarcato è il corollario, o meglio la condizione, del passaggio dalla natura alla cultura, non solo è inevitabile, ma desiderabile; è imposto dalla natura del sociale, e questa natura del sociale è a propria volta imposta dalla natura fisica. In effetti, se il passaggio dalla natura alla cultura implica necessariamente l’oppressione delle donne, ciò è dovuto, in questa visione, alla rispettiva anatomia delle donne e degli uomini, o più esattamente, delle femmine e dei maschi. In questo modo l’avvento del patriarcato e la sua conservazione appaiono doppiamente inesorabili e giustificati: da una parte, dalla natura animale della specie, dalla sua biologia; dall’altra parte, dalla sua natura propriamente umana, dal suo carattere sociale.

Il concetto di patriarcato può essere deviato e svuotato del suo senso di sistema sociale in altre maniere. Si possono re-iniettare in questo concetto elementi della stessa ideologia patriarcale e, in particolare, la distinzione così nebulosa e così tipicamente ideologica tra «produzione» e «riproduzione». Il dibattito femminista nei paesi anglosassoni, come alcune ricerche sul lavoro domestico in Francia [4], si orienta sempre più verso questa direzione che noi, femministe radicali materialiste, consideriamo pericolosa. Tuttavia, e non è uno dei paradossi minori della storia delle idee femministe, e della storia delle idee tout court, è giocoforza constatare che tra coloro che pretendono di reinventare come una trovata meravigliosa ciò che di fatto ereditano dall’ideologia patriarcale, ci sono delle femministe radicali. E persino la teoria che negli Stati Uniti, come in Inghilterra, è considerata fondatrice del femminismo radicale, quella di Shulamith Firestone [5], è scandalosamente biologizzante, dal momento che fa dipendere l’oppressione delle donne dall’«handicap naturale» delle gravidanze.

Le femministe socialiste hanno combattuto a lungo questa teoria con buoni argomenti, ma per le ragioni sbagliate: denunciando il suo biologismo, rifiutano il primato che Firestone assegna alla lotta di sesso, ma per ribadire il principio altrettanto dubbio del primato della lotta di classe. Tuttavia, non essendo riuscite a spiegare totalmente l’oppressione delle donne con il capitalismo, adesso rinnegano questi argomenti. In effetti oggi le femministe socialiste parlano di «patriarcato», ma lo assimilano a un nuovo concetto, quello di «sistema di riproduzione». Non si sa a che cosa si riferisca questo termine, se non che da una parte è legato alle funzioni fisiche dei sessi nella procreazione, e dall’altra parte esplicitamente opposto al concetto di «sistema di produzione». Così facendo, esse rendono esplicito il biologismo implicito da cui le loro analisi sono sempre state infettate. In effetti, se prima di oggi si sono preoccupate soltanto dell’oppressione «capitalista» delle donne, è precisamente perché pensavano che soltanto quella sia sociale, tutto il resto essendo, per implicazione, naturale. Inoltre, identificando un «sistema di riproduzione» quando, nel loro pensiero, il sistema di produzione resta il motore della storia, le femministe socialiste non fanno altro che rinnovare, con altre parole, la dottrina secondo la quale la lotta delle donne è secondaria in rapporto alla lotta anticapitalista. Più curiosamente, è in sostanza la stessa analisi che propongono alcune femministe radicali, come le inglesi Revolutionary Feminists, ma per arrivare a conclusioni politiche del tutto opposte. Della divisione produzione/riproduzione, infatti, le Revolutionary Feminists adottano soltanto l’irriducibilità di un sistema all’altro e dunque la priorità, per le donne, della lotta antipatriarcale. Bisogna pure riconoscere che non esiste un adeguamento perfetto fra le analisi e le strategie politiche che dovrebbero «derivarne». Di modo che il biologismo che noi, femministe radicali, vediamo come una linea di divisione essenziale nell’analisi, non lo è dal punto di vista delle strategie: su questo piano, non è il punto di vista sulla biologia che divide le femministe radicali, per le quali il nemico è il patriarcato, dalle femministe socialiste, per le quali il nemico è il capitale. Tuttavia sarebbe opportuno esaminare se il biologismo delle une e delle altre ha esattamente lo stesso contenuto. Resta il fatto che le femministe radicali devono convivere con questo paradosso: la strada verso conclusioni politiche affini, se non del tutto simili, lungi dall’essere la stessa per tutte, può imboccare vie divergenti e addirittura opposte. Il che pone il problema di osservare più da vicino il rapporto tra analisi teorica e strategia politica.

Quanto a noi, femministe radicali che rivendicano un’impostazione materialista, siamo arrivate alla conclusione provvisoria, dopo anni di riflessione, che per comprendere il patriarcato occorre rimettere in questione l’ideologia patriarcale in modo radicale: rigettarne tutti i presupposti, inclusi quelli che non sembrano tali ma si presentano come categorie fornite direttamente dal reale, per esempio le categorie di «donne» e «uomini». Per ricapitolare in maniera molto schematica il nostro lavoro, noi pensiamo che il genere — le rispettive posizioni sociali delle donne e degli uomini — non sia costruito sulla categoria (apparentemente) naturale del sesso, ma che, al contrario, il sesso sia diventato un fatto pertinente, e quindi una categoria della percezione, a partire dalla creazione della categoria di genere, cioè dalla divisione dell’umanità in due gruppi antagonistici uno dei quali opprime l’altro, gli uomini e le donne.

Per la maggior parte delle persone, incluse alcune femministe, il sesso anatomico (e le sue implicazioni fisiche) crea o almeno permette il genere — la divisione tecnica del lavoro — che, a propria volta, crea o almeno permette il dominio di un gruppo sull’altro. Noi pensiamo al contrario che sia l’oppressione a creare il genere, che la gerarchia della divisione del lavoro sia anteriore, da un punto di vista logico, alla divisione tecnica del lavoro e la crei: crei i ruoli sessuali, quello che viene chiamato il genere; e che il genere, a propria volta, crei il sesso anatomico nel senso che questa divisione gerarchica dell’umanità in due trasforma in distinzione pertinente per la pratica sociale una differenza anatomica in se stessa priva di implicazioni sociali; che la pratica sociale, e questa soltanto, trasformi in categoria di pensiero un fatto fisico in se stesso privo di senso, come tutti i tratti fisici.

Questa evidentemente è un’ipotesi e ci vorranno anni prima di poterla dimostrare, dato che urta contro ciò che oggi ci sembra un’evidenza inaggirabile: che le differenti funzioni ricoperte dalle femmine e dai maschi nella procreazione non possono non avere un’importanza intrinseca per tutta la società, indipendentemente da ciò che essa costruisce su questa differenza. Mostrare che il processo in realtà è inverso, che questa differenza — ovvero il significato che le viene attribuito — è il risultato finale della pratica sociale e non la sua base, è una sfida, e tuttavia è la nostra scommessa.

Questa impostazione per noi è la conseguenza logica della visione di partenza comune all’insieme del movimento femminista, cioè l’interpretazione del dominio maschile come un fenomeno politico. Questo punto di partenza ci ha portate a mettere l’accento sul rapporto che costituisce donne e uomini in due gruppi non solo differenti, ma soprattutto e in primo luogo gerarchizzati, cioè ad adottare una problematica di classe. All’interno di questa problematica non è il contenuto di ciascun ruolo a essere essenziale, ma il rapporto fra i ruoli, fra i due gruppi. Ora, questo rapporto è caratterizzato dalla gerarchia ed è questa quindi a spiegare il contenuto di ciascun ruolo, e non l’inverso. All’interno di questa problematica pertanto, come si vede, il concetto chiave è quello di oppressione, che è o dovrebbe essere il concetto chiave di ogni problematica di classe. Ciò ha delle conseguenze non solo per il contenuto dell’analisi della situazione delle oppresse e per le strategie destinate a mettere fine a questa situazione, ma anche per il modo di pensare l’oppressione: per il ruolo della teoria stessa, e delle teoriche, nella lotta.

Ecco perché altrettanto importante del fatto di discutere di patriarcato è il fatto di discuterne qui, all’università. Non è un caso se non ho mai parlato né della mia specializzazione professionale, né dell’università, a proposito di patriarcato. È che l’università non ha giocato alcun ruolo nella creazione di questo concetto, o di altri concetti politici, così come non ha giocato alcun ruolo nella comparsa di un movimento sociale, il femminismo, che ha elaborato le analisi e i concetti di cui parliamo. Tuttavia ne gioca uno, in tutta evidenza, ospitando questo dibattito, e quale? Una delle tante cose che distingueva le femministe in origine, dieci anni fa, dall’estrema sinistra che resta il suo nemico e il suo interlocutore privilegiato, è il rapporto tra soggetto e oggetto del discorso e della pratica «rivoluzionaria». I gruppi di estrema sinistra lottano per la liberazione e l’arrivo al potere di un proletariato di cui non fanno parte, per persone che non sono loro. Le contraddizioni che scaturiscono da questa situazione sono, a priori, estranee alle femministe: noi non lottiamo per altri, ma per noi; noi, non altri, siamo le vittime dell’oppressione che denunciamo e combattiamo. E quando noi parliamo, non è a nome, né al posto di altri, ma a nostro nome e al nostro posto. L’identità della vittima e della combattente, del soggetto e dell’oggetto della lotta, ci conferisce una legittimità rivoluzionaria che fa crudelmente difetto ai piccolo-borghesi che costituiscono l’estrema sinistra. Che le donne, a partire dal momento in cui lottano per se stesse, abbiano immediatamente questa legittimità, sembra un’evidenza. Ma è un’evidenza o un’apparenza o, più esattamente, si tratta di una realtà immediata o di una semplice potenzialità? Le donne, noi, al pari di tutti gli oppressi, provano ripugnanza a sentirsi donne perché provano ripugnanza, al pari di tutti gli esseri umani, a sentirsi oppresse. Questo è uno dei grandi ostacoli al coinvolgimento delle donne nella lotta femminista: perché lottare significa riconoscere di essere oppressa, e riconoscere di essere oppressa è doloroso.

Per molte donne l’unica attenuazione possibile dell’oppressione che subiscono, poiché nella realtà non possono sfuggirvi, consiste in una denegazione immaginaria di questa oppressione, che sfocia in un diniego della pertinenza per sé della lotta femminista. Ma esiste anche un’altra forma di denegazione: è quella che consiste nel dire o nel significare, con le parole o con le azioni, che le donne sono oppresse, certo, ma solo le altre o soprattutto le altre. Penso alla pratica osservata per tanto tempo da tutta una parte delle femministe socialiste francesi: la lotta femminista consisteva per queste donne nel battersi precisamente ed esclusivamente contro lo sfruttamento delle operaie, che loro non erano. Questo evidentemente corrispondeva, a un primo livello, alle consegne della loro organizzazione mista, e rifletteva l’operaismo che imperversava in questo tipo di gruppi di estrema sinistra. Ma credo che queste consegne incontrassero un desiderio in queste donne: quello di non essere messe di fronte al fatto che anche loro erano donne e, paradossalmente, il fatto di fare quello che loro chiamavano un «lavoro sulle donne» le distanziava radicalmente da questa coscienza femminista invece di agevolarla. D’altronde la pratica della «presa di coscienza», elemento fondamentale del neo-femminismo, veniva condannata, all’interno di questi gruppi, come «piccolo-borghese» ed esplicitamente proibita. Penso anche a quelle accademiche jugoslave che, convocando un convegno nel 1978 sulla condizione delle donne, parlavano in continuazione di «loro». Dire «loro», quando diventa impossibile tacere del tutto, è l’ultima difesa di fronte alle temibili prospettive aperte dal «noi». Questi due esempi evocano momenti dell’evoluzione di queste donne, che hanno superato o supereranno. Ma non esiste la possibilità di un regresso, soprattutto se ci si colloca questa volta a livello collettivo? Un movimento avanza sempre?

Il femminismo è entrato all’università, negli Stati Uniti più che in Europa, in Inghilterra più che nell’Europa del sud, in Spagna più che in Francia. Che gli studi femministi o Women’s Studies siano una buona cosa, nessuno lo nega. Questo dipende anche dal modo in cui vengono condotti, più precisamente dal rapporto che intrattengono con il movimento politico che li suscita e li alimenta. Lo sviluppo dei Women’s Studies negli Stati Uniti è un argomento talmente vasto che non rientra nei miei propositi, né nelle mie competenze parlarne qui, se non per segnalare che alcuni aspetti di questo sviluppo preoccupano, pare a giusto titolo, più di una femminista americana. In effetti il problema che si pone, stante il fatto che l’università non è un luogo neutro e che la rivoluzione per quanto ne so non è ancora stata fatta, è questo (che per altro non riguarda solo l’università e le femministe, ma gli intellettuali in generale e anche le lotte politiche in generale): che ruolo devono avere, nella lotta, le femministe che sono intellettuali, o le intellettuali che sono anche femministe? In realtà ci sono diversi ordini di problemi. Comincerò dal più evidente, quello che si pone per tutti i rivoluzionari e per l’insieme della classe intellettuale (intendo classe, qui, in un senso poco rigoroso, questo per prevenire le critiche). Alcune pensano che, essendo donne, noi siamo soltanto donne, e dunque assolte dalla nostra qualità di vittime dai nostri privilegi. Ma noi femministe materialiste, che affermiamo l’esistenza di diversi — almeno due — sistemi di classe, e dunque la possibilità che un individuo abbia più appartenenze di classe, che oltretutto possono essere contraddittorie; noi che pensiamo che gli operai non siano, in quanto vittime del capitalismo, perciò stesso assolti dal peccato di essere beneficiari del patriarcato, noi rifiutiamo questa via di uscita, troppo facile per essere onesta. In che modo quelle fra di noi che hanno un legame istituzionale alla classe intellettuale possono fare in modo che l’università serva al femminismo e non il femminismo all’università? Questa seconda ipotesi sembra del tutto improbabile a prima vista. Tuttavia, non lo è. Prenderò come esempio il ruolo giocato dai marxisti nell’università francese e nella classe intellettuale francese in generale. Se negli Stati Uniti gli intellettuali marxisti si contano sulle dita di una mano e corrono dei rischi, non è questo il caso in Francia. Il marxismo è largamente accettato nell’università francese. Non dubito un istante della buona fede e della buona volontà dei nostri pensatori marxisti. Si votano sinceramente alla rivoluzione e operano per essa nelle loro discipline.

Ma qual è il risultato dei loro sforzi e dei loro studi? La rivoluzione progredisce maggiormente in Francia che negli Stati Uniti o in Spagna, dove il marxismo fino a poco tempo fa odorava di zolfo e non era compatibile con una carriera universitaria? Le analisi della nostra intellettualità marxista sono straordinariamente rivoluzionarie. L’unico problema è che sono scritte in un linguaggio che può essere compreso da una proporzione ridicolmente piccola della popolazione. Certamente essi denunciano i postulati reazionari e l’ideologia capitalistica ovunque le vedano; ma preferiscono snidarla anzitutto in altri lavori scientifici, anziché nella produzione ideologica destinata al grande pubblico. Dopodiché le loro denunce sono estremamente convincenti… quando si riesce a comprenderle. E, in generale, solo i loro colleghi sono in grado di comprenderle. Di qui il paradosso per cui vengono compresi e apprezzati da coloro che considerano avversari politici, cioè i loro colleghi reazionari, mentre coloro che pretendono di difendere nel migliore dei casi li ignorano, nel peggiore li vedono come dei mistificatori, dunque dei nemici. Indipendentemente dalle loro intenzioni, qual è il risultato del loro lavoro? Nella misura in cui si rivolge agli intellettuali di destra ed esclude i non-intellettuali di sinistra, questo lavoro rafforza oggettivamente la coesione della classe intellettuale nel suo insieme, di tutte le posizioni politiche, di fronte agli strati non-intellettuali della popolazione. E questo non è dovuto unicamente alla contraddizione a cui le donne sfuggono: al fatto di non appartenere, in realtà, alla classe che difendono.  

Molti intellettuali credono che sia l’analisi marxista a fondare la realtà dell’oppressione dei proletari, credenza assurda sia dal punto di vista logico che storico. Qui non posso descrivere in lungo e in largo in che modo Marx, in realtà, abbia preso le mosse dalla constatazione preliminare dell’oppressione dei lavoratori, non potendo fare altrimenti; in che modo, lungi dal tentare di dimostrarne l’esistenza, la certezza di tale esistenza sia stata per lui un dato di base; in che modo, senza questo a priori, non avrebbe avuto alcuna ragione, né soggettiva, né oggettiva, per provare a distruggere i meccanismi che la provocano; in che modo, in breve, non si possa studiare qualcosa che non esiste. Questa perversione della teoria della rivoluzione, della concezione dell’origine della rivolta e della coscienza di classe operata dall’ortodossia marxista incombe anche sul femminismo. Può assumere altre forme, ma non immaginiamo di essere, per magia o grazie alle nostre ovaie, preservate da questo pericolo, in ogni caso non fintanto che saremo delle intellettuali. In effetti, la pretesa di possedere tutti i fili, inclusa l’origine dei movimenti sociali, fa parte degli interessi oggettivi della classe intellettuale, di cui facciamo parte anche noi, della logica della sua conservazione in quanto classe, il che spiega per quale motivo questa classe riconduca tutto, compresa la rivolta, a quella che è la sua riserva privata: l’analisi.

Ora, non dobbiamo ingannarci: l’analisi ha dei limiti. Ci può illuminare sulle modalità e sulle ragioni dell’oppressione; ma non può pretendere di fondare la rivolta, che nasce dalla coscienza dell’oppressione, più di quanto possa istituire la realtà dell’oppressione, dato che l’analisi stessa può procedere soltanto a partire dal momento in cui questa realtà è istituita: altrimenti resta priva di oggetto. L’oppressione è al tempo stesso una realtà e un’interpretazione della realtà: una percezione della realtà come intollerabile, vale a dire, appunto, opprimente. Questa percezione della realtà come opprimente non può fondarsi sulla «pura ragione», basandosi su un’analisi che in principio la ignorerebbe per poi «scoprirla». Al contrario, le diverse analisi della società, della realtà, procedono a partire da percezioni preesistenti di ciò che è tollerabile e ciò che non lo è, di ciò che è giusto e ciò che ingiusto. Non esiste una scienza che possa dirci che siamo oppressi: l’oppressione, in quando coscienza oggettivata, perché condivisa, di essere trattate ingiustamente non ha una base scientifica, non più di quanta ne abbiano i concetti di giustizia e di equità. È qualcosa che non dobbiamo mai dimenticare: non solo le nostre analisi non possono sostituirsi alla rivolta, ma dobbiamo tenere presente che, al contrario, queste analisi a propria volta procedono dalla rivolta e non possono procedere altrimenti. Se ammettiamo che tutte le pratiche intellettuali siano radicate in una posizione (cosciente o meno) di classe, ne consegue che nessuna analisi è dotata di valore propriamente scientifico, che non esiste una scienza con la “S” maiuscola: questo per me è il corollario inevitabile di una posizione materialista conseguente. Un’analisi ha valore soltanto per una posizione di classe, nella misura in cui è utile (questo d’altra parte fa sì che le analisi reazionarie non siano «false»). Se non esiste una scienza con la “S” maiuscola, allora non esiste nemmeno neutralità. Questo significa che quando un’analisi non è più al servizio di una determinata posizione di classe non diventa perciò stesso neutra, ancora meno «oggettiva». Diserta la prima posizione ma, non potendo situarsi al di fuori della classe, si mette al servizio di un’altra posizione di classe. Tutto questo ha, per il nostro lavoro, numerose implicazioni che sono lontana dall’aver soppesato nella loro interezza e di cui, al momento attuale, non ho altro che alcune intuizioni.

Una di queste intuizioni è il ruolo primordiale che deve avere la collera, la nostra collera, nel nostro lavoro, nella nostra maniera di trattare un problema che non è esclusivamente femminista: quello dei rapporti fra la nostra appartenenza alla classe intellettuale e la nostra utilità rivoluzionaria. Questo problema è già affrontato da altri: si tratta di una contraddizione talmente dolorosa, per coloro che hanno avvertito nella maniera più acuta, al tempo stesso, la funzione oggettivamente ancillare al potere della classe intellettuale e la necessità della rivoluzione, da indurre qualcuno come Sartre ad augurarsi di «distruggersi come intellettuale». Pur incarnando l’integrità morale e politica, questa posizione non risolve tuttavia il problema dell’esistenza di questa classe e del suo ruolo. Questo ruolo lo viviamo tutti i giorni: l’università produce una conoscenza al contempo necessaria alla rivoluzione e rifiutata ai suoi protagonisti. L’università può produrre conoscenze soltanto in una forma che le rende inaccessibili alle masse e, al contempo, alienanti per loro. La produzione di una conoscenza spesso utile è, nelle condizioni attuali, inseparabile dalla produzione simultanea di un discorso scientifico che si definisce soltanto per opposizione rispetto al linguaggio «volgare»: quello dei dominati. Di modo che ogni progresso della conoscenza consolida — apparentemente in maniera inesorabile — l’esclusione delle masse, la loro separazione sempre più radicale dagli strumenti intellettuali: dai mezzi per pensare la propria oppressione. Questo problema si pone anche per noi: concretamente, quale uso faremo degli strumenti e delle conoscenze che l’università ci ha dato? In quale misura il nostro femminismo sovvertirà l’università? In quale misura verrà invece recuperato dall’università, per i suoi fini?

Per esempio, quando critichiamo il sessismo dei lavori dei nostri colleghi maschi, è evidente che lo facciamo nella convinzione che questo serva alla lotta femminista. Ma come faremo, come facciamo a creare le condizioni affinché queste critiche siano utilizzabili da tutte le femministe (il che suppone prima di tutto che vengano comprese)? Ora, a seconda del linguaggio che utilizziamo, queste critiche potranno essere comprese dalle femministe — e disprezzate dai nostri colleghi intellettuali — oppure potranno essere comprese da quegli stessi colleghi che, agli occhi della comunità scientifica, avremo in questo modo convinto di sessismo, ma con i quali avremo, al contempo, stabilito una complicità molto più fondamentale, una complicità fondata sull’esclusione di tutte le non-intellettuali, gruppo in cui si trova anche la maggioranza delle femministe. Non ho una risposta già pronta a una domanda come questa, un rimedio miracoloso a un problema che nessuno finora è riuscito a risolvere. Ho soltanto coscienza di alcuni pericoli precisi. Così, se la critica del sessismo delle discipline scientifiche è importante, lo è soltanto nella misura in cui i discorsi di queste discipline costituiscono la versione dotta dell’ideologia patriarcale volgare. È questa che ci importa, è lì che le nostre critiche devono colpire. Quello che ci deve interessare non sono gli argomenti dei nostri colleghi maschi presi di per se stessi, ma il fatto che forniscano una cauzione «scientifica» all’ideologia dominante. È perché la mistificazione della scienza raddoppia la mistificazione dell’ideologia che questi discorsi eruditi devono essere analizzati. Ma la linea è sottile: se le altre donne non comprendono le nostre critiche, se non possono utilizzarle, se tutto questo non costituisce alcun apporto per loro, allora ci saremo di fatto rivolte ai nostri colleghi maschi, avremo riaffermato la nostra solidarietà con l’istituzione mistificante oltre a essere state inutili alla lotta femminista: avremo quindi tradito due volte la classe delle donne.

Usare l’università per la lotta femminista comporta necessariamente denunciare l’università. Denunciare la doppia mistificazione del discorso scientifico: la prima consiste nel fatto che esso non fa altro che parafrasare, raddoppiare l’ideologia dominante; la seconda consiste nel fatto che le conferisce la legittimità del mito della Scienza, Pura, Neutra, Universale. Il semplice ingresso delle femministe, o di preoccupazioni femministe, all’università non è garanzia del fatto le risorse dell’università saranno raccolte da noi, cioè utilizzate contro il ruolo della classe intellettuale e per la rivoluzione. Quando una questione femminista, per esempio quella del lavoro domestico, diventa un argomento accademico; quando viene trattata come tale, cioè come emanante dalla Conoscenza Pura — un mito patriarcale e borghese —, allora il femminismo viene, deliberatamente o meno, tradito. L’unica ragione valida per studiare il lavoro domestico, dato che siamo nella posizione privilegiata di poterlo studiare, è che milioni di donne, ogni giorno e ogni minuto, soffrono nella loro carne il fatto di essere «nient’altro che massaie». Farne un problema accademico equivale a negare — peggio: a insultare — questa sofferenza: significa schierarsi con la classe intellettuale contro le oppresse, contro le massaie, significa reificarle una seconda volta. L’unica maniera per non provocare questo rovesciamento involontario delle alleanze è tenere sempre a mente questa sofferenza e sapere che è l’unica ragione valida per studiare il lavoro domestico. Analogamente, l’unico valore di un’analisi consiste nel contributo che essa può apportare ai mezzi per mettere fine a questa situazione. E l’unico modo per non dimenticare la sofferenza delle altre è cominciare riconoscendo la propria.

Questo non è facile, e non va da sé. L’accesso delle questioni femministe al rango di questioni accademiche appare spesso come un progresso per la stessa lotta femminista, non solo perché l’università in questo modo conferisce loro un brevetto di «serietà», ma anche perché il contesto accademico assicura, o meglio esige, un approccio spassionato ai problemi; e in cambio di questa spassionatezza sembra garantirci un approccio più rigoroso perché più sereno. Questa è una trappola del diavolo, cioè dell’ideologia dominante che ha creato il mito della scienza. Ma se soccombiamo così facilmente è perché questa spassionatezza ci coinvolge anche più direttamente, affettivamente. Prima ancora di cercarvi gli interessi della scienza, troviamo in essa una protezione contro la nostra collera. In effetti non è facile, contrariamente a quanto si crede, essere e soprattutto restare in collera. Si tratta di uno stato doloroso: perché restare in collera significa tenere sempre a mente la causa di questa collera, significa ricordare continuamente quello che vogliamo, che dobbiamo dimenticare almeno qualche volta per riuscire a sopravvivere, e cioè che siamo, anche noi, umiliate e offese. Ma per noi intellettuali dimenticarlo, fosse anche solo per un istante, equivale ad abbandonare il filo che ci lega alla nostra classe di donne, il parapetto che ci impedisce di scivolare dal lato dell’istituzione, dal lato dei nostri oppressori. Abbiamo la tendenza a considerare la collera come un momento superabile, oltre che come un sentimento sgradevole: come qualcosa di temporaneo, che a un certo momento smette di essere utile e diventa persino ingombrante, che dobbiamo deporre prima di varcare le porte dell’università per potere lavorare in pace. Ora, la nostra unica arma contro il tradimento potenziale inscritto nel nostro status di intellettuali è proprio la nostra collera. Perché l’unica garanzia che non saremo, in quanto intellettuali, traditrici della nostra classe è la coscienza di essere, a nostra volta, delle donne, di essere le stesse di cui analizziamo l’oppressione. E l’unica base di questa rivolta è la nostra collera.  

NOTE

(*) C. Delphy, Le patriarcat, le féminisme et leurs intellectuelles, «Nouvelles Questions féministes», 2, ottobre 1981, ora in Ead., L’Ennemi principal 2. Penser le genre, Syllepse, Paris 2001, pp. 223-242.

[1] L. Bland, C. Brundson., D. Hobson, J. Whinship, Women “inside and outside” the relations of production, in Women Studies Group (ed.), Women Take Issue: Aspects of women’s subordination, Hutchinson, London 1978, pp. 35-78.

[2] J. Mitchell, Psicoanalisi e femminismo (1974), Einaudi, Torino 1976.

[3] R. McDonough, G. Harrison, Patriarchy and the Relations of Production, Feminism and Materialism, Routledge and Kegan Paul, London 1978; V. Beechey, On Patriarchy, «Feminist Review», 3, 1979, pp. 66-82. 

[4] F. Bourgeois et al., Travail domestique et famille du capitalisme, «Critique de l’économie politique», 3, 1978, pp. 3-23.

[5] S. Firestone, La dialettica dei sessi (1970), Guaraldi, Firenze 1971.

Bourdieu o il potere auto-ipnotico del dominio maschile

di Nicole-Claude Mathieu (*)

Nicole-Claude Mathieu ritratta da Laurence Prat

«Un libretto fitto e soffocante; non graffierà gli uomini, ma confonderà un po’ di più, ce ne fosse bisogno, la coscienza delle donne»: con queste parole, alla fine degli anni Novanta, la sociologa e antropologa femminista Nicole-Claude Mathieu concludeva una puntigliosa e incisiva disamina critica di La domination masculine (ll dominio maschile) di Pierre Bourdieu. Senonché, mentre il testo di Bourdieu è stato tempestivamente tradotto in italiano, ristampato, adottato nei corsi universitari di gender studies, ridotto in citazioni da sfoggiare a riprova di una squisita sensibilità culturale e magnificato (incredibilmente, anche da tante devote lettrici) per aver ricordato delle donne solo e soltanto ciò che si presta a dimostrare che queste riproducono il dominio patriarcale tanto quanto gli uomini, del dibattito femminista apertosi in Francia al momento dell’apparizione del volume non è stato recepito quasi nulla nel nostro paese. La politica della traduzione e della circolazione dei testi è politica tout court: stabilisce parametri di legittimità, condiziona l’approccio ai problemi e, in questo caso, sembra obbedire a regole pericolosamente vicine al precetto epistemologico che lo stesso Bourdieu enuncia ne Il dominio maschile, quando accusa le colleghe femministe di «introdurre nel campo scientifico una difesa politica dei particolarismi che autorizza il sospetto a priori», riservando a se stesso il ruolo di custode oggettivo dei fondamenti universalistici della «Repubblica delle scienze». Quale sia la garanzia di “oggettività” che un membro del gruppo dominante può dare quando parla del dominio patriarcale è il filo che percorre queste splendide pagine di Nicole-Claude Mathieu, qui presentate per la prima volta in italiano.

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Y a qué’qu’chose qui cloche là-d’dans / J’y retourne immédiatement

Boris Vian, La Java des bombes atomiques

1998. Che settembre! Tra la pioggia, la tempesta, il mare agitato, la valanga equivoca del caso Clinton e la grandine fitta del caso Bourdieu, ci si sarebbe quasi potuti dimenticare delle attrattive dell’estate, come la pubblicazione di La construction sociale de l’inégalité des sexes. Des outils et des corps di Paola Tabet [1], Le sexe du savoir di Michèle Le Doeuff, Medias et féminismes. Minoritaires sans paroles di Myriame El Yamani [2], Le savant et la politique. Essai sur le terrorisme sociologique de Pierre Bourdieu di Jeanine Verdès-Leroux [3], – tutti titoli che tornano utili al cospetto de Il dominio maschile, piccolo ordigno abortito di grande incoerenza che costituisce il rifacimento, appena rimaneggiato, di un articolo apparso con lo stesso titolo otto anni fa [4]. Sulla spiaggia o altrove, se vi domandaste che cosa trasmette questa sera la televisione… Grazie all’iniziativa del periodico Télérama [5], il dominio maschile è stato lo scoop dell’estate. Nessuno nelle case può ignorare che tale dominio esiste, e tutti devono ormai sapere che è simbolico, tuttavia efficace o, se preferite, efficace benché soprattutto simbolico. — Simbolico? Come il franco di risarcimento danni [6]? Ah bene… — Ma c’è l’amore? Ah bene! — Impossibile? Eh beh… tuttavia ne parlano tutti i romanzi… Che si fa oggi pomeriggio?

Se il libro si fosse intitolato «L’oppressione delle donne» (ma era impossibile, si vedrà perché), difficilmente la celebrità dell’autore avrebbe invaso in questo modo le riviste illustrate e i chioschi delle stazioni. E se una femminista avesse scritto «Il dominio maschile», si può dubitare che Télérama le avrebbe fatto una simile pubblicità. Si noterà d’altronde che — nella corsa agli approfondimenti e ai commenti sull’autore da parte dei lettori o di membri dell’intellighenzia che un numero impressionante di giornali e riviste si sono ritenuti (visti) obbligati a pubblicare immediatamente —, si noterà, dicevo, che soltanto un’infima porzione è stata consacrata al libro stesso e dunque alla «questione». Ciò dipende dal fatto che, in ultima analisi, la questione interessa poco, o piuttosto dal fatto che, avendo tutti e tutte un interesse preciso per essa, se la parola è denaro per i media, il silenzio è d’oro per la maggioranza dei protagonisti delle relazioni uomini-donne?

Così, ci si può domandare se l’occultamento massiccio del contenuto del libro dietro alle polemiche che si sono risvegliate intorno all’autore non sia dovuto agli stessi meccanismi mediatici (e accademici) che stendono il silenzio sulle pubblicazioni femministe nel momento stesso in cui pubblicizzano gli uomini che trattano dello stesso (?) soggetto. In breve, per una sorta di effetto boomerang [7], lanciando il libro a partire dal suo credito di dominante (il suo «capitale simbolico di celebrità») [8], Bourdieu, mancando uno dei suoi obiettivi (parlare e far parlare del dominio maschile), ha tuttavia ricapitalizzato (plus-valore) questo credito – di cui fanno parte la critica come la lode; ogni autore sa che è meglio essere attaccati piuttosto che passati sotto silenzio.

Essere passate sotto silenzio dai media e dal proprio ambiente professionale è qualcosa di cui coloro che analizzano e denunciano il potere degli uomini hanno una lunga esperienza. Bisogna ricordare qui la strana invisibilità (trasparenza) delle ricercatrici in generale [9]. Quanto al discredito, agli insulti diretti e indiretti [10], agli ostacoli alla carriera opposti alle ricercatrici apertamente «femministe», essi non hanno nulla a che vedere con una qualche «disposizione» dovuta a un inconscio simbolico degli uomini e delle donne alla maniera di Bourdieu, e invece tutto a che vedere con una resistenza maschile intenzionale e organizzata [11] – e pure tutto a che vedere, tra le donne che hanno qualche frammento di potere, con la paura del discredito che colpisce quelle che sostengono altre donne. Che alcune finiscano per abbandonare l’idea di progredire nella carriera, di candidarsi a posizioni di rilievo, è dovuto all’esperienza del rigetto dei loro tentativi o di quelli delle altre; si tratta certamente di un adattamento alle opportunità oggettive, e non di un «adattamento delle disposizioni alle opportunità oggettive», come direbbe Bourdieu – le «disposizioni» essendo «schemi pratici» (DOM, p. 14; trad. it. p. 17) che implicano un «adattamento inconscio alle probabilità associate a una struttura oggettiva di dominio» (DOM, p. 43, corsivo mio; trad. it. p. 47). Ma prima di affrontare i concetti in questione e la politica a cui sono funzionali, occorre tornare sui silenzi dell’autore.

I. CANDIDATO BOURDIEU [12]: RESPINTO ALL’ESAME DI DIPLOMA DI STUDI AVANZATI (I ANNO DI TESI). PER I SEGUENTI MOTIVI:

1) Mancata citazione di autori importanti che hanno lavorato sull’argomento, compresi quelli i cui lavori avrebbero potuto chiarire le sue tesi, e compresi i colleghi della sua comunità scientifica. Esempi: non si fa più alcuna allusione ai lavori antropologici di Françoise Héritier (citata nell’articolo del 1990), sua collega al Collège de France, lavori che in gran parte si concentrano appunto sui meccanismi simbolici della «valenza differenziale dei sessi» [13], quasi universali, specialmente nei sistemi di appellazione di parentela. Manca pure qualsiasi allusione a sociologhe e antropologhe che hanno detto già da più di venti anni ciò che il Candidato pretende di farci scoprire (per esempio che i sessi/generi sono categorie sociali, storiche, costruite e relazionali), ma che in più non nascondono di essere femministe (e quella è senz’altro la duplice ragione dell’omissione). Pensiamo qui a Christine Delphy [14], Colette Guillaumin [15], Paola Tabet [16], per non citare che alcune fra le più «anziane» (fra cui io stessa) che hanno lavorato negli anni Settanta nel campo della sociologia.

[Ma Bourdieu aveva già risposto. Nell’articolo del 1990 (ACT, p. 30), afferma che il loro «isolazionismo» (e il fatto che si riferiscano alle «donne» e non alla «relazione sociale di dominio»!?) conduce «certe produzioni “militanti” ad accreditare alle fondatrici del movimento femminista “scoperte” che fanno parte delle acquisizioni più antiche e da più lungo tempo ammesse nelle scienze sociali, come il fatto che le differenze sessuali siano differenze sociali naturalizzate (corsivo mio)». Si resta senza parole. Anche il Candidato d’altra parte lo è, visto che non offre alcun riferimento storico, senza dubbio sbalordito dalla sua stessa audacia. Per fortuna che lui stesso ha scritto una volta: «Le scoperte scientifiche hanno spesso l’ambiguo privilegio, in antropologia, di diventare ovvie una volta acquisite» (17)].

Bisognerebbe tuttavia sapere se, e in caso affermativo in che cosa, le problematiche differiscono.

[Ma Bourdieu aveva già risposto! «Sebbene io non ami l’esercizio, tipicamente scolastico, consistente nel passare in rassegna, per distinguersene, tutte le teorie concorrenti dell’analisi proposta – fra le altre cose, perché può far credere di non avere altro principio che la ricerca della differenza […]» (ACT, p. 30). Egli ribadisce ne Il dominio… rammaricandosi, per esempio, di non aver sottolineato a sufficienza ciò che lo differenzia da Claude Lévi-Strauss e da Gayle Rubin, perché ciò gli avrebbe permesso, dice, «di evitare di dare l’impressione di ripetere o di riprendere analisi alle quali mi oppongo (18). Il che comporta trattare ogni questione da solo, tra sé e sé].

D’altra parte, nel suo articolo «Bourdieu: nom propre d’une enterprise collective», François de Singly (1998) ha dissezionato con precisione le abituali e diverse forme di occultamento dei collaboratori più vicini (soprattutto uomini) da parte di questo autore. Si potrebbe allora pensare che l’occultamento delle ricercatrici femministe non abbia nulla di peculiarmente «machista». Ora, questa invisibilizzazione, come denunciava già Françoise Armengaud (1993) a proposito dell’articolo del 1990, è un colpo scientemente assestato alle tendenze più sociologiche della ricerca femminista e a quelle più radicali del movimento delle donne – che già non hanno la parola, mentre i collaboratori in questione in ogni caso ce l’hanno.

2) Riferimento rapido ad alcuni autori importanti, eliminando con un colpo di spugna e deformando una delle loro teorie, mentre si ignorano i loro rimanenti lavori sull’argomento. Esempio: il Candidato si situa contro «la lettura strettamente semiologica [di Claude Lévi-Strauss] che, concependo lo scambio di donne come rapporto di comunicazione, occulta la dimensione politica della transazione matrimoniale, rapporto di forza simbolico volto a conservare o ad aumentare la forza simbolica» (DOM, p. 50, corsivo dell’autore; trad. it. p. 55). Pare di sognare. Lévi-Strauss non avrebbe parlato del rapporto, da riorganizzare incessantemente a seconda dei tipi di cicli di scambio, tra i «donatori» (simbolicamente superiori) e gli «acquirenti» (simbolicamente inferiori) di donne? E Lévi-Strauss non avrebbe visto che le donne sono ridotte allo stato «di strumenti simbolici della politica maschile», come pretende di sottolineare il Candidato contro di lui (DOM, p. 49, corsivo dell’autore; trad. it. p. 54)? E Lévi-Strauss non è andato più lontano dell’analisi «puramente semiologica» che gli viene rimproverata quando, nel suo articolo «La famille» (1956; 1971), ha aggiunto al tabù dell’incesto l’istituzione della famiglia e la divisione tecnica del lavoro tra i sessi come mezzi, ugualmente artificiali, per instaurare lo scambio tra gruppi? Il Candidato dovrà rivedersi i classici [19]. O altrimenti spiegarsi meglio (ma si è già visto, supra nota 20, che teme di farlo).

3) Riferimento a certi autori con allusione falsata alle loro teorizzazioni, o senza allusione teorica e a proposito di un dettaglio. Esempio: Gayle Rubin – che a partire dal 1975 ha analizzato criticamente in che modo l’oppressione delle donne è stata trattata nei lavori di Lévi-Strauss (e di Engels, Marx, Freud, Lacan, etc.) e ha proposto, sulla base di un riesame dei dati etnologici e psicoanalitici a partire dal soggetto/oggetto donna, e dunque sulla base di un rinnovamento delle domande da porre, un vasto programma di ricerca sull’«economia politica» del sesso [20] — è citata (DOM, p. 50, nota 69; trad. it. 55) dal Candidato come esempio degli studi «simbolici» (opposti agli studi «materialisti») — studi simbolici certamente «notevoli», ma sempre troppo «parziali» in rapporto ai suoi che, non dimentichiamolo, pretende di superare tutte queste opposizioni attraverso un’«analisi materialista dei beni simbolici». Limitare l’importante ricerca di Gayle Rubin al simbolico è inammissibile. Ella voleva appunto che si studiasse, nell’articolazione reciproca propria a ciascun «sistema di sesso/genere», ogni aspetto della realtà. E, per limitarsi a citare una soltanto delle sue espressioni sconcertanti, ricordava che — oltre a diversi beni materiali e simbolici — ciò che circola nello scambio matrimoniale è «carne femminile» (female flesh) addomesticata in donna.

Altro esempio (DOM, p. 22; trad. it. p. 25). La frase (per altro eminentemente contestabile): «Con ogni evidenza è perché la vagina continua a essere costituita in feticcio e trattata come sacra, segreta e tabù, che il commercio del sesso resta stigmatizzato tanto nella coscienza comune quanto nella lettera del diritto, concordi nell’escludere che le donne possano scegliere la prostituzione come attività lavorativa» è seguita dalla nota 23, che si riferisce a un articolo di Gail Pheterson unicamente a proposito di una legge degli Stati Uniti. Sarebbe stato necessario che il Candidato, poiché si interessa al simbolico, citasse per esempio l’analisi teorica che l’autrice fa dello «stigma della puttana» (the whore stigma) come stigma di genere, di fatto applicato all’insieme delle donne: «una frusta per mantenere l’umanità femminile in uno stato puro di subordinazione» [21]. Per Rubin non è questione di «vagina sacra», ma di strutture oggettive del controllo sociale che, negando alle donne la libera disposizione di se stesse, favoriscono la prostituzione forzata e contemporaneamente rendono sospetta di prostituzione ogni donna che manifesti un comportamento autonomo (dunque trasgressivo) in rapporto alle norme discriminatorie di sesso/genere, che si tratti di lavoro, di regole matrimoniali, di abbigliamento o di migrazione.

4) Allusioni, senza citazione del loro autore, ad alcune teorie direttamente connesse all’argomento. Esempio: «Occorrerà quindi chiedere a un’analisi materialista dell’economia dei beni simbolici i mezzi per sfuggire all’alternativa rovinosa tra il “materiale” e lo “spirituale” o “l’ideale” […]» (DOM, p. 9, corsivo mio; trad. it. p. 9). Allusione velata ai lavori e al libro L’idéel et le matériel (1984) di Maurice Godelier… che d’altra parte non ha mai presentato questi due concetti come costituenti una «alternativa».

5) Ricorso a riferimenti frammentari (alcuni dei quali ad autrici femministe, ma in quel caso preferibilmente anglosassoni e non francesi), destinati a far credere che il Candidato ha «coperto» l’argomento.

6) Ricorso probabile ad appunti di seconda mano, senza riferimento al testo originale né alle date, o incapacità di prendere appunti. Esempio: alle pagine 46-47 [trad. it. pp. 51-52], il Candidato si riferisce a coloro che parlano della conoscenza del dominio utilizzando «il linguaggio della coscienza». Prima persona citata: Jeanne Favret-Saada, con riferimento al suo articolo intitolato «L’arraisonnement des femmes», pubblicato nel 1987. Vengono citate alcune frasi dell’articolo. È bizzarro, ho l’impressione di averle scritte io… Seconda persona citata: Nicole-Claude Mathieu (ecco) per un articolo che si intitolerebbe «De la conscience dominée» (era in effetti il «titolo corrente»…) e pare essere stato pubblicato in un volume nel 1991. Ordine crono/logico normale, si dice il lettore. Ma ecco che alla fine del paragrafo si rinvia (alla nota 65) a un volume collettivo apparentemente pubblicato nel 1985 e che pure si intitola «L’arraisonnement des femmes». È macramé o cosa?, ci si chiede. E voi lettori mi direte: lei ci lascia così a spaccare il capello in quattro (nel qual caso, non leggete le spiegazioni fornite qui sotto in nota) [22]. Perdonatemi, ma sono preoccupata. Quando si conosce la fatica che molti insegnanti fanno per chiarire e spiegare agli studenti di cosa e di chi e di quando parlano (anche a livello di DEA e di tesi), c’è motivo di essere preoccupati per quelli del professor Bourdieu.

7) Uso di un titolo abusivo e ingannevole per la sua opera. Il titolo estremamente generale «Il dominio maschile» lascia intendere che il Candidato abbia affrontato la totalità dei meccanismi in gioco (e che pertanto farà il punto di lavori precedenti, senza limitarsi a un’allusione paternalista e sdoganante all’«immenso lavoro critico svolto dal movimento femminista» (p. 95; trad. it. p. 104). Ora, l’argomento che di fatto viene trattato è il dominio maschile simbolico o, più esattamente, «la dimensione simbolica del dominio maschile» [23], o perché no «la parte simbolica incorporata nel dominio maschile». (Ma il libro sarebbe stato meno facile da vendere). Di fronte a un tema così vasto, ogni autore ha il diritto, e anche il dovere, di restringere il proprio campo di ricerca; ha anche il diritto di domandarsi se una teoria elaborata per una forma di dominio (nel caso del Candidato, le classi sociali) possa applicarsi a un’altra forma (le classi di sesso, espressione che egli evita di usare) [24]. Ma il rigore intellettuale esige di situare esplicitamente il proprio progetto in rapporto ad altre analisi della questione, e non in rapporto a posizioni fantasticate o deformate.  

8) Conclusione. Benché pieno di annotazioni giuste sui comportamenti pratici e simbolico/inconsci (lo scivolamento tra simbolico e inconscio sarebbe tuttavia da riesaminare) degli uomini e delle donne — annotazioni d’altronde nient’affatto originali, ma sempre utili da ricordare, preferibilmente non limitandosi a citare i propri lavori —, il lavoro del Candidato difetta di rigore tecnico, metodologico e deontologico. Pecca di pensiero, di azione, di omissione e di distorsione. Nel complesso è da interpretare come un rifiuto di lasciare spazio al confronto tra analisi differenti, circostanza che conferisce alla tesi uno statuto assertivo e non dimostrativo. Ci si può chiedere, in compenso, se non si tratti di una dimostrazione particolarmente vistosa di dominio maschile, che raddoppia l’oppressione delle donne attraverso la soppressione o la distorsione delle loro esperienze e delle loro analisi. Come disse, pare, Voltaire a un giovane autore: «Amico mio, nel vostro lavoro ci sono cose buone e cose nuove. Sfortunatamente quel che è buono non è nuovo e quel che è nuovo non è buono». Bisognerebbe aggiungere: quel che c’è di cattivo non è nemmeno nuovo.

Nicole-Claude Mathieu – L’anatomie politique 2, 2014

II. DEL SIMBOLICO E DELLA SUA «RIVOLUZIONE»

Nel 1990 il Candidato informava espressamente i suoi interlocutori della «violenza simbolica, che è una dimensione propria di ogni dominio e che costituisce l’essenziale del dominio maschile» (ACT, p. 11, corsivo mio). Ne rimasi interdetta (interloquée) [25]. Il Candidato forse parlava dei, o dai, salotti del quarto arrondissement parigino, dove la violenza economica, demografica e fisica contro le donne è meno visibile, ma non del 99,9999 % del resto del mondo, e in particolare di quelle numerose società in cui il simbolico è inculcato attraverso la, e contemporaneamente alla, violenza fisica (anche agli uomini, ma in proporzione qualitativa e soprattutto temporale inferiore che alle donne).

In breve, pare proprio che il Candidato consideri il principio del simbolismo gerarchico tra i sessi (la cui permanenza attraverso le variazioni storiche e culturali identifica correttamente come problematica) come il fondamento, o il fondamento principale del dominio maschile. Non posso impedirmi di scorgere qui una tesi non solo parziale, ma idealista, benché egli si difenda dall’idealismo. Non mi è chiaro se il «materialismo» a cui la sua analisi si riferisce riguardi lo studio, che egli invoca, dell’economia oggettiva della circolazione dei beni simbolici o la sua insistenza sull’iscrizione del simbolico nei corpi, tramite «somatizzazione dei rapporti sociali di dominio», «incorporazione del dominio», etc. — termini che fanno parte della sua teoria delle «disposizioni» (inconsce) e che d’altronde non contesto.

Non ho nulla contro l’idea secondo cui saremmo tutti e tutte degli isterici (traduco, evidentemente), ma comincio a preoccuparmi quando leggo ripetutamente che questa incorporazione avviene «come per magia», «come per incanto». A parte il fatto che tutta l’argomentazione di Freud consiste nel dimostrare che non c’è nulla di magico nei meccanismi del sogno o nella somatizzazione isterica, a parte il fatto che continuo a non vedere nulla di fatato e ancor meno di magico nei rapporti di potere uomini/donne, mi chiedo se questi termini siano stati utilizzati dal nostro autore anche quando trattava di «disposizioni» a proposito di altre cose oltre ai sessi: delle classi sociali per esempio (confesso di non avere avuto il tempo di leggere l’insieme della sua opera, anzi del suo lavoro — al maschile, come si deve fare se si evoca il simbolismo sessuato). In ogni caso, non è stupefacente che per suffragare la sua personalissima tesi «isterica» sul ruolo preponderante del simbolico nel dominio maschile, il Candidato sfrondi dalle sue esemplificazioni un’enorme mole di poste reali e di rapporti di forza affatto concreti.

Uno dei pericoli del ricorso esclusivo o quasi esclusivo alle spiegazioni o alle interpretazioni tramite il simbolico è la simmetrizzazione finale delle categorie implicate nel rapporto di oppressione, anche se l’autore se ne difende, come si vede qui:

Una sociologia politica dell’atto sessuale farebbe emergere che, come sempre avviene in un rapporto di dominio, le pratiche e le rappresentazioni dei due sessi non sono affatto simmetriche. […] l’atto sessuale stesso è concepito dagli uomini come una forma di dominio, di appropriazione, di “possesso”. Nasce di qui lo scarto tra le attese probabili degli uomini e delle donne in materia di sessualità — insieme ai malintesi, legati a interpretazioni errate dei “segnali”, a volte volutamente ambigui o ingannevoli, che ne risultano. Contrariamente alle donne — socialmente preparate a vivere la sessualità come un’esperienza intima e fortemente investita di affettività, che non include necessariamente la penetrazione ma può inglobare un ampio ventaglio di attività — parlare, toccare, accarezzare, stringere ecc. —  i maschi sono portati a “compartimentare” la sessualità, concepita come un atto aggressivo e soprattutto fisico teso alla penetrazione e all’orgasmo (DOM, p. 26; trad. it. p. 29).

Abbiamo qui le attese e i malintesi, le interpretazioni e i segnali, di «concezioni» differenti della sessualità: esperienza intima e affettiva per la donna, atto aggressivo e fisico per l’uomo. Notiamo che nulla di tutto questo è completamente falso. Ma bisogna leggere questo passaggio per ciò che non dice. Una parola non viene pronunciata: lo stupro, gli atti sessuali forzati. Una vera «sociologia politica dell’atto sessuale» — come la praticano da anni le femministe, rivelando la frequenza e il significato di potere degli stupri detti coniugali e degli stupri incestuosi [26], così come di altri stupri, crimini di guerra o, come dire, “di pace”?, e ricavandone dei progressi giuridici notevoli — non potrebbe eliminare dal quadro queste «pratiche» che in effetti «non sono affatto simmetriche» per i due sessi. L’aspetto più oltraggiosamente perverso della faccenda è che i due riferimenti citati, in nota, sono i libri di Diana Russell: The Politics of Rape e Sexual Exploitation — riferimenti in lingua originale (l’inglese), come è normale ma qui del tutto funzionale. Poiché la parola stupro non compare in francese nel testo, e il suo equivalente rape si trova a caratteri minuscoli alla nota 32, molti lettori/lettrici non avranno colto l’impostura. Sia che non leggano l’inglese (pur essendo in compenso capaci di chiacchierare in ittita o in aramaico), sia che lo leggano — e ho fatto l’esperimento con persone bilingui inglese/francese — semplicemente saltano le note.

Non avendo fatto la minima allusione nel testo alle pratiche effettive dell’«atto sessuale» maschile, ovvero allo stupro come pratica coerente e logica delle «inclinazioni» predatorie degli uomini [27]; avendo parlato soltanto, per quanto riguarda le donne, della stimolazione dell’orgasmo come «attestazione esemplare del potere maschile di rendere l’interazione tra i sessi conforme alla visione degli uomini, che si aspettano dall’orgasmo femminile una prova della loro virilità» (DOM, p. 27; trad. it. p. 30), cosa non falsa ma parziale, il Candidato può allora concludere la sua «sociologia politica dell’atto sessuale» (!) rimettendo in simmetria le attitudini dei due sessi, non a livello di contenuto simbolico (di cui ha detto che non era il medesimo), ma simmetrizzando il rapporto al simbolico e, per di più, il rapporto all’esperienza stessa:

Se il rapporto sessuale appare [sic, notare l’ambiguità del termine] come un rapporto sociale di dominio, ciò dipende dal fatto che è costruito attraverso il principio di divisione fondamentale tra il maschile, attivo, e il femminile, passivo, e che questo principio crea, organizza, esprime e dirige il desiderio: quello maschile come desiderio di possesso, come dominazione erotizzata, quello femminile come desiderio della dominazione maschile, come subordinazione erotizzata o addirittura, al limite, come riconoscimento erotizzato del dominio (DOM, p. 27; trad. it. p. 30).

Ehi! Esprimiamoci geometricamente. Ecco una figura simmetrica (←│→) in rapporto a una linea di demarcazione. Ora esprimiamoci umanamente. Se alla parte destra si assegna un valore erotico maggiore (perché attiva) rispetto alla parte sinistra (passiva), il risultato sarà (←│→→); la linea verticale rappresenta la demarcazione simbolica tra uomini e donne, il contenuto di ogni categoria è visibilmente differente; ma quale matematico vi dirà che la figura che include il rapporto tra ← e │è simmetrica a quella che include il rapporto tra │e →→? È tuttavia quel che succede quando si passa dal dominio erotizzato alla subordinazione erotizzata. Si ristabilisce una (falsa) simmetria di funzionamento.

Può ben darsi che nelle fantasie erotiche delle donne, particolarmente nella masturbazione solitaria, il pensiero della sottomissione sotto forma di coazione, percosse e stupro induca una soddisfazione erotica (ed è forse una delle gravi mutilazioni mentali inflitte alle donne dalla loro condizione obiettiva e generale di non autonomia in rapporto agli uomini). In compenso è certo, secondo innumerevoli testimonianze, che nei rapporti concreti di coazione sessuale (e dio sa se sono frequenti, in particolare all’interno del matrimonio in tutte le società, ma anche in moltissime prime esperienze sessuali delle ragazze [28]), la simulazione dell’orgasmo — di cui il Candidato parla, riferendosi a Catharine MacKinnon, come di un’«attestazione esemplare del potere maschile di rendere l’interazione tra i sessi conforme alla visione degli uomini» (p. 27) — non è la reazione più diffusa tra le donne (ed è anche una delle ragioni addotte dagli uomini per ricorrere alle prostitute, e uno dei “trucchi” che queste utilizzano con piena cognizione di causa). Si trovano, invece, nelle testimonianze delle donne sui rapporti sessuali, molti «aspetto che finisca», per paura di una separazione se sono sposate o in coppia, e in termini più generali per paura (realistica) di scatenare la violenza fisica, per paura di disturbare i figli, i vicini, etc., per non parlare della paura (realistica anch’essa) della morte in caso di stupro «caratterizzato». Che il dominio aggressivo venga erotizzato dallo stupratore è, invece, un fatto appurato.

A parte il fatto che l’erotismo non attinge soltanto alla simbolica dei sessi, l’incorporazione erotizzata del dominio alla maniera di Bourdieu sembra una variante dello stereotipo sul masochismo femminile. Ma Bourdieu ha già risposto! O ha creduto di rispondere segnalando (p. 46) che per lui non è questione di affermare che le donne siano responsabili della loro oppressione, né che esse «scelgano delle pratiche sottomesse» (corsivo dell’autore), né che esse «‘godano’ dei trattamenti che vengono loro imposti». Ma che, per ogni dominato:

occorre ammettere allo stesso tempo che le disposizioni “sottomesse”, in nome delle quali si ha buon gioco ad “accusare la vittima”, sono il prodotto delle strutture oggettive e che tali strutture NON devono la loro efficacia CHE alle disposizioni che innescano e che contribuiscono alla loro riproduzione. Il potere simbolico non può esercitarsi senza il contributo di coloro che lo subiscono e che NON lo subiscono PER NESSUN ALTRO MOTIVO oltre al fatto che lo costruiscono. […] occorre prendere atto e render conto della costruzione sociale delle strutture cognitive che organizzano gli atti di costruzione del mondo e dei suoi poteri. E percepire così chiaramente che questa COSTRUZIONE PRATICA, lungi dall’essere l’atto intellettuale cosciente, libero e deliberato di un “soggetto” isolato, è, invece, l’effetto di un potere, inscritto durevolmente nel corpo dei dominati sotto forma di schemi di percezione e di disposizioni (ad ammirare, rispettare, amare ecc.) che rendono sensibili a certe manifestazioni simboliche del potere (DOM, p. 46, maiuscoletto di N.-C. M; trad. it. pp. 50-51, leggermente modificata).

Si è visto che le «disposizioni sottomesse» non sono sempre provocate, ma ammettiamo che lo siano in certi contesti, come sul mio luogo di lavoro dove le donne si precipitano a lavare i piatti dopo le mangiate collettive. Ancorché il 99,9999% degli uomini si sia eclissato discretamente o discuta di teoria lì nei paraggi, ma non troppo vicino, non si vede per chi altro vengano lavati i piatti, e che ciò che è «impensabile» non è soltanto, simbolicamente, che i piatti possano essere lavati dagli uomini, ma concretamente, che non vengano affatto lavati. Si tratta di una delle «strutture oggettive» che provocano le disposizioni? Poiché le strutture oggettive a cui si riferisce il Candidato sono soprattutto «strutture cognitive», scorgo in quelle donne una struttura cognitiva che non dipende soltanto dall’inconscio simbolico.

Ma ancora, torniamo alla frase citata sopra. Se si sostituiscono i «non… che» con il loro equivalente più chiaro: «unicamente», si legge dunque che: coloro che subiscono il potere simbolico lo subiscono unicamente perché lo costruiscono come tale. Bisogna intendere che se i dominati non lo costruissero come potere, questo potere simbolico non avrebbe degli effetti, o non esisterebbe nemmeno? È vero che ci viene detto spesso che i dominati non possono non accordare la propria adesione al dominante (DOM, p. 41; trad. it. p. 45), ma tralasciamo questo problema per il momento, per soffermarci qui su una nuova simmetrizzazione. Se l’ordine del mondo (lo scambio di donne, la produzione e la riproduzione, etc.), come dice d’altronde l’autore, è costruito dagli uomini, che egli designa (per esempio a p. 50; trad. it. p. 54) come gli «agenti attivi», mentre le donne sono gli «agenti passivi», come si può sostenere che la dominata costruisce, anche «praticamente» ancorché inconsciamente, le strutture del «potere simbolico» — cognitive o di altro tipo? Voglio dire, come si può usare lo stesso termine per il dominante e per il dominato? Tanto più che (per esempio p. 48; trad. it. p. 52), tra le «strutture di cui queste disposizioni sono il prodotto», l’autore insiste in particolare sulla «struttura di un mercato dei beni simbolici la cui legge fondamentale è che le donne vi siano trattati come degli oggetti […]» (corsivi miei) [29]. Vi vedo ancora l’effetto di una riflessione insufficiente sul rispettivo rapporto al simbolico del dominante e del dominato — una semplice traslazione sul dominato (tramite trasposizione) del punto di vista dominante [30].

Il ricorso esclusivo al simbolismo dei sessi (alto/basso, dritto/curvo, esteriore/interiore, etc.) sembra d’altronde, in generale, particolarmente idoneo a produrre questi effetti di simmetrizzazione. È così per esempio che continuano a ragionare molti etnologi a proposito dell’escissione e della circoncisione in Africa, ratificando la versione di un vecchio saggio dogon: l’escissione e la circoncisione sarebbero simbolicamente comparabili e simmetrici, poiché la prima, con l’ablazione della clitoride, rimuoverebbe la mascolinità dalla ragazza e la seconda, con l’ablazione del prepuzio, leverebbe la femminilità al ragazzo. Ricerche più recenti hanno mostrato che il simbolismo nei due casi ruota intorno al potere maschile: conferma della virilità per i ragazzi e interdizione di innalzarsi al livello degli uomini per le ragazze, mentre il senso principale di questa pratica è di renderle «sposabili», vale a dire di porle sotto l’autorità di un uomo. Non c’è simmetria inversa, ma senso unico [31].

A proposito di senso unico, è anche ciò che afferma Bourdieu della circoncisione in Cabilia, «rito di istituzione della mascolinità per eccellenza», che crea «una separazione sacralizzante […] tra coloro che sono sociamente degni di riceverla e quelle che ne sono per sempre escluse, cioè le donne» (DOM, p. 30, corsivo dell’autore; trad. it. p. 34). Certo, l’escissione non esiste in Cabilia; non per questo è ammissibile non aver fatto la minima allusione alla rimozione non solo simbolica, ma fisica, di tutto o di parte del sesso (e ciò concerne più di cento milioni di donne nel mondo, tra cui la Francia) in un libro che, lo ripeto, si intitola IL dominio maschile e che si interessa di pratiche «mitico-rituali» e della… iscrizione del sociale nel corpo.

Bourdieu fa spesso riferimento al pensiero mitico e ai riti, che certamente dipendono dal simbolico, ma a partire da lì opera uno scivolamento verso l’«inconscio sociale», che egli privilegia tra i meccanismi di dominio. Ma miti e riti non dipendono solo dall’inconscio. Essi comportano spesso discorsi e pratiche chiaramente enunciate sulla necessaria disuguaglianza dei sessi e sull’obbligo di obbedienza per le donne.

Ho notato soltanto due volte la parola «oppressione» nel libro, ed essa non compare nell’indice (mentre una parola citata una volta sola, come agorafobia a p. 45, vi si trova) — mentre l’espressione «condizione femminile» appare almeno sette volte. Ricordiamo che questa espressione è scomparsa volontariamente da lustri nella letteratura femminista, precisamente nella misura in cui non dice nulla del rapporto tra le classi di sesso, esattamente come con il marxismo non si è potuto più parlare, come facevano Villermé o Le Play, di «condizione operaia» [32]. È tuttavia proprio il nostro candidato che rimprovera alle «femministe» (percepite come un insieme indifferenziato) di lasciarsi rinchiudere nella categoria «donne», difendendo in questo modo un «particolarismo» [33] — cosa che è in gran parte falsa, e che all’inizio fu (nell’espressione Women’s Studies) un riequilibrio necessario dell’attenzione su un oggetto/soggetto invisibilizzato, e non una chiusura su una categoria [34]. Infine, sono state create delle espressioni generalizzanti appunto per esprimere l’aspetto relazionale, dialettico, delle categorie in questione: sessismo [35], sistemi di sesso/genere (Rubin, nel 1975), sessaggio (Guillaumin, nel 1978), rapporti sociali di sesso, etc. — ma tutto ciò senza dubbio non è sufficientemente distinto per l’autore di La distinzione. Egli arriva addirittura, esprimendosi «in maniera più relazionale», a parlare di «rapporti tra i generi» (p. 124, corsivo mio) — senza arrivare ai rapporti sociali di genere (gender relations), espressione diventata corrente nella ricerca.

Notiamo ancora, come segno di ignoranza del «femminismo», questa frase: «[…] la rivoluzione simbolica evocata dal movimento femminista non può ridursi a una semplice conversione delle coscienze e delle volontà» (DOM, p. 47, corsivo mio; trad. it. p. 52). Il minimo che si possa dire è che non si tratta della «rivoluzione» principale evocata dai movimenti femministi! Non è sul corpo simbolico o simbolizzato, ma sul corpo fecondato dagli uomini che si è fatta e continua a farsi in tutto il mondo la lotta principale delle donne. Un solo gruppo in Francia [36] si è interessato fin dall’inizio a una rivoluzione «simbolica», e ciò avvenne sulla base di una concezione essenzialista della donna e dell’uomo, concezione che il Candidato ha respinto, dopo di noi [37], nel 1990 (ACT, nota 4), riferendosi a «teoriche femministe che si ispirano alla psicoanalisi, sia pure negativamente» — e dicendo che «il [sic] discorso femminista cade molto spesso nell’essenzialismo», con esempi tratti da Irigaray e da Kristeva a suffragio. Questi riferimenti vengono soppressi nel libro Il dominio maschile (qualcuna deve avergli fatto notare il problema). Ma il riferimento alla «rivoluzione simbolica» è rimasto… Sembra tuttavia che il Candidato non abbia compreso alcunché, perché ecco che, senza dubbio per prendere posizione, usa ora (DOM, p. 70; trad. it. p. 77) l’espressione «alcune fautrici della scrittura femminista» (?) per denunciare l’essenzialismo (la scrittura femminile avendo fatto parte, fra le altre, delle idee del gruppo nominato in precedenza e ora rinnovato dalle premure indifferenti del Candidato). Notiamo ancora la sua scoperta migliore: pare che esista un «femminismo detto universalista [che] ignora l’effetto di dominio, e tutto ciò che l’apparente universalità del dominante deve alla propria relazione con il dominato — qui tutto ciò che ha a che fare con la virilità […]» (DOM, p. 69, corsivo mio; trad. it. p. 76). Di ki ki koz? ha detto Zazie che ci perde il suo latino. Quanto ai mezzi originali che il Candidato vedrebbe per fare la (sua) rivoluzione simbolica degli schemi inconsci, non li ho colti.

Scheda di presentazione del libro L’anatomie politique 1991 (Archives FMSH, fonds Nicole-Claude Mathieu)

III. DEL PESANTE FARDELLO DELL’UOMO

Un altro aspetto insidioso della simmetrizzazione è che, secondo Bourdieu, le due categorie sono, sia pure diversamente, dominate dalla dominazione (secondo l’espressione di Marx, dice lui), poiché essa genera in entrambe, a partire dagli stessi schemi dell’inconscio, delle disposizioni, un habitus, etc. «La struttura impone i suoi vincoli ai due estremi del rapporto di dominio» (p. 82; trad. it. p. 83). Ma il Candidato, si sarà capito, è interessato al dominio maschile, e non allo stesso modo all’oppressione delle donne [38]. Ne segue logicamente che ciò che lo preoccupa è l’uomo, cioè se stesso, sempre e ancora, e dunque i comportamenti femminili che lo confortano, e non l’esperienza contraddittoria delle donne. Come dice Michèle Causse:

L’androletto è in effetti un soliloquio. È la produzione mentale, diciamo la patologia linguistica dell’andros che, vittima di un’incrinatura originaria, si è elevato a locutore unico e non ha altro interlocutore che se stesso. Ancor prima di parlare, una donna nell’androcrazia è “interloquita”, nel doppio senso di interdetta-interrotta [39].

Trattandosi di «vincoli» e di «formidabili esigenze» (l’espressione non sarà mai usata per le donne) imposte ai dominanti stessi dalla dominazione di cui beneficiano, leggiamo: «occorre quindi analizzare, nelle sue contraddizioni, l’esperienza maschile del dominio […]» (DOM, p. 76, corsivo mio; trad. it. p. 83), grazie al personaggio del padre in Al faro di Virginia Woolf: il signor Ramsay, preso tra la sua alta opinione di se stesso, la necessità di realizzare il suo ruolo ideale maschile, intellettuale e paterno, e le sue bambinate. «Il fatto che, tra i giochi costitutivi dell’esistenza sociale, quelli considerati seri siano riservati agli uomini […] contribuisce a far dimenticare che l’uomo è anche un bambino che gioca all’uomo» (DOM, p. 82, corsivo mio; trad. it. p. 90). Gli uomini, essendo «designati molto presto, soprattutto attraverso i riti di istituzione, come dominanti […sorvolo sulla parte in latino], hanno il privilegio a doppio taglio di darsi ai giochi di dominio» (ibid.).

Sia pure! Sebbene… torneremo subito sulle «contraddizioni». Ma sul doppio taglio, ci piacerebbe aggiungere che uno dei tagli (la tirannia maschile che si abbatte sulle donne) è nettamene più remunerativo di quanto l’altro (la difficoltà di essere uomo) sia tagliente. Quanto al rischio di «dimenticare che l’uomo è anche un bambino che gioca all’uomo», o di dimenticare «quella specie di sforzo disperato, e alquanto patetico nella sua incoscienza trionfante, che ogni uomo deve compiere per essere all’altezza della sua idea infantile dell’uomo» (DOM, p. 76; trad. it. p. 83), mi sembra che l’80% delle produzioni letterarie e cinematografiche maschili non abbiano smesso di ripeterci quanto sia difficile diventare ed essere un «uomo». E se si vuole ricorrere a degli specialisti, senza parlare della psicoanalisi, la letteratura etnologica è letteralmente invasa da descrizioni e interpretazioni dei rituali e delle diverse esperienze psico-sociologiche che i giovani uomini devono subire per essere separati dal mondo delle donne e raggiungere l’ideale di virilità. I rituali che obbligano le ragazze a «restare» nel mondo delle donne, certamente meno numerosi e spesso meno elaborati, di solito vengono studiati pochissimo. Quanto all’esperienza psico-sociologica delle donne, nel loro rapporto con se stesse e con la femminilità imposta, essa non ha interessato quasi nessuno, a parte le femministe — tra cui Virginia Woolf, per tornare all’oggetto della nostra discussione.

Virginia Woolf – To the Lighthouse, 1927

Ma attenzione, il Candidato, alias Servizio di informazioni stradali, ci comunica le vie traverse da seguire (le sue) per non ingolfarsi stupidamente in una fiumana di pecore. Ecco una delle sue proposizioni più insultanti:

Occorre quindi analizzare, nelle sue contraddizioni, l’esperienza maschile del dominio, prendendo come guida Virginia Woolf, ma NON TANTO L’AUTRICE DI QUEI CLASSICI DEL FEMMINISMO da tutti citati che sono Una stanza tutta per sé […] o Le tre ghinee […], quanto la scrittrice di Al faro che, grazie probabilmente all’anamnesi favorita dal lavoro di scrittura […], propone un’evocazione delle relazioni tra i sessi LIBERATA DA TUTTI I CLICHES SUL SESSO, IL DENARO E IL POTERE che i suoi testi più teorici ancora comportano (DOM, p. 76; maiuscoletto mio; trad. it. pp. 83-84).

Ci si potrebbe domandare com’è che l’anamnesi dell’infanzia borghese nel lavoro di scrittura di François Mauriac (che per di più è insospettabile di femminismo [40]) non gli abbia impedito di scrivere quel «cliché» sul sesso, il denaro e il potere costituito dal personaggio di Thérèse Desqueyroux, che è una delle più belle evocazioni della reclusione delle donne:

Si alzò, aprì la finestra, sentì il freddo dell’alba. Perché non fuggire? Solo quel davanzale da scavalcare. […] Già Thérèse trascina una poltrona, l’accosta alla finestra. MA NON HA DENARO; POSSIEDE INUTILMENTE MIGLIAIA DI PINI: non può riscuotere un franco senza la mediazione di Bernard [suo marito] (Mauriac [1927] 1989, p. 115; maiuscoletto mio; trad. it. p. 102).

Se, di Al faro [41], Bourdieu ha ben compreso il personaggio del signor Ramsay e il suo egotismo tipicamente maschile, che ne è della signora Ramsay? Aggrappandosi sempre al suo schema maschile/femminile // alto/basso // dritto/curvo, etc., egli ha scelto di ricordare, del personaggio, soltanto ciò che conforta la sua tesi sulle «disposizioni subalterne» (affettive e corporee). Ora, se c’è qualcuno che non sembra aver affatto «incorporato» la passività e la tendenza a curvarsi, è proprio lei. È lei a porre le vere questioni metafisiche, e a questo livello manifesta la sua dirittura. La signora Ramsay non è tutta raccolta nell’attenzione e nella «lucidità inquieta e indulgente» (DOM, p. 76; trad. it. p. 84) verso suo marito, che Bourdieu privilegia. Ella tenta di creare un’armonia di cose e di persone, che è in effetti il compito delle donne e della padrona di casa che è, ricevendo degli invitati, ma spesso lascia la casa per le sue faccende, di cui non informa nessuno, e anche lì parte, ben diritta. Quanto alla «curvatura», l’inclinazione della testa, il silenzio davanti alle idiozie di suo marito, quello che Bourdieu non ha ricordato, tra le altre cose, sono le numerose annotazioni nel romanzo sulla sua stanchezza [42]. Egli non ha nemmeno voluto capire il personaggio di Lily Briscoe, pittrice nubile, ribelle alla presenza greve del signor Ramsay e affascinata dalla signora Ramsay (ancorché seccata dai suoi tentativi di fare sposare tutti quanti e dalla sua debolezza verso il marito) — Lily che è il contrappeso o il contrappunto (e non il contrario) della signora Ramsay, vale a dire che i due personaggi sovrapposti restituiscono l’armonia (o piuttosto la disarmonia) d’insieme dell’esperienza delle donne.

Ricordare delle «donne» unicamente quel che si presta a mostrare che esse «aderiscono» agli schemi degli uomini (o che sono delle puttane, e non è il caso di Bourdieu, ma di altri) è molto classico. Non meno classica, ma a mio parere insufficientemente sottolineata, è l’eliminazione delle ragazze da una quantità di riflessioni sulle «dooonne», quale che sia il campo, «scientifico» o letterario [43]. Ne è una prova ulteriore la rapida presentazione del romanzo, «ridotto a un riassunto scolastico» (ACT, p. 22, soppresso in DOM), fatta dal Candidato. Abbiamo letto, relativamente alla fine del romanzo, che dieci anni dopo la morte della signora Ramsay suo marito infine intraprende la gita al faro, con suo figlio. In realtà, il signor Ramsay è accompagnato da un figlio (James) e da una figlia (Cam). Da un punto di vista «scolastico», il riassunto era già da valutare come «cattivo», dato che aggiungere «e sua figlia» (dodici caratteri spazi inclusi) a «con suo figlio» non avrebbe allungato molto il testo. Ma non è questo il problema principale. Per comprenderlo, occorre sapere che nella sua analisi della resistenza dei bambini in generale all’obbligo di sottomettersi ai diktat paterni, non viene citata che la resistenza interiore di James (DOM, p. 79; trad. it. p. 87). Ora, alla fine del romanzo, sulla barca che li conduce al faro, non solo Cam e James — legati da un patto contro il loro padre: «resistere alla tirannia fino alla morte» (V.W., p. 221, 227 e altrove; trad. it. p. 148) — gli oppongono entrambi un silenzio feroce, ma mentre James teme che lei finisca per capitolare come le donne, perché una volta ha risposto a una domanda di suo padre (V.W., p. 225-227; trad. it. pp. 150-151), Cam, cosciente dell’affetto che nonostante tutto nutre per lui, si dice guardando James: «Tu non sei esposto a questa passione, a questo conflitto di sentimenti, a questa straordinaria tentazione» (V.W., p. 228; trad. it. p. 153). Woolf, attraverso la ragazza, ci fa vedere la coscienza che le donne hanno di essere divise, la coscienza delle contraddizioni. Ma di più: Cam osserva in suo fratello, a cui (naturalmente) è stato affidato il timone, la stessa ricerca maschile di approvazione che Woolf descriveva nel signor Ramsay: «Suo padre l’aveva apprezzato. Dovevano credere che lui era perfettamente indifferente. Ma l’hai ottenuto, pensò Cam» (V.W., p. 274-275; trad. it. p. 183).

Se il Candidato si fosse veramente interessato all’esperienza delle donne, e avesse fatto il confronto tra le due categorie, avrebbe forse rinunciato a parlare di «contraddizioni» trattando della classe degli uomini. Quale che sia la società in questione, se c’è dominio maschile, il problema degli uomini è quello di un adattamento tra capacità socio-individuali e ideale dell’Io virile implicato dall’ideale sociale della virilità, che è anche il modello ideale dell’umano. Il problema delle donne consiste effettivamente nelle contraddizioni tra l’imposizione (e non solo simbolica né inconscia) di una personalità individuale e sociale ridotta e determinata in minore umanità, e il sentimento della propria «umanità» e libertà, della propria indeterminazione [44]. Perché nessun essere umano — fosse pure nelle peggiori condizioni di oppressione o di degradazione imposta — può non pensare se stesso.

Le dominate non fanno che piegarsi allo schema inconscio di se stesse e dei dominanti che il sistema procura loro. E non hanno bisogno di essere intellettuali di alto livello per cogliere, se non teorizzare, che qualcosa non va, non fosse che di fronte al disprezzo, agli insulti, alle percosse e alle limitazioni della loro esistenza [45]. Basta paragonare, all’interno di una stessa area culturale, la lotta contro la loro oppressione di donna e contro le strutture sociali, di Phoolan Devi, piccola contadina analfabeta di bassa casta mallah nell’Uttar Pradesh induista e quella di Taslima Nasreen, borghese istruita del Bangladesh, di famiglia musulmana [46]. Due coscienze all’opera, in condizioni sociali che non potrebbero essere più opposte.

IV. SIMBOLICO, COSCIENZA, RESISTENZA

Tutte le donne hanno coscienza, prima o poi, della loro negazione o della loro umiliazione in quanto persone. La questione non riguarda solo l’inconscio simbolico delle donne, ma il disturbo permanente instaurato dall’oppressione e le condizioni sociali che permettono una resistenza efficace, pensata collettivamente.

Perché se Bourdieu si meraviglia che non ci siano più «trasgressioni, sovversioni, delitti e “follie”», poniamo, sulla piazza della Bastiglia o della Concordia, grazie allo «straordinario accordo di migliaia di disposizioni — o di volontà» che rispettano i simboli (codici di circolazione), bisogna pur sapere che ci sono molti incidenti nonostante il codice di circolazione e di uso delle donne. Le minime resistenze delle donne provocano in effetti degli «incidenti», ma di cui loro sono le uniche vittime e i più frequenti dei quali sono le percosse e le ferite. Dal momento in cui le donne si spostano di un millimetro dal posto (simbolico?) che viene loro concretamente imposto, si deve prevedere la loro uccisione. Bourdieu dice che le condizioni sono cambiate in Cabilia. Lascio agli specialisti la cura di rispondere. Ma è informato della quantità di suicidi di ragazze [47] nell’Algeria «moderna», dove viene mantenuto in maniera del tutto consapevole dall’assemblea degli uomini e contro il parere dei movimenti delle donne un «codice» di famiglia che non ha nulla della violenza simbolica dolce e invisibile che gli interessa? Sa che nell’Afghanistan dei Talebani che applicano alla lettera e con la forza il simbolismo «donna=interno / uomo=esterno», delle donne si suicidano o, secondo testimonianze recenti, escono per la strada urlando, letteralmente colte da «follia» [48]? Follia che è una forma di coscienza.

Bourdieu mi rimprovera [49] (DOM, pp. 46-47; trad. it. p. 52) di non aver saputo abbandonare il «linguaggio della coscienza» nel mio articolo L’Arraisonnement des femmes sulla coscienza dominata delle donne e le interpretazioni che ne vengono date. Diciamo rapidamente che non ho utilizzato la parola «coscienza» né in uno dei numerosi sensi filosofici né in senso psicoanalitico, ma per essere compresa da ciascuna. In effetti, contrariamente alla maggior parte degli scritti del Candidato, che, terribilmente tortuosi, sono accessibili esclusivamente ai suoi pari in «capitale culturale» (e, ancora, alla condizione di non addormentarsi), la maggior parte degli scritti femministi, anche quelli specialistici, hanno avuto dall’inizio dei movimenti femministi e dei Women’s Studies, la volontà di essere condivisi dal numero più grande possibile di donne. E se ci fosse bisogno di rifugiarsi sotto l’ala di un grand’uomo, ci si potrebbe riferire a Freud stesso, che evocava la coscienza come «un fatto senza equivalenti che non si può spiegare né descrivere […]. Tuttavia, quando si parla di coscienza, ciascuno sa benissimo, in base alla propria esperienza più intima, che cosa si intende» [50].

Per un verso, ho parlato anche dell’invasione dell’inconscio delle donne per effetto della loro situazione oggettiva di subordinazione agli uomini, e della strutturazione dell’Io che ne scaturisce — precisamente a partire da uno studio di Sarah LeVine (1982) sui sogni di ragazze Gusii, nel sud-ovest del Kenya —, e anche della strutturazione della personalità dei dominati tramite la paura, che non è per forza cosciente. Per altro verso, questo orientamento sulla coscienza era necessario nella misura in cui il testo voleva rispondere in parte alle affermazioni di Maurice Godelier (1982) sul consenso dei dominati alla dominazione, che sarebbe «più forte» della violenza dei dominanti. Ma lasciamo stare. Bourdieu non vuole «ripetere» gli altri, io non voglio ripetermi.

Di fatto, non parliamo della stessa cosa. Bourdieu si riferisce agli effetti materiali del simbolico (incorporazione) — dove d’altra parte nulla prova che sia soltanto il simbolico in gioco — e io agli effetti, nella coscienza e nell’inconscio, delle costrizioni materiali, fisiche e psicologiche. Non ho spinto, dice lui, «fino in fondo l’analisi delle limitazioni delle possibilità di pensiero e di azione che il dominio impone alle oppresse» (p. 47, corsivo di P. B.; trad. it. p. 52). Non ne dubito. Ma l’enfasi che, all’inverso, egli pone sulle strutture inconsce non permette di comprendere le resistenze, individuali e ancor meno collettive. Le femministe — e con questa parola non intendo soltanto i movimenti che si designano così, ma ogni donna che resiste —, le femministe cadono dal cielo? Mi sembra che il compito più urgente sia quello di approfondire l’analisi delle diverse forme di resistenza al sistema da parte delle donne, e dei meccanismi di resistenza degli uomini a queste resistenze.

È interessante confrontare oggi i rispettivi argomenti dei due autori. In Maurice Godelier trovavamo un’attenzione ai soggetti-donna e un riconoscimento esplicito della violenza concreta che possono subire da parte degli uomini; ma, poiché esse «acconsentono al loro dominio», «condividendo» la visione maschile dei rapporti tra i sessi, gli uomini non devono darsi troppa pena per stabilire il loro potere (a parte una minaccia di violenza che si profila «all’orizzonte»). L’autore riteneva che il dominio maschile fosse preterintenzionale, e si aveva quasi l’impressione di un’accettazione quasi intenzionale da parte delle donne. Ho tentato di mostrare, fra le altre cose, che il suo ragionamento era di fatto basato su una simmetrizzazione delle due categorie, sul modello di un contratto come questo può esistere tra pari, tra uguali, e di cui ciascuno conosce i termini; ma ho mostrato anche che le donne non hanno conoscenze uguali a quelle degli uomini, né sulla società né sulla concezione (specialmente mitica e rituale) dei sessi. In breve, in Maurice Godelier, le donne erano costruite come «troppo-soggetti», troppo coscienti si potrebbe dire.

In Bourdieu, troviamo un’attenzione maggiore al soggetto-uomo, con un grande interesse per le sue sofferenze, che egli attribuisce a torto a una serie di contraddizioni mentre si tratta di un problema di adattamento, trascurando contestualmente l’effetto di disturbo che le contraddizioni reali dell’esperienza comportano per le donne. Anche lui tiene a dire, in forme diverse, che non c’è un complotto maschile intenzionale, cosa facile dal momento che insiste principalmente sull’incorporazione da parte dei due sessi degli schemi inconsci del dominio maschile. Tuttavia, abbiamo visto gli stessi effetti di simmetrizzazione delle due categorie, i quali conducono a insinuare che le donne costruiscono la loro oppressione tanto quanto gli uomini costruiscono il dominio, ma nell’incoscienza.

Per Godelier le donne «acconsentono», per Bourdieu le donne «aderiscono», perché in entrambi i casi si suppone che le conoscenze siano comuni e simili:

La violenza simbolica si istituisce tramite l’adesione che il dominato NON PUO’ NON ACCORDARE al dominante (quindi al dominio) quando, per pensarlo e per pensarsi, o meglio, per pensare il suo rapporto con il dominante, DISPONE SOLTANTO di strumenti di conoscenza che ha in comune con lui e che, essendo semplicemente la forma incorporata del rapporto di dominio, fanno apparire questa relazione come naturale […]. (DOM, p. 41, maiuscoletto mio; trad. it. p. 45).

Le donne sono «troppo-soggetti» in Godelier, mentre sono «extra-soggetti» per Bourdieu. Che esse siano fuori tema (non sanno trattare il loro soggetto di studio e di lotta), è in ogni caso ciò che pensa Bourdieu delle femministe. Mi vedo ancora obbligata a segnalare un’altra maniera che ha il Candidato di deformare e caricaturizzare la riflessione dei movimenti femministi, caricatura di cui si trova un’eco nel suo attacco alla «filosofia della coscienza»:

Se è vero che, anche quando SEMBRA [notare il termine] fondato sulla forza nuda, quella delle armi, o del denaro, il riconoscimento del dominio presuppone sempre un atto di conoscenza, ciò non significa affatto che si abbia ragione di descriverlo nel linguaggio della coscienza, in una prospettiva intellettualistica e scolastica che, come in Marx (e soprattutto coloro che, seguendo Lukács, parlano di “falsa coscienza”) porta ad attendersi l’affrancamento delle donne dall’EFFETTO AUTOMATICO della “presa di coscienza”, ignorando, in mancanza di una teoria disposizionale delle pratiche, l’opacità e l’inerzia che risultano dall’inscrizione sociale nel corpo [51]. (DOM, p. 46, maiuscoletto mio; trad. it. p. 51).

Se c’è qualcuno che sa che la presa di coscienza non ha «effetto automatico», sono proprio le dominate in lotta! Altrove nel libro (DOM), le femministe, nell’incapacità in cui si trovano di condurre la loro lotta senza mentore, vengono attaccate in termini più diretti, specialmente a proposito dei «gruppi di coscienza» all’esordio del movimento, che sono ricondotti dall’autore a una sorta di individualismo inefficace. Il mentore non ha dovuto fare molta militanza, quale che sia, se non sa che il debutto di un movimento collettivo, l’unico che possa dispiegare un’efficacia nel futuro, ha bisogno di individui che si parlano. Pare che, parlando di donne, Bourdieu sia regredito in rapporto alle sue riflessioni precedenti. Così si poteva leggere nel 1980:

Nella lotta ideologica tra gruppi (classi di età o classi sessuali, per esempio) o tra le classi sociali per la definizione della realtà, alla violenza simbolica, come violenza misconosciuta e riconosciuta, dunque legittima, SI OPPONE LA PRESA DI COSCIENZA dell’arbitrio, che spossessa i dominanti di una parte della loro forza simbolica abolendo il misconoscimento (maiuscoletto mio) [52].

Pare anche, parlando di donne nel rapporto uomini/donne, regredire rispetto alle sue posizioni più tarde, cioè l’Appendice attuale a Il dominio…:  «Qualche questione sul movimento gay e lesbico», movimento al quale dà più credito che al movimento femminista, che non cessa di attaccare bassamente nel libro. Sembra che Bourdieu si indirizzi al movimento omosessuale (principalmente maschile) per apportargli i suoi consigli e al movimento femminista per chiudergli la bocca [53]. Niente di stupefacente in questo. I movimenti gay misti dis-locano la questione dell’eterosessualità sociale concentrandosi sulla sessualità; una parte dei movimenti femministi e lesbici non misti colloca il sistema dell’eterosessualità obbligatoria e l’organizzazione della riproduzione al cuore dell’oppressione delle donne, e questo è più minaccioso.

Nicole-Claude Mathieu – Illustrazione di Agnes Ricart

V. DELL’AMORE

Veniamo all’amore. Il Candidato vi si riferisce nel post-scriptum (ancorché giudicandolo quasi impossibile), proprio come Lévi-Strauss equivocava/invocava, malgrado lo scambio di donne tra uomini, la ricchezza eterna e misteriosa delle relazioni affettive tra i sessi (apparentemente credendoci). Si tratta, pare, dell’ultima risorsa/speranza degli uomini che constatano l’esistenza del dominio maschile. Richiamiamo questa frase, «incessantemente citata» come direbbe Bourdieu, di Lévi-Strauss:

Ma la donna non poteva divenire solo ed esclusivamente un segno: in un mondo di uomini essa è in ogni caso una persona e nella misura in cui la si definisce come segno ci si obbliga a riconoscerla come produttrice di segni. Nel dialogo matrimoniale tra gli uomini, la donna non è mai soltanto ciò di cui si parla: se da un punto di vista generale, le donne rappresentano infatti una certa categoria di segni destinati ad un certo tipo di comunicazione, tuttavia ogni donna conserva un suo valore particolare che nasce dalla sua capacità, prima e dopo i matrimonio, di svolgere la sua parte in un duo. Al contrario della parola, che è divenuta integralmente segno, la donna dunque, pur facendosi segno, è restata anche valore. Così si spiega che le relazioni tra i sessi abbiano conservato quella ricchezza affettiva, quel fervore e quel mistero che senza dubbio hanno originariamente impregnato di sé tutto l’universo delle comunicazioni umane [54].

L’amore è misterioso e la donna è valore, sempre per gli uomini, è ben noto [55]. Ma torniamo a Bourdieu:

L’ “amore puro” […] invenzione storica relativamente recente […] è certo assai raro nella sua forma più compiuta […]. Eppure esiste, malgrado tutto, SOPRATTUTTO NELLE DONNE, tanto da essere eretto a norma, o a ideale pratico, degno di essere perseguito in sé e per le esperienze d’eccezione che procura (DOM, p. 118, maiuscoletto mio; trad. it. p. 128).

Seguono degli enunciati lirici sulla «sospensione della lotta per il potere simbolico suscitata dalla ricerca del riconoscimento e dalla tentazione correlativa di dominare» (corsivo mio), etc. Dunque, l’amore “puro” esiste ai nostri giorni quel tanto che basta per essere eretto a norma (il sentimento produce la norma…?), e poiché esiste «soprattutto nelle donne», se ne deve concludere che sono le donne a produrre questa norma? Bizzarro, per delle dominate. È un altro dei misteri della donna, senza dubbio.

Inoltre, poiché questo sentimento esiste soprattutto nelle donne (il che è vero), il Candidato non pone più la questione. Come per il simbolismo, o piuttosto la simbolica dei sessi, esso sembra cadere dal cielo con lo Spirito Santo. Tuttavia (p. 73, nota 13; trad. it. p. 81) egli aveva notato un legame con le «strutture oggettive» del dominio:

Se le donne sono particolarmente interessate all’amore detto romantico, lo si deve al fatto che hanno interesse a esserlo: oltre a promettere di affrancarle dal dominio maschile, l’amore offre loro, sia nella forma più comune, con il matrimonio, in cui, nelle società maschili, circolano dal basso verso l’alto, sia nelle forme straordinarie, una via, spesso l’unica, di ascesa sociale [56].

Il guaio è che l’amore è rapportato soltanto a un interesse… quello delle donne, senza che ci venga detto che avere una moglie con il pretesto dell’amore è soprattutto interesse degli uomini (che pur essendo sposati possono garantirsi un’indipendenza sessuale ed esistenziale).

Il fatto è che sotto il sentimento dell’«amore puro» che è inculcato alle donne, si nasconde un’ingiunzione all’amore che maschera la dipendenza strutturale nei confronti degli uomini. La dipendenza economica delle donne e la loro prestazione a senso unico di servizi domestici e affettivi persiste attualmente nelle società occidentali, malgrado i progressi giuridici in altri campi. (È il motivo per cui Bourdieu ha torto nel dire che la famiglia non è più la sede principale del dominio maschile). La semplice constatazione statistica del lasso di tempo, molto più breve per gli uomini che per le donne, oltre il quale ci si risposa o si allaccia una relazione di coppia dopo un divorzio o una vedovanza [57] indica che nell’esperienza l’amore non era così puro, né per gli uomini, né per le donne. Certi uomini provano di fatto amore per la nuova compagna, ed è un doppio beneficio. Altri dicono schiettamente che serve qualcuna che si occupi di loro. Molte donne divorziate non si risposano, anche se alcune continuano a credere all’Amore coniugale [58]. Altre sono realiste come gli uomini; come diceva una donna in lutto per il marito deceduto: «Un uomo che portava a casa [X franchi] al mese…».

Che cos’è la norma dell’amore eterosessuale per le donne, in situazione di oppressione? Già da molto tempo analisi femministe e lesbiche all’interno del movimento si sono poste la questione, perché la grande differenza tra l’oppressione di classe sociale e l’oppressione di classe di sesso è, nel secondo caso, il corpo a corpo obbligatorio tra l’oppressa e il suo oppressore [59]. Obbligatorio in due sensi: richiesto dalla definizione stessa dei «sessi come complementari» e implicante un dispositivo serrato di controllo sociale. Gayle Rubin (1975) analizzando l’articolo di Lévi-Strauss sulla famiglia (1956) — in cui quest’ultimo, insistendo sul carattere artificiale della famiglia, vede nella divisione del lavoro «un mezzo per creare tra i sessi una mutua dipendenza, sociale ed economica […] conducendoli in quel modo a riprodursi e a fondare una famiglia» —, concludeva (già) che Lévi-Strauss non era lontano dal dire che l’eterosessualità, lungi dall’essere naturale, fosse istituita… Ma questa norma pratica dell’amore nel matrimonio (o bisognerebbe dire dell’amore malgrado il matrimonio) non è soltanto il prodotto di «schemi inconsci». Essa è anche scientemente (e commercialmente) mantenuta. «Soprattutto nelle donne», eh sì. Ed è l’oggetto dell’interrogazione del libro di Pascale Noizet, L’idée moderne d’amour. In questa tesi di sociosemiotica [60], Noizet mostra che a partire dal XVIII secolo il matrimonio non è più trattato nella letteratura come una convenzione sociale più o meno soddisfacente, né l’amore come una sfida alle costrizioni della società (Romeo e Giulietta). Ma che l’amore è ormai considerato come un rapporto tra due individui sessuati in conflitto. Dal romanzo psicologico del XVIII secolo alla letteratura popolare del XIX e del XX secolo, e specialmente i romanzi rosa Harlequin, la risoluzione del conflitto si produrrà attraverso la «malattia d’amore» che infine raggiunge miracolosamente («come per incanto», direbbe Bourdieu) l’eroina (e lei soltanto) malgrado le sue precedenti reticenze, e la conduce a «scegliere» il matrimonio. I romanzi rosa, stampati in milioni di esemplari in tutte le lingue, sono dei romanzi d’amore popolari, scientemente destinati alle donne, e la maggior parte delle autrici sono anch’esse donne. Attualmente integrano addirittura una sorta di problematica «femminista» nell’eroina, ma la risoluzione finale del conflitto psicologico è sempre la stessa per la donna: l’amore [61]. Così le donne possono, nell’amore «romanzesco» in cui vengono trattenute per «risolvere» le contraddizioni che potrebbero avvertire, trovare al tempo stesso un’eco dei loro problemi con gli uomini e la garanzia che l’«amore» li trasformerà.

Non era questo il parere di Lily Briscoe, in pieno conflitto psicologico, anche lei (proprio come Cam nei confronti di suo padre). Lily ha appena pensato all’«umiliazione», all’«indebolimento spirituale» che le sembra provocare il matrimonio, a cui «lei non è obbligata»:

[…] sentimenti violentemente opposti […] battagliavano nella sua testa […] È così bello, così eccitante, l’amore, che al suo orlo io tremo […] nove persone su dieci, se richieste, avrebbero risposto che non volevano altro; MENTRE LE DONNE, a giudicare dalla sua esperienza, da parte loro, SENTIVANO PIUTTOSTO CHE NO, NON E’ QUESTO CHE VOLEVANO, non c’è niente di più noioso, puerile e disumano dell’amore. Eppure è anche meraviglioso e necessario. E allora, e allora? [62]

Ho affrontato, certo, solo alcuni dei numerosi punti criticabili del saggio di Bourdieu. Che dire in fin dei conti de Il dominio maschile? Che è un libretto fitto e soffocante; non graffierà gli uomini, ma confonderà un po’ di più, ce ne fosse bisogno, la coscienza delle donne. Una confusione che assomiglia molto a un imbroglio. Per alleviare la mia collera, avrei dovuto scegliere come titolo: «Bourdieu o la dotta ignoranza» [63].

«L’oppressore non intende ciò che dice il suo oppresso come un linguaggio, ma come un rumore. È nella definizione dell’oppressione».

Christiane Rochefort [64]

Ringrazio per gli scambi di vedute Christine Arnault, Michèle Causse, Danielle Charest, Michèle Gerlier, Liliane Kandel, Anne Le Gall e Annie Le Palec.




NOTE

(*) N. C. Mathieu, Bourdieu ou le pouvoir auto-hypnotique de la domination masculine, in Ead., L’anatomie politique II. Usage, déréliction et résilience des femmes, La Dispute/SNÉDIT, Paris 2014, pp. 53-89. Il testo è una versione leggermente modificata del testo pubblicato su «Les Temps Modernes», n. 604, mai-juin-juillet 1999, pp. 286-324. Il «potere ipnotico del dominio» è un’espressione di Virginia Woolf, citata con ammirazione da Bourdieu.

[1] Si tratta della riedizione, grazie al sostegno dell’Associazione nazionale di studi femministi, di due studi fondamentali dell’antropologa italiana: Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», XIX, 3-4, 1979, pp. 5-61 e Fertilité naturelle, reproduction forcée, in N.-C. Mathieu (dir.), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes, Editions de l’EHESS, Paris 1985, pp. 61-146.

[2] Citiamo a proposito di questo libro il bollettino n. 6 (giugno-luglio-agosto 1998) delle edizioni L’Harmattan: «[…] questo saggio intende rispondere a un duplice interrogativo: come e perché i soggetti minoritari, e le donne in particolare, se talvolta prendono la parola nel campo mediatico creando i propri giornali, non riescono a conservarla? Come e perché i media mainstream non danno conto del punto di vista dei soggetti minoritari, in particolare degli eventi che li riguardano?».

[3] Nel suo libro documentato, aspro e spesso molto divertente, Jeanine Verdès-Leroux nota: «È molto imprudente in una conclusione riferirsi all’ultima produzione di Pierre Bourdieu: poiché egli pubblica tutto ciò che dice, rischio nelle prossime tre o quattro settimane di inciampare su un nuovo piccolo tomo…». Eccolo. (Dispiace d’altronde che l’autrice non abbia ritenuto necessario includere nella sua critica l’articolo del 1990).

[4] «La domination masculine», Actes de la recherche en sciences sociales (citato infra con l’abbreviazione ACT); e La domination masculine (citato infra con l’abbreviazione DOM). [Per la traduzione italiana di DOM il riferimento è Il dominio maschile, trad. it. di Alessandro Serra, Feltrinelli, Milano 2009].

[5] Cinque interviste a Bourdieu su Télérama, dal n. 2532 al 2536 (dal 25 luglio al 22 agosto 1998). Lettere dei lettori e commenti nei numeri dal 2536 al 2538. Queste interviste erano state precedute, a beneficio di un pubblico forzatamente più ristretto, dall’anticipazione del Preambolo del libro su Le Monde diplomatique, n. 533, agosto 1998. I redattori del giornale, suppongo, avevano messo come cappello introduttivo in maiuscolo: «La lotta femminista al cuore delle battaglie politiche». Forse non avevano letto il seguito? 

[6] O come Nos dommages et leur intérêts, titolo dato da Monique Plaza (1978) alla sua analisi della giustificazione dello stupro in Michel Foucault. Cfr. https://manastabalblog.wordpress.com/2018/11/14/i-nostri-danni-e-i-loro-interessi/.

[7] «Arma da getto […] che ritorna al proprio punto di partenza se l’obiettivo è mancato» (Le Robert, corsivo mio). Non so se la definizione sia giusta, ma si applica al caso in esame.

[8] Nella sua analisi del personaggio del signor Ramsay in Virginia Woolf, su cui torneremo, Bourdieu parla dell’«avventura intellettuale» come di qualcosa  che permette di conseguire un capitale simbolico di celebrità (ACT, p. 23). In ogni caso, la dura avventura intellettuale delle femministe non ha né questo risultato, né soprattutto questo scopo.

[9] Cfr. Colette Guillaumin, «De la transparence des femmes. Nous sommes toutes des filles de vitrières» (1978).

[10] Esempio di insulto diretto: uno dei miei colleghi, dopo che avevo fatto una comunicazione sull’oppressione generalizzata delle donne a un colloquio di antropologia: «Allora, hai tirato ancora fuori il tuo marchingegno?». È da notare che l’ambiente «scientifico» francese è uno dei più misogini e antifemministi dei paesi occidentali.

[11] Secondo Bourdieu, «[…] anche se non vogliamo certo attribuire agli uomini strategie organizzate di resistenza, possiamo supporre che la logica spontanea delle operazioni di cooptazione […] affondi le sue radici in un’apprensione confusa, e fortemente pervasa di emozione, del pericolo che la femminilizzazione fa correre alla rarità e quindi al valore della posizione, e anche, in qualche modo, all’identità sessuale dei suoi occupanti» (DOM, p. 103, corsivo mio; trad. it. pp. 112-113). Logica spontanea sì, apprensione confusa no. Non si può dimenticare che nei concorsi nazionali degli organismi di ricerca o universitari, le decisioni sono prese attraverso voti che mettono in atto delle strategie di sostegno o di rifiuto delle candidature, e delle alleanze e delle relazioni di clientelismo tra i votanti, oltre che rifiuti ideologici consapevoli. Prenderò a esempio la mia esperienza, non potendo far correre dei rischi supplementari ad altre donne. Ecco alcune reazioni che mi sono state riferite. Alla commissione di sociologia del CNRS, a cui avevo sottoposto diverse volte intorno al 1970 un progetto epistemologico intitolato «Per una definizione sociologica delle categorie di sesso», un uomo meravigliato del reiterato rifiuto opposto alla mia candidatura chiese: «Ma insomma, che cosa avete da ridire contro questo progetto?» — Silenzio. All’EHESS, più tardi, risate grasse scossero l’assemblea quando il mio referente si permise di annunciare: «In qualche modo, la candidata vuole aprire il sesso…». Una candidata donna, sommata a un argomento di ricerca «femminista» che, in più, criticava direttamente la concezione del «sesso» nelle scienze sociali, era un grande «pericolo» per le commissioni. Anche per i candidati: ho sentito dire che uomini che portano avanti ricerche in senso femminista cominciano ad avere qualche difficoltà con l’università… Si troverà nel libro di Michéle Le Doeuff, L’Étude et le rouet (Seuil, Paris 1989), una quantità di dettagli sulla composizione e sul funzionamento delle commissioni, principalmente maschili, delle grandi istituzioni. Si veda anche il suo articolo Gens de sciences bi: le mauvais genre dans l’éprouvette («Nouvelles Questions Féministes», 15, 2, 1993) per esempi precisi dell’ostracismo del mondo accademico nei confronti delle ricerche femministe. E, di Judith Ezekiel, si veda Pénurie de ressources ou de reconnaissances? Les études féministes en France («Nouvelles Questions Féministes», 15, 4,1994). 

[12] D’ora in avanti spesso designato come «il Candidato», per tentare di attenuare «l’effetto bourdieu» [N.d.T.: in minuscolo nell’originale].

[13] Si veda in particolare la sua raccolta di articoli pubblicati tra il 1978 e il 1993: Masculin/féminin. La pensée de la différance, Odile Jacob, Paris 1996; trad. it. di Barbara Fiore, Maschile e femminile. Il pensiero della differenza, Laterza, Roma-Bari 1997.

[14] Si veda la sua raccolta di articoli dal 1970 al 1978: L’Ennemi principal. I – Économie politique du patriarcat (Syllepse, Paris1998).

[15] Una parte dei cui lavori sul pensiero naturalista sono stati riuniti in Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de Nature (1992), articoli tra il 1977 e il 1990; e in Racism, Sexism, Power and Ideology (1995) [trad. it. di Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli, Valeria Ribeiro Corossacz, Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, ombre corte, Verona 2020]. Nella sua opera del 1972, L’Idéologie raciste. Genèse et language actuel, Colette Guillaumin integrava già i sessi nello studio dei meccanismi di naturalizzazione e di razzizzazione.

[16] La presenza del nome di Tabet nell’indice, proprio come quella di Èchard, Journet, Michard e Ribéry non deve illudere. Non si tratta di un riferimento preciso ai loro articoli, ma del semplice fatto che il riferimento bibliografico più preciso all’opera collettiva L’Arraisonnement des femmes comporta, correttamente, i nomi delle co-autrici. L’apprezzamento (apparentemente favorevole) che Bourdieu manifesta di sfuggita (p. 47, nota 65; trad. it. p. 52) per questo libro è d’altronde singolarmente sfasato in rapporto al suo contenuto e ai suoi apporti teorici. È particolarmente curioso, per qualcuno che si interessa al simbolico, che non venga fatta menzione della brillante dimostrazione dei meccanismi inconsci del linguaggio per quanto concerne le categorie di sesso in testi «scientifici» condotta dalle socio-linguiste Claire Michard e Claudine Ribéry: Énonciation et effet idéologique. Les objets de discours “femmes” et “hommes” en ethnologie, in N.-C. Mathieu (dir.), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes, Editions de l’EHESS, Paris 1985, pp. 147-167.

[17] Pierre Bourdieu, Reproduction interdite. La dimension symbolique de la domination économique, «Etudes rurales», 113-144, 1989, pp. 15-36.

[18] DOM, p. 51, nota 70 [trad. it. p. 56]; corsivo mio per sottolineare lo stile impaurito.

[19] Bourdieu polemizza da molto tempo contro Lévi-Strauss a proposito delle strutture di parentela, si veda per esempio Esquisse d’une théorie de la pratique, preceduto da Trois études d’ethnologie kabyle (1972) [trad. it. di Irene Maffi, Per una teoria della pratica con Tre studi di etnologia cabila, Raffaello Cortina, Milano 2003], ma non sembra essersi interessato al suo articolo sulla famiglia.

[20] Gayle Rubin, The Traffic in Women. Notes on the “Political Economy” of Sex, in Rayna Reiter (ed.), Toward an Anthropology of Women, Monthly Review Press, New York 1975, pp. 157-210. Questo articolo è stato appena tradotto (1998) con il titolo L’économie politique du sexe: transactions sur les femmes et systèmes de sexe/genre in occasione della Giornata di studio organizzata da Nicole-Claude Mathieu su «Lévi-Strauss e le teorie femministe: convergenze e divergenze», che si è tenuta il 16 gennaio 1999 a Jussieu e inaugurava una serie di Giornate su «Le teorie femministe: critiche, prestiti, rotture».

[21] Si veda Gail Pheterson, The Prostitution Prism, Amsterdam University Press, Amsterdam 1996, p. 89, raccolta di articoli apparsi tra il 1983 e il 1995 (Traduzione francese aumentata 2001).

[22] Cronologia…1 — 1985: Nicole-Claude Mathieu, «Quand céder n’est pas consentir. De la conscience dominée des femmes et de quelques-unes de leurs interprétations en ethnologie», in Nicole-Claude Mathieu (a cura di), L’Arraisonnement des femmes. Essais en anthropologie des sexes; 2 — 1987: Recensione di questo libro di Jeanne Favret-Saada: «L’arraisonnement des femmes», Les Temps Modernes; 3 — 1991, ripubblicazione dell’articolo di Nicole-Claude Mathieu nella sua raccolta L’Anatomie politique. Catégorisations et idéologies du sexe, Côté-femmes éditions, «Recherches», Paris.

[23] Uno dei suoi articoli (1989) è ben sottotitolato «La dimension symbolique de la domination économique».

[24] Notiamo che il Candidato, che si considera ormai l’illustratore, per non dire lo scopritore, della «costruzione sociale del sesso» (titolo di un’altra e quasi analoga versione del suo articolo di ACT, anch’essa pubblicata nel 1990 in Reherches sur la philosophie et le langage, tome XII) — idea difesa da trent’anni dalle femministe radicali, fra le altre tramite la nozione di classi di sesso (nel senso marxiano della classe) — utilizzava ancora il termine sociologico-biologico di «classi sessuali» nel 1980 ne Il senso pratico (p. 230, nota 27; trad. it. p. 208), libro a cui non cessa di rinviarci ne Il dominio maschile. Torneremo su questa nota, a fronte della quale certi argomenti de Il dominio…presentano una regressione.

[25] «Interloquire (1450). I. Interrompere (un affare, un processo) attraverso un giudizio interlocutorio». — «interlocutorio (1283). Si dice di giudizi preliminari che deliberano su una misura istruttoria o di grazia pregiudicando lo sfondo della domanda». — «Pregiudicare. II Prendere una decisione provvisoria su (qualcosa), lasciando prevedere il giudizio definitivo» (Le Robert).

[26] A tal proposito, ricordiamo che Virginia Woolf, come tante bambine e ragazze, ebbe a subire gli assalti sessuali dei suoi fratellastri: Gerald quando aveva sei anni (lui ne aveva diciotto), e George, intorno ai vent’anni (lui era molto più grande). Quest’ultimo fu anche un tiranno in famiglia, al pari del padre di Virginia. Vedere fra le altre Phyllis Rose, A Woman of Letters: The Life of Virginia Woolf, Oxford University Press, Oxford 1978 (trad. it. di Cristina Bertea, Virginia Woolf, Editori Riuniti, Roma 1980).

[27] Vedere il volantino «Justice patriarcale et peine de viol» («Giustizia patriarcale e pena di stupro»), riprodotto in Alternatives, n. 1, «Face-à-femmes», 1977.

[28] Vedere Paola Tabet, Fertilité naturelle, reproduction forcée (1985) e, per uno studio in Francia, Hugues Lagrange e Brigitte Lhomond (a cura di), L’Entrée dans la sexualité, La Découverte, «Recherches», Paris 1997.

[29] L’autore aggiunge «che circolano dal basso verso l’alto». Può darsi che pensi alla Cabilia o al Béarn, tuttavia non è inutile segnalare che in alcune società stratificate, le donne «circolano» dall’alto verso il basso nello scambio matrimoniale, e non ne sono meno dominate.

[30] È anche ciò che rimproveravo a Maurice Godelier nel suo impiego della vecchia idea di «consenso dei dominati» a proposito delle donne nel suo libro La Production des grands hommes. Pouvoir et domination masculine chez les Baruya de Nouvelle-Guinée, Fayard, Paris 1982. Vedere Nicole-Claude Mathieu, Quand céder n’est pas consentir… (1985).

[31] Per non parlare dell’assenza di equivalenza tra circoncisione ed escissione sul piano fisico e psicologico, ma anche mitico-rituale. Vedere Nicole-Claude Mathieu, Relativisme culturel, excision et violences contre les femmes, in Sexe et race: Discours et formes nouvelles d’exclusion du XIXe au XXe siècle, Revue du CERIC, Paris 1994b.

[32] Vedere Nicole-Claude Mathieu, Études féministes et anthropologie, in P. Bonte, M. Izard (dir.), Dictionnaire de l’ethnologie et de l’anthropologie, PUF, Paris 1991.

[33] Vedere fra le altre la citazione riportata infra, alla nota 60.

[34] Per una storia e una presentazione delle differenti analisi critiche femministe fino al 1985, vedere Nicole-Claude Mathieu, Critiques épistémologiques de la probématique des sexes dans le discours ethno-anthropologique, Rapport pour l’UNESCO, Réunion internationale d’experts: “Réflexion sur la problématique féminine dans la recherche et l’enseignement supérieur”, Lisbonne, 17-20 sept. 1985, ora in Ead., L’anatomie politique. Catégorisations et idéologies du sexe, Éditions iXe, Donnemarie-Dontilly 2013, pp. 69-118 (trad. it. di Susanna Lazzarini, Critiche epistemologiche sulla problematica dei sessi nel discorso etno-antropologico, «DWF», 10-11, 1989, pp. 8-54).

[35] Vedere la rubrica Chroniques du sexisme ordinaire apparsa su Les Temps Modernes dal dicembre 1973 al novembre 1983 (pubblicazione parziale per Seuil, nel 1979).

[36] Il gruppo «Psychannalyse et Politique» e le sue edizioni, Des Femmes. Avendo sufficiente capitale economico per pubblicizzarsi all’estero (specialmente negli Stati Uniti, negli ambienti letterari) dove si è fatto passare con successo per «il» femminismo francese, si dichiarava antifemminista all’interno delle frontiere nazionali e fu in effetti molto rapidamente in rottura politica reciproca con l’insieme del movimento, fino al punto di tentare di cancellarne l’esistenza appropriandosi giuridicamente della sigla MLF. Vedere fra le altre Chroniques d’une imposture. Du Mouvement de libération des femmes à une marque commerciale, edito dall’associazione «Mouvement pour les Luttes Féministes», Voix Off, Paris 1981. Vedere anche Françoise Picq, Libération des femmes. Les Années mouvement, Seuil, Paris 1993.

[37] Mille scuse per usare il noi e non seguire, in questo modo, la lezione che il Candidato «ci» impartisce a p. 123, nota 4 [trad. it. p. 133]: «Rivendicare il monopolio di un oggetto qualsiasi (anche attraverso il semplice uso del “noi” che ha corso in certi scritti femministi)…» (corsivi miei), vedere infra, nota 53.

[38] Sulla differenza di linguaggio, e quindi di costruzione d’oggetto, tra ricercatori uomini e ricercatrici femministe, vedere Claire Michard, Mouvement de libération des femmes et affrontement discursif entre auteurs scientifiques, «Journal des anthropologues», 45,1991, pp. 53-65.

[39] Michèle Causse, L’Interloquée, Les Oubliées de l’oubli, Dé/générée. Essais, Trois guinées, Laval 1991, p. 15.

[40] Lui che, all’uscita del Secondo sesso, aveva detto di sapere tutto ormai sulla vagina della signora de Beauvoir. Vedere Ingrid Galster (ed.), Le ‘Deuxième Sexe’ de Simone de Beauvoir,  Presses de l’Université Paris-Sorbonne, Paris 2004, p. 16, nota 44.

[41] Virginia Woolf, La Promenade au phare (1927), citato infra come V. W. nell’edizione tascabile 1983 [trad. it. di Nadia Fusini, Al faro, Feltrinelli, Milano 2017].

[42] Ciò che, senza talento letterario, avevo definito la fatica mentale e fisica delle donne. A tal proposito, diverse pagine, magnifiche, di Al faro sono consacrate a descrivere il lavoro e la fatica estrema di due governanti che devono pulire e riaprire la grande casa in riva al mare, abbandonata per dieci anni, dopo la morte della signora Ramsay. È un caso? Certo, tutto ciò permette a Woolf, così attaccata alle cose, di parlare dei mobili, degli armadi, della biancheria, delle imposte, della ruggine, etc., ma niente le imponeva di farlo in questo modo. «Era piegata dalla stanchezza», dice anche Virginia Woolf della signora MacNab (V.W, 1983, p. 178). [Nella traduzione italiana, p. 125: «Scricchiolava, gemeva»].

[43] Le ragazze non sono (molto) presenti in quest’ultimo campo, se non per la soddisfazione erotica maschile.

[44] Altrove (Quand céder…, 1985) ho trattato a lungo delle numerose contraddizioni che mettono le donne in posizione schizofrenica. Per esempio, tra cedere alle pressioni sessuali maschili ritenendosi libera per poi farsi trattare da puttana e non cedere a quelle pressioni per poi farsi trattare da, indovinate cosa. Della mia giovinezza, accanto alla donna rasata, nuda e messa alla gogna del villaggio «liberato» durante la Liberazione, ricorderò la Costa Brava e quel campeggio misto di studenti alla fine degli anni Cinquanta. Una delle ragazze era rinomata per la sua disponibilità sessuale. Alla fine della vacanza, fu incoronata (indovinate da chi) regina del campeggio. Pregata di salire sul podio, sorrideva tutta felice. Poi la vidi barcollare fisicamente, quando (indovinate chi) intonarono: «Oh la puttana / vai a lavarti il culo / sudiciona…». Riprese subito l’equilibrio e rimase dignitosamente dritta.

[45] Mia nonna, operaia dall’età di 13 anni, nel 1900, nelle fabbriche tessili del Nord (nel momento della distruzione dei piccoli contadini e della loro spaventosa incorporazione nell’industria), diceva, al tempo stesso, che «erano necessari» dei padroni per «dare» lavoro agli operai e parlava delle umiliazioni subite ad opera dei borghesi e dei preti e rivendicava la fierezza di ciò che secondo lei era la sua famiglia, «persone perbene, tanto quanto le altre».

[46] Vedere Moi, Phoolan Devi, reine des bandits, Fixot, Paris 1996; precisiamo che, fatta con la registrazione al magnetofono e letta a Phoolan Devi dopo la trascrizione, è l’unica biografia da lei approvata). E Taslima Nasreen, Enfance, au féminin, Stock, Paris 1998.

[47] Statistiche dell’ospedale di Algeri nel 1991, su 889 tentativi di suicidio: 20,4% di giovani uomini e 79,6% di giovani donne, in Rapporto nazionale della rete FEHLA, Conferenza preparatoria per l’Africa (Dakar, 1994) in vista della Conferenza mondiale delle donne di Pechino, 1995; citato da WLMUL (1996, p. 54).

[48] Vedere anche WLMUL (1998).

[49] Prima sotto copertura di qualcun’altra, poi facendo il mio nome (vedere supra I e nota 29).

[50] Citato in Jean Laplanche e Jean-Baptiste Pontalis, Vocabulaire de la psychanalyse, «Conscience (psychologique)». 3e édition, 1971; trad. it. di Luciano Mecacci e Cynthia Puca, Enciclopedia della psicoanalisi, tomo I, Laterza, Roma-Bari 1998, p. 113.

[51] Occorre ricordare che ci sono femministe che non hanno trovato imbarazzante riflettere contemporaneamente sulla coscienza e la resistenza e sull’iscrizione sociale nel corpo? Vedere per esempio Sande Zeig, The actor as activator: deconstructing gender through gesture», o Colette Guillaumin, Le corps construit.

[52] Le Sense pratique, chapitre VIII: «Les modes de domination», p. 230, n. 27; trad. it di Mauro Piras, Il senso pratico, Armando, Roma 2005, pp. 208-209.

[53] Tralascio, ma non completamente, i suoi piagnistei e il digrignare i denti per il «monopolio» che le femministe si arrogano, perché, figuratevi, «si investono dell’autorità assoluta costituita dall’ “esperienza della femminilità”» e gli impediscono (?), a lui, di esprimersi democraticamente: «Rivendicare il monopolio di un oggetto qualsiasi (anche attraverso il semplice uso del “noi” che ha corso in certi scritti femministi) in nome del privilegio cognitivo che si suppone sia concesso dal semplice fatto di essere al contempo soggetto e oggetto, e più precisamente, dal fatto di avere vissuto in prima persona la forma specifica della condizione umana che si tratta di analizzare scientificamente, significa introdurre nel campo scientifico una difesa politica dei particolarismi che autorizza il sospetto a priori, e mettere in discussione l’universalismo che, soprattutto attraverso il diritto di accesso a tutti gli oggetti, è uno dei fondamenti della Repubblica delle scienze». (DOM, p. 123, nota 4; corsivo mio, evidentemente; trad. it. p. 133).

[54] Claude Lévi-Strauss, Les Structures élémentaires de la parenté (première édition, 1949), 1967, p. 569; trad. it. di Alberto Mario Cirese e Liliana Serafini, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2010, pp. 635-636.

[55] Notiamo tuttavia di passaggio che il vantaggio dell’opinione di Lévi-Strauss su quella di Bourdieu è che il primo ci riconosce la qualità di «produttrici di segni». Forse saremmo allora capaci di produrre del simbolico e non solo di incorporarlo in quanto «agenti passivi».

[56] Occorrerebbe non dimenticare neppure la considerevole discesa sociale delle donne divorziate, anche quando si sono sposate all’interno della stessa classe.

[57] Se si considera non già ciascun individuo/a che ritrova un partner, ma l’insieme disponibile dei partner di sesso opposto, la differenza temporale è oggettivamente legata allo scarto di età tra partner maschili e femminili, gli uomini unendosi a compagne più giovani. Il meccanismo è lo stesso che nella poliginia.

[58] Un donna sposata in regime di comunità dei beni e totalmente derubata dal marito truffatore mi ha confidato, dopo il divorzio, che in caso di nuovo matrimonio avrebbe ripreso quel regime perché «è una questione d’amore». Non l’ho vista risposarsi.

[59] Se nei meccanismi di sfruttamento delle classi povere da parte delle classi ricche o della classe schiava da parte della classe dei padroni si realizza anche, è ben noto, lo sfruttamento sessuale delle donne, questo non costituisce una parte integrante della definizione funzionale di queste classi. 

[60] Pascale Noizet, L’Idée moderne de l’amour. Entre sexe et guerre: vers une théorie du sexologème, Editions Kimé, Paris 1996. Vedere anche la recensione di questo libro di Danielle Charest nella rivista Mots/Les langages du politique, 1996.

[61] Certe riviste dette femminili fanno la stessa cosa, mi sembra, mescolando una dose di femminismo con una dose (più forte) di orientamenti «tradizionali».

[62] La Promenade au phare, p. 139-140, maiuscoletto mio; trad. it. p. 94.

[63] La «dotta ignoranza», formula di Pierre Bourdieu, si riferisce alla verità del sapere pratico dissimulata sotto il discorso esplicativo che un agente può darne; «…questa dotta ignoranza non può che dar luogo a un discorso dell’ingannatore ingannato […]» (Esquisse d’une théorie de la pratique, p. 202).

[64] Christiane Rochefort, «Définition de l’opprimé», presentazione della traduzione francese (1971) di Manifesto SCUM di Valerie Solanas, trad. it. di Deborah Ardilli, Definizione dell’oppresso, in Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), a cura di D. Ardilli, VandA-Morellini, Milano 2018, pp. 287-288.

«La passione secondo Wittig»

di Christine DelphY*

Ringraziamo Christine Delphy per averci nuovamente permesso di tradurre uno dei suoi scritti. La scelta questa volta è caduta su «La passion selon Wittig», apparso sulle colonne di «Nouvelles Questions Féministes» nel 1985, a ridosso della pubblicazione di Virgile, non di Monique Wittig. Nell’intervallo di tempo trascorso da allora la letteratura critica sulla scrittrice francese è lievitata in volume, ma è su questo breve testo di Delphy che occorre tornare per ritrovare, prima ancora delle tesi, lo spessore auto-coscienziale del «movimento» che ha animato la ricerca teorica, letteraria e politica di Wittig. Perché «il meno citato e il più rimosso dei suoi romanzi» (Rosanna Fiocchetto) si presti particolarmente bene allo scopo, è una questione che rinviamo alla curiosità di chi vorrà proseguire con la lettura, sotto la guida di un’interprete acuta come Delphy.

Lena Vandrey, Monique Wittig oder die Krabbe im Sand

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Quasi contemporaneamente, questa primavera, è stato pubblicato l’ultimo libro di Monique Wittig, Virgile, non, è stata rappresentata la sua ultima pièce, Le voyage sans fin, al teatro del Rond-Point a Parigi, e Vlasta le ha dedicato un numero speciale. Quest’ultimo include due testi inediti di Wittig, testi e riproduzioni di quadri di Lena Vandrey e quattro analisi dei differenti aspetti dell’opera di Wittig, della quale viene fornita anche una bibliografia completa. Queste analisi provengono tutte da ricercatrici e accademiche femministe nord-americane e rappresentano soltanto una piccola parte dei lavori dedicati allo studio di Monique Wittig negli Stati Uniti.

In effetti, sebbene tutti i libri di Wittig siano ben noti alle femministe francesi, finora non sono stati oggetto di studio. Ritardo delle ricercatrici femministe francesi? Indubbiamente, ma anche preferenza, in questo paese, per l’ écriture féminine, che ha suscitato adepte e glosse interpretative. Anche negli Stati Uniti Cixous, Kristeva e Irigaray, tra le altre, vengono studiate e per di più in quanto femministe, il che è per lo meno sconcertante nel caso delle prime due, che proclamano urbi et orbi la propria distanza dal femminismo. Ma almeno Wittig non è dimenticata, anche se talvolta, per effetto di un controsenso al tempo stesso assoluto e inesplicabile, viene messa dalle sue commentatrici nello stesso sacco delle sostenitrici della neo-femminilità che lei stessa denuncia, le apostole della differenza che le danno il voltastomaco, le inventrici della «scrittura di donna» che deride.

Hélène Wenzel, per parte sua, nel «discorso radicale di M. Wittig», una delle analisi pubblicate su Vlasta, non commette questo errore. Wenzel vede chiaramente che l’analisi femminista radicale che è sottesa all’opera letteraria di Wittig, e che è esplicita nei suoi testi teorici, è agli antipodi della corrente della neo-femminilità (o «femminitudine»). Vede anche i legami tra queste posizioni divergenti sulla subordinazione delle donne e la divergenza di posizioni sul lesbismo: Cixous e Psychanalyse et Politique alias «Des femmes» alias il marchio depositato MLF rifiutano il termine «femminista», come rifiutano il termine «lesbica», mentre Wittig li rivendica entrambi. Altre correlazioni che non vengono menzionate dalle autrici di questo numero sono invece significative.

Il secondo libro di Wittig, Les guerrillères (Minuit, 1969) [1], è stata una tappa importante del movimento di liberazione delle donne. Apparve nel 1969, quando Wittig faceva già parte di un gruppo femminista dal 1968. A differenza delle autrici della neo-femminilità, Wittig non è soltanto una scrittrice: è sempre, fin dal principio, una militante. La sua opera letteraria non è separata dalla teoria, né la teoria dall’azione. Se i piccoli gruppi femministi, che esistevano dal 1968, nel 1970 si aggregano per fondare il movimento di liberazione delle donne, è in gran parte grazie a un articolo che Wittig ha scritto con altre tre donne, Pour un mouvement de libération des femmes, e che l’Idiot internationale pubblica nel maggio 1970 sul numero 6, con il titolo Combat pour la libération de la femme (sic) [2]. Ora, questo articolo è stato scritto, poi pubblicato, contro il parere del gruppo di cui Wittig faceva parte, formato da altre quattro donne tra cui — già — Antoinette Fouque, che due anni più tardi formerà il gruppo «Psychanalyse et Politique». Non avendo potuto impedire la creazione del movimento nel 1970, Fouque lo rovinerà propagandando dall’interno, grazie a fondi di origine sconosciuta che finanziano una potente casa editrice («Des femmes»), la linea reazionaria della neo-femminilità — lavoro di sabotaggio che culminerà nel 1979 con la registrazione come marchio commerciale della dicitura «movimento di liberazione delle donne» e della sigla MLF.

Gille e Monique Wittig nel 1974. Foto di Irene Bouaziz

Wittig, presente fin dalla creazione del movimento, partecipante alla sua costruzione, sarà anche una delle fondatrici delle Féministes révolutionnaires, quindi delle Gouines Rouges, il primo raggruppamento di lesbiche (all’epoca si diceva ancora «omosessuali» e la terminologia ha grande importanza) all’interno del movimento. In seguito partecipa per due anni, dagli Stati Uniti dove risiede, alla redazione di Questions féministes, dove pubblica una magnifica «utopia», Un jour mon prince viendra (Q.F. n. 2) e due testi teorici importanti, La pensée straight (Q.F. n. 7) e On ne naît pas femme (Q.F. n. 8) [3]. Quest’ultimo articolo, benché non sia stato all’origine della scissione del collettivo di Q.F. e benché non abbia nemmeno ispirato direttamente il movimento delle «lesbiche radicali» che fu la causa immediata della rottura, tuttavia conteneva già i germi della posizione separatista, il che spiega la posizione che, all’epoca, Wittig prese nel corso della disputa.

Ma per quanto si possano discutere le conclusioni politiche che le separatiste traggono dall’analisi femminista radicale, per quanto si possano giudicare false, o quanto meno goffe, asserzioni come «una lesbica non è una donna» che furono rimproverate a Wittig, si deve pure ammettere che la critica dei presupposti eterosessuali sottesi a molte analisi femministe — e, a maggior ragione, non femministe — costituisce un apporto essenziale alla teorizzazione femminista, e si deve ammirare il percorso personale, intellettuale e politico di Wittig. Molte scrittrici hanno fatto sapere (o hanno lasciato che si sapesse) di essere «omosessuali», ma Wittig è stata la prima — e, ad oggi, l’ultima — ad avere collocato il lesbismo al centro della sua politica, e la sua politica al centro del lavoro di scrittura. Sarebbe troppo lungo argomentarlo, perciò mi accontenterò di affermare quanto segue: la maniera in cui Wittig integra, o piuttosto inventa, il lesbismo è unica negli annali della letteratura francese.

Il pubblico — il vero pubblico degli scrittori, cioè il piccolo mondo dei critici — non si è ingannato: ha fiutato la sovversione e ha smesso di parlare delle opere di Wittig non appena queste hanno iniziato a intitolarsi Les corps lesbien e Brouillon pour une dictionnaire des amantes [4]. Da pupilla — giovane autrice geniale dell’Opoponax (1964), Premio Médicis [5] — della classe letteraria francese Wittig è diventata, in pochi anni, una paria in quel mondo che fa e disfa le carriere letterarie. La messa al bando da parte dell’establishment sanziona, ma misura anche con grande esattezza, l’importanza del ruolo svolto da Wittig nella creazione del movimento femminista e nella considerazione della dimensione lesbica. Ancora una volta, il modo in cui ella introduce questa dimensione può essere soggetto a cauzione e a discussione, ma il fatto che i progressi della teoria femminista passino attraverso la decostruzione degli schemi di analisi eterosessuali che informano implicitamente la nostra visione del mondo è indubitabile. Il fallimento del movimento (considerato globalmente) nel realizzare questa decostruzione, d’altra parte, non ha soltanto conseguenze teoriche; in effetti, come non collegare l’insufficienza della posizione femminista «standard», che integra le lesbiche su una base liberale, come casi sociali, e la situazione con cui facciamo i conti oggi, ovvero l’alienazione delle nuove generazioni di lesbiche dal movimento femminista?

Ma forse l’apporto più duraturo di Wittig, nel senso che è quello che rimarrà nella storia perché richiede un talento anche peggio distribuito del coraggio politico, consiste nell’avere, se non inventato il genere letterario, scritto le forme più perfette di utopia femminista. Nel numero 9/10 di N.Q.F. dicevo che «le utopie femministe, quando sono riuscite, sono oggetti al tempo stesso molto belli e molto utili», facendo l’esempio del Brouillon. Il ruolo dell’utopia nella scrittura rivoluzionaria certamente è già stato studiato. Utopia e teoria sono le due facce di una stessa ricerca: potremmo dire che la teoria è la faccia, o la fase, negativa dell’analisi di ciò che è, e l’utopia è la faccia, o la fase, positiva. Quando si tengono in considerazione le funzioni complementari dell’utopia e della teoria, l’opposizione fra ragionamento e immaginazione viene meno. Perché per contestare ciò che è, bisogna avere un’idea di ciò che potrebbe essere: occorre dell’immaginazione anche per elaborare la teoria a prima vista più «arida»; e, viceversa, è possibile immaginare un altro mondo soltanto a partire da un’analisi delle carenze del nostro. E, tuttavia, l’utopia è un bene più raro della teoria. Forse perché la teoria consiste soprattutto nella critica, e perché «la critica è facile», mentre l’utopia richiede arte, e «l’arte è difficile»? Ad ogni buon conto, l’utopia è altrettanto necessaria della teoria; quest’ultima dice: «le cose non sono necessariamente così» («It ain’t necessarily so» — Porgy and Bess), ma l’utopia lo mostra. La teoria parla astrattamente di altre possibilità, l’utopia dà a vedere la realizzazione di una di queste possibilità, ed è la cosa che ci convince meglio, o più rapidamente, della contingenza del nostro mondo. Se Les guerillères restano una pietra miliare nella storia del femminismo e della letteratura è perché Wittig ha fatto precisamente questo: vi descrive nel dettaglio gli odori, i colori, i rumori, i fiori di un mondo, i vestiti, i movimenti, i sentimenti di esseri che non esistono e non sono mai esistiti, come se li avesse visti, e questa è la definizione esatta dell’utopia. Non è stupefacente che quest’opera abbia riempito di ammirazione, ma soprattutto d’ispirazione, tante donne, fra cui Lena Vandrey, che nello stesso periodo aveva cominciato a dipingere la serie di giganti selvagge intitolata Cycle des amantes imputrescibles, una parte della quale è riprodotta in questo numero di Vlasta. Vandrey ha realizzato anche le scenografie e i costumi della pièce Le voyage sans fin e questa, a propria volta, ha ispirato una nuova serie di quadri, la Féerie pour Quichotte, anch’essa riprodotta in Vlasta. È una cosa buona e bella che Wittig e Vandrey, che si sono ispirate e stimolate reciprocamente per quindici anni, fornendo ciascuna a proprio modo un contributo importante alla creazione di un universo poetico totalmente nuovo, epico e femminista, siano riunite in questo numero. Forse la visione di queste incorruttibili darà origine, a propria volta, a una nuova razza di donne, anche loro «immarcescibili»?

In Virgile, non (Minuit, 1985) [6] due personaggi, Wittig e la sua guida Manastabal percorrono l’inferno e provano a farne uscire alcune «anime dannate». Raggiungono il paradiso, là dove gli angeli cantano «bella cena della sera», soltanto nell’ultimo capitolo e dopo molte scene di orrore. «Donne» e «uomini» sono le due parole assenti dal testo, per lo meno nel loro senso sessuato. Ma la parabola è chiara: le anime dannate, che sono «esse», vengono perseguitate, tenute al guinzaglio, confinate, stuprate, mutilate da individui dai pronomi («egli», «essi») maschili. I diversi luoghi dell’inferno, o meglio le diverse scene di tortura, sono soprattutto allegorie — talvolta a malapena allegoriche, tanti sono gli elementi reali, descrittivi, che vi sono mescolati — dell’oppressione delle donne da parte degli uomini. Si tratta dell’oppressione delle donne nella, e per mezzo della, eterosessualità. Alla quarta pagina un’anima dannata prende la parola (tra parentesi) e ne approfitta per insultare Wittig, trattandola da «lesbica repellente» e anche «puzzolente»; alla quarta pagina inizia il dialogo tra «quella che dice di non esserlo» e «quella che lo è», ma preferisce «farsi fottere, scopare, sbattere, trombare da un nemico che ha quel che serve, piuttosto che da te che non ce l’hai». Si tratta per altro di uno dei modi — l’innocente Wittig lo apprenderà nel corso di questo viaggio iniziatico — con cui «gli individui», alias «i padroni» o «i cacciatori» impediscono alle anime dannate di fuggire: instillando in loro la paura delle lesbiche dal corpo ricoperto di scaglie che le attendono alle porte dell’inferno per fare subire loro sevizie ancora peggiori di quelle inflitte dai «padroni».

Se ci si arresta a questa lettura, si può dire che Virgile, non apporta un messaggio semplicistico e, oltretutto, poco originale. Ma c’è molto di più — e non parlo qui della rinomata bellezza, propriamente letteraria, dello stile di Wittig. In effetti, non è un caso se è proprio una figura di stile a farci visitare l’inferno al seguito non di uno, ma di due personaggi; perché, per tutto il libro, questi personaggi parlano, commentano le scene che vivono, e si parlano. Ed è in questo dialogo che risiede l’energia drammatica del libro, il suo vero movimento, che non è contenuto né nella descrizione statica dei cerchi dell’inferno, né nel messaggio relativo all’eterosessualità che, come abbiamo visto, viene fornito subito.

Fin dall’inizio Manastabal corregge gli errori più grossolani di Wittig che, nella sua foga, metterebbe in pericolo la vita di entrambe senza che questo comporti un beneficio per le anime già spacciate. Manastabal non le insegna soltanto a proteggersi, a venire a patti con l’inferno, a nascondere il fucile, ma anche a preferire l’efficacia allo stile: per esempio, a «riscattare le anime sottobanco». Ma soprattutto, ella appare nel corso delle pagine come la guida classica dei romanzi di iniziazione: il direttore di coscienza che dissimula la propria autorità morale con una tecnica maieutica e che, d’altronde, la nasconde male, perché a p. 38 rimprovera a Wittig la sua «mancanza di etica verso le anime in pena» e le ricorda bruscamente che non ha «alcun diritto di schiacciare le anime con il suo giudizio…». «Tu puoi rallegrarti», le dice Manastabal, «dieci volte, e non una, di avere disertato e di essere una schiava fuggitiva. Tuttavia finché si ha un simile privilegio, è una misera esibizione servirsene per vessare ancora di più le sfortunate creature che ne sono prive».

Come sono lontane, queste frasi di Manastabal, dal discorso separatista che abbiamo conosciuto, e addirittura contrarie ad esso! Potremmo dire che, in Virgile, non, il discorso separatista è rappresentato dal personaggio di Wittig, mentre il personaggio di Manastabal rappresenta la modifica, la revisione di quel discorso. Si potrebbe anche dire che il personaggio di Wittig incarna l’impostazione lesbica radicale (o separatista), mentre quello di Manastabal incarna l’impostazione femminista. Si potrebbe dire, ancora, che entrambe simboleggiano l’ambivalenza di ogni lesbica nei riguardi dell’eterosessualità. Forse si potrebbe addirittura sostenere che ciò che viene messo in scena dalla loro dualità e dal loro dialogo è la lacerazione di ogni coscienza femminista di fronte all’oppressione delle donne. In effetti, non sono soltanto le lesbiche a oscillare senza posa, davanti allo spettacolo delle atrocità subite, tra solidarietà con le vittime e disprezzo per la loro passività reale o immaginata: ogni donna che ha rifiutato una certa — precisa — oppressione è, di fronte a quella che continua a sostenerla, torturata da questa domanda: «davvero non ha altra scelta?», è divisa tra condanna e compassione. E se oscilla tra questi due atteggiamenti è perché esita tra due possibili risposte alla domanda «perché non si ribella?», che bilancia tra l’ipotesi della complicità delle vittime e l’ipotesi della loro non-libertà assoluta.

Il dialogo tra Wittig e Manastabal traduce esattamente questo doppio movimento della coscienza. Laddove Wittig si indigna per la passività delle anime, Manastabal mostra le catene materiali. Ma Manastabal si spinge ancora più in là. Ella non si limita all’unico criterio etico «Non giudichiamo dalla nostra posizione privilegiata», che in fin dei conti implica un’esteriorità. Quando Wittig dice (p. 86): «Tendo sempre a pensare… che solo un certo grado di istupidimento può spiegare perché si resta all’inferno», Manastabal le ritorce contro: «Sono convinta… che le più grandi intelligenze umane si trovano tra le anime dannate… quando esse sono consapevoli di ciò che sta accadendo, vengono sfidate a esercitare questa intelligenza attraverso tutte le leggi che governano il loro mondo». Anche qui, che movimento! In effetti si passa da un atteggiamento eticamente corretto, ma glaciale, di tolleranza, a una comprensione. Allo stesso modo Manastabal non considera le azioni delle anime dannate come puramente determinate dalle necessità della sopravvivenza in un mondo ostile: è lei a spiegare a Wittig che questo spettacolo è orrendo, perché le anime dannate arrivano a suicidarsi reciprocamente piuttosto che lasciarsi uccidere, a mostrare in questo gesto, a una Wittig che vi scorge soltanto morte, la rivolta dello spirito. Alla fine non solo lo spirito, ma lo spirito di rivolta, l’ambivalenza della coscienza femminista che le osserva, vengono attribuite alle anime stesse. Ciò che viene mostrato dalla descrizione di alcune anime che sono «bicefale…con le teste che ballonzolano ora in avanti, ora all’indietro, e i corpi che seguono una direzione ora dorsale, ora frontale… secondo i bisogni, le loro braccia e gambe possono piegarsi sia in avanti, sia all’indietro, poiché i gomiti e le rotule sono reversibili…le teste sono come quelle di Giano, due in una, l’una girata verso il passato, l’altra verso il futuro» (p. 83), è che le anime sono tormentate tanto quanto le loro salvatrici dal doppio volto: che appartengono alla stessa specie.

Siamo lontane dalla condanna separatista, e anche dalla condiscendenza della posizione «etica»; le anime dannate dell’inferno sono identiche agli angeli del paradiso. È un lungo cammino quello che è stato percorso, dall’incomprensione iniziale di Wittig per quelle che vuole salvare, alla confessione di Manastabal: «Non lo nego, è quasi passione quella che provo per l’intelligenza alle prese con se stessa e che non molla». La necessità di percorrere questo cammino, l’affermazione che si tratta di una via crucis, o di un viaggio negli Inferi, sono — ai miei occhi — il vero messaggio di Virgile, non, il suo vero dramma, cioè il suo vero movimento. Di questo movimento si potrebbe dire che è precisamente il movimento oscillatorio e incerto di ogni donna verso tutte le altre. Ma reintegrando in questo modo Wittig in una sorellanza universale, nel migliore dei casi illusoria, nel peggiore sgradevolmente tiepida, non rischiamo di fare dell’ecumenismo a buon mercato? E per di più alle spalle di quel dramma (questa volta nel senso di tragedia) particolare costituito dal dialogo tra sorde che è il dialogo tra lesbiche ed eterosessuali? Si danno in definitiva  — ed è un altro modo di porre la domanda — un cambiamento di posizione in Wittig, come pure un’esplicitazione dell’appello che risuona nelle prime pagine, e formulato più avanti nel libro, in un modo che è stato incompreso o anche platealmente frainteso? Alcune l’hanno messa in croce per avere scritto: «Ci prendono le donne», credendo che lei si ponesse come loro proprietaria putativa, mentre probabilmente, e senza dubbio, Wittig esprimeva la denuncia della lesbica di essere invisibile per le altre donne; se si può «gustare una certa dolcezza nella loro stizza, nel loro risentimento», non è perché il dolore dovuto al fatto che «non una di voi mi guarda» è tanto forte da preferire l’odio all’indifferenza? E la passione di Manastabal — la guida per le anime dannate non era forse già l’amore deluso di Wittig — la — femminista per tutte le donne? Comprese quelle che le «tagliano la strada» (p. 15), che preferiscono a colei che le ama i «cacciatori» e che, ed è la cosa più crudele, non sarà nemmeno confutata — l’accusano di volere, anche lei, «fotterle, scoparle, sbatterle», in breve la confondono con il nemico.           

NOTE

* C. D., «La passion selon Wittig», «Nouvelles Questions Féministes», 11-12, 1985, pp. 151-156.

[1] Le guerrigliere, trad. it. di Ana Cuenca, “Lesbacce incolte”, Bologna 1996 (seconda edizione 2019).

[2] Per un movimento di liberazione delle donne, trad. it. di Deborah Ardilli, in Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici (1964-1977), a cura di D. Ardilli, VandA-Morellini, Milano 2018, pp. 231-251.

[3] Il pensiero eterosessuale e Non si nasce donna, trad. it. di Federico Zappino, in Monique Wittig, Il pensiero eterosessuale, a cura di F. Zappino, ombre corte, Verona 2019, pp. 42-53 e pp. 29-41.

[4] Il corpo lesbico, trad. it. di Christine Bazzin e Elisabetta Rasy, Edizioni delle Donne, Roma 1976; (con Sande Zeig) Appunti per un dizionario delle amanti, trad. it e cura di Onna Pas, Meltemi, Milano 2020.

[5] L’Opoponax, trad. it. di Clara Lusignoli, Einaudi, Torino 1966.   

[6] Virgile, non, trad. it. di Rosanna Fiocchetto, Il Dito e la Luna, Milano 2005.

Sesso e razza: formazioni immaginarie materialmente efficaci

Dialogo su Colette Guillaumin con Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz

 

COLETTE GUILLAUMIN, 14 giugno 1997, Giornate di studio ANEF, Reid Hall Center, Parigi.

Colette Guillaumin (1934-2017) è stata una sociologa femminista e antirazzista francese. Ricercatrice presso il CNRS a partire dal 1962, nel 1969 discute una tesi in sociologia intitolata Un aspect de l’alterité sociale. L’idéologie raciste. A partire da questo lavoro si svilupperà, tre anni più tardi, la monografia L’idéologie raciste. Genèse et langage actuel, un contributo pionieristico al dibattito delle scienze sociali sul razzismo. Fra il 1969 e il 1972, Guillaumin partecipa al Laboratorio di sociologia del dominio insieme a Nicole-Claude Mathieu, Colette Capitan e Jaques Jenny. Dal 1977 al 1980 fa parte del collettivo di Questions féministes, la rivista del femminismo materialista francofono fondata da Christine Delphy, Colette Capitan Peter, Emmanuelle de Lesseps, Monique Plaza e Nicole-Claude Mathieu, a cui si unirà anche Monique Wittig a partire dal 1978. Sulle colonne di Questions féministes Guillaumin pubblica in due parti l’importante articolo Pratique du pouvoir et idée de nature, successivamente ripreso all’interno del volume Sexe, race e pratique du pouvoir. L’idée de nature, che include scritti composti fra il 1977 e il 1992. Nel 1981 è fra le fondatrici, insieme a Léon Poliakov, della rivista Le genre humain.

In occasione dell’edizione italiana di Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de nature, pubblicata da ombre corte nel 2020 con il titolo Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura, abbiamo posto qualche domanda a Sara Garbagnoli, Vincenza Perilli e Valeria Ribeiro Corossacz, traduttrici e curatrici del volume.

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MANASTABAL: Sesso, razza e pratica del potere. L’idea di natura (ombre corte, 2020) arriva sette anni dopo Non si nasce donna. Percorsi, testi e contesti del femminismo materialista in Francia (Alegre, 2013), l’antologia dedicata al femminismo materialista francofono curata da Sara e Vincenza, a cui anche Valeria ha contribuito con la sezione dedicata a Nicole-Claude Mathieu. La versione italiana di questa raccolta di saggi a firma di Colette Guillaumin si inserisce, quindi, in un cantiere di traduzione e di riflessione avviato già da tempo. Nel periodo trascorso da allora, a vostro giudizio, si sono create condizioni più favorevoli per la ricezione del femminismo materialista in Italia?  

SARA: Stando alla mia esperienza di militante (e) ricercatrice con mezzo piede in Italia, mezzo in Francia, mezzo dentro l’Università e mezzo fuori, non posso che rispondere positivamente e rallegrarmene. Sì, il femminismo materialista suscita oggi più interesse nel nostro paese: è più letto, più studiato, più tradotto e, soprattutto, più usato come strumento di analisi per comprendere il funzionamento della dominazione sociale. Il lavoro di analisi e di traduzione pubblicato sul vostro Manastabal è per me una delle più convincenti forme di esistenza di questo rinnovato e approfondito interesse. Penso anche alle numerose recenti iniziative editoriali (quattro traduzioni di tre opere di Wittig, la traduzione di Deborah Ardilli dell’ultimo libro di Delphy), ai progetti in cantiere (la traduzione de L’ideologia razzista di Guillaumin, un libro di Eva Feole su Wittig e il linguaggio come arma). Penso, inoltre, a una serie di atelier organizzati da collettivi militanti in diverse occasioni (il Campo femminista e lesbico di Agape, le giornate Lesbicx), penso al rigoroso lavoro di ricerca condotto da studiose come Silvia Nugara e ai dialoghi intessuti con più giovani ricercatrici e militanti femministe antirazziste come Marie Moise. Credo che tale risultato sia l’esito del lavoro paziente e testardo di ognun* di noi, delle occasioni di scambio e confronto che personalmente e collettivamente abbiamo costruito e costruiamo. Nonostante questa nota positiva, non posso però non constatare (e deplorare) la quasi totale assenza tra le categorie analitiche impiegate in Italia nel campo delle scienze sociali, o in quello militante, del concetto di «gruppi minoritari» forgiato dalle femministe materialiste per pensare i gruppi inferiorizzati e naturalizzati secondo diversi assi di gerarchizzazione (il sesso, la razza, la classe, l’età, la validità fisica o psichica). Lo stesso vale per il contestuale permanere, nelle analisi che si vogliono femministe o queer, di categorie naturalistiche come quella di «differenza sessuale», per non parlare del successo che continua a mietere quella grande fabbrica di pensiero eteronormativo che è la psicoanalisi. Detto altrimenti, nonostante questo miglioramento nella ricezione del pensiero femminista materialista, le resistenze intellettuali, politiche, ma anche «affettive» alla diffusione di un paradigma teorico che pensa gli uomini e le donne come classi – ovvero come gruppi costruiti naturalizzati e antagonisti – restano fortissime proprio per gli interessi e i privilegi che una tale analisi va a rendere visibili e a toccare.

VALERIA: Nell’ambito femminista, le esperienze, le pratiche e le riflessioni sono costantemente in movimento, in trasformazione, anche se non sempre è facile registrarle, spesso ne perdiamo anche memoria collettiva essendo in molti casi un lavoro che non lascia traccia in documenti scritti. Sì, mi pare che negli ultimi anni ci siano stati dei cambiamenti, delle aperture che possiamo ricondurre a diversi fattori di lunga durata. La maggior circolazione negli anni Duemila del pensiero queer, una vera e propria galassia, ha dato spazio tra le più giovani a un’autrice come Wittig, anche se non inserita nel contesto del femminismo materialista francofono (Tabet, Mathieu, Guillaumin, Delphy, Wittig), quindi forse in modi in cui non ci si focalizzava sul dialogo tra queste autrici. Alcune giovani sono andate in Francia per studio o per altri motivi e lì hanno scoperto le FMF (femministe materialiste francofone). Una volta tornate in Italia hanno riportato dentro le lotte femministe, in particolare penso a Non una di meno, la radicalità di questo pensiero e visione del mondo. Alcune discussioni sull’uso della nozione di razza credo vadano viste anche in questa direzione, approcci politici diversi su come usare questa parola in una lotta femminista antirazzista. Partendo proprio dal lavoro Guillaumin, penso che la parola razza oggi possa essere impiegata per nominare il rapporto sociale che l’ha prodotta, il razzismo. Rimane il fatto che ancora in poche conoscono il FMF, per la mancanza di traduzione, ma forse anche perché leggere i testi di queste autrici è una sfida per tutte noi ad assumere una prospettiva antiessenzialista con cui osservare tutti gli ambiti della nostra vita. Significa vedere con nuovi occhi le relazioni affettive, professionali, di militanza, assumere una radicalità costante e rinnovata nel tempo. Capita che le studentesse che leggono nei miei corsi Tabet, o le donne che incontro quando presento il pensiero femminista materialista, mi dicano che è una lettura che ha un forte impatto su di loro.

Ci sono discussioni molto dense, in cui sarebbe bello inserire anche il FMF. Penso per esempio al recente dibattito che si è sviluppato sul lavoro di cura nel contesto dell’attuale crisi sanitaria da Covid-19, e le sue importanti connessioni con le questioni poste dall’analisi femminista dell’antropocene. Mi pare che questa importante riflessione potrebbe essere ancora più contundente e politicamente efficace se riuscissimo a integrarvi le analisi delle femministe materialiste sul lavoro domestico. Infine, in ambito accademico mi pare che le cose fatichino di più a muoversi. In questo contesto occuparsi di, o produrre, analisi femministe non è facile: è decisamente più accettato usare o identificare la propria produzione con il termine genere, mentre ricordo che le FMF preferiscono impiegare la nozione di sesso inteso come costrutto sociale, con l’obiettivo di denaturalizzare completamente i rapporti sociali tra uomini e donne. Inoltre il nostro sistema è molto rigido per quanto riguarda i confini disciplinari, e il sapere femminista è invece interdisciplinare. In questo contesto speriamo che questa traduzione apra nuovi spazi di formazione e riflessione.

VINCENZA: È una questione un po’ complicata. Da un certo punto di vista mi sembra di sì, il clima è in parte cambiato. Da una parte, grazie all’intensificarsi degli scambi e alla mobilità per motivi di studio e ricerca di molte verso la Francia, seguendo anche stimoli dati da quanto man mano alcune di noi facevano circolare qui in Italia, e che hanno facilitato la «scoperta» dell’esistenza di un femminismo altro rispetto a quello che per decenni passava qui in Italia come «femminismo francese» (Irigaray eccetera). Dall’altra, c’è stata anche una moltiplicazione delle pubblicazioni, e queste hanno favorito una maggiore circolazione e discussione nel nostro paese degli assunti teorici del femminismo materialista francofono. Penso in particolare, ad esempio, a Le dita tagliate di Paola Tabet (Ediesse, collana sessimo&razzismo, 2014), in cui l’autrice riprende temi e analisi della sua ricerca antropologica sul dominio esercitato dalla classe degli uomini su quella delle donne portata avanti sin dagli anni Settanta (alcuni degli scritti più significativi di questo percorso sono pubblicati in La construction sociale de l’inégalité des sexes. Des outils et des corps, Paris, L’Harmattan, 1998), ma restata a lungo pressoché sconosciuta in Italia. O ancora le recenti traduzioni degli scritti teorico-politici di Monique Wittig (Il pensiero straight e altri saggi, volume nato, come ricorda Silvia Nugara nella recensione pubblicata da «il manifesto», da un lungo percorso di discussioni condivise di varie soggettività poi riunitesi nel collettivo La Lacuna, e il contemporaneo volume Il pensiero eterosessuale curato da Federico Zappino). O, last but not least, la traduzione di Deborah Ardilli per ombre corte del volume Per una teoria generale dello sfruttamento. Forme contemporanee di estorsione del lavoro di Christine Delphy, come anche il lavoro di traduzione/riflessione/diffusione che portate avanti con questo stesso vostro sito. E gli effetti si avvertono sia in ambito «militante» che, seppure in misura minore (come conseguenza della situazione dell’università italiana in termini di accesso, possibilità, eccetera), in ambito accademico grazie al lavoro di quante valorizzano all’interno delle loro ricerche, come anche dei loro corsi, il lavoro delle femministe materialiste francofone (per restare «tra noi» si veda tra le altre il lavoro svolto da Valeria all’Università di Modena). Detto questo, è innegabile che la strada da compiere sia ancora molto lunga. Ad esempio, seppure non si possa più parlare di una vera e propria «egemonia» del femminismo detto «della differenza» come negli anni Ottanta e buona parte dei Novanta, credo che permangano ancora i residui, anche nell’ambito degli studi femministi (di «genere» o di «sesso», come direbbero le «nostre»), di un pensiero «naturalista», non ancora compiutamente antiessenzialista.

MANASTABAL: A caratterizzare la riflessione di Guillaumin è l’approccio sociologico all’idea di razza. Potete chiarire di che cosa si tratta e in che senso questa decostruzione della razza si presta a essere estesa a tutti i gruppi istituzionalmente rivestiti del marchio biologico?

VALERIA: Il lavoro di analisi di Guillaumin sulla razza e sull’ideologia che la sottende, L’Idéologie raciste (1972), è la sua prima opera (la sua tesi dottorato), a cui è utile tornare per comprendere il suo metodo di lavoro. In esso Guillaumin fa una storia e una sociologia della formazione dell’idea di razza e delle idee che hanno interagito con la sua nascita (si pensi, per esempio, all’idea moderna di «ereditarietà»). Che cosa è la razza nella sua analisi? L’invenzione di una categoria naturalistica. Guillaumin decostruisce la definizione corrente della nozione di razza (gruppo naturale), dimostrando allo stesso tempo come questa nozione sia reale, materiale, prodotta da determinati rapporti sociali di potere e oppressione (il razzismo). È forse proprio in questo approccio in cui insieme si decostruisce il nucleo sentito come vero dell’idea di razza (la natura), e al contempo si riconosce la materialità dell’oppressione che essa incarna (il razzismo), che ritroviamo un’analisi imprescindibile per la comprensione dell’emersione storica di quei gruppi istituzionalmente rivestiti del marchio biologico, in primis i sessi. Il saggio sul sistema dei marchi è appassionante (Razza e Natura), proprio perché ci permette di capire come viene prima il rapporto sociale e poi un marchio che lo rappresenta isolandolo dalla sua origine sociale. Oggi si pensa: sono neri, per questo sono stati schiavizzati, e oggi discriminati. Ma invece viene prima il rapporto di oppressione e sfruttamento di un gruppo che casualmente era nero, e poi la legittimazione di tale oppressione con un marchio sentito come biologico, il colore della pelle. Il colore della pelle «secerne» la nostra posizione sociale: questa è una visione essenzialista del mondo, in cui si negano i rapporti materiali.

VINCENZA: Negli anni (primissimi anni Sessanta) in cui Guillaumin comincia la sua ricerca sulla «razza» si credeva ancora nella realtà delle «razze», e che solo successivamente queste, naturalmente presenti, subissero un processo di gerarchizzazione (il razzismo), a causa dell’ostilità e dell’aggressività tra gruppi. Le «razze» erano quindi considerate delle categorie concrete, naturali e a-storiche, che precedevano il razzismo costituendone di fatto il fondamento. Guillaumin opera una rottura radicale di questa prospettiva (rottura che innova completamente anche lo stesso approccio della disciplina sociologica, che all’epoca non era quella che consociamo oggi), problematizzando la «razza» come il prodotto e non come il supporto del razzismo. In questo modo Guillaumin fa emergere il carattere socialmente costruito della categoria di razza, un’«invenzione» sociale, storica, economica e politica che trasforma alcune caratteristiche fisiche, come il colore della pelle, in «marchi naturali», atti a sostenere processi di categorizzazione e gerarchizzazione e a giustificare i rapporti di potere e dominio come fondati in «natura». In questo modo ci vengono offerti gli strumenti per la comprensione del rovesciamento da causa ad effetto attraverso cui operano le diverse forme di oppressione, e quindi anche il sessismo. Un approccio talmente radicale – nel suo contemporaneo innovare completamente il quadro teorico, ma anche anticipare temi che diverranno di cruciale importanza negli anni a venire, come il carattere relazionale di razzismo/sessismo, o la necessità di considerare in questo processo il ruolo del gruppo dominante – che spesso mi meraviglio (e non sono la sola) di quanto, ancora oggi, Guillaumin sia così poco studiata e citata, o citata «male», in particolare nell’ambito degli studi su razza/razzismo.

SARA: A partire dagli anni Sessanta Colette Guillaumin ha elaborato una definizione sociologica della razza intesa come una categoria che è il prodotto storicamente determinato del razzismo, a sua volta da lei definito come un sistema coeso di strutture sociali e mentali di inferiorizzazione, sfruttamento e alterizzazione di un gruppo (i bianchi) su un altro (i non-bianchi). Si tratta di una categoria che non ha alcuna validità biologica, ma che, da un lato, produce effetti sociali feroci e mortiferi e, dall’altro, innerva la società tutta intera. Per riprendere i termini di Guillaumin, la razza è una «formazione immaginaria materialmente efficace» che «è dappertutto». Oltre a ridefinire la razza (e il razzismo), Guillaumin ne indaga il modus operandi. Se per il senso comune il colore della pelle è supposto precedere e giustificare l’esistenza di diversi gruppi che occupano posti differenti nella gerarchia sociale – le persone bianche e le persone non-bianche –, per Guillaumin (e lo stesso vale per le altre femministe materialiste) è un marchio che non sarebbe socialmente pertinente in assenza del rapporto sociale di dominazione che lega i due gruppi in presenza. La teoria di Guillaumin rende così possibile esprimere «la verità e la menzogna» della categoria di razza e capire che la verità – l’esistenza di un gruppo – nutre la menzogna – il fatto che si tratti di un gruppo naturale. Le sue definizioni di razza, razzizzazione e razzismo sono state riprese nel corso degli anni da divers* ricercator* o collettivi antirazzisti. Il diffondersi di un tale approccio costruttivista alla categoria di razza e a una forma di antirazzismo che impiega tali nozioni ha scatenato in questi ultimi anni e in numerosi paesi, in primis in Francia, violentissimi attacchi tanto nel campo politico che nel campo accademico e mediatico.

MANASTABAL: L’esigenza di demistificare l’approccio essenzialista alla realtà sociale, come avete sottolineato tutte e tre, è uno dei moventi fondamentali della riflessione di Guillaumin e, più in generale, del femminismo materialista francofono. Per altro verso, dobbiamo constatare che è raro imbattersi in esplicite e orgogliose rivendicazioni o auto-attribuzioni di essenzialismo. Quello che stiamo maneggiando, in altri termini, è un epiteto delegittimante che circola con grande facilità nel dibattito teorico e politico interno ai movimenti femministi, tanto che nemmeno il femminismo e il lesbismo materialista sono stati risparmiati da questa accusa. Potremmo ricordare, per limitarci a un caso famoso, la requisitoria di Judith Butler nei confronti di Monique Wittig in Questioni di genere. Ma vale la pena segnalare pure l’obiezione contro cui regolarmente urta il ricorso a una categoria come quella di «classi di sesso», e cioè che la (innegabile) mancanza di omogeneità interna del gruppo minoritario «donne», al pari della (innegabile) mancanza di omogeneità interna del gruppo dominante «uomini», renderebbe «essenzialista» — e dunque illegittima, arbitrariamente generalizzante, nemica della complessità, «ideologica», se non addirittura subalterna al pensiero patriarcale — la pretesa di concepirli come classi antagoniste. Quali strumenti ci offre Guillaumin per inquadrare, valutare, ed eventualmente confutare, un’obiezione come questa?

SARA: Rispetto alla prima osservazione che formulate, mi sento di dire che, se è vero che la rivendicazione essenzialista è poco diffusa nel campo delle scienze sociali, o in quello dei movimenti minoritari, le eccezioni non mancano. Penso, da un lato, alle analisi di pensatori come Norman Ajari che affermano la necessità dell’uso della nozione di essenzialismo nella definizione delle identità dei gruppi razzizzati e, dall’altro, a tutte le argomentazioni essenzialiste che avanzano (appena appena) mascherate. Mi riferisco a tutte le prospettive teoriche o politiche destoricizzate e psicologizzanti che usano categorie quali «differenza sessuale», «femminile», «maschile», «materno», «paterno», «uomo», «donna», «bianco», «nero» come fossero dati di natura, o che impiegano altre nozioni direttamente prelevate dalla dottrina psicoanalitica, in particolare, nella sua versione lacaniana («il Nome del Padre», «il Fallo», «l’Edipo», «la Castrazione»). Per non palare, poi, dei presupposti funzionalisti, culturalisti, biologizzanti, ergo pseudo-materialisti, di molte delle analisi ancora prodotte nel campo delle scienze sociali che, non interrogando il rapporto di potere sociale e storico alla base della costituzione dei gruppi sociali, comportano, ciascuna, una forma assai poco residuale di pensiero naturalista.

Venendo, ora, allo specifico oggetto della vostra domanda, mi pare che, per comodità, possiamo distinguere due ordini di argomentazioni, non di rado usate congiuntamente dai detrattori e dalle detrattrici dell’approccio femminista materialista. Le femministe materialiste teorizzano il rapporto di appropriazione che a loro giudizio costituisce le classi di sesso e lo considerano come il fattore esplicativo delle disuguaglianze di potere tra uomini e donne. Secondo il primo degli argomenti che criticano questo approccio, dire che le donne sono una classe significa essenzializzarle. Questa obiezione mi pare patentemente auto-contraddittoria. Sappiamo come il concetto di classe sia stato costruito, da Marx in poi e nella differenza delle teorizzazioni, come totalmente antinomico a quello di gruppo naturale: una volta distrutto il rapporto sociale che costituisce i gruppi secondo un dato asse di dominazione – il capitalismo, il sistema patriarcale, il sistema razzista – le corrispondenti classi spariscono. Purtroppo siamo ben lontani da questo esito, ma il fine utopistico di una teoria che si vuole strumento di lotta non la rende per questo meno pertinente o meno necessaria. Stando al secondo tipo di critiche, dire che le donne sono una classe vuol dire negare che il gruppo delle donne è attraversato da altre forme di dominazione (di classe sociale, di razza, di sessualità, e così via). Anche qui, la confusione logica è evidente: perché mai affermare l’esistenza di una classe, anzi, per essere precis*, di due classi, che, repetita iuvant, sono costituite da un rapporto sociale, che sono antagoniste e interdipendenti, implicherebbe la loro omogeneità? La classe capitalistica e la classe lavoratrice non esistono perché eterogenee al loro interno? «Uomo», «donna», e così vale per «bianco», «nero»: si tratta di categorie politiche naturalizzate. La vostra domanda è tanto pertinente quanto utile perché permette di esplicitare una componente dell’approccio femminista materialista di cui si parla ancora meno del poco di cui si discute di questo paradigma. L’analisi femminista materialista non è riducibile ad un approccio analogico tra dominazione di sesso e dominazione di razza. Affermare che i gruppi di sesso e i gruppi di razza sono costituiti, ciascuno, da un rapporto sociale specifico, e che le categorie di razza e di sesso funzionano in modo analogico (reificazione, alterizzazione e naturalizzazione dei gruppi oppressi), non significa che i diversi gruppi non siano eterogenei al loro interno. Al contrario, queste teoriche affermano che occorre prendere in considerazione gli altri rapporti sociali che caratterizzano uomini e donne, bianchi e non bianchi e studiarne «i legami organici» (come dicono Guillaumin e Danielle Juteau), le modalità di «intreccio» (come dice Jules Falquet), di «intersezione» (come dice Sylvia Walby). Ma ciò non significa ridurre l’oppressione delle donne a questi altri rapporti sociali e, ancor meno, evacuare il meccanismo centrale della produzione delle classi di sesso, che rimanda a due gruppi antagonisti i quali, nelle relative differenze, condividono situazioni ed esperienze di potere (per gli uni) o di non-potere (per le altre) comuni.  Guillaumin analizza questa «coesistenza dell’indissociabile omogeneità ed eterogeneità della classe delle donne» – l’espressione è di Danielle Juteau – in numerosi passaggi di Sesso, razza e pratica del potere, ma anche in un articolo meno noto intitolato La confrontation des féministes en particulier au racisme en général. Remarques sur les relations du féminisme à ses sociétés. Guillaumin mostra, da un lato, che il sistema di oppressione delle donne ha modi di estrinsecazione altri che capitalistici e altri che privati e, dall’altro, che esso si dispiega attraverso forme di appropriazione tanto collettiva che privata che producono diverse contraddizioni e posizionamenti all’interno di una stessa classe di sesso. Altra questione ancora è il rapporto tra appartenenza ad una classe di sesso, coscienza di classe e margine di manovra individuale (su cui Delphy ha scritto), o quella delle lesbiche come «transfughe» della classe di sesso-donne (su cui Wittig ha scritto) o, ancora, quella delle «trasgressioni di sesso attraverso il genere» (su cui Mathieu ha scritto)…

VINCENZA: Concordo con quanto sottolineate, ovvero che l’accusa di «essenzialismo» circola oggi con una certa «disinvoltura» nel dibattito teorico/politico, fino a colpire paradossalmente anche approcci caratterizzati da un pensiero radicalmente anti-essenzialista come quello teorizzato dal femminismo materialista francofono (e specifico francofono vista l’emergenza, negli ultimi anni, di altre correnti femministe e queer che si definiscono, o sono definite, «materialiste»). Penso che questo paradosso vada necessariamente collocato in un quadro complesso, in cui l’«accusa» di essenzialismo viene mossa da (e contro) realtà e soggettività molto diverse sia per il tipo di «posizionamento» che per gli strumenti e (gli scopi) teorici e politici messi in campo. Del resto, come notavo in una delle risposte precedenti, è innegabile che ancora oggi persistano, anche all’interno degli studi di genere/femministi e nella teoria e pratica politica di diversi gruppi minoritari, residui di un approccio/pensiero che possiamo definire essenzialisti. Residui che si manifestano però – molto spesso – in forme non solo meno esplicite, ma anche non immediatamente sovrapponibili a quelle ampiamente discusse e tematizzate criticamente in passato. Lo stesso concetto di «essenzialismo», del resto, è stato negli ultimi anni reinterpretato in forme inedite, penso ad esempio all’«essenzialismo strategico» come «errore necessario» proposto da Gayatri Chakravorty Spivak in un saggio del 1990, una mossa contingente attraverso cui alcuni gruppi subalterni hanno potuto utilizzare criticamente determinate contrapposizioni binarie (uomo/donna, omosessuale/eterosessuale, Primo/ Terzo mondo…) per rendere visibili rapporti di potere e dominio. Un quadro quindi complesso in cui si scontrano istanze teoriche e politiche diverse, che hanno effetti diversi e richiedono da parte nostra risposte e spiegazioni molto differenti. Da una parte vanno collocate quelle che, a mio parere, sono le forme più esplicite (e preoccupanti) dell’utilizzo dell’accusa di essenzialismo, ovvero quelle che vengono agite, a vari livelli e in diversi ambiti disciplinari e/o politici, con lo scopo palese di delegittimare le lotte e le teorizzazioni delle/dei subalterni, e quindi invisibilizzare in un solo colpo il carattere sistemico dei rapporti di dominio e i privilegi dei gruppi dominanti. Nelle loro espressioni più rozze queste forme si caratterizzano anche per l’invenzione/utilizzo di alcuni di quegli pseudo-concetti che Sara evoca nella sua parte di introduzione al volume («razzismo anti-bianchi», «sessismo anti-uomini» o «eterofobia»). Dall’altra, fattori molto diversi mi sembrano invece caratterizzare (alcune) delle critiche e delle «accuse» di «essenzialismo» che si sono espresse all’interno del dibattito teorico/politico nei confronti del femminismo materialista francofono. Critiche che – anche quando palesemente infondate e/o basate su una lettura approssimativa dei testi – ho sempre trovato estremamente stimolanti. Danno infatti la possibilità di verificare, sul terreno concreto della teoria e della pratica politica femminista, le questioni ancora «oscure» in un corpus concettuale molto complesso come quello del femminismo materialista, ovvero cosa è necessario esplicitare e/o spiegare, come stiamo facendo in questa intervista, per far emergere la radicalità di questo pensiero, la sua attualità e l’utilità di farlo dialogare anche con altri quadri concettuali come quelli dei femminismi postcoloniali e intersezionali. In questa prospettiva la categoria di «classi di sesso» è indubbiamente stata, fin dagli anni Settanta (ad esempio si vedano le critiche mosse da Michèle Barrett e Mary McIntosh a Christine Delphy nel saggio del 1979), quella che ha suscitato i maggiori malintesi poiché interpretata come una categoria «omogeneizzante» e che non darebbe conto, fino a invisibilizzarle, delle divisioni esistenti tra donne in virtù della loro appartenenza a diverse classi sociali e/o gruppi «razziali». Quello che sfugge è che la teorizzazione del gruppo sociale delle donne e del gruppo sociale degli uomini, che sono configurate come classi antagoniste, non implica affatto che vi sia una omogeneità all’interno di ogni classe (classi che sono invece pensate come eterogenee al loro interno, in quanto implicate in altri specifici, e connessi, rapporti sociali di dominio), ma piuttosto mira  a far emergere il rapporto di appropriazione, collettiva e privata, dell’intera classe delle donne da parte dell’intera classe degli uomini o, per dirla con le parole di Guillaumin, «l’atto di forza permanente attraverso cui si dispiega l’appropriazione della classe delle donne da parte della classe degli uomini» (dal saggio Pratica del potere e idea di Natura). L’incomprensione su questo punto cruciale è determinante anche per l’altra obiezione spesso rivolta al femminismo materialista francofono, ovvero il presunto approccio in termini «analogici» al rapporto sesso/razza. Un’obiezione che è stata tra l’altro al centro dell’acceso dibattito innescato, come ricordate, dalla famosa requisitoria di Judith Butler contro Monique Wittig in Gender Trouble e alla quale fece seguito l’altrettanto famosa contro-requisitoria di Teresa De Lauretis. Nonostante l’uso frequente e diversificato della forma analogica nell’opera (teorica ma anche soprattutto letteraria) di Wittig meriterebbe di essere maggiormente valutato e contestualizzato (per una ricostruzione del dibattito il saggio di Stéphanie Kunert, L’analogie «sexisme/racisme»: une lecture de Wittig), così come su un piano diverso si colloca, e andrebbe quindi discusso e collocato, l’uso dell’analogia sesso/razza in alcuni dei testi di Christine Delphy dei primi anni Settanta, anche su questo nodo fondamentale Guillaumin ci offre, come abbiamo sottolineato nell’introduzione, strumenti preziosi non solo per «smontare» o tematizzare questa e altre obiezioni, ma anche e soprattutto per comprendere come i diversi rapporti sociali (di classe, razza, sesso…) si producono (e operano) simultaneamente e organicamente, e quindi indicarci anche le modalità per combatterli.

VALERIA: Grazie per la domanda, molto utile poiché è un commento o critica che spesso è rivolta al femminismo materialista francofono e al concetto di classe di donne. Definire le donne come una classe non implica cancellare le esperienze diverse che ciascuna di essa fa del sessaggio e di altre forme di oppressione. Quando uso la categoria classe di donne, sto mettendo in evidenza che le donne esistono come gruppo nel rapporto sociale con gli uomini, che a loro volta costituiscono una classe proprio nel rapporto sociale con le donne. Il fatto di appartenere alla classe delle donne è comprensibile solo ed esclusivamente se consideriamo il rapporto sociale che mi produce come donna, ovvero il rapporto sociale di sesso. Ed è qualcosa che ci accomuna, anche se non costituisce di per sé un terreno di lotta comune. Non esistono donne, né uomini, al di fuori di questo rapporto sociale, la categoria donna non precede il rapporto sociale tra i sessi, ma ne è il prodotto, il risultato di una forma specifica di appropriazione collettiva e individuale, materiale e ideologica, il sessaggio. Questo approccio non cancella e non può cancellare le altre esperienze di oppressione che le donne fanno nella loro vita materiale, e quindi anche nei rapporti tra donne, come il razzismo, l’oppressione di classe e in base alla sessualità. Proprio perché non esiste di per sé una categoria «donne» a cui apparteniamo prima dei rapporti sociali materiali che viviamo con gli uomini, non può esserci un’identità essenzialista della classe «donne». Ribalterei così l’accusa di essenzialismo rivolta alla categoria classi di sesso. Nel leggere Guillaumin noi ci immergiamo completamente nell’approccio materialista e quindi riconosciamo che non c’è omogeneità interna al gruppo «classe di sesso», ma c’è un rapporto sociale e storico che ci produce come donne, e che questo rapporto sociale co-esiste con altri rapporti di oppressione basati sulla razza, sulla classe e sessualità. Questo approccio comporta riconoscere che le donne possono avere interessi diversi. E questo tra l’altro significa riconoscere, nel dialogo tra donne, che per alcune l’oppressione di razza possa essere riconosciuta come più pressante e violenta nella propria vita. È in questo modo che è possibile un riconoscimento reciproco e porsi la questione delle alleanze tra donne. A questo proposito, la femminista decoloniale afro-domenicana Ochy Curiel, fine lettrice di Guillaumin e delle altre femministe materialiste, riflettendo sulle difficoltà di alcune a considerare insieme le discriminazioni di razza, sesso e orientamento sessuale, ricorda come «quando appare la resistenza ad abbordare questo tipo di discriminazione (quella per orientamento sessuale, n.d.t.), in connessione con l’elemento ‘razziale’ e di genere, la discussione gira attorno alla questione di sapere se noi siamo per prima cosa nere, donne o lesbiche» (Pour un féminisme qui articule race, sexe et classe, «Nouvelles questions féministes», 20, 3, 1999). Credo che la categoria di sessaggio, insieme al lavoro di Guillaumin sul razzismo, ci permettano di guardare alla materialità delle condizioni di esistenza, ai rapporti sociali come la matrice dei gruppi che vediamo come naturali, e quindi a non fossilizzarci su cosa viene prima, ma a vedere ciò che li produce. Nel 1998 Guillaumin ha partecipato a un convegno dell’Association Nationale des Études Féministes, dal titolo Les féministes face à l’antisémitisme et au racisme. Il testo del suo intervento offre una riflessione, ancora attuale, su femminismo e altri movimenti di gruppi minoritari (nei rapporti di potere), e sul rapporto tra movimento femminista a movimenti antirazzisti. In questa riflessione, Guillaumin ricorda che non sono le donne ad essere differenti: ciò infatti implicherebbe l’idea che esista una categoria «donne» in sé, negando che le donne esistono solo nel rapporto sociale con gli uomini, e che gli uomini sono a loro volta immersi in rapporti di potere. Ad essere differenti sono le possibilità materiali in cui vivono le donne, che comportano scelte concrete certamente differenti.

MANASTABAL: Al pari delle altre teoriche femministe materialiste, Guillaumin punta a costruire una teoria generale del dominio sociale e della sue razionalizzazioni ideologiche. L’approccio materialista permette, in altri termini, di analizzare il dominio razzista e il dominio patriarcale a partire da meccanismi che operano in maniera analoga in entrambe le configurazioni, per esempio quello che presiede alla naturalizzazione dei gruppi dominati. Per altro verso verifichiamo quotidianamente, anche negli ambienti progressisti, la resistenza a prendere sul serio le analogie: chi non ha difficoltà a caratterizzare come integralmente sociale e antagonistica la relazione fra bianchi e non bianchi all’interno delle società occidentali, può averne invece moltissime a rappresentarsi negli stessi termini quella fra uomini e donne. Allo stesso modo, chi non ha alcuna difficoltà a interpretare in termini materialisti lo sfruttamento salariale recalcitra a estendere la considerazione materialista a quello domestico. Come si spiega secondo voi il fatto che, quando è in gioco il rapporto sociale di sesso, il residuo ideologico del naturalismo non manca di esercitare il proprio influsso?  

VINCENZA: Come mostrano mirabilmente gli scritti di Guillaumin, così come quelli delle altre femministe materialiste francofone, la credenza nella «naturalità» dei rapporti di dominio che legano la classe (dominante) degli uomini a quella (dominata) delle donne, ha uno dei suoi punti di forza nella sua assoluta pervasività, che investe cioè ogni ambito ed espressione dell’esistenza e in questo senso alcuni dei saggi contenuti nel volume Sesso, razza e pratica del potere sono assolutamente  illuminanti. Tuttavia, e soprattutto a così tanti anni di distanza, è legittimo chiedersi perché, anche in quei contesti che definite «progressisti», e dove la comprensione del meccanismo che presiede alla naturalizzazione dei gruppi dominati ha portato a leggere in termini di rapporti sociali i conflitti di classe e il razzismo, questo non funziona ancora oggi con i rapporti sociali di sesso. Posso solo provare ad abbozzare una risposta, a partire anche dalla constatazione che storicamente, prima dell’emergenza del movimento femminista in particolare materialista, il concetto di «sesso», ha sempre avuto, nel pensiero politico contemporaneo, uno statuto molto diverso da quello di «classe». È anche una questione di tempi: come ci ricorda Paola Tabet in Le dita tagliate, ci sono voluti secoli prima di giungere, ad esempio, ad analisi materialiste dei rapporti di classe. In seguito la predominanza della classe come categoria di analisi è stata molto forte in una larga parte dei movimenti degli anni Settanta e questo ha contribuito all’instaurarsi di una sorta di «gerarchia» delle lotte, in cui quella delle donne era vista come «secondaria». Anche la categoria di «razza» ha avuto a lungo uno statuto «debole» (simile, anche se con traiettorie diverse, a quello di «sesso») e ha cominciato ad acquisire una certa legittimità e diffusione come categoria analitica solo a partire dagli anni Sessanta-Settanta (sulla spinta soprattutto delle lotte anti-coloniali, del «potere nero» negli USA e, per quanto concerne la storia delle donne, grazie alle lotte e agli scritti dei femminismi neri, decoloniali e diasporici). Per la categoria di «sesso» – ovvero la comprensione del rapporto tra i sessi come rapporto sociale e non come dato naturale – le resistenze sono state, e sono tuttora, molto più tenaci, anche se possiamo sperare in un progressivo cambiamento di prospettiva, grazie all’apporto decisivo del femminismo materialista francofono. Al momento è per certi versi sconcertante quanto suoni ancora attuale talvolta, a cinquant’anni di distanza, l’amara constatazione delle autrici di Combat pour la libération de la femme (1970), tra le quali Monique Wittig:

Ci sentiamo sempre dire che la nostra lotta è un «problema secondario». Molto rari sono coloro che ci accordano altrettanta importanza che a quella dei neri negli Usa oppure a quella dei lavoratori immigrati qui […]. D’altronde cosa rappresenta la nostra lotta per loro? Lotta domestica, lotta prosaica, lotta di serve …

Questo anche perché il gruppo sociale delle donne, pur nelle «differenze» (da intendersi, in primo luogo, come diseguaglianze) che posizionano ogni singola donna lungo diversi assi di differenziazione – «razza», «classe», sessualità, età … – nel contesto sociale, economico e politico (e ognuna rispetto all’altra), sono un gruppo trasversale a tutti gli altri gruppi sociali. E questo le espone maggiormente ai meccanismi di appropriazione, sfruttamento e subordinazione da parte del gruppo sociale degli uomini nel suo insieme. Questo avviene, come ci mostrano le femministe materialiste, in tutti gli ambiti, dal piano collettivo a quello cosiddetto «privato». Ben pochi uomini, anche «progressisti», sono disponibili a rinunciare al proprio privilegio e a molti continua ad apparire come normale, naturale, che l’insieme delle attività domestiche e di cura siano svolte dalle donne, o gratuitamente (come madri, mogli, compagne, figlie…) o come lavoratrici sotto-pagate, via anche la progressiva e massiccia razzializzazione di questo tipo di lavoro.

SARA: Direi che sono proprio i testi delle femministe a offrire i migliori elementi di risposta alla vostra più che pertinente domanda. Queste teoriche si sono ampiamente interrogate sulla forza e la pervasività della credenza naturalista secondo la quale uomini e donne sarebbero gruppi naturali e naturalmente complementari. Nella relativa differenza dei concetti forgiati e utilizzati dall’una o dall’altra di queste pensatrici, la risposta è convergente: l’oppressione materiale subita dalla classe delle donne da parte della classe degli uomini è sostenuta e incoraggiata da un sistema categoriale, discorsivo, ma anche percettivo che inculca nelle teste, negli automatismi motori e linguistici la credenza «dura come il cemento», scrive Guillaumin, nell’esistenza di una «natura» differente e complementare per gli uomini e per le donne e la iscrive nelle istituzioni, nelle strutture sociali che definiscono la trama del mondo in cui viviamo. La doppia forma di esistenza di questa credenza naturalista – una forma oggettivata, nelle cose, e una forma soggettivata, nelle teste, nei corpi – e la complicità sotterranea che lega l’una forma all’altra spiegano la forza di questa credenza. A proposito della pervasività dell’ideologia naturalista, Wittig conia la nozione di «pensiero straight» che opera attraverso la destoricizzazione e la naturalizzazione delle bicategorizzazioni «uno/altro», «referente/differente», «uomo/donna», «bianco/nero». Delphy parla del genere come di una «cosmologia» e, nel suo inconfondibile stile fatto di rigore e ironia, si chiede senza gli uomini e le donne come si potrebbe mai fare? «Non ci sarebbe né alto, né basso, né sole, né luna, né, ça va sans dire, amore: l’umanità stessa sarebbe in pericolo». Mi piace ricordare qui che un sociologo caro a Guillaumin e a Delphy, Erving Goffman, in un breve folgorante testo del 1977, The Arrangement between the Sexes, aveva definito il genere come il «vero oppio dei popoli» (naturalmente il genere come insieme di strutture sociali che naturalizzano i gruppi di sesso, e non il genere come concetto che fa vedere come tale naturalizzazione operi). Basta guardarsi attorno, come non essere d’accordo?

VALERIA: Guillaumin è attenta a non affermare che ci sia una pura analogia tra oppressione razzista e patriarcale, ben consapevole dei rischi di questa affermazione, ma, come dite voi, proprio perché osserva i rapporti sociali nella loro materialità, riconosce come le oppressioni di razza e sesso si producano e si legittimino attraverso una certa idea di natura. Guillaumin analizza i processi di naturalizzazione di rapporti sociali di razza e sesso, che non vengono assunti in quanto tali, soprattutto dal gruppo dominante. Per riprendere la vostra domanda, credo che una risposta possa essere trovata nella difesa del privilegio da parte del gruppo dominante, in questo caso gli uomini. Il naturalismo permette di accettare confortevolmente, di non mettere in discussione la propria posizione dominante in rapporti nell’ambito domestico, professionale, ma anche nella militanza. Ammettere che si è dentro un rapporto di potere strutturale e che se ne traggono i vantaggi è qualcosa che non si vuole fare, poiché potrebbe aprire un varco per dei cambiamenti: occuparsi di lavori meno gratificanti, avere meno tempo per sé, parlare di meno, occupare meno spazi di potere, ascoltare e legittimare il punto di vista delle e degli oppressi. Si tratterebbe di riconoscere l’insieme dei rapporti sociali di sesso, e andare oltre l’orizzonte individuale, con il classico «io a casa lavo i piatti, ecc.». Questa resistenza a estendere l’analisi materialista ai rapporti sociali di sesso è una tappa di un processo lungo di trasformazione. Noi continueremo a leggere Guillaumin, ora anche in italiano, e altre autrici, per smontare questo approccio naturalista. 

MANASTABAL: Una delle implicazioni più importanti del discorso di Guillaumin è costituita dalla rottura con quel tenace assunto di senso comune secondo cui razzismo e sessismo sarebbero definiti anzitutto, se non esclusivamente, dall’ostilità dei dominanti verso gruppi oggettivamente differenti: in una parola, dalla paura e dal rigetto dell’alterità. Sempre in base a questo assunto, la promozione e la valorizzazione delle «differenze», per esempio nei contesti scolastici, rappresenterebbero l’antidoto alla riproduzione di assetti gerarchici lungo gli assi della razza e del genere. Che cosa replicherebbe Guillaumin a questa enfatica volontà di celebrare le «differenze»? 

VINCENZA: Su questo punto Guillaumin è nei suoi testi, a partire da L’idéologie raciste, estremamente chiara. Se il suo approccio rompe radicalmente con la visione di razzismo e sessismo come generati da sentimenti di ostilità/aggressività/paura del gruppo dominante nei confronti dei soggetti dominati, parimenti mette in evidenza come sovente i processi di alterizzazione/subordinazione all’opera nei rapporti di dominio si appoggiano anche sull’esaltazione e sulla celebrazione di determinate qualità che sarebbero specifiche del gruppo dominato. Per il sessismo pensiamo per esempio alla celebrazione delle cosiddette virtù femminili, in primis quelle «materne», e per il razzismo l’enfasi posta sulla presunta superiorità o maggiore «bravura» dei/delle neri/e nello sport, nel canto o nella danza, come anche alcuni processi di estetizzazione razzializzata della bellezza e dei corpi. Queste forme celebrative non scardinano i rapporti gerarchici e di potere, ma anzi li rafforzano e li riproducono. Per quanto concerne la promozione e valorizzazione delle «differenze» nei contesti scolastici, indicazioni preziose ci vengono anche dalla ricerca sulla percezione della «razza» nelle/nei bambine/i di Paola Tabet, confluita poi nel volume La pelle giusta (Einaudi, 1997), come anche dal libro curato dalla stessa Tabet con Silvana Di Bella, Io non sono razzista ma … Strumenti per disimparare il razzismo (Anicia, 1998). Nelle riflessioni di Tabet notevole è il distacco critico dalle riduzioni del razzismo alla questione della comunicazione-conoscenza tra culture che informano numerose esperienze di educazione interculturale nelle scuole. Non solo per i rischi impliciti all’assunzione della «differenza culturale» come un dato primo (gli anni in cui Tabet scriveva questo testo erano quelli in cui emergeva con forza, anche qui in Italia, il cosiddetto neorazzismo), ma anche perché la mancanza di uno sguardo più ampio sulle dissimmetrie di potere economico e politico che caratterizzano l’insieme dei rapporti sociali può contribuire a falsare il problema, e concorrere a riprodurlo. Piuttosto, credo che molto si possa fare a livello educativo/scolastico lavorando sui libri di testo per offrire nuovi modelli identificativi non «stereotipati» e/o vittimizzanti e approfondimenti su questioni spesso lasciate ai margini (o affrontate dal punto di vista dei dominanti), come la storia del colonialismo italiano o la storia delle donne/dei femminismi. Importante sarebbe poi offrire agli/alle insegnanti (con corsi di formazione o altro) quell’insieme di strumenti teorici e metodologici utili per affrontare questioni cruciali quali il privilegio, la bianchezza, i rapporti di dominio. 

VALERIA: Difficile domanda, posso dirvi come rispondo io usando Guillaumin. Intanto Guillaumin è imprescindibile proprio per la sua descrizione di come il nucleo del razzismo e del sessismo, non è l’ostilità verso «altri diversi», poiché il rapporto di oppressione si produce anche attraverso altri meccanismi che sono per esempio la valorizzazione restrittiva che permette di riprodurre efficacemente sistemi di oppressione. Guillaumin ci chiama a riflettere su cosa è la differenza, chi definisce chi è differente, e differente da chi? (si veda Questione di differenza). Con queste domande diventa chiaro che celebrare le differenze, parlare di alterità, non è una strategia efficace di lotta contro i rapporti di oppressione basati sulla razza o il sesso. E soprattutto con queste domande Guillaumin nomina il Referente, il gruppo socialmente definito bianco, che non si vede o si pone come neutro, come elemento centrale per comprendere come si riproduce il razzismo. I bambini e giovani delle scuole italiane non hanno bisogno della valorizzazione della cucina marocchina, ma di qualcuno che li aiuti a discutere insieme dei rapporti di potere che vedono e vivono quotidianamente e di quelli del passato, hanno bisogno che i docenti bianchi propongano narrazioni in cui gli oppressi (quel magma che viene definito con «migranti/immigrati») siano soggetti, individui attivi, e non solo vittime passive o individui pericolosi. Mediamente in Italia i docenti credono che non esista razzismo nel nostro paese, o che i bambini non possono essere razzisti perché non sanno quello che dicono: questa visione è parte del problema, siamo già nella logica razzista che nega che esiste razzismo, e che rifiuta di vedere che i bambini riproducono quello che vivono attorno a loro (si veda lo splendido lavoro di Paola Tabet, La pelle giusta). Per il sessismo, la situazione più frequente è una vaga idea di pari opportunità (in Italia trattiamo allo stesso modo bambini e bambine) alla cui base vi è la convinzione che se alla fine alle bambine piace stare più con le bambine, allora vuol dire che è «naturale». Offrire la possibilità ai bambini di giocare con le bambole non cambia i rapporti sociali di sesso. In questo momento storico, c’è poco spazio e legittimità per discutere con i docenti e per preparare i docenti ad altri modi di affrontare il razzismo e il sessismo, che appunto mettano in discussione l’idea di natura come fulcro dei gruppi sociali di uomini e donne, bianchi e neri.

SARA: Che il razzismo (il sessismo) non si possa limitare all’espressione di ostilità è una delle principali conseguenze delle analisi proposte da Guillaumin ne L’idéologie raciste, il testo citato in precedenza da Vincenza (ne riuscirà a breve una riedizione dopo quella del 2001). Nel corso di tutto il suo lavoro, Guillaumin mostra come la celebrazione de la-differenza che sarebbe propria di specifici gruppi sia un’altra forma attraverso la quale si produce l’inferiorizzazione e l’alterizzazione dei gruppi socialmente oppressi. Qualunque forma di rivendicazione de la-differenza è, pertanto, a suo giudizio funesta politicamente perché rafforza quell’ideologia naturalista che sostiene l’oppressione materiale dei gruppi subordinati. Ma Guillaumin insiste anche su un secondo aspetto. Non solo il razzismo non si limita alle manifestazioni individuali di odio, comprendendo forme di celebrazione differenziale e compensatoria dei dominati, ma il razzismo opera al di là delle mere volontà individuali. Si tratta di un sistema che gerarchizza e naturalizza due gruppi asimmetrici in termini di potere. Questo sistema attraversa e intacca le diverse strutture sociali e mentali che definiscono il mondo sociale in cui viviamo. Una tale prospettiva ha una duplice conseguenza in termini analitici e politici. Da un lato, mostra la non pertinenza di nozioni quali «razzismo anti-bianchi», «razzismo anti-uomini» o «eterofobia» usati oggi da alcuni degli attori e dei gruppi che attaccano i saperi e le lotte minoritarie. Dall’altro, permette di rendere visibile che i gruppi dominanti secondo i diversi assi di categorizzazione (razza, genere, sessualità), benché eterogenei al loro interno, godono di un sistema di privilegi che corrisponde al sistema di privazioni dei gruppi oppressi. Nel saggio Pratique du pouvoir et idée de nature pubblicato nel 1978 su Questions féministes, Guillaumin scrive: «si dice dei Neri che sono neri rispetto ai Bianchi, ma i Bianchi sono solo bianchi. Non è, tra l’altro, affatto certo che i Bianchi siano di un qualsivoglia colore». I bianchi non fanno parte delle «persone di colore»: «il bianco», il referente, non ha colore. Analogamente, nella designazione dell’appartenenza di sesso, la categoria differenziale è quella di «donna». «L’uomo» («l’eterosessuale») è il non-detto, l’implicito delle categorie sessuali. Guillaumin enuncia, così, il vantaggio strutturale dei dominanti: l’essere bianchi – lo stesso vale per l’essere uomini, l’essere eterosessuali – rimanda al sistema normativo in vigore ovvero ad un sistema di privilegi materiali e simbolici che non si pensa, né vede come tale, ma si dà come «normalità», «natura», «universale».

MANASTABAL: Tradurre significa anche forzare la lingua di arrivo introducendo termini nuovi, non ancora consacrati dall’uso. Nel caso di Guillaumin spicca il conio sexage, che voi avete scelto di rendere in italiano con «sessaggio». Potete spiegare a chi ci legge che cos’è il sessaggio? In quale misura, a vostro parere, questo concetto si presta ad analizzare le dimensioni attuali della subordinazione patriarcale delle donne? Qualche esempio?

SARA: Al momento dell’ideazione e della preparazione di Non si nasce donna che proponeva, insieme a brevi introduzioni al pensiero delle femministe materialiste, alcune traduzioni dei loro articoli, ho avuto la possibilità e il privilegio di discutere con Mathieu, Guillaumin e Delphy. Molti degli scambi riguardavano l’importanza che ognuna di loro attribuiva alla traduzione. Una tale attenzione al linguaggio non stupisce coloro che conoscono i testi di queste teoriche. Una parola non è mai usata a caso o fuori posto. Figuriamoci un concetto. Non è difficile capire il perché: per queste teoriche il linguaggio è un’arma a doppio taglio. Da un lato, è un vettore di oppressione (pensiamo semplicemente al fatto che nella gran parte delle lingue parlate non si può non dire il sesso), dall’altro è uno strumento di possibile emancipazione quando è reinvestito dai soggetti minoritari per nominare e far vedere forme di dominazione invisibili in assenza della teorizzazione minoritaria. Una dei celebri passaggi de Les Guérillères di Wittig afferma che «ogni parola deve essere passata al vaglio». Nicole-Claude Mathieu ha scelto questa frase come esergo del primo tomo de L’anatomie politique. Tradurre i concetti cercando di restituire al meglio il rigore con cui erano stati elaborati e di rendere la loro portata epistemologica è stato il nostro imperativo durante la realizzazione del libro. Nel caso del concetto di sexage la scelta è stata semplice. È Guillaumin a creare in francese il neologismo sexage, coniato per vicinanza e assonanza coi termini esclavage (schiavitù) e servage (servaggio), per esprimere il rapporto di classe che lega quella degli uomini a quella delle donne. Si tratta di un rapporto di reificazione, di alterizzazione, di appropriazione. Non c’è, pertanto, mai stato alcun dubbio (nemmeno per Guillaumin, tra l’altro): «sessaggio» rendeva in italiano il sexage francese. Tra i «mezzi concreti» attraverso cui il sessaggio si dispiega, Guillaumin e, più in generale, le femministe materialiste individuano diverse istituzioni e processi e ne analizzano il funzionamento. Tra di essi: il lavoro domestico, il contratto di matrimonio, i processi di socializzazione infantile, la rigida sessualizzazione dello spazio (privato e pubblico), l’accudimento materiale ed emotivo degli individui più deboli in seno alla famiglia o alla società, il sotto-equipaggiamento tecnologico delle donne rispetto agli uomini, l’uso della violenza psicologica o fisica da parte della classe degli uomini contro le donne per soggiogare o anche solo per intimidire e ridurre al silenzio ciascuna donna e per esprimere i diritti di proprietà che ciascun uomo può vantare sulla classe delle donne.

VINCENZA: Sì, tradurre è anche «forzare» la lingua di arrivo, che è anche un’enorme responsabilità vista l’attenzione che storicamente tutti i gruppi minoritari (nel senso datole da Guillaumin) hanno dato al linguaggio in quanto terreno non «neutro», che riflette, veicola e riproduce i rapporti di dominio. Sono note, e citatissime, in questo senso le pagine che bell hooks dedica al linguaggio come «luogo di lotta» (in uno dei saggi da poco riediti tra l’altro da Tamu Edizioni). Non è un caso che la produzione militante e teorica dei movimenti degli ultimi decenni, da quelli femministi a quelli lgbtqi, dai movimenti postcoloniali a quelli decoloniali, sia caratterizzata anche dalla produzione di neologismi, necessari per nominare e dare «corpo» a nuovi concetti e pratiche, per autorappresentarsi e autodefinirsi fuori dalle logiche anche linguistiche di dominio. Nelle femministe materialiste questa attenzione al linguaggio è fortissima, come emerge chiaramente dai loro testi, coniugandosi, come hanno potuto sperimentare direttamente quante di noi hanno avuto la preziosa possibilità di un confronto anche solo con alcune di loro, a quel rigore estremo che viene dalla consapevolezza di esprimere (e restituire) un tipo di approccio che rompe radicalmente gli schemi analitici precedenti. Per venire al termine sexage coniato da Guillaumin per indicare il rapporto di appropriazione da parte del gruppo sociale degli uomini della classe delle donne, la traduzione con sessaggio ci è sembrata valida (nonostante l’esistenza del termine in italiano per indicare altro) pur se non mantiene e restituisce del tutto, come in francese sexage, l’assonanza con, e l’insieme di significati veicolati da, i termini esclavage (schiavitù) e servage (servaggio). Abbiamo comunque ritenuto, ad ogni occorrenza del termine, di rinviare a scanso di equivoci (e a maggior ragione visto che si tratta di una raccolta di saggi che possono anche essere letti separatamente e non necessariamente nella loro sequenza di pubblicazione), alla pagina in cui Guillaumin nomina per la prima volta il neologismo dandone spiegazione. All’interno del volume Guillaumin offre molteplici esempi, tra l’altro in una continua connessione con il lavoro delle altre femministe materialiste, degli ambiti e dei meccanismi attraverso i quali opera questa appropriazione della classe delle donne da parte della classe degli uomini, un’appropriazione che investe sia la dimensione «fisica» che quella «mentale», e che opera sia sul piano individuale/privato che collettivo/pubblico. E nonostante i progressi dovuti alle mobilitazioni femministe di questi ultimi decenni (anche a partire da quelle portate avanti dalle femministe materialiste, che oltre che delle teoriche sono state, vale la pena ricordarlo, anche delle militanti impegnate in prima persona nel movimento femminista delle anni Settanta e oltre), il sessaggio, in varie forme, permane ancora oggi, come del resto abbiamo potuto osservare chiaramente, ad esempio, per quanto concerne l’ambito del lavoro domestico e di cura, nella crisi generata dalla pandemia Covid-19 in questi mesi.

VALERIA: Il lavoro sulla lingua è uno dei tratti più contundenti nella produzione delle femministe materialiste, penso non solo ovviamente a Wittig, ma anche a Mathieu, all’assidua attenzione nella scelta delle parole nelle sue analisi. Al pari di Sara e Vincenza, ho avuto l’immenso piacere di discutere con Mathieu, Guillaumin e Tabet e in questi incontri tutte scavavano nella lingua per trovare il modo di esprimere al meglio ciò che si esaminava. Si potrebbe suggerire che, di fronte alla negazione e/o invisibilizzazione di un rapporto di oppressione, il conio di nuovi termini può aiutare a vederli, a nominare quello che viviamo quotidianamente (sappiamo quanto è importante nominare, e farlo collettivamente). Il sessaggio è un rapporto sociale di appropriazione fisica da parte della classe degli uomini della classe delle donne, del loro corpo inteso come unità produttrice e riproduttrice della forza lavoro. Ora, oggi questa nozione può sembrare dissonante, soprattutto per gli uomini, perché si pensa che siamo meno appropriate rispetto alle nostre madri o nonne, o che non lo siamo affatto. Non è necessario negare i cambiamenti e i miglioramenti, per osservare il quadro attuale con uno sguardo attento e riconoscere come si riproducono queste forme di appropriazione pur in condizioni di maggior autodeterminazione per le donne rispetto al passato. Innanzitutto dobbiamo andare oltre a una visione individuale e osservare la società nel suo insieme, per poi anche osservare i casi individuali collocati in una struttura più ampia. Un esempio di sessaggio lo abbiamo avuto durante il lockdown: nel lavoro accademico, a livello globale, è brutalmente diminuito il numero di articoli proposti da donne alle riviste, mentre è aumentato quello proposto da uomini, ovvero quando vengono meno i servizi sociali come la scuola o il supporto di altre donne, il lavoro domestico e riproduttivo ricade tutto sulle donne. Si è trattato di una forma di appropriazione della forza lavoro delle donne, del loro intero corpo, inclusa la loro capacità di essere compagne intellettuali con cui ci si confronta sulla proposta di articolo. E questa appropriazione è successa in modo «naturale», per molti/e in modo che sembra «automatico». Oppure se vogliamo guardare l’Italia, un esempio di sessaggio è l’appropriazione del corpo riproduttivo delle donne, con lo svuotamento della legge 194 e la conseguente difficoltà ad interrompere una gravidanza in sicurezza nel servizio pubblico. Alle donne è di fatto impedito di autodeterminarsi, di decidere del proprio corpo, in questo senso il passaggio sulla pillola RU486 di questa estate è importante. Lo svuotamento della 194 va di pari passo con la richiesta di fare più figli o di fare figli tout court. La mancanza di uno stato sociale che offra alle persone anziane soluzioni dignitose per vivere e curarsi, è una forma di sessaggio, poiché la cura di queste persone ricade sulle donne, che siano interne alla famiglia, o esterne ad essa e a pagamento. Ma voglio ricordare che la caratteristica del sessaggio non è solo l’appropriazione sul piano materiale, poiché essa è sempre accompagnata dall’appropriazione psicologica sul piano individuale, sia nei termini di lavoro mentale, sia nei termini di ideologia. Cosa vuol dire? Che noi crediamo che sia naturale, innato, questo tipo di rapporto, che sia l’unico possibile, o anche che sia giusto così, e invece non è l’unico possibile! Leggere Guillaumin è una boccata d’aria per dirci insieme che questo non è l’unico modo di vivere le relazioni tra quei gruppi che abbiamo imparato a considerare naturali, uomini e donne, ma che naturali non sono.

Mi piace pensare che questa traduzione permetta di far entrare in dialogo il lavoro di Guillaumin con quello di tante altre femministe che oggi innervano la riflessione femminista in Italia, e con quello di autrici ancora poco note, penso alle femministe decoloniali, ricordando che in America latina la traduzione di Guillaumin e di altre FMF è arrivata ben prima di qui, forse anche per la radicalità delle lotte delle donne razzizzate in questa regione.

MANASTABAL: In Questione di differenza, uno dei saggi già citati da Valeria, Guillaumin non risparmia critiche pungenti ai gruppi minoritari che riducono la propria politica a gesti di «rivendicazione culturale» e ostentano un’indifferenza sdegnosa per il potere che comunque non hanno, bollando questo atteggiamento come una «reazione di fuga». A ben vedere non si tratta di osservazioni isolate, o estranee alla sensibilità di altre animatrici del collettivo di Questions féministes: già nel 1970 Delphy concludeva l’articolo Il nemico principale sostenendo che il movimento di liberazione delle donne avrebbe dovuto prepararsi per una lotta «rivoluzionaria», intendendo dire che la distruzione del sistema di produzione e riproduzione patriarcale non si sarebbe compiuta senza «presa del potere politico». Si tratta di una prospettiva sicuramente anomala rispetto a quella abbracciata da tradizioni femministe più consolidate nel nostro paese: una prospettiva distante sia dal proposito (lonziano, per capirsi) di muoversi su un piano totalmente altro rispetto a quello del potere, sia dall’idea che restituire potere alla dominate equivalga a istituire quote rosa, sfondare tetti di cristallo o distribuire cariche di prestigio a una frazione privilegiata di donne chiamata a cogestire l’esistente. Ora, a decenni di distanza, e in una fase in cui la memoria storica è stata azzerata, alla cultura egemone riesce sin troppo facile ironizzare sullo slancio rivoluzionario che motivava l’appello alla «presa del potere politico», a maggior ragione se declinata in chiave femminista. Altrettanto facile, per la cultura egemone, è indulgere nella sopravvalutazione dell’effettivo potere sociale dei gruppi minoritari, grazie all’uso disinvolto di concetti come empowerment ed agency. Resta il fatto che un meccanismo sociale di appropriazione materiale e ideologica delle donne come quello ricapitolato dal concetto di sessaggio si è dimostrato relativamente invulnerabile alle rivendicazioni culturali delle minoranze. E dunque, come si disarmano gli appropriatori? Il dominante, dice Guillaumin, teme più di tutto l’eventualità dell’«autonomia concreta» delle dominate: come si costruiscono, collettivamente, «la ricerca e l’acquisizione dei mezzi pratici e concreti dell’indipendenza»?      

VALERIA: È una questione complessa, e, a partire dalla mia esperienza, anche come antropologa femminista, la risposta non credo possa essere una sola, non esiste una sola formula, ma tante pratiche che funzionano a seconda dei contesti e dei momenti, e che contribuiscono ad acquisire i mezzi pratici e concreti dell’indipendenza. Se penso alle proposte di legge elaborate da Marielle Franco, consigliera comunale nera, socialista, femminista, madre, lesbica e abitante delle favelas uccisa a Rio de Janeiro nel marzo del 2018, riconosco proprio questo tipo di azione politica che cerca di produrre un’autonomia concreta, in particolare delle donne nere, lesbiche, madri, abitanti delle periferie. Il fatto di essere eletta e di entrare nel consiglio comunale, uno spazio bianco, maschile ed eterosessuale, con un progetto politico di riconoscimento delle lotte portate avanti dalle lesbiche, dalle donne nere delle periferie è stato un atto dirompente, che ha prodotto la sensazione di un attacco al potere, in tutte le sue vesti. La sua presenza in quello spazio è stata percepita come un’azione volta a disarmare gli appropriatori, e questo elemento certamente va considerato quando pensiamo alle motivazioni dietro alla sua uccisione (sul piano giudiziario si sa ancora molto poco). La sua traiettoria politica, la sua vita è stata spezzata anche dalla violenza maschile, associata ad altre forme di violenza come il razzismo e la lesbofobia, proprio nel momento in cui lei esercitava un’autonomia concreta per i gruppi che rappresentava. La sua traiettoria ci ricorda anche che lei è parte di una lunga storia, un punto in una lotta che l’ha preceduta e che continua, che oggi per esempio vede tante nuove donne nere e lesbiche presenti in spazi istituzionali bianchi, maschili e eterosessuali in cui portano avanti azioni politiche concrete per rendere le donne, le donne nere e povere meno dipendenti e meno appropriate. Tuttavia la traiettoria di Marielle Franco e di altre donne e trans nere oggi presenti nelle istituzioni brasiliane, non può essere ricondotta a qualcosa di simile alle quote rosa. Questo perché dietro alla singola, c’è un lavoro collettivo, una pratica condivisa di lotte che sono dirette a combattere l’appropriazione, che Marielle Franco ha saputo restituire, con un’incredibile capacità analitica e comunicativa, come appropriazione su più piani: come donne, nere, lesbiche, abitanti delle periferie. Non credo che gli appropriatori si disarmino solo con le leggi, anche se esse sono necessarie. L’esercizio dell’autonomia concreta, l’autonomia economica delle donne, delle lesbiche, è costantemente sotto attacco e solo un progetto collettivo può creare delle fratture in sistemi solidi come la dominazione degli uomini. Se pensiamo a come la sessualità sia uno spazio politico di oppressione delle donne, per esempio riprendendo il lavoro di Tabet sullo scambio sessuo-economico (disponibile in italiano), capiamo come si produce l’appropriazione e la dipendenza, tra l’altro non solo nelle società occidentali, e come servano trasformazioni strutturali. In Italia, la rivendicazione per un reddito per l’autodeterminazione, portata avanti da diversi gruppi femministi, tra cui Amatrix e oggi Non una di meno, è una tappa per esercitare la propria indipendenza, per uscire dalla famiglia.

SARA: Il ragionamento di Delphy mi pare cristallino e coerente: le donne non sono né un gruppo naturale, né un club che federa le portatrici di una data forma di «alterità» o «differenza». Le donne sono una classe oppressa, ovvero un gruppo costituito da un dato sistema di oppressione. Tale oppressione permea tutte le strutture sociali (in questo senso, è un sistema) e, come lo mostrano bene le analisi di Guillaumin e Wittig a proposito della pervasività del senso comune eteronormato, è incorporata quale fosse una «seconda natura» negli automatismi categoriali e motori dei membri delle due classi di sesso. La «liberazione» della classe (di sesso) oppressa necessita, dunque, la contestuale realizzazione di due condizioni: la distruzione delle basi materiali e simboliche su cui si fonda la nostra società – il che non è proprio un’inezia da realizzare –  e la perdita da parte della classe degli oppressori degli smisurati poteri e privilegi che essi detengono – idem come sopra. Come ciò può avvenire? Occorre fare una rivoluzione, e una rivoluzione si fa… facendo la rivoluzione, dice Delphy. Detto altrimenti, la rivoluzione si fa – cito Delphy – «non prendendo un aperitivo insieme», ma prendendo insieme il potere politico. Leggendola, e leggendo le altre femministe materialiste, si capisce bene il fatto che tali teoriche pensino il potere politico tanto nel senso proprio, quanto nel senso più largo del termine. Basti pensare alla loro visione teorica e alla loro pratica politica del diritto come arma (pensiamo, ad esempio, all’engament di Delphy per l’adozione della legge che ha autorizzato l’interruzione volontaria di gravidanza, o quella per la criminalizzazione dello stupro, o quella per la «parità in politica» da lei difesa come strumento di «affirmative action»). Lungi dal produrre per le donne e, più in generale, per i soggetti minoritari una reale uguaglianza «in termini di poter fare o di poter dire», «l’acquisizione di un dato statuto giuridico» rappresenta – sto citando Guillaumin –  una fondamentale «rottura della soglia percettiva» che produce per il soggetto minoritario un «nome reale e irrevocabile: ciò che il diritto nomina esiste». Le conquiste giuridiche da parte dei gruppi minoritari, pertanto, danno vita per queste teoriche non solo a una maggiore uguaglianza formale (che è già qualcosa), ma anche a una «resistenza nuova» nei confronti dei dispositivi ideologici – religiosi, morali, (pseudo)scientifici – e materiali che contribuiscono pesantemente all’inferiorizzazione dei gruppi minoritari. In altre parole, la rivoluzione deve essere declinata in tutti i modi in cui si declina il sistema dell’oppressione e investire tutte le strutture sociali e le categorie mentali. Come scrive Delphy nel lungo saggio che apre L’ennemi principal: penser le genre, la lotta femminista e, più in generale, la lotta minoritaria rivela l’esistenza di una serie di gerarchizzazioni sociali che per il senso comune sono considerate essere frontiere «naturali», «evidenti», quindi intoccabili: quella tra uomini e donne, tra eterosessuali e non-eterosessuali, tra pubblico e privato… La lotta femminista e, più in generale, la lotta minoritaria è, pertanto, una lotta che mira a distruggere l’efficienza del sistema di dominazione che ha costituito il gruppo minoritario. Per queste pensatrici la lotta rivoluzionaria minoritaria è, pertanto, ad un tempo, lotta politica situazionale – spostamento delle frontiere, diversa inclinazione delle gerarchizzazioni – e lotta politica utopica che immagina una loro sparizione. In tale ottica, i gruppi minoritari non sono né un’«illusione da dissipare» per via di «integrazione» o di «assimilazione», né una «natura a parte», sempre e comunque «differente» e «marginale». L’«assimilazionismo» e il «marginalismo» sono per queste teoriche due forme equivalenti di disfattismo politico che non intaccano né il principio di visione e di divisione sessista ed eteronormativo che regge la pratica del potere, né il rapporto sociale che produce gli uomini e le donne come gruppi naturali e naturalmente complementari.

VINCENZA: Prima di provare a rispondere alla domanda, una piccola nota. Mi sembra che la prospettiva di una lotta femminista «rivoluzionaria» nei termini tratteggiati da Delphy nel saggio che citate (tra l’altro uno dei pochi a essere stato tradotto in Italia, e in ben due traduzioni diverse, poco tempo dopo la sua pubblicazione in Francia) non sia del tutto «anomala» se confrontata (pure nelle diversità di approcci e quadri concettuali proposti) con alcune delle elaborazioni e pratiche politiche portate avanti da alcuni gruppi femministi italiani degli anni Settanta, molto lontane da quelle che giustamente definite le «tradizioni femministe più consolidate nel nostro paese». Erano infatti esperienze che si muovevano intrecciando e tenendo insieme i due piani, ovvero sia quello «rivendicativo» e quindi di negoziazione con lo Stato e le sue leggi — dalle lotte per il diritto all’aborto libero e gratuito alla richiesta di un salario per il lavoro domestico/contro il lavoro domestico —, che della lotta autonoma, per la totale rimessa in discussione delle strutture sociali che sostengono l’appropriazione materiale e ideologica delle donne. Quindi anche con delle «assonanze» (nonostante differenze non da poco sul piano analitico) con la traiettoria politica delle femministe materialiste francofone, molte delle quali sono state, come sappiamo, anche militanti della prima ora nel Mouvement de libération des femmes, impegnate nelle lotte per i diritti delle donne (ad esempio Christine Delphy e Monique Wittig sono tra le firmatarie di quello che è noto come le manifeste des 343 del 1971), e di altri gruppi minoritari. Quindi non c’è, da parte delle femministe materialiste un rifiuto del piano dei diritti formali/giuridici, ma piuttosto la consapevolezza che sono nello stesso tempo necessari e non sufficienti. Come sottolinea infatti Guillaumin in Questioni di differenza la conquista di determinati diritti (e tra gli esempi cita la conquista dell’indipendenza giuridica dei paesi colonizzati o dei diritti civili da parte degli afro-americani) non ha storicamente prodotto automaticamente un’uguaglianza «reale». Anche noi donne, scrive ancora Guillaumin, abbiamo legalmente diritto allo stesso salario degli uomini, ma nella realtà non abbiamo lo stesso salario. Ma questo non equivale a dire che le lotte per i diritti siano inutili, sono anzi necessarie per (e cito quasi integralmente):

1) la presa di coscienza del carattere politico della situazione dei dominati 2) la dimostrazione ai dominanti dell’esistenza dei dominati 3) e per gli interessi pratici reali conseguenti all’applicazione di ciò che era stato ottenuto e per le possibilità di altre lotte che queste tappe implicavano.

Quindi, i diritti, le leggi servono ma non bastano, poiché non sufficienti per smantellare le strutture di potere che determinano l’appropriazione materiale e ideologica delle donne e degli altri gruppi minoritari. Ma quindi, per provare finalmente a rispondere alla vostra domanda, come possiamo trovare e costruire i mezzi pratici e concreti per una reale indipendenza? Penso che oggi questa strada vada cercata, individualmente e collettivamente, in due direzioni strettamente connesse. Da una parte penso sia fondamentale, costruendo alleanze transnazionali con altre soggettività oppresse, continuare a lottare sia per l’ottenimento di quei diritti fondamentali di cui in tante/i sono oggi ancora prive/i, sia per difendere quei diritti già ottenuti (faticosamente tra l’altro) ma oggi sotto attacco. Dall’altra penso che a partire dalla «coscienza esatta del posto che si occupa nella società», ognuna/o di noi, individualmente e collettivamente, possa e debba continuare a «pensare» nuove modalità/mezzi concreti per scardinare nelle fondamenta le strutture sociali, materiali e ideologiche alla base della dominazione nelle sue varie forme (un esempio mi sembra essere la risignificazione della modalità classica dello sciopero messa in opera con lo sciopero globale delle donne), perché come scrive Guillaumin a proposito degli effetti teorici della collera delle oppresse (e di altre soggettività minoritarie), «pensare è già modificare. Pensare un fatto è già modificare questo fatto».

Domande all’eco-femminismo

A quasi trent’anni dal Vertice della Terra di Rio de Janeiro, la discussione sulla crisi ecologica sembra riproporsi a ogni livello come il tema del momento. Una giovanissima donna — Greta Thunberg — è diventata l’icona globale della battaglia contro il cambiamento climatico. In tutto il mondo, le donne vengono sollecitate a farsi carico dell’imperativo ecologico, a mettersi in prima linea nella promozione di stili di vita «eco-compatibili», a responsabilizzarsi in vista di uno «sviluppo sostenibile», come se effettivamente, da qualche parte, esercitassero un potere di decisione finale e globale sul controllo e sulla distribuzione delle risorse. Ma «sviluppo sostenibile» per chi? La premessa obbligata per denunciare la catastrofe ecologica consiste nell’ammorbidire la critica della produzione etero-patriarcale? Sono queste le domande che Nicole-Claude Mathieu (1934-2014) poneva all’eco-femminismo nei primi anni Novanta. Persuase del fatto che non abbiano perso di attualità, riproponiamo qui l’articolo di Mathieu in traduzione italiana.

Domande all’eco-femminismo

di Nicole-Claude Mathieu*

 

Il lavoro è per le donne, il beneficio è per gli uomini [1]

Era talmente frustrante quando quei ragazzi ci parlavano gentilmente in faccia, poi ci demolivano alle spalle [2]

Ieri si è detto che le donne hanno un punto di vista critico privilegiato sull’ambiente, perché sono loro a subire in primo luogo, e più degli uomini, le conseguenze delle cattive politiche ambientali e dell’uso della natura (sono stati portati degli esempi: inquinamento dell’acqua, problemi di salute, di alimentazione, di alloggio, mancanza di servizi sociali nei processi di urbanizzazione, etc.). Tutto ciò è dimostrato. È uno stato di fatto.
Bisogna concluderne direttamente che il mezzo migliore per difendere o aiutare le donne è che esse si lancino nella lotta per l’ecologia? Bisogna concluderne direttamente che l’«immaginario femminile» deve essere prioritariamente al servizio dell’ecologia, senza prima prendere in considerazione i limiti e le trappole che l’adozione pura e semplice della causa ambientalista rischia di comportare per le donne?

Certo, se ci accontentiamo di «mettere le carte in tavola», di vedere le cose a due dimensioni, il cerchio dei problemi ecologici e il cerchio delle attività «femminili» di ordine economico o sanitario si sovrappongono parzialmente e ciò può definire, per giustapposizione, un campo empirico di ricerca e di azione: studiare un modo per migliorare la situazione delle donne in un ambito in cui esse soffrono «più degli uomini». Ma la sola delimitazione di un ambito empirico non basta a fondare la validità teorica dell’analisi, né la giustificazione politica dell’azione.

Se vogliamo che le cose cambino per le donne, non è sufficiente giustapporre, addizionare in qualche modo, la variabile «ecologia» e la variabile «donne». In effetti, se cominciamo a vedere abbastanza bene che cosa significa la prima (l’ecologia) e come potremmo modificarla (farla «variare», appunto), sembra proprio che la seconda (le donne) continui a essere pensata come una categoria «invariabile», a-storica, persino da alcune femministe (in particolar modo sotto l’aspetto idealizzato della meravigliosa forza delle donne, o del loro immaginario più vicino alla natura).

La mia idea è che se non facciamo variare allo stesso tempo la definizione sociale delle «donne» in rapporto agli «uomini», i limiti e le trappole della lotta ecologista rischiano di essere gli stessi — e parlo in particolar modo delle donne del terzo mondo — di quelli dei piani di «sviluppo». Per prospettare una politica da seguire per quanto riguarda i rapporti delle donne con l’ecologia e con lo sviluppo, bisognerebbe poi prendere in considerazione una terza dimensione, trasversale (perpendicolare allo schema empirico), storica e transculturale. Bisognerebbe chiedersi, o piuttosto ricordarsi, quali sono le radici, le ragioni di base dello stato di fatto di cui abbiamo parlato sopra: perché le donne sono più colpite degli uomini dalle cattive politiche ambientali (o dalle cattive politiche di sviluppo)?

È precisamente perché esiste, a livello mondiale — cioè in ogni paese, ricco o povero, del «Nord» o del «Sud», in ogni etnia, in ogni classe sociale —, una politica di potere degli uomini sulle donne. Politica che definisce le donne come la categoria sociale obbligata ad assicurare la continuità della vita (e, più spesso, della sopravvivenza) quotidiana più materiale. In tempo di «pace» come in tempo di guerra, in economia di abbondanza come in economia di carestia, spetta a loro organizzare le condizioni materiali dell’esistenza ma adattandosi in permanenza alle decisioni generali, e particolari, degli uomini. Esse sono al servizio degli uomini e dei bambini. La loro energia, il loro tempo, il loro corpo e il loro pensiero sono appropriati dagli uomini [3] a beneficio della propria libertà materiale, intellettuale e affettiva, del proprio «comfort». Che la forma e il contenuto di questo comfort maschile differiscano a seconda dei livelli di vita, che la situazione delle donne sia molto più catastrofica in alcuni luoghi piuttosto che in altri, essa rimane grosso modo (e possiamo dire: grossolanamente) la stessa.

ignored by someDunque, se le donne subiscono «più» degli uomini le conseguenze nefaste degli errori di utilizzazione della natura e di organizzazione dell’ambiente, non è «a causa» delle «cattive» politiche ambientali o di sviluppo (che sono nefaste anche per gli uomini). È a causa del sistema sociale del genere, che si basa sulla distinzione gerarchica fra i sessi e più specificamente sull’oppressione e sullo sfruttamento delle donne da parte degli uomini.

Una prova di questo è il fatto — ed è il secondo punto che non bisogna dimenticare nelle nostre analisi — che anche nelle società che, secondo alcuni, hanno o avevano una «buona» politica di utilizzo e un «rispetto» della natura — e qui molti penseranno a certe società tradizionali di cacciatori-raccoglitori —, anche in queste società, imperversa la gerarchia fra i sessi, in particolare nell’organizzazione tecnica della produzione, ma anche nella ripartizione del consumo o del tempo «libero». Detto altrimenti, per fare soltanto un esempio molto semplice, ma cruciale in parecchie regioni del mondo, che l’acqua sia potabile o che l’acqua sia inquinata, il compito opprimente e quotidiano, e vitale, rappresentato dalla ricerca e dal trasporto dell’acqua, legato alla cucine e alle cure corporali, spetta alle donne:

— in aggiunta a una parte considerevole della produzione agricola e/o artigianale, per la quale è stato mostrato che le donne dispongono, all’interno di ogni società, mezzi tecnologici meno perfezionati di quelli degli uomini che, dal canto loro, nella grande generalità dei casi detengono il controllo globale dei mezzi di produzione e della gestione dei prodotti [4];

— in aggiunta alla produzione di bambini, di cui pure sappiamo che, in particolare nelle classi povere dei paesi ricchi e nei paesi del moderno terzo-mondo, proprio come nelle società tradizionali, il numero spesso schiacciante di figli è dovuto al fatto che gli uomini impongono alle donne la loro sessualità, in particolare (ma non solo) nell’istituzione del matrimonio, al fatto che essi sfruttano il corpo delle donne per accrescere il potere sociale, in breve, al fatto che sono — direi io — i capitalisti del lavoro di produzione di figli eseguito dalle donne… [5] come del loro lavoro di produzione economica.

Nell’ambito industriale dei paesi del terzo-mondo, Jeanne Bisilliat e Michèle Fieloux hanno perfettamente mostrato, con l’ausilio di statistiche, la feroce azione congiunta dello sfruttamento capitalista (in senso stretto) e patriarcale nella miseria delle lavoratrici, senza misura comune con quella degli uomini [6]. Più di recente, gli studi di casi dettagliati condotti da Seteny Shami e altre in Egitto, in Giordania e in Sudan, in comunità sia rurali che urbane, dimostrano drammaticamente — che si tratti di lavoro, di alloggio o di emigrazione, di pianificazione agricola, di distribuzione delle terre, di piani di riqualificazione dei quartieri poveri o degli effetti della petro-economia, dell’incidenza delle fluttuazioni del mercato capitalista mondiale o di quella delle guerre — che le incessanti strategie adattive delle donne (sempre subordinate al mantenimento della famiglia) continuano a esercitarsi in condizioni materiali in cui le donne assicurano — in una ripartizione largamente asimmetrica con gli uomini — le funzioni di base della produzione economica e della riproduzione sociale dell’unità familiare, mentre le decisioni cruciali, i lavori più tecnici o più remunerativi, il controllo degli strumenti di produzione e/o di commercializzazione restano appannaggio degli uomini. E se i meccanismi globali possono funzionare, se i paesi ricchi possono arricchirsi, e se alcuni «benefici» talvolta esistono nei paesi più poveri, è grazie al mantenimento delle donne in un sotto-sviluppo inegualitario quanto al sesso, è grazie alla «femminilizzazione della povertà» (presente anche nei paesi del Nord). Le donne, ricorda Soheir Morsy, «sovvenzionano indirettamente le economie nazionali e internazionali» [7] — aggiungerei: e direttamente gli uomini.

E non bisogna credere — come fanno alcuni — che sia solo il «sistema sociale» che «funziona da solo», senza che gli uomini lo facciano intenzionalmente. Quando in parecchi paesi non «si» assegna la terra alle donne che la coltivano, ma al «capofamiglia», è per preservare l’autorità e il potere economico degli uomini. E per fare soltanto un altro esempio fra le migliaia, quando in un villaggio africano del Sahel, qualche anno fa, gli uomini hanno rifiutato alle donne la costruzione di un mulino per miglio con i soldi dello «sviluppo» (per paura, hanno d’altronde ammesso, che queste «non avessero più niente da fare»), è precisamente per conservare l’immobilizzazione fisica (e dunque mentale e politica) delle donne attraverso un lavoro incessante.

In breve, che l’ambiente venga giudicato buono o che venga giudicato cattivo, che la natura sia rispettata o che sia distrutta, che i paesi siano «sviluppati» o no, in ogni caso è alla classe delle donne che viene imposto di far sopravvivere l’umanità con il minimo dei mezzi e il massimo di lavoro e, soprattutto, sotto il controllo e a beneficio degli uomini.

La domanda che pongo dunque è:
Certamente le donne sanno per esperienza quanto sono catastrofiche le cattive politiche ecologiche, e devono denunciarle (come gli uomini, che d’altronde si sentono sufficientemente minacciati, come testimonia qui a Rio questo secondo Vertice della Terra), ma è il compito di un movimento politico delle donne continuare a riparare i guasti degli uomini — cosa che fanno dall’eternità le donne di tutto il mondo, restando al loro posto di donne?!

In effetti, se noi diciamo soltanto che vogliamo migliorare l’ambiente e i programmi di sviluppo perché, «in quanto donne», siamo noi a subire le conseguenze peggiori delle cattive politiche ecologiche, in un certo senso — implicito e fondamentale — noi diciamo: sì, vogliamo proprio continuare a portare cinquanta chili d’acqua sulla testa per chilometri, ma vogliamo soltanto che quest’acqua sia pulita e potabile. In questo modo continuiamo ad accettare di essere delle donne sociali (cioè al servizio degli uomini), delle assistenti sociali invece di tentare una rivoluzione: rischiamo così di accettare di lasciare intatto il sistema, di consolidare la disuguaglianza di sesso — come la borghesia capitalista del XIX secolo europeo, mentre costituiva ferocemente la classe proletaria urbana a partire dai contadini, produceva anche azioni di assistenza sociale, di carità… effettuate dalle sue donne, ben inteso.

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I movimenti femministi, in quanto tali, devono interessarsi principalmente a migliorare l’ecologia e l’ambiente (o a lottare per la pace) — cosa che riguarda tutti — oppure le donne devono continuare a lottare contro la loro oppressione da parte degli uomini — cosa che sono le uniche a poter fare? La storia recente o più antica delle diverse «rivoluzioni» o lotte di «liberazione» nazionali (rivoluzione francese, rivoluzione russa, liberazione di Algeria, rivoluzione iraniana, etc.) non ci ha mostrato a sufficienza che ogni volta che le donne (volontariamente o no) hanno dato priorità alle lotte «globali», queste lotte talvolta sono state vinte, ma la causa delle donne perduta?

Torniamo sempre, dunque, al problema della definizione delle azioni «di donne», dei movimenti «di donne», delle rivolte «di donne». Quando sento, qui: «Bisogna far posto al punto di vista di genere», che cosa si vuole dire? Quando si dice: «In quanto donne, abbiamo un punto di vista privilegiato», che cosa si vuole dire? Che cosa si intende con «genere», che cosa si intende con «donna»? E che tipo di mezzi di cambiamento vengono immaginati?

Semplificando disgraziatamente troppo [8], si può dire che nei movimenti attuali delle donne continua a esistere una divergenza tra due tendenze principali, che corrispondono a due tipi di soluzioni. Questa divergenza di analisi e di opinioni — occorre sottolinearlo in un’epoca in cui predomina una sete di particolarismo e di specificità, in particolare sotto forma di relativismo culturale — si ritrova all’interno di ogni paese, a livello internazionale, per esempio tanto in Europa quanto in Egitto o nelle Filippine. Ciò che differisce è la rispettiva possibilità di espressione e di peso politico di queste tendenze, a seconda dei contesti storici.

1) Quello che si potrebbe chiamare femminismo culturale, che si basa sul sentimento dell’esistenza di una cultura femminile diversa dalla cultura maschile. Questa cultura «femminile» è meno manipolatrice, meno violenta verso persone, animali e cose della cultura maschile. Di qui, l’idea che i cosiddetti valori femminili siano migliori e che sono quelli che dovrebbero imporsi per salvare la terra e il genere umano. Per lo meno, un equilibrio, una complementarità armoniosa dovrebbe essere trovata all’interno di ogni società, e anche all’interno di ogni individuo, tra il meglio dei valori femminili e il meglio dei valori maschili. Bisogna dunque assicurare l’empowerment delle donne: l’accrescimento di potere delle donne consisterebbe nel riuscire ad affermarsi, e a essere riconosciute, come soggetti specifici ma uguali perché le donne (più o meno sottointeso: biologiche) sono portatrici di valori sociali ed etici. L’esito più vistoso (negli USA in particolar modo) di questo orientamento di pensiero propugna una «androginia» psicologica e sociale. Si noterà che le nozioni stesse di genere «femminile» e di genere «maschile» non vengono fondamentalmente rimesse in questione, che il corpo (soprattutto femminile) serve molto da riferimento, per lo meno simbolico, e che il rapporto tra il sesso (biologico) e il genere (sociale) non è chiaramente esplicitato (tranne che in alcune teorie apertamente naturaliste).

2) Un’altra tendenza, meno diffusa — come il femminismo «radicale» materialista e una parte del lesbismo politico soprattutto nella loro espressione di lingua francese, ma che si ritrova, benché ancora più minoritario, in altri paesi —, analizza le categorie «uomo» e «donna» come interamente sociali, e punta ad abolire il genere. Il genere, cioè il sistema gerarchico che impone differenze economiche, giuridiche e psicologiche tra esseri umani, discriminatorie verso il sesso femminile — che impone, in breve, La Differenza. La «cultura femminile» «dolce» vi è vista come il prodotto, il risultato diretto dell’oppressione, dell’appropriazione materiale e ideologica delle donne da parte degli uomini. La «non-violenza» delle donne, per esempio, può essere collegata all’interdizione materiale e oggettiva che viene loro fatta in ordine al possesso e all’esercizio di mezzi di difesa, e in particolare di difesa contro gli uomini. In un’analisi della «coscienza dominata» delle donne [9], ho tentato di mostrare — riferendomi anche ad altre situazioni oggettive di oppressione (schiavitù, colonizzazione, etc.) — come, in diversi tipi di società, non occidentali e occidentali, moderne e tradizionali, come dunque si fa di tutto per anestetizzare la loro coscienza di individuo umano ma, d’altro canto, per confinarle nella loro coscienza sessuata, la loro coscienza costruita «di donna», cioè per tenerle al loro posto di serve. Tutto questo per mezzo dello sfruttamento fisico e materiale da una parte, per mezzo della mancanza di accesso alla conoscenza dei meccanismi della società e in particolare del reale potere degli uomini dall’altra parte, e infine per mezzo dell’invasione della coscienza attraverso il riferimento permanente a un uomo.

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Nicole-Claude Mathieu ritratta da Laurence Prat

Allora, si obietterà, non ci sono possibilità di rivolta, di resistenza? Dirò che la parola «resistenza» ha due significati.

— Certamente le donne di tutto il mondo sono «resistenti» e forti, nel senso che sopportano, nel senso che portano il fardello più pesante nell’esistenza, nel senso che si fanno carico di tutto: non solo la sopravvivenza quotidiana, ma anche, ora, i valori etici di miglioramento/gestione del mondo e in particolare dei rapporti tra uomini e donne.

— Ma l’altro senso della parola «resistenza» è quello di lotta contro. In quanto «donne» — non perché biologicamente tali ma perché designate come tali e assegnate a esserlo dal sistema del genere (sistema di cui non dobbiamo dimenticare che è la causa fondamentale della «cattiva situazione» delle donne in rapporto agli uomini quali che siano il livello delle condizioni materiali di vita e i tipi di gruppi sociali considerati) —, dobbiamo lottare prima di tutto contro l’oppressione di classe che un sesso esercita sull’altro in nome delle categorie di genere. Detto altrimenti, dobbiamo abolire le categorie di donna e di uomo, materialmente, sessualmente e psicologicamente. Mi sembra che non sia conservando il genere sessuato che salveremo il genere umano.

Ciò che mi disturba non è certo sentir riflettere sull’ambiente e su uno sviluppo tecnologico non distruttivo delle potenzialità naturali e umane, ciò che mi disturba è sentir dire che le qualità femminili aiuteranno il mondo. Preferirei sentire che in ogni azione, in ogni decisione nuova presa in relazione all’ambiente o allo sviluppo, non ci si baserà sulle strutture sessiste esistenti.

Preferirei sentire che — come la coscienza mondiale pretende di non ammettere più che un’azione o una decisione qualsiasi relativa al commercio o all’ambiente o allo sviluppo, o anche lo sport, possa favorire una politica razzista (embargo contro il Sud Africa) o etnocidaria (difesa degli Indiani della foresta amazzonica) o neo-colonialista (interpellazione dei paesi del Sud a quelli del Nord) — vorrei sentire un appello affinché nessuna decisione, regionale, nazionale o internazionale, possa più favorire o rafforzare le strutture e le politiche sessiste. Ma qui non basterebbe più accusare «gli altri», bisognerebbe che ogni paese criticasse se stesso… e che le donne di tutte le culture riconoscessero di avere, malgrado il razzismo, il classismo, il colonialismo e l’imperialismo, interessi analoghi nella lotta contro il potere dei «loro» uomini.

Un esempio: l’Associazione canadese delle donne autoctone (una delle associazioni delle donne amerinde) ha appena dimostrato che è possibile lottare per i diritti del proprio popolo dando priorità alla lotta femminista: nei recenti colloqui tra il governo federale e i movimenti autonomisti delle nazionalità indigene, esse pretendono di avere una rappresentanza ufficiale (e dunque sovvenzionata allo stesso titolo delle organizzazioni miste) per difendere la seguente posizione: sì a Costituzioni indiane autonome a condizione che siano inclusi in questi progetti autoctoni gli uguali diritti attualmente garantiti alle donne dalla Carta federale («bianca»…) dei diritti e delle libertà. Il loro obiettivo, manifestamente, è che vengano denunciate e non siano rinnovate, con il pretesto della difesa delle «culture» autoctone, le strutture sessiste di quelle stesse società [10].

NOTE

* Questions à l’eco-féminisme è la versione leggermente rimaneggiata, in vista della pubblicazione, di una conferenza pronunciata il 28 maggio 1992, durante il seminario internazionale Gênero, Desenvolvimento e Meio ambiente, parallelo alla Conferenza delle Nazioni Unite sull’ambiente e lo sviluppo, «Vertice della Terra». Forum Ciência e Cultura, workshop II: Eco-Feminismo em questao: do imaginario feminino e ecologico. Ecologia, Feminismo e Poder, in Maria Inácia d’Avile e Naumi de Vasconcelos (a cura di), Ecologia, feminismo, desinvolvimento, EICOS/UFRJ, «Documenta», n. 1, Université fédérale de Rio de Janeiro, 1993. Il testo è ora incluso in Nicole-Claude Mathieu, L’Anatomie politique II. Usage, déréliction et résilience des femmes, La Dispute/SNÉDIT, Paris 2014, pp. 193-202.

[1] Proverbio giordano citato in Seteney Shami et al., Women in Arab Society. Work Patterns and Gender relations in Egypt, Jordan and Sudan, Berg Publishers, Paris 1990, p. 27.
[2] Karen, in Tobique Women’s Group, Enough is enough. Aboriginal women speak out, as told to Janet Silman, The Women’s Press, Toronto 1987, p. 241.
[3] Cfr. Colette Guillaumin, Pratique du pouvoir et idée de Nature: I — L’appropriation des fem-mes; II — Le discourse de la Nature, «Questions féministes», 2, 1978, pp. 5-30 e pp. 5-28, riediti in Colette Guillaumin, Sexe, race et pratique du pouvoir. L’idée de Nature, Côté-femmes éditions, Paris 1992, pp. 13-82.
[4] Cfr. Paola Tabet, Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», XIX, 3-4, 1979, pp. 5-61, riedi-to in Paola Tabet, La construction sociale de l’inégalité des sexes, L’Harmattan, Paris 1998, pp. 9-75.
[5] Si veda Paola Tabet, Fertilité naturelle, reproduction forcée (1985), in Ead., La construction sociale, cit., pp. 77-180, sulla manipolazione, il rendere redditizio e lo sfruttamento delle capacità riproduttive femminili nelle società più diverse.
[6] Jeanne Bisilliat, Fiéloux Michèle, Femmes du Tiers-Monde. Travail et quotidien, Le Sycomore, Paris.
[7] Seteney Shami et al., Women in Arab Society, cit., p. 91.
[8] Dato che il tempo è limitato, mi permetto di rinviare al mio articolo Identité sexuelle/sexuée/de sexe? Trois modes de conceptualisation du rapport entre sexe et genre (1989), in Nicole-Claude Mathieu, L’anatomie politique. Catégorisations et idéologies du sexe, Côté-femmes éditions, Paris 1991, pp. 227-266.
[9] Nicole-Claude Mathieu, Quand céder n’est pas consenti. Des déterminants matériels et psychi-ques de la conscience dominée des femmes, et de quelques-unes de leurs interprétations en ethno-logie, in Ead., L’anatomie politique, cit., pp. 131-225.
[10] Questa lotta storicamente fa seguito, ma con un orientamento politico diverso, a quella condotta, a partire dagli anni Settanta (e fino al 1985, quando hanno vinto di fronte alla Commissione per i Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite), da altre donne autoctone contro la discriminazione sessista inerente all’Indian Act del 1876, emanato da de bianchi. Un’indiana sposata a un non-indiano perdeva, insieme ai figli, il proprio status di indiana, vale a dire qualsiasi diritto (terra, alloggio, lavoro, voto, etc.) nella sua comunità di origine, al contrario di uomini indiani sposati a non-indiane. Si trattava dunque di ottenere diritti uguali di appartenenza a una comunità «specifica». Anche in quel caso non mancò l’opposizione degli uomini (bianchi e indiani) e di molte donne… Su questa lunga lotta, cfr. Tobique Women’s Group, Enough is enough, cit.

Sfilare la carta senza far crollare il castello etero-patriarcale

LOOK KITTEN

“Senti carina, me ne frego di quello che pensi tu. Se io dico che sono femminista, per dio, lo sono!”

Che cosa diremmo di un discorso sulla decolonizzazione centrato sul disagio dei colonizzatori, che mettesse tra parentesi la violenza da loro esercitata nei confronti dei colonizzati? Che opinione avremmo di un antispecismo che presentasse animali umani e non umani come soggetti intrappolati allo stesso titolo nella “gabbia dei ruoli di specie”? Quale credito daremmo a uno storico dei conflitti industriali che attribuisse alla permanenza di arcaici “stereotipi di classe” le lotte sul salario e sull’orario di lavoro? E a un critico dell’economia politica che invocasse l’ignoranza o la mutilazione psichica dei capitalisti per spiegare la crisi di un regime di accumulazione? Penseremmo, a ragione, di trovarci di fronte a colossali mistificazioni. Noteremmo che, alle spalle di simili mistificazioni, opera una nozione di “potere” talmente aleatoria e inconsistente da autorizzare qualsiasi contorsionismo retorico. E, con ogni probabilità, ci sentiremmo in dovere di ricordare che strutture sociali basate sullo sfruttamento non possono evitare di generare gruppi con interessi contrapposti, indipendentemente dal fatto che i dominanti credano o non credano nell’uguaglianza. Senonché bisogna pure constatare che, non appena il discorso vira sul genere, modi di ragionare screditati riacquistano speditamente un’aria di rinnovata plausibilità. Categorie inutilizzabili per dare conto delle dinamiche di oppressione su altri terreni appaiono singolarmente adatte al riciclo quando si tratta di applicarle al rapporto sociale di sesso. L’arte di sfilare la carta senza far crollare il castello etero-patriarcale rientra in scena, trainata da un “femminismo” maschile caratterizzato in maniera prevalente, almeno a partire dagli anni Settanta, da una lettura altamente selettiva della storia e della teoria femminista. Anche di queste tecniche di riassorbimento e di costruzione del consenso intorno a schemi di occultamento del conflitto vive la storia dell’etero-patriarcato. Un esempio di questa strategia selettiva, basata sul recupero della teoria psicoanalitica femminista delle relazioni oggettuali da parte di attivisti femministi e accademici impegnati nei Men’s Studies, viene analizzato nell’articolo del sociologo materialista Anthony McMahon che qui traduciamo. Schivare il confronto con le dimensioni materiali dello sfruttamento su base di sesso, spostare l’attenzione su distorsioni psicologiche o sulla soggezione a ideali culturali di maschilità “inautentici” o troppo onerosi, tacere o minimizzare i vantaggi che gli uomini ricavano dalla divisione sessuale del lavoro configurano altrettanti modi per congedare il progetto politico del femminismo, nel momento stesso in cui si dichiara di esserne perspicaci interpreti e divulgatori affidabili.

Letture maschili della teoria femminista: la psicologizzazione dei rapporti di genere nella letteratura sulla maschilità

di Anthony McMahon [*]

Il concetto di maschilità domina il recente lavoro accademico sugli uomini e il genere. Esso viene utilizzato abbondantemente anche nella letteratura popolare sugli uomini, all’interno della quale formulazioni come «maschilità in trasformazione» o «crisi della maschilità» sono diventate dei cliché. Sembrerebbe che studiare gli uomini equivalga di fatto a studiare la maschilità. Così, i Men’s Studies vengono definiti come segue da uno dei loro principali esponenti, Henry Brod: «lo studio delle maschilità e dell’esperienza maschile» [1]. Secondo Cynthia Cockburn, anche gli uomini che criticano il patriarcato arrivano spesso a vedere «la maschilità — e la propria partecipazione alle espressioni della maschilità — come un problema» [2]. L’analisi della maschilità potrebbe dunque rivelare che la costruzione della soggettività maschile è un aspetto chiave e che «la struttura del patriarcato» non è l’unico problema dei rapporti di genere. Per parte mia, suggerisco che non è questo l’effetto principale della letteratura sulla maschilità.

Mi è impossibile qui rendere conto di tutta la letteratura sulla maschilità. Come segnala Jeff Hearn, la costruzione di una tassonomia di tutti gli scritti sugli uomini sarebbe «quasi altrettanto complessa della classificazione di qualsiasi altra letteratura» [3]. Comincerò invece formulando una domanda specifica: fino a che punto e in che modo la teoria femminista viene riconosciuta al suo interno? A fronte della profondità e dell’estensione della critica femminista del dominio maschile, la risposta dovrebbe essere istruttiva. Numerosi scritti non riconoscono in alcun modo la teoria femminista: alcuni citano il femminismo come un discorso parallelo allo studio degli uomini, perché il femminismo si interesserebbe soltanto alle donne e si limiterebbe a produrre «prospettive frammentarie» [4] sugli uomini. In questo articolo, mi concentrerò soprattutto sugli scritti che si basano un minimo sulla teoria femminista. Sosterrò che la letteratura sulla maschilità si appropria in maniera selettiva di forme di femminismo le cui analisi trascurano aspetti chiave dei rapporti di genere [5], in particolare laddove queste rendono invisibili i benefici materiali che gli uomini traggono dal patriarcato.

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“Morto il principe azzurro, ci inventiamo l’uomo femminista. Non abbiamo pace”

I Men’s Studies e la teoria femminista delle relazioni oggettuali

Jalna Hanmer nota che i Men’s Studies riconoscono solo parzialmente la teoria femminista. Hanmer chiarisce che sono le teorie femministe «che percepiscono gli uomini come una classe, con interessi di classe fondati sullo sfruttamento continuo delle donne» [6] a essere messe da parte più palesemente. Come hanno notato molti commentatori, il tipo di teoria femminista riconosciuto più spesso negli scritti contemporanei — accademici e popolari — sugli uomini e sulla maschilità è uscito da quella che viene definita scuola delle relazioni oggettuali del pensiero psicoanalitico [7]. La teoria femminista delle relazioni oggettuali è stata sviluppata da teoriche come Jane Flax, Dorothy Dinnerstein e Nancy Chodorow [8]. Essa ha fortemente influenzato numerose teoriche femministe, alcune delle quali saranno discusse qui. La letteratura sugli uomini e la maschilità si basa per lo più sul lavoro degli anni Settanta di Nancy Chodorow; sarà dunque l’oggetto principale di questo articolo.

C’è di che sorprendersi un poco del fatto che un libro intitolato The reproduction of mothering — il cui tema centrale ed esplicito è la soggettività delle donne — abbia una tale influenza sulla letteratura relativa agli uomini. Lo scopo principale di Chodorow è infatti quello di spiegare la divisione del lavoro di «allevamento» dei bambini o, per usare le sue parole: «in che modo oggi le donne diventano madri?» [9]. Nondimeno, il suo libro fornisce pure delle risposte al problema di sapere per quale ragione gli uomini svolgono un minimo di lavoro di cura dei figli.

L’argomento sviluppato da Chodorow in The reproduction of mothering è molto noto e pertanto qui basterà riassumerlo brevemente. La divisione del lavoro nell’«allevamento» dei bambini implica che il primo oggetto di amore per i bambini di entrambi i sessi sia una donna. Ciò presenta tuttavia conseguenze differenti per le ragazze e i ragazzi, poiché il tipo di relazione che stabiliscono con la madre generalmente è diverso. La lotta dei ragazzi per spezzare l’identificazione con la loro madre sfocia in una struttura della personalità che accentua i confini interpersonali e che si trova svuotata di bisogni e competenze relazionali suscettibili di essere sviluppate nelle femmine. L’identità maschile — definita negativamente — tende a essere astratta e insicura. Logicamente, «il fatto stesso di essere accuditi da una donna ha generato negli uomini conflitti relativi alla maschilità, e un bisogno di essere superiori alle donne» [10].

La teoria femminista delle relazioni oggettuali è stata ripresa da numerosi autori. In The inexpressive male, Jack Balswick prova a scoprire per quali ragioni gli uomini non si impegnino in relazioni più intime e premurose con le loro mogli e i loro figli dato che un simile comportamento oggi fa parte, secondo lui, della «definizione culturale della maschilità» [11]. Egli tenta di spiegare l’incapacità maschile di «esprimere emozioni» e di rispondere ai «bisogni di intimità» delle donne appoggiandosi alla popolare analisi di Lilien Rubin, a propria volta fondata sulla teoria femminista delle relazioni oggettuali [12]. Il dolore di dover rifiutare la madre e identificarsi con un padre assente porta il ragazzo a «costruire difese intorno alla propria espressività emotiva». In modo simile, Victor Seidler cerca di spiegare la resistenza maschile di fronte alle rivendicazioni femministe di relazioni personali egualitarie; basandosi parzialmente sull’analisi di Chodorow, descrive la soggettività maschile in termini di alienazione di sé, di diniego dei bisogni, di timore per ciò che attiene il personale e l’intimo, di sottosviluppo emotivo e di «isolamento e di solitudini terribili» [14].

Analisi simili della soggettività maschile vengono utilizzate per spiegare la violenza degli uomini contro le donne. David Lisak conclude la propria ricerca sugli stupratori sostenendo che essi avvertono una paura di «ri-assorbimento» da parte delle donne; egli si appoggia a Chodorow per spiegare questa paura con il fatto che «gli uomini sentono il bisogno di rigettare le parti di sé identificate con la madre» [15]. Tony Eardley cita uno studio su alcuni stupratori condannati, che descrive l’aggressore tipico come qualcuno che ha «un bisogno emotivo insoddisfatto dovuto a un senti-mento di impotenza», una vita emozionale impoverita («a eccezione della collera») e «dubbi profondi circa la sua adeguatezza e competenza in quanto persona» [16]. Eardley nota che «questa [gli] sembra una descrizione abbastanza corretta di quella che è l’espressione della maschilità “normale”» [17]; egli si basa su Chodorow per comprendere la produzione di una tale maschilità e mette l’accento sui processi che obbligano un ragazzo a rigettare la propria madre e a sopprimere in questo modo «le sue potenziali qualità accudenti»: «È come se gli uomini cercassero di esorcizzare — ed è l’unica maniera che conoscono, con l’ausilio della forza — la paura di accettare ciò che sono e ciò che potrebbero avere perduto diventando ciò che sono» [18].

In queste analisi, il dominio maschile è largamente percepito come un effetto del carattere non-relazionale della soggettività maschile. Ma alcuni autori descrivono pure il bisogno di dominare con l’ausilio dell’analisi della soggettività maschile sviluppata dalla teoria femminista delle relazioni oggettuali. In Fathering the unthinkable, per esempio, Brian Easlea presenta un’analisi devastante delle pratiche di dominio materiale degli uomini nei confronti delle donne, della natura e di altri uomini. Secondo Easlea, l’analisi di Chodorow fornisce la spiegazione migliore della propensione maschile alla violenza e, a dire il vero, di ogni forma di «comportamento maschile importuno» [19]. Al contrario, altri autori limitano la loro comprensione del dominio alla sola sfera psicologica, gli uomini avendo (unicamente) bisogno di fantasticare che le donne siano inferiori. Balswick sostiene in questo modo che se gli uomini «sembrano mostrare nei riguardi delle donne un disprezzo, fondato sull’arroganza» [20], quest’ultimo in effetti è nato dalla loro paura del potere della madre rigettata. Egli prosegue citando Lilian Rubin: «è una paura talmente grande che può tollerarla soltanto togliendo ogni potere alla madre — convincendosi che lei è una creatura debole e gracile» [21].

OF COURSE

“Certo che sono femminista, nella misura in cui sono per l’eguaglianza su tutto e credo nella meritocrazia. Penso che chiunque non lo sia, oggigiorno, vada controcorrente, come la gente che è vagamente omofoba, razzista o sessista” Daniel Radcliffe

La stessa Chodorow discute ampiamente gli effetti ideologici del bisogno che sentono gli uomini di esseri superiori alle donne [22]. Nelle loro analisi del patriarcato, in quanto sistema di dominio materiale, alcune teoriche femministe hanno nondimeno riservato un posto centrale a tale questione. Esse rimediano in questo modo a ciò che manca dalle analisi precedenti del patriarcato in quanto sistema di sfruttamento maschile: una spiegazione del bisogno che sentono gli uomini di dominare e sfruttare le donne (e, in alcuni casi, anche altri uomini). Sandra Harding sostiene, per esempio, nella sua critica del femminismo materialista di Heidi Hartmann, che gli scritti di Chodorow, Flax e Dinnerstein rivelano «le condizioni storiche e materiali di riproduzione degli interessi psicologici relativi ai rapporti di dominio in generale» [23]. In breve, l’esperienza del maternage vissuta dal bambino «risorge negli adulti in modo che gli uomini abbiano voglia di dominare gli altri» [24]. Questi altri non includono soltanto le donne, ma ogni gruppo che possa essere subordinato. Così, i rapporti di razza sono «un dramma maschile supplementare in cui il gruppo più potente degli uomini realizza il suo progetto infantile di dominare l’altro» [25]. Distanziandosi dalla visione secondo cui degli stati psicologici sarebbero all’origine di condizioni sociali, Harding sottolinea tuttavia che non è la sfera psicologica a costituire di per se stessa la base materiale. Quest’ultima si situa piuttosto nella divisione concreta, storica del lavoro di «allevamento» dei bambini.

Gli uomini sono non-relazionali?

Le critiche della teoria femminista delle relazioni oggettuali di solito si sono concentrate sull’analisi della soggettività femminile o sull’analisi generale del rapporto di genere. Mi limito qui al modo in cui questa teoria analizza la soggettività e le pratiche maschili. La concezione secondo cui la soggettività maschile è non-relazionale e non-accudente può costituire un utile punto di partenza: «il senso di sé delle donne è fondamentalmente connesso al mondo, il senso di sé degli uomini ne è fondamentalmente separato» [26]. In linea con la tradizione funzionalista a cui resta in qualche misura fedele, l’analisi di Chodorow si fonda su un caso normativo tipico [27], cioè su un’analisi astratta che non è fondata su un esame diretto di elementi empirici [28]. Tuttavia, gli elementi empirici esistenti, relativi alle differenze psicologiche di sesso fanno vacillare questo argomento. Nel caso dei tratti psicologici per cui le differenze di sesso sono state dimostrate in modo consistente, queste sono deboli se paragonate alle variazioni distribuite in seno a ciascun sesso. Come nota Connell, senza la persistenza di pregiudizi culturali, la ricerca in materia di differenze di sesso verrebbe descritta più correttamente come una ricerca in materia di «somiglianze di sesso» [29]. Anche le piccole differenze sessuali relative al tratto accudente non possono affatto esse-re fondate in modo certo. L’influente rassegna della letteratura realizzata da Eleanor Emmons Maccoby e Carol Nagy Jacklin, per esempio, non ha constatato un modello chiaro in materia di differenze di sesso relative all’attitudine all’accudimento; né, in modo abbastanza sorprendente, nette differenze di sesso relative al tratto del dominio [30]. In uno studio sulle interazioni delle madri e dei padri con i loro figli, Parke e alii hanno segnalato che i padri non erano né inetti, né disinteressati ad interagire con i loro figli. Tuttavia, in maniera abbastanza rivelatrice, hanno constatato che «quando non si chiedeva loro di mostrare le loro competenze ai ricercatori» [31], i padri tendevano a delegare la responsabilità delle cure alle loro mogli. Uno studio ampiamente citato sull’«entusiasmo paterno» [32] indica anche che i padri e le madri vivono reazioni emotive simili di fronte ai loro figli neonati.

Studi sociologici consolidano questa tesi. Senza per questo accettare l’aspetto iperbolico della letteratura sui «nuovi uomini» o sui «nuovi padri», si può riconoscere che un numero consistente di uomini nient’affatto eccezionali — avendo loro stessi vissuto un maternage convenzionale — fornisce cure ad altre persone. Ciò comporta cure ai genitori o a coniugi anziani, indeboliti, a mogli malate e ai propri figli piccoli. Un fatto suggestivo è precisamente che il contesto comune a questo genere di «inversione dei ruoli» [33] è l’indisponibilità di una donna che possa svolgere questo lavoro di cura.

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“Il femminismo radicale sta alienando i giovani uomini”

La posizione di Chodorow diventa estremamente problematica a fronte di elementi empirici che attestano una pratica accudente maschile diffusa in modo abbastanza ampio. La pratica di accudimento maschile dovrebbe essere virtualmente impossibile secondo la logica della teoria di Chodorow [34], come ha dimostrato Robert Jackson. La sua analisi indica infatti che, a meno che Chodorow non voglia affermare — il che è molto poco plausibile — che le propensioni al maternage non sono affatto trasmesse ai ragazzi, si dovrebbe assistere a una graduale diffusione delle caratteristiche del maternage tra gli uomini. Egli arriva quindi alla conclusione che l’analisi di Chodorow è incapace di spiegare la riproduzione del maternage [35].

La posizione di Chodorow esige evidentemente che una maggioranza schiacciante di donne sia impregnata di qualità accudenti. La sua analisi accentua pure gli aspetti psicologici del rapporto di accudimento e trascura l’aspetto più prosaico della soddisfazione quotidiana dei bisogni fisici [36]. Per queste ragioni, Valerie Walkerdine e Helen Lucey hanno criticato le teorie relative alle attitudini accudenti delle donne; a queste teorie rimproverano di partecipare al discorso della «madre sensibile» che presenta un racconto patriarcale della femminilità, accentuando «la passività, la ricettività e l’attitudine accudente» [37]. In modo analogo, Jacqueline Rose critica i presupposti secondo cui le donne «si radicano senza dolore nel loro ruolo» [38]. È certo, per esempio, che molte donne provano a convincere i loro partner a svolgere più lavoro di manutenzione della casa e di cura dei figli, e che tale questione porta spesso a dei conflitti [39].

Evidentemente è importante non accentuare troppo il caso della pratica di accudimento maschile. La maggior parte degli uomini non partecipa in maniera egualitaria alla responsabilità delle cure dei bambini, né ad altre forme di lavoro di cura. Questo è vero in seno ai matrimoni in cui le risorse finanziarie vengono prodotte da entrambi i partner, così come in seno ai matrimoni in cui queste risorse vengono prodotte soltanto dal partner maschile [40]. Gli elementi empirici relativi alla di-visione sessuale tipica del lavoro di cura problematizzano ulteriormente la nozione di uomini non-relazionali. Le pratiche maschili di accudimento dei bambini tendono per esempio a privilegiare le attività più piacevoli e ludiche, le attività ad alto contenuto relazionale invece delle pratiche di cura routinarie o quotidiane. Alcuni uomini dunque beneficiano, secondo Lynne Segal, «del meglio di entrambi i mondi» [41]. Nella citazione che segue, relativa all’implicazione degli uomini nella vita familiare, Chiara Saraceno rimette fortemente in discussione ogni concettualizzazione degli uomini come «non-relazionali»: «L’uomo fa una selezione chiara tra i compiti familiari, scremando il latte, per dir così. Tutti i compiti più routinari e servili, quelli meno direttamente collegati a una forma di gratificazione o di relazione…vengono rifiutati a favore di compiti più ricchi in termini di significato simbolico, dotati di un contenuto relazionale più importante, e caratterizzati dal fatto di essere effettuati liberamente o spontaneamente» [42].

Altri elementi empirici relativi al carattere «relazionale» degli uomini emergono negli studi; questi ultimi mostrano che gli uomini valorizzano la vita familiare più del lavoro salariato, che ciò che conta maggiormente per loro nel matrimonio è la compagnia e che considerano la loro moglie come il loro «migliore amico» [43]. Lo studio qualitativo di Mike Donaldson sugli uomini della classe operaia ha rivelato una «intensa dipendenza emotiva nei confronti della famiglia» [44]. Gli elementi empirici relativi ai tassi elevati di secondi matrimoni hanno condotto Jessi Bernard a notare che «una volta che gli uomini hanno conosciuto il matrimonio, difficilmente riescono a vivere senza» [45]. La sua spiegazione è chiara: «Per gli uomini non esiste migliore garanzia di longevità, di salute e di felicità di una moglie adeguatamente socializzata a effettuare i “doveri coniugali”, pronta a dedicare la propria vita a prendersi cura di lui e a fornirgli — ovvero a consolidare — la regolarità e la sicurezza di una casa ben ordinata» [46].

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“Ho bisogno del femminismo perché non mi piace essere trattato come una scimmia ammaestrata quando esco da solo con mia figlia”

Ciò richiama la nostra attenzione su un punto cruciale. La divisione sessuale del lavoro di cura non è semplicemente un assetto all’interno del quale i padri effettuano un lavoro di cura dei figli molto minore di quello delle madri. È anche un assetto all’interno del quale gli uomini stessi ricevono cure da parte delle donne. Come indica Donaldson: per gli uomini, «le relazioni non richiedono energia, ne forniscono» [47]. Queste cure che le donne effettuano per gli uomini inglobano un’ampia gamma di pratiche, dalla stiratura delle camicie alla distensione degli animi. La letteratura sociologica sulla divisione sessuale delle forme più ordinarie di cura (cioè il lavoro domestico) è vasta e ben nota. Altri studi dimostrano viceversa fino a che punto gli uomini tendono a beneficiare di atti di accudimento — emotivi e psicologici — da parte delle donne [48]. Le cure che le donne effettuano per gli uomini e quelle che effettuano per i loro figli hanno d’altronde molte cose in comune.

Per riassumere: una buona parte delle discussioni recenti sulla maschilità si basa su premesse psicologiche manifestamente deboli. A livello di pratiche, è abbastanza vero che gli uomini non sono accudenti perché la maggior parte degli uomini non si assume molte responsabilità nel lavoro di cura routinario per gli altri. Ma gli uomini possono essere accudenti e possono in effetti esercitare questa competenza in modo da massimizzarne l’aspetto relazionale. Del resto, gli uomini stessi beneficiano di atti di accudimento e valorizzano le sfere familiari organizzate in questo modo. Riprendendo una distinzione fatta da Ann Oakley, si può dire che se gli uomini non si occupano dei loro familiari tanto quanto le donne, certamente se ne preoccupano [49].

Gli uomini e il lavoro delle donne

Altre prospettive femministe permettono tuttavia di analizzare tali questioni. A partire dalla parabola di Hegel sul padrone e sullo schiavo, Dorothy Smith spiega che la totalità di un insieme di rapporti sociali gerarchici può essere colta soltanto a partire dalla posizione vissuta delle persone che forniscono il lavoro da cui dipende la formazione sociale. «A partire dalla posizione vissuta dei dominanti, le pratiche reali, il lavoro e l’organizzazione del lavoro che rendono possibili l’esistenza di una classe dirigente e il loro monopolio sono invisibili. Soltanto a partire da una posizione vissuta al di fuori della classe dominante è possibile percepire il modo in cui la cosa intera è assemblata» [50].

Smith ritiene che si tratti del fondamento epistemologico del materialismo di Marx. A suo parere è necessario integrare la posizione vissuta delle donne, cioè di quelle che «mantengono la casa, partoriscono i figli e li curano, si occupano degli uomini quando sono malati e, in senso generale, forniscono la logistica della loro esistenza corporea» [51]. La teoria femminista non pone l’oppressione delle donne in linea di principio, ma questa oppressione emerge dal sapere delle donne: «non c’è nessun mistero: siamo oppresse perché siamo sfruttate. Ciò che subiamo rende la vita più facile ad altri» [52].

Tutte le appropriazioni e le estensioni femministe della tradizione materialista insistono sulle forme di «lavoro socialmente necessario» effettuate dalle donne e che non vengono adeguatamente teorizzate in seno alla tradizione marxista. In modo rappresentativo, Iris Young spiega che «ogni funzione o attività che la società definisce necessaria» può essere integrata a una prospettiva materialista [53]. Una delle formulazioni più influenti è quella di Heidi Hartmann: «La base materiale su cui riposa il patriarcato è situata prima di tutto e soprattutto nel controllo che gli uomini esercitano sulla forza-lavoro delle donne» [54]. Hartmann spiega che il matrimonio è l’istituzione moderna centrale che — affinché gli uomini possano controllare la forza-lavoro delle donne — permette agli uomini di controllare sia l’accesso delle donne alle risorse economiche che la loro sessualità. Tale controllo «ha come scopo che le donne servano gli uomini in modi diversi — personali e sessuali — e si occupino di allevare i figli» [55].

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“Porto fuori la spazzatura…” “Grazie – No, davvero, non è niente – Grazie” – Illustrazione di Jacky Fleming

L’integrazione di forme di cura affettiva a una prospettiva materialista implica che tali cure vengano concettualizzate come una forma di lavoro, e dunque come una forma di produzione. Per mettere in evidenza questo punto, viene spesso utilizzata la formulazione «lavoro emozionale» [56]. La concezione materialista del «lavoro socialmente utile» viene qui ampliata al di là del suo impiego tradizionale per includere non solo le forme di lavoro domestico coperte dal concetto di lavoro domestico, ma tutti i processi in gioco nella «produzione e nella trasformazione delle persone» [57]. Anna G. Jonasdottir descrive le interazioni in cui le donne e gli uomini si creano reciprocamente come segue: «in questo processo di vita, i nostri corpi e le nostre anime sono mezzi di produzione e produttori» [58]. Ma simili processi possono comportare sfruttamento. Nel caso tipico:  «[…] gli uomini possono appropriarsi continuamente di più forza e capacità di vita delle donne di quanta loro stessi ne restituiscano alle donne. Attraverso la loro costante accumulazione di forze esistenziali prese alle donne e ricevute da parte loro, gli uomini possono costituirsi in esseri sociali potenti e continuare a dominare le donne. Se il capitale è lavoro alienato accumulato, l’autorità maschile è amore alienato accumulato» [59]. Questa rielaborazione esplicita della fraseologia marxista ne suggerisce un’altra. L’analisi marxiana del valore delle merci in termini di lavoro necessario alla loro produzione l’ha portato a descrivere le merci come «tempo di lavoro congelato». L’analisi femminista materialista del lavoro di cura delle donne per gli uomini ci sollecita allora a descrivere gli uomini come tempo di lavoro femminile congelato [60].

Se ho trattato soprattutto il lavoro delle donne nella sfera privata, le femministe materialiste, per parte loro, mettono in evidenza che il dominio maschile si fonda sullo sfruttamento del lavoro delle donne tanto nella sfera privata che in quella pubblica. Il lavoro salariato femminile implica spesso lo sfruttamento del lavoro di cura e di servizio che le donne effettuano anche nella sfera privata — cosa che rende visibile il forte legame che esiste tra queste due sfere. Per comprendere le pratiche maschili nella sfera pubblica, è cruciale pure sapere che il lavoro di cura delle donne nella sfera privata è la condizione necessaria per l’organizzazione del mercato del lavoro dominato dagli uomini. I ritmi di questo mercato del lavoro «ignorano i bisogni familiari degli individui, ignorano le loro responsabilità nelle relazioni intime e nel lavoro familiare […] e presuppongono, simultaneamente, che gli uomini abbiano famiglie, una donna (madre, sorella, moglie) che si faccia carico di queste responsabilità» [61]. Ma le femministe materialiste indicano chiaramente che lo sfruttamento del lavoro domestico delle donne serve soltanto gli interessi degli uomini nella sfera pubblica. Christine Delphy, in particolare, mette l’accento su questo aspetto: gli uomini beneficiano della segmentazione del mercato del lavoro lungo l’asse del genere, nella misura in cui esso incita le donne al matrimonio e dunque a effettuare servizi professionali per gli uomini di cui, nel frattempo, sono diventate dipendenti [62]. Lo sfruttamento del lavoro delle donne da parte degli uomini assegna a questi ultimi dei benefici diretti nella sfera privata, come la discussione precedente a proposito delle cure femminili per gli uomini (e per i loro figli) ha mostrato.

Le analisi del lavoro di cura (e d’amore) come una forma di lavoro — sfruttato — contraddicono credenze profondamente radicate secondo cui le donne effettuano questo lavoro liberamente, in nome dell’amore. Delphy fa sarcasticamente riferimento alla «coincidenza fortuita» per cui tante donne scelgono di «dimostrare il loro amore in maniera identica». Parlare di queste pratiche di cura e di amore come di forme di lavoro non significa sminuirle. Come spiega Delphy, la svalutazione del lavoro delle donne è il risultato e non la causa del suo sfruttamento. Parlare di queste pratiche in termini di lavoro significa piuttosto attribuire loro la dignità correlata al fatto di essere socialmente necessarie, di richiedere un dispendio di energia e di possedere delle competenze. Inoltre, il fatto di parlare dello sfruttamento di questo tipo di lavoro corrisponde alla messa in evidenza di questo lavoro come un fatto sufficientemente utile (o «produttivo») da meritare di essere sfruttato. È la questione dell’accudimento dei bambini a provocare le obiezioni più forti all’idea di sfruttamento da parte degli uomini del lavoro di cura delle donne. Michèle Barrett e Mary McIntosh chiedono a Delphy: «Dobbiamo considerare i bambini, i vecchi e gli invalidi come degli sfruttatori?» [63]. Ma Delphy risponde loro: «non sono i bambini ad appropriarsi dei servizi che vengono loro applicati, ma la persona che dovrebbe fare metà del lavoro se la donna non lo svolgesse tutto, cioè il marito» [64].

Una spiegazione psicologica è necessaria?

La corrente femminista materialista analizza la divisione sessuale del lavoro di cura come un insieme materiale e politico di pratiche tramite cui gli uomini sfruttano a proprio vantaggio il lavoro delle donne. Noi non abbiamo bisogno di fare appello a teorizzazioni psicologiche per spiegare la resistenza degli uomini a svolgere più lavoro di cura. Possiamo spiegare la difesa maschile dei privilegi pubblici e privati degli uomini in termini diretti: «vale la pena battersi» [65] per questi privilegi. Poiché gli uomini beneficiano di privilegi nella sfera privata, lo stesso tipo di ragionamento dovrebbe potervisi applicare. Da questo punto di vista, il fatto che gli uomini impongano violentemente il proprio diritto allo sfruttamento del lavoro di cura delle donne non è particolarmente difficile da cogliere. Uno studio ha mostrato che il 78% degli uomini che ha picchiato le mogli forniva spiegazioni caratterizzabili come «defezione dagli obblighi della brava moglie» [66].

FEMINIST MAN

“Alzare il volume: consigli per inserire la vostra opinione in quasi tutte le discussioni – e averla vinta!” – “Foto di cazzi non richieste: perché mandarle in giro è la cosa PIU’ femminista che tu possa fare” – “Donne: sono davvero necessarie per il femminismo?”

Non è nella soggettività maschile che bisogna cercare spiegazioni del carattere «non-accudente» degli uomini. Ciò che fonda empiricamente l’idea che gli uomini non siano accudenti è anzitutto il fatto che gli uomini non sono molto coinvolti nel comportamento accudente routinario. Ciò fa parte di una divisione del lavoro in cui gli uomini stessi beneficiano di atti di accudimento e diventano liberi di partecipare ad altri tipi di pratica. Spiegarlo con l’ausilio di caratteristiche come l’assenza di tratti accudenti equivale a descrivere una divisione del lavoro per mezzo delle sedicenti caratteristiche dei lavoratori (e di coloro che non lavorano!). Il conservatorismo di una posizione simile sarebbe sufficientemente chiaro nel caso della divisione del lavoro lungo l’asse della classe, e tale conservatorismo si manifesta certamente quando si considera la costruzione parallela secondo cui le donne si occuperebbero dei bambini perché sono accudenti, cioè «adatte al mestiere».

Nel lavoro di Jessica Benjamin — che ha molto in comune con la teoria femminista delle relazioni oggettuali — l’idea che gli uomini siano riluttanti a riconoscere la propria dipendenza è particolarmente importante. Benjamin spiega che l’egemonia maschile si manifesta principalmente attraverso l’ideale predominante dell’individuo autosufficiente [67]. Se abbiamo visto che molti uomini riconoscono l’importanza generale della vita familiare, esistono pure elementi empirici che attestano l’idea che gli uomini coltivino la finzione della propria auto-sufficienza, in particolare per quanto concerne le questioni emotive. Wendy Hollway, per esempio, dimostra nel suo studio qualitativo della soggettività di genere che gli uomini tendono a negare la propria dipendenza dalle loro partner femminili e non vogliono, in generale, riconoscere i propri bisogni emotivi. A partire da un quadro di pensiero fondato sull’approccio discorsivo, Hollway spiega che un comportamento simile dà potere agli uomini, attraverso la «soppressione dei significati che minerebbero il loro potere» [68].

Secondo Bonnie Fox — che critica il lavoro di Hartmann e di altre femministe materialiste come Delphy e Burstyn — il tentativo di fondare il femminismo materialista sullo sfruttamento del lavo-ro delle donne fallisce. Ciò che fa problema è sapere per quale motivo gli uomini desiderano controllare il lavoro delle donne. Secondo lei, infatti, le materialiste sono costrette a ripiegare su spiegazioni poco solide in termini di agentività maschile e di un desiderio innato di potere negli uomini, «dato che nessun’altra forza ragionevole si presenta» [69]. Le analisi femministe materialiste del patriarcato «sono un fiasco», secondo lei, perché l’unica attività in cui il patriarcato è coinvolto è «il dominio maschile, e lo sfruttamento delle donne, cioè quello che cerchiamo di comprendere» [70].

La posizione di Fox rientra in un modo di pensare che, secondo Delphy, considera le donne «indegne persino di essere sfruttate» [71]. Fox nega implicitamente che l’appropriazione del lavoro delle donne da parte degli uomini sia profittevole a causa dei privilegi immediati che questi ricevono e dei vantaggi che ottengono rispetto ad altri uomini (anche se ciò non è mediato da un equivalente esatto del mercato capitalista, ciò che, secondo Fox, è la falla fatale al femminismo materialista). Il fatto di desiderare tali benefici non richiede alcuna spiegazione psicologica complessa, anche se il conseguimento di tali benefici è senza dubbio accompagnato da aspetti psicologici. Una volta che gli uomini sono in grado di dominare le donne — per esempio, attraverso lo sfruttamento del loro lavoro — non c’è mistero socio-teorico quanto alla ragione per cui desidererebbero continuare in questo modo. Si tratta piuttosto di sapere quali sono i benefici del dominio e in che modo e a quali condizioni gli uomini riescono a consolidarli. Anche se attribuiamo una qualche validità alle analisi della soggettività maschile, queste non rispondono alla domanda sull’origine del potere maschile. Come nota Young, a meno di supporre che una propensione psicologica sia essa stessa all’origine di ciò che rende gli uomini potenti, il desiderio di potere degli uomini non può spiegare in che modo essi ottengono potere [72].

Anche se non hanno avuto un impatto comparabile sui discorsi della maschilità, prospettive femministe psicoanalitiche diverse da quella delle relazioni oggettuali sono state sviluppate. Numero-se sono quelle che — in particolare l’analisi molto influente di Juliet Mitchell — derivano da letture di Lacan [73]. Elizabeth Grosz critica la teoria femminista delle relazioni oggettuali perché anche se quest’ultima può spiegare le ragioni per cui le donne accudiscono, «essa ignora la questione del significato e del valore soggiacenti ai ruoli di sesso» [74]. Per riempire questo vuoto, Grosz si serve dell’analisi di Lacan del «dominio del fallocentrismo», cioè il dominio dei sistemi discorsivi e significanti. Grosz spiega che Lacan offre un’analisi del significato dell’identità sessuale: «Per essere un soggetto o semplicemente un “io” il soggetto deve adottare una posizione sessuata, identificarsi con gli attributi socialmente designati come appropriati agli uomini o alle donne» [75].

A prima vista, non sembra probabile che un’analisi lacaniana possa spiegare l’autorità maschile meglio di un’analisi del tipo relazioni oggettuali. L’accento lacaniano messo sulla valorizzazione del fallo rende certamente esplicita, e dunque (in qualche modo) problematica, la superiorità culturale della maschilità, ma sarebbe idealista cercare di analizzare i rapporti sociali a partire da simili analisi. Come nota Young a proposito di teoriche/i quali Eilzabeth Harding e John Hartsock: «I fenomeni legati alla differenziazione di genere non possono spiegare in sé le strutture del dominio maschile, perché la prima categoria fa riferimento a idee, simboli, forme della coscienza, mentre la seconda fa riferimento al modo materiale concreto tramite cui gli uomini si appropriano di benefici a detrimento delle donne» [76].

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“Ho bisogno del femminismo perché il fatto che mi piacciano i pony rosa leziosi non fa di me un gay, una donna o un pedofilo”

La politica della letteratura sulla «maschilità»

La teoria femminista delle relazioni oggettuali è stata largamente riconosciuta e oggi è molto influente nella letteratura che si è sviluppata sugli uomini e sulla maschilità. Non si può dire lo stesso delle altre forme di teoria femminista psicoanalitica, ancora meno dei femminismi materialisti che collocano il beneficio e l’agentività maschili al centro delle proprie analisi. Esistono delle eccezioni a queste tendenze generali nella nuova letteratura sulla maschilità. Teorici come Bob Connell e Jeff Hearn accordano molta importanza al fatto che gli uomini abbiano un interesse generale per i rapporti di genere e si basano ampiamente sulla teoria femminista [77]. Connell nota che gli uomini non vogliono assumersi la responsabilità della loro «subordinazione sociale attiva» delle donne. Gli uomini preferiscono beneficiare del dominio maschile credendo che tali benefici derivino «da una forza esterna, dalla natura o dalle convenzioni o anche dalle donne stesse»; simili credenze costituiscono una sorta di «malafede». William J. Goode nota in modo simile — benché su un registro meno critico — che gli uomini, come tutti i membri dei gruppi dominanti, tendono a considerare i propri privilegi come ovvi (mentre hanno una coscienza dolente dei fardelli della maschilità, si potrebbe aggiungere). Ciò implica, in particolare, che negano la loro agentività nella conservazione del dominio. Anche quando gli uomini riconoscono i propri vantaggi, «poiché qualsiasi coorte di uomini sa di non avere creato il sistema che conferisce loro dei vantaggi, rifiutano qualsiasi rimessa in questione che affermi che si sono coordinati per dominare le donne» [78].

Abbastanza ironicamente, la teoria femminista delle relazioni oggettuali permette agli uomini di negare ancora più facilmente la propria agentività nella conservazione del patriarcato. Gli autori maschi possono, con l’ausilio di questo approccio, utilizzare una retorica altamente critica nei riguardi degli uomini, fondando queste critiche su un’analisi che allontana l’attenzione dalle pratiche degli uomini. Diventa dunque possibile parlare di potere, di vantaggio e di dominio maschile proponendo una spiegazione in termini di riproduzione senza agente di una struttura sociale. Il dominio diventa così una «forma di soggezione» [79], come ha notato ironicamente Barbara Ehrenreich in relazione al messaggio sotteso al discorso del «ruolo del sesso maschile» — discorso predominante nelle analisi degli uomini a partire dagli anni Cinquanta fino a tempi recenti.

Quando gli scritti della scuola delle relazioni oggettuali si concentrano su pratiche, si concentrano soprattutto sulle pratiche delle donne nel loro ruolo di madri. Ora, sappiamo che sono soprattutto gli uomini a preoccuparsi del comportamento di genere — appropriato — dei bambini [80]. Arthur Brittan suggerisce logicamente che le analisi modellate sulla teoria delle relazioni oggettuali possono essere, e sono, lette come una conferma della seguente proposizione: «se il maternage è responsabile del dominio maschile, allora, in fin dei conti, gli uomini sono irreprensibili» [81].
L’analisi della soggettività maschile «normale» in termini terapeutici è un aspetto tipico delle appropriazioni maschili della teoria femminista delle relazioni oggettuali e della letteratura popolare scritta dalle donne sugli uomini [82]. La psiche maschile è danneggiata, ferita e necessita di essere riparata. Diventa così possibile presentare le pratiche degli uomini in modo abbastanza tragico. La divisione del lavoro di cura dei bambini può, per esempio, essere interpretato come una forma di esclusione degli uomini dalle gioie della vita familiare. In maniera piuttosto combattiva, Richard Haddad spiega che gli uomini devono «spezzare il monopolio femminile» sull’«allevamento dei figli» per scoprire la propria «capacità di intimità e di affetto» [83]. Anche il fatto che le donne si prendano cura degli uomini può essere interpretato come segno di tormento maschile. Victor Seidler riconosce che gli uomini si aspettano dalle loro partner che queste facciano il «lavoro emozionale» e che questo lavoro rafforzi gli uomini nella loro competizione con altri uomini nella sfera pubblica. Egli riconosce anche che questo tipo di lavoro da parte delle donne è spesso invisibile agli uomini, e che ciò è ingiusto. Ma in ultima analisi non offre un’interpretazione politica: «Vogliamo che i nostri bisogni vengano soddisfatti senza doverli esplicitare poiché il riconoscimento stesso dei nostri bisogni comprometterebbe la nostra immagine di esseri autosufficienti. Temiamo che se avvertissimo i nostri bisogni non soddisfatti, questi sarebbero talmente schiaccianti che nessuna vorrebbe avere una relazione con noi» [84].

Il carattere patriarcale delle pratiche degli uomini è evidente in alcune analisi di questo tipo, anche se l’autore non se ne rende necessariamente conto. L’analisi che segue a proposito dell’alienazione della comprensione di sé negli uomini — analisi che mistifica psicologicamente la relazione servo-padrone — ne è un esempio eclatante: «Gli uomini in genere possono permettersi una forma di ascolto senza sentirsi non-maschili. Mal-grado la loro ripugnanza o incapacità di esprimere la maggior parte dei loro bisogni importanti, gli uomini abitualmente definiscono alcuni bisogni che considerano accettabili. Si servono di questa lista di bisogni per misurare l’ascolto delle loro partner. Per alcuni mariti, ciò implica avere un pasto pronto a tavola, una casa pulita o una moglie ben curata quando rientrano. Se queste attese non vengono soddisfatte, molti uomini reagiranno a simili “affronti” o “mancanze di rispetto” con una collera forte, ovvero irrazionale. Sottesa a tale collera, c’è la paura dell’abbandono. Pochi uomini stabiliscono questo nesso emotivo, perché non sono in contatto con i propri bisogni più fondamentali» [85].

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“Possiamo essere chiunque vogliamo essere”

Diventa così possibile parlare non solo dei fardelli della maschilità, ma anche degli uomini come esseri svantaggiati, almeno psicologicamente, a paragone delle donne. Ciò che importa, qui, è il carattere «negativo» dell’identità maschile: si suppone che i ragazzi — in assenza di modelli maschili concreti — costruiscano la propria identità attraverso un rifiuto di tutto ciò che è femminile. Questo tipo di analisi conduce alcuni a sostenere che «la maschilità è il più debole dei costrutti di genere» e che gli uomini pertanto incontrano «problemi» di identità «unici» e soffrono di «superficialità emotiva» [86]. Simili analisi costruiscono, implicitamente o esplicitamente, un «altro» femminile che non sarebbe danneggiato emotivamente: il suo potenziale relazionale è intatto, i suoi bisogni emotivi sono riconosciuti. Passando in rassegna alcune di queste analisi, Jennifer Somerville sostiene che le loro diagnosi degli uomini sono piene di cliché sulla condizione umana. Somerville afferma che l’argomento di Seidler — secondo cui gli uomini cercano contatti sessuali per soddisfare bisogni di intimità difficilmente ammissibili — è curioso perché presuppone che si tratti di un problema esclusivamente maschile: «Le ricerche sul significato dei contatti sessuali per le donne suggeriscono che esiste un’identica confusione di desideri, di richieste e di bisogni che sono spesso, allo stesso modo, insoddisfatti. Se le cose stanno così, è difficile dire che questo significato è il risultato di un analfabetismo o di una ignoranza emotiva nel momento stesso in cui si pretende che il “potenziale relazionale” delle donne sia talmente più sviluppato» [87].

Conclusione: la «maschilità» e le pratiche degli uomini

Nei discorsi sugli uomini e la maschilità considerati qui, la personalità maschile deve essere intesa come una reificazione o un’ipostatizzazione delle pratiche degli uomini (e certamente anche delle pratiche delle donne che li sostengono). La reificazione viene quindi utilizzata per spiegare quelle pratiche. Benché l’intenzione di molti autori di questa letteratura sia senza dubbio critica, i suoi effetti in termini di politica sessuale sono conservatori perché l’attenzione viene allontanata dalle pratiche maschili interessate e diretta verso una personalità reificata.

Qui non si tratta di promuovere indagini sociologiche anziché psicologiche. Molte analisi sociologiche dei rapporti di genere hanno lo stesso effetto spoliticizzante. L’uso del concetto di struttura sociale può accompagnare uno spostamento dell’attenzione riservata all’interesse e all’agentività maschile; alcune concezioni della struttura sociale sono in effetti particolarmente adatte allo scopo. Le analisi sociologiche degli uomini e della divisione del lavoro accentuano spesso gli ostacoli al cambiamento incarnati dalla strutturazione del mercato del lavoro: «[…] quale che sia il numero dei padri che desiderano accettare un ruolo più importante nella cura dei figli e della casa, non potranno farlo finché le strutture del lavoro non cambieranno» [88].

Si potrebbe «cavillare» sulla validità empirica di simili argomenti. Molte donne riescono a occupare posizioni importanti e impegnative sul mercato del lavoro pur assumendosi la maggior parte della responsabilità nel lavoro familiare. Ciò che soprattutto importa, qui, è che non si riconosce che la strutturazione del mercato del lavoro serve, in generale, gli interessi degli uomini e che essa viene riprodotta dalle loro pratiche. In modo molto simile al discorso sulla personalità maschile, la struttura viene infatti utilizzata per spiegare che gli uomini non possono cambiare.

Un’analisi strutturale non è destinata a contraddire una comprensione politica, in termini di pratica interessata. Citiamo Iris Young: «Che cosa significa, allora, per la teoria femminista prestare attenzione alle questioni del potere e del dominio? Ho suggerito che questo implica un’analisi strutturale dei rapporti di autorità e di di-pendenza, come pure una descrizione del trasferimento e dell’appropriazione dei benefici del lavo-ro […] Quale genere ha accesso, attraverso la propria attività differenziata lungo l’asse del genere, a quali risorse sociali, e che cosa permettono di fare tali risorse ai membri di quel genere?» [89].

Non mi oppongo nemmeno, in linea di principio, a studi della personalità o del carattere, dell’identità o della soggettività. Non suggerisco nemmeno che la sfera «psicologica» sarebbe soltanto un riflesso del «sociale». Lo studio del femminismo materialista dovrebbe infatti rendere chiaro il fatto che le pratiche «psicologiche» sono collocate al centro dell’analisi. La personalità e la pratica sociale possono essere percepite — a partire da una prospettiva particolare — come una sola e medesima cosa: la personalità è un modo di concettualizzare i comportamenti o le pratiche, e non la loro causa [90].

Non è evidentemente così che viene abitualmente intesa la nozione di personalità. Le ipotesi passate in rassegna in questo articolo, relative alla personalità maschile, riprendono l’ideologia popolare della differenza sessuale — secondo cui i rapporti di genere possono essere spiegati in termini di personalità e di identità differenti degli uomini e delle donne. La letteratura sulla personalità maschile aggiunge evidentemente a questa saggezza convenzionale un meccanismo tramite il quale la personalità di genere viene prodotta e rovescia la valorizzazione convenzionale della personalità maschile. Così, l’indipendenza viene reinterpretata come un’incapacità di riconoscere la dipendenza, e la forza viene reinterpretata come una maschera della fragilità e dell’insicurezza. Ma non si tratta di una critica o di una decostruzione dell’ideologia: è semplicemente un’inversione.

Il termine «maschilità» è costantemente utilizzato nella letteratura più generalista sugli uomini, come nella letteratura specialistica studiata qui. La «maschilità» è astratta, fragile, non-emotiva, indipendente, non-accudente, etc. Tutti gli attributi degli uomini discussi nella letteratura vengono formulati come aspetti della maschilità. È degno di nota che gli autori che si occupano di maschilità indichino così raramente il modo in cui definiscono il concetto di maschilità. Michael Kimmel definisce la maschilità come «ciò che significa essere un uomo», ma tale definizione lascia la questione piuttosto aperta [91]. Connell ha notato che il concetto di maschilità è profondamente legato alle nozioni moderne di identità individuale e di sé — nozioni al di là delle quali è difficile pensare [92]. In genere si ritiene che l’utilità del concetto sia scontata e ci si limita a offrire una descrizione, spesso una lista di caratteristiche.

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“I veri uomini sono femministi”

Gli usi dell’idea di maschilità sono infestati dall’idealismo e dalla reificazione già diagnosticati in precedenza. Le pratiche degli uomini sono il risultato, o l’espressione della maschilità. Anche se le pratiche degli uomini vengono criticate, è la maschilità a essere percepita come il problema. Gli appelli a «ridefinire», «ricostruire», «disfare» o «trasformare» la maschilità diventano banali [93]. Invece di chiedersi se gli uomini debbano cambiare comportamento, costoro «lottano con il senso della maschilità» [94]. Il dominio diventa un aspetto della maschilità, invece di qualcosa che gli uomini semplicemente fanno. Anche quelle analisi della maschilità che si fondano sulle pratiche hanno difficoltà a evitare di costruire la maschilità come una cosa in sé. Se Arthur Brittan definisce la maschilità in termini insolitamente concreti ed espliciti — cioè come la forma predominante di comportamento maschile in ogni ambiente particolare —, parla pure del modo in cui gli uomini «hanno una molteplicità di modi per esprimere la propria maschilità» [95]. Egli caratterizza anche il proprio lavoro come una preoccupazione per il modo in cui gli uomini «vivono la propria maschilità» [96].

Come le analisi della personalità discusse sopra, numerose descrizioni della maschilità sono di fatto descrizioni delle ideologie popolari relative alle caratteristiche reali o ideali degli uomini. Nella letteratura sulla maschilità, il carattere ideologico di questo termine viene teorizzato nella maniera più chiara con l’aiuto del termine «maschilità egemonica», definito come «la forma culturalmente esaltata della maschilità» [97]. Nel loro uso popolare, le nozioni di maschilità (e di femminilità) sono inestricabilmente legate a discorsi naturalizzanti e sorvegliati. Sono critico nei confronti del concetto di maschilità quando serve a spiegare le pratiche degli uomini. Questo termine tuttavia fa parte del discorso psicologico dominante e molti uomini indubbiamente si vivono attraverso quel discorso: dubitano, per esempio, della loro maschilità o si giustificano in quanto bisognosi di esprimere la loro maschilità. Il funzionamento del patriarcato, in questo modo, è reso invisibile.

La maschilità sembra governare gli uomini come facevano i ruoli di sesso in formulazioni anteriori. Barbara Ehrenreich ha sottolineato il modo in cui il «ruolo maschile» è diventato un cliché esplicativo nelle analisi accademiche e popolari sugli uomini. È possibile che la «maschilità» subisca la stessa sorte. L’osservazione di Henry Brod, secondo cui i Men’s Studies sono «critici verso la maschilità e allo stesso tempo simpatetici verso gli uomini» [98], mostra chiaramente la separazione effettuata tra gli uomini e la maschilità.

In questo articolo, ho mostrato come una prospettiva popolare del femminismo, la teoria delle relazioni oggettuali, ha sostenuto la reificazione della «maschilità» e ha in effetti fornito innumerevoli fondamenti a questo sviluppo teorico. La letteratura più ampia sugli uomini fa eco all’argomento tecnico della psicoanalisi. È vero che il termine «maschilità» è un termine appartenente ai discorsi relativi all’identità e che questi discorsi hanno effetti sociali potenti. Ma questa non è una ragione per attribuire un potere esplicativo alla maschilità — a meno di credere che tutte le pratiche siano effetti discorsivi. Affermare che il modo di costruzione della maschilità è il problema essenziale dei rapporti di genere e che la sua soluzione consiste in una «ricostruzione della maschilità», equivale ad allontanare l’attenzione teorica dalle pratiche politiche degli uomini. Altre correnti della teoria femminista forniscono risorse importanti per lo sviluppo di un’analisi delle pratiche degli uomini, e da queste gli uomini possono imparare molte cose.

NOTE

[*] A. McMahon, Male Readings of Feminist Theory: The Psychlogisation of Sexual Politics in the Masculinity Literature, «Theory and Society», 22, 5, 1993, pp. 675-695. La traduzione italiana è stata condotta sulla versione francese: Lectures masculines de la théorie féministe: la psychologisation des rapports de genre dans la littérature sur la masculinité, «L’Homme & la société», 158, 4, 2005, pp. 27-51.
[1] Harry Brod, «The case for men’s studies», in Harry Brod (ed.), The Making of Masculinities, Boston, Allen and Unwin, 1987, p. 40.
[2] Cynthia Cockburn, «Masculinity, the left and feminism», in Rowena Chapman and Jonathan Rutherford (eds.), Male Order: Unwrapping Masculinity, London, Lawrence and Wishart, 1988, p. 309.
[3] Jeff Hearn, Reviewing men and masculinities – or mostly boys’ own papers, «Theory, Culture and Society», 6, 1989, p. 671.
[4] Harry Brod, op. cit., p. 61.
[5] Questo articolo è nato dalla mia insoddisfazione verso una tendenza inquietante nell’appropriazione della teoria femminista da parte degli uomini: la focalizzazione selettiva su un’analisi psicologica che spoliticizza i rapporti di genere. Molti ricercatori, persino favorevoli alla teoria femminista, scelgono di criticare le femministe e il pensiero femminista «selezionando» quelle il cui femminismo sarebbe migliore, quelle il cui femminismo sarebbe sbagliato, o «consigliando» loro di affinare il loro pensiero (Christine Delphy, «Nos amis et nous. Fondements cachés de quelques discours pseudo-féministes», in L’ennemi principal , tome I: Économie politique du patriarcat, Paris, Syllepse, 1998). Se il bersaglio principale della mia critica era certamente la letteratura sulla maschilità scritta dagli uomini, ho scelto di criticare anche alcuni aspetti del pensiero femminista. Volevo, tuttavia, che questa critica fosse qualitativamente differente: la mia critica intendeva essere «responsabile», nel senso di «disposta a rendere conto». Che cosa significa sviluppare una critica «responsabile»? Significa che il mio pensiero è esplicitamente fondato su ed elaborato a partire da una posizione teorica femminista specifica, il femminismo materialista così come Christine Delphy in particolare l’ha pensato. Nel corso dell’elaborazione della mia analisi critica delle pratiche oppressive degli uomini, mi sono intimamente persuaso del fatto che la cor-rente femminista materialista era tra le più coerenti e affidabili tra le correnti del pensiero femminista. La mia critica della teoria femminista delle relazioni oggettuali, per esempio, dovrebbe essere considerata un contributo alla critica femminista materialista dell’oppressione delle donne da parte degli uomini — a partire da un punto di vista maschile critico. In questo modo, non cambio punto di vista né critica a seconda delle mie convenienze, in quanto uomo. Penso, al contrario, che la posizione vissuta degli uomini sia una posizione epistemologicamente svantaggiata (Léo Thiers-Vidal, De la masculinité à l’anti-masculinisme: penser les rapports sociaux de sexe à par-tir d’une position sociale oppressive, «Nouvelles Questions Féministes»,21, 3, 2002), e che uno dei modi per contribuire alla critica radicale delle pratiche maschili sia responsabilizzarsi verso una corrente di pensiero specifica. Il femminismo materialista fa parte delle analisi più critiche — dunque marginalizzate — delle pratiche degli uomini e sono convinto che esso innalzi sensibilmente gli standard qualitativi del pensiero critico. Spero dunque che la mia analisi sia all’altezza di questi standard qualitativi (Nota dell’autore in occasione della traduzione di questo articolo).
[6] Jalna Hanmer, Men, power, and the exploitation of women, «Women’s Studies International Forum»,13, 1990, p. 446.
[7] Harry Brod, «Introduction: Themes and Theses of Men’s Studies », in Harry Brod (ed.), op. cit., p. 10 ; Barry Richards, «Masculinity, identification and political culture», in Jeff Hearn, David Morgan (eds.), Men, Masculinities and Social Theory, London, Unwin Hyman, 1990, p. 163; Charlie Lewis, Becoming a Father, Milton Keynes, Open University Press, 1986, p. 8.
[8] Jane Flax, «Political philosophy and the patriarchal unconscious: A psycho-analytic perspective on epistemology and metaphysics», in Sandra Harding, Merrill B. Hintikka (eds.), Discovering Reality: Feminist Perspectives on Epistemology, Metaphysics, Methodology, Philosophy of Science, Dordrecht, Reidel, 1983, p. 245-281; Dorothy Dinnerstein, The Mermaid and the Minotaur, New York, Harper Colophon, 1976; Nancy Chodorow, The Reproduction of Mothering, Berkeley, University of California Press, 1978.
[9] Nancy Chodorow, ibidem, p. 4.
[10] Ibid., p. 241.
[11] Jack Balswick, The Inexpressive Male, Lexington, Heath, 1988, p. 197.
[12] Lilian Rubin, Intimate Strangers, London, Fontana, 1985.
[13] Jack Balswick, op. cit., p. 197.
[14] Victor Seidler, «Fear and intimacy», in Andy Metcalf, Martin Humphries (eds.), The Sexuality of Men, London, Pluto, 1985, p. 159.
[15] David Lisak, Sexual aggression, masculinity and fathers, «Signs», 16, 1991, p. 256-257.
[16] Tony Eardley, «Violence and sexuality», in Andy Metcalf, Martin Humphries (eds.), op. cit., p. 103.
[17] Ibidem.
[18] Ibid., p. 105-107.
[19] Brian Easlea, Fathering the Unthinkable: Masculinity, Scientists and the Nuclear Arms Race, London, Pluto, 1983, p. 11.
[20] Jack Balswick, op. cit., p. 192.
[21] Ibidem.
[22] Nancy Chodorow, op. cit., p. 190.
[23] Sandra Harding, «What is the real material base of patriarchy and capital?», in Lydia Sargent (ed.), The Unhappy Marriage of Marxism and Feminism, London, Pluto, 1981, p. 138.
[24] Ibidem, p. 154.
[25] Ibid., p. 153.
[26] Nancy Chodorow, op. cit., p. 169.
[27] Robert W. Connell, Gender and Power, Sydney, Allen and Unwin, 1987, p. 167; Tim Carrigan, Robert W. Connell, John Lee, Toward a new sociology of masculinity, «Theory and Society», 14, 1985, p. 583.
[28] Pauline Bart, «Review of Chodorow’s The Reproduction of Mothering», in Joyce Trebilcot (ed.), Mothering: Essays in Feminist Theory, New Jersey, Rowman & Allanheld, 1984, p. 150.
[29] Robert W. Connell, op. cit., p. 170.
[30] Eleanor Emmons Maccoby, Carol Nagy Jacklin, The Psychology of Sex Differences, Stanford, Stanford University Press, 1975; cfr. anche Marshall M. Haith, Joseph J. Campos (eds.), Infancy and Developmental Psychobiology, Handbook of Child Psychology, vol. 2, New York, Wiley, 1983, p. 878.
[31] Travaux de Ross D. Parke et al., cit. in ibidem, p. 878.
[32] Martin Greenberg, Norman Morris, Engrossment: The newborn’s impact upon the father, «American Journal of Orthopsychiatry», 44, 1974, p. 529-531.
[33] Cfr. per esempio Sara Arber, Nigel Gilbert, Men: The forgotten carers, «Sociology», 23, 1989, pp. 111-118; Carolyn F. Grbich, Primary caregiver fathers – A role study: Some preliminary findings, «Australian Journal of Sex, Marriage & Family», 8, 1987, pp. 17-26; Graeme Russell, «Primary caretaking and role-sharing fathers», in Michael E. Lamb (ed.), The Father’s Role : Applied Perspectives, New York, Wiley, 1986, p. 29-57.
[34] Nancy Chodorow, op. cit., p. 215.
[35] Robert M. Jackson, The reproduction of parenting, «American Sociological Review», 54, 1989, pp. 215-232. L’analisi di Jackson è un esempio raro in sociologia di argomento matematico convincente. Jackson ha costruito modelli matematici della teoria della riproduzione di Chodorow che mostrano che la trasmissione di attitudini accudenti ai ragazzi, anche in piccole quantità, condurrebbe in ultima analisi alla trasmissione di attitudini accudenti in tutta la popolazione maschile.
[36] Hilary Graham, Caring for the Family, London, Health Education Council, 1986.
[37] Valerie Walkerdine, Helen Lucey, Democracy in the Kitchen: Regulating Mothers and Socializing Daughters, London, Virago, 1989, p. 152.
[38] Jacqueline Rose, «Femininity and its discontents,» in Feminist Review, Sexuality: A Reader, London, Virago, 1987, p. 184.
[39] L. Loach, A clear conscience, «New Statesman and Society», 10, 1989, p. 15; Michael Bittman, Frances Lovejoy, Domestic Power: Negotiating an Unequal Division of Labour within a Framework of Equality, Annual Conference of The Australian Sociological Association at Murdoch University, Perth, december 1991.
[40] Michael Bittman, Juggling Time: How Australian Families Use their Time, Office of the Status of Women, Dept. of the Prime Minister and Cabinet, Canberra, 1991.
[41] Lynne Segal, Slow Motion: Changing Masculinities, Changing Men, London, Virago, 1990, p. 58.
[42] Chiara Saraceno, «Division of family labour and gender identity », in Anne Showstack Sassoon (ed.), Women and the State, London, Hutchinson, 1987, p. 202.
[43] Theodore F. Cohen, Remaking men: Men’s experiences becoming and being husbands and fathers, «Journal of Family Issues», 8, 1987, p. 69; Lilian Rubin, op. cit., p. 129.
[44] Mike Donaldson, Laboring men: Love, sex and strife, «The Australian and New Zealand Journal of Sociology», 23, 1987, p. 179.
[45] Jessie Bernard, The Future of Marriage, New Haven, Yale University Press, 1982, p. 18.
[46] Ibidem, p. 24.
[47] Cfr. Mike Donaldson, What is hegemonic masculinity?, «Theory and Society», 22, 5, 1993, pp. 643-657.
[48] Cfr. per esempio Sally Cline, Dale Spender, Reflecting Men at Twice Their Natural Size, Glasgow, Collins, 1988; Pamela Fishman, Interaction, the work women do, «Social Problems», 25, 1978, pp. 397-406.
[49] «If men do not care “for” their families as much as do women, they certainly care “about” them»; Ann Oakley, Women’s studies in British sociology: To end at our beginning?, «The British Journal of Sociology», 40, 1989, p. 459.
[50] Dorothy Smith, The Everyday World as Problematic, Milton Keynes, Open University Press, 1987, p. 80.
[51] Christine Delphy, Close to Home: A Materialist Analysis of Women’s Oppression, trad. D. Leonard, London, Hutchinson, 1984, p. 150.
[52] Christine Delphy, A materialist feminism is possible, «Feminist Review», 4, 1979, p. 100.
[53] Iris Marion Young, Beyond the unhappy marriage: A Critique of the dual systems theory, in Lydia Sargent (ed.), op. cit. , p. 52.
[54] Heidi Hartmann, «The unhappy marriage of Marxism and feminism: Towards a more progressive union», in ibidem, p. 16.
[55] Ibidem.
[56] Cfr. per esempio Sally Cline, Dale Spender, Reflecting Men at Twice Their Natural Size, cit.; Nicky James, Emotional labour: Skill and work in the social regulation of feelings, «The Sociological Review», 37, 1989, pp. 16-42.
[57] Ann Ferguson, «On conceiving motherhood and sexuality: A feminist materialist approach», in Joyce Trebilcot (ed.), op. cit., p. 158.
[58] Anna G. Jonasdottir, Sex/gender, power and politics: Towards a theory of the foundations of male authority in the formally equal society, «Acta Sociologica», 31, 1988, p. 165-167.
[59] Ibidem.
[60] Mary O’Brien parla dei bambini, ma non degli uomini, come «della forza lavoro femminile riproduttiva congelata»: Mary O’Brien, The Politics of Reproduction, Boston, Routledge and Kegan Paul, 1981, p. 42.
[61] Chiara Sarceno, op. cit., p. 195.
[62] Christine Delphy, Close to Home: A Materialist Analysis of Women’s Oppression, cit., p. 20.
[63] Michele Barrett, Mary McIntosh, Christine Delphy: Towards a materialist feminism?, «Feminist Review», 1, 1979, p. 102; Bonnie J. Fox formula una critica simile in Conceptualizing “patriarchy”, «Canadian Review of Sociology and Anthropology», 25, 1988, p. 167.
[64] Christine Delphy, «A materialist feminism is possible», cit., p. 93.
[65] Robert W. Connell, Gender and Power, cit., p. 105.
[66] James Ptacek, «Why do men batter their wives?», in Kersti Yllo, Michele Bograd (eds.), Feminist Perspectives on Wife Abuse, Newbury Park, Sage, 1988, p. 147; cfr. anche Sally Cline, Dale Spender, Reflecting Men at Twice Their Natural Size, cit., chap. VIII.
[67] Jessica Benjamin, The Bonds of Love, London, Virago, 1988, p. 172.
[68] Wendy Hollway, «Gender difference and the production of subjectivity», in Julian Henriques et al. (eds.), Changing the Subject, London, Methuen, 1984, p. 239.
[69] Bonnie J. Fox, op. cit., p. 168.
[70] Ibidem, p. 170.
[71] Christine Delphy, Close to Home: A Materialist Analysis of Women’s Oppression, cit., p. 134.
[72] Iris Marion Young, «Is male gender identity the cause of male domination?», in Joyce Trebilcot (ed.), Mothering: Essays in Feminist Theory, cit., p. 138-139.
[73] Juliet Mitchell, Psychoanalysis and Feminism, London, Penguin, 1974.
[74] Elizabeth Grosz, Jacques Lacan: A feminist introduction, Sydney, Allen and Unwin, 1990, p. 22.
[75] Ibidem.
[76] Iris Marion Young, «Is male gender identity the cause of male domination?», cit., p. 140.
[77] Robert W. Connell, Gender and Power, cit.; Jeff Hearn, The Gender of Oppression: Men, Masculinity and the Critique of Marxism, Brighton, Wheatsheaf, 1987.
[78] William J. Goode, «Why men resist», in Barrie Thorne, Marilyn Yalom (eds.), Rethinking the Family, New York, Longman, 1982, p. 137.
[79] Barbara Ehrenreich, The Hearts of Men, New York, Doubleday, 1983, p. 125.
[80] Chris Henshall, Jacqueline McGuire, «Gender development», in Martin Richards, Paul Light (eds.), Children and Social Worlds: Development in a Social Context, Cambridge, Polity, 1986, p. 158.
[81] Arthur Brittan, Masculinity and Power, Oxford, Blackwell Publishers, 1989, p. 195. Cfr. anche l’analisi simile di Pauline Bart, «Review of Chodorow’s The Reproduction of Mothering », cit., p. 152.
[82] Un esempio eccellente è Heather Formaini, Men: The Darker Continent, London, Heinemann, 1990.
[83] Richard Haddad, «Men must break the female monopoly over child-rearing », in Francis Baumli (ed.), Men Freeing Men: Exploding the Myth of the Traditional Male, Jersey City, New Atlantis, 1985, p. 153.
[84] Victor Seidler, «Fear and intimacy », cit., p. 174.
[85] Barry Gordon, Richard L. Meth, «Men as husbands», in Richard L. Meth, Robert S. Pasick (eds.), Men in Therapy, New York, Guilford, 1990, p. 64.
[86] Tim Ryan, «Roots of masculinity», in Andy Metcalf, Martin Humphries, The Sexuality of Men, cit., p. 26.
[87] Jennifer Somerville, The sexuality of men and the sociology of gender, «The Sociological Review», 37, 1989, p. 300.
[88] Don Edgar, Helen Glezer, A man’s place… ? Reconstructing family reality, «Family Matters», 31, 1992, p. 39.
[89] Iris Marion Young, «Is male gender identity the cause of male domination?», cit., p. 143.
[90] Robert W. Connell, Gender and Power, cit., p. 220.
[91] Michael S. Kimmel, Introduction: Towards men’s studies, «American Behavioural Scientist», n° 29, 1986, p. 517-518.
[92] Cfr. Robert W. Connell, Editors’ introduction: Masculinities, «Theory and Society», 22, 5, 1993, p. 595-596.
[93] Cfr. per esempio Michael S. Kimmel, «The contemporary “ crisis ” of masculinity in historical perspective », in Harry Brod (ed.), The Making of Masculinities, cit., p. 153.
[94] Michael S. Kimmel, Introduction: Towards men’s studies, cit., p. 518.
[95] Arthur Brittan, Masculinity and Power, cit., p. 3.
[96] Ibidem, p. 197.
[97] Tim Carrigan, Robert W. Connell, John Lee, Toward a new sociology of masculinity, cit., p. 592.
[98] Harry Brod, «Introduction: Themes and theses of men’s studies», cit., p. 9.