Colette Guillaumin: pensare le categorie di razza e di sesso, ieri e oggi


di Maira Abreu, Jules Falquet, Dominique Fougeyrollas-Schwebel, Camille Noûs [1]

Traduzione di Sara Garbagnoli

In occasione dell’uscita dell’edizione italiana de L’idèologie raciste. Genèse et langage actuel (1972), curato e tradotto da Sara Garbagnoli per la collana Xenos de “il nuovo melangolo” (L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, Genova, 2023), pubblichiamo la traduzione di questo ricchissimo testo sulla figura di Colette Guillaumin, a firma di Maira Abreu, Jules Falquet, Dominique Fougeyrollas-Schwebel e Camille Noûs. Augurandoci che l’ “effetto Guillaumin” si faccia sentire forte anche in Italia.

L’opera di Colette Guillaumin (1934-2017) è stata un’incessante ricerca cha ha avuto per oggetto l’identificazione, la teorizzazione e la destabilizzazione delle relazioni di potere [2]. In un contesto in cui il prisma di una lettura biologica del mondo sociale non smette di avanzare (Lemerle 2014), in cui i movimenti “anti-gender” che fanno uso di un discorso essenzialista continuano ad attrarre seguaci in numerosi paesi del mondo (Kuhar e Paternotte 2018; Garbagnoli 2020), la pionieristica critica mossa da Guillaumin alle forme di legittimazione naturalistica delle relazioni di razza e di sesso non costituisce solo un fondamentale contributo alle scienze sociali, ma si tratta di un’analisi di grande attualità. Se oggi l’idea che il “naturale” sia costruito dalla cultura si è fatta strada in alcuni campi delle scienze sociali, un tale approccio ha preso forma in un contesto e una lotta nei quali il percorso di Guillaumin è esemplare. La teorica femminista, infatti, non si contentava di partire da “realtà anatomico-fisiologiche su cui innestare addobbi quali ‘ruoli’ o ‘riti’” (2016 [1978], p. 73). Il suo obiettivo era, invece, quello di pensare ai gruppi di sesso e ai gruppi di razza come costituiti da dati rapporti di potere. Il pensiero di Guillaumin è andato elaborandosi in un contesto di fermento politico e teorico in cui molti gruppi minoritari stavano diventando soggetti visibili nella storia oltre che oggetti nella teoria (2016 [1981], 229). Come sostiene Guillaumin, mettere in discussione l’evidenza del naturalismo per pensare le relazioni di sesso è stato il prodotto di una “sintesi tra rivolta, attivismo, analisi e coscienza” (2016 [1981], p. 232). Insieme a Monique Wittig, Nicole-Claude Mathieu, Christine Delphy e Colette Capitan Peter, Guillaumin ha partecipato alla scrittura collettiva della rivista Questions féministes (1977-1980) e all’elaborazione di una teoria femminista radicale/materialista che ha lasciato un segno duraturo nel pensiero femminista francese.[3] Guillaumin ha sempre sottolineato la natura collettiva delle produzioni teoriche e l’importanza per il lavoro intellettuale di una “discussione prolungata e basata su preoccupazioni comuni e su un vocabolario condiviso” (2016 [1992], p. 6). Guillaumin ha partecipato a diversi gruppi informali e a comitati di riviste come Feminist Issues [4] o Le genre humain [5] in cui, come scrive, ha potuto “analizzare la stessa questione” che tanto le teneva a cuore.

I concetti si forgiano in specifici contesti storici, politici e teorici. Collocare le idee nel loro contesto di elaborazione permette di rompere l’illusione del senno di poi e di mostrare che esse sono state la risposta a sfide determinate, oggi sovente ignorate. I testi classici, come sono oggi quelli di Guillaumin, non rispondono alle questioni che dibattiamo nel nostro presente e sarebbe riduttivo analizzarli esclusivamente attraverso il prisma delle nostre attuali preoccupazioni. Tuttavia, se continuiamo a leggere e a pensare con e grazie a Guillaumin, è perché il suo pensiero ci fornisce strumenti per riflettere sul presente, come i buoni classici fanno. Il nostro obiettivo è proprio quello di rendere omaggio ad un pensiero vivo e attuale.

In principio era la razza

Dopo aver studiato psicologia e etnografia alla Sorbona negli anni Cinquanta [6], Colette Guillaumin entra a far parte del Groupe d’Ethnologie sociale [7]. Negli anni Sessanta, vi incontra Nicole-Claude Mathieu e Noëlle Bisseret con le quali collabora alla pubblicazione de La femme dans la société. Son image dans différents milieux sociaux (Chombart de Lauwe et al. 1963). Alla fine degli anni Sessanta inizia a pubblicare sul tema di razza e razzismo. Nel 1969 discute la sua tesi di dottorato [8] intitolata Un aspetto dell’alterità sociale: il razzismo. Genesi dell’ideologia razzista e linguaggio attuale pubblicato nel 1972 (e ripubblicato nel 2002) con il titolo Ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale.

A quell’epoca, gli studi sulla razza e sul razzismo non erano molto sviluppati in Francia. Léon Poliakov scriveva allora che “tutto era ancora da fare nel campo della storia del razzismo” (1961, p. 594). In sociologia, la situazione non era molto diversa: Andrée Michel si era principalmente basata su una bibliografia in lingua inglese per redigere il suo articolo “Tendances nouvelles de la sociologie des relations raciales” (1962). A parte i lavori di Andrée Michel, Georges Balandier, Roger Bastide e Albert Memmi, la questione del razzismo non era affrontata nel campo delle scienze sociali francesi. La situazione ha subito un grosso mutamento alla fine degli anni Sessanta con la creazione del Centre d’études des relations interethniques (Centro di studi sulle relazioni interetniche IDERIC) a Nizza [9], di gruppi informali come il Groupe d’étude d’histoire du racisme (Gruppo di studio sulla storia del razzismo) attorno a Poliakov presso la MSH (Maison des Sciences de l’Homme) e di pubblicazioni come quelle della rivista “Ethnies”. Al di là di quanto prodotto dal mondo della ricerca francese, nel suo lavoro di tesi, Guillaumin ha utilizzato la letteratura anglofona, da Franz Boas a Ruth Benedict, nonché autori anticolonialisti e antirazzisti come Frantz Fanon, Aimé Césaire, Cheikh Anta Diop, James Baldwin e Malcolm X.

Due dei principali contributi de L’ideologia razzista sono stati quelli di mostrare la storicità della categoria “razza” e di “dare una prospettiva sociologica a ciò che solitamente viene affrontato come se fosse un fenomeno biologico” (p.11). La razza era allora per lo più considerata come un “oggetto concreto che interviene come fattore scatenante l’atto razzista” (p. 10). Si pensava, pertanto, che il razzismo fosse causato dall’esistenza delle razze. Alla fine degli anni Trenta, alcuni ricercatori e ricercatrici avevano iniziato ad abbandonare l’evidenza di tale nozione e ad interrogarla. Tuttavia, tale processo non è sfociato nella messa in discussione della categoria “razza”, ma nell’apparizione di una “problematica bipolare cultura/razza” che avrebbe a lungo influenzato il campo della ricerca sulle relazioni razziali. Il lavoro di Guillaumin si inserisce in un altro filone analitico che emerge alla fine della Seconda guerra mondiale e che sposta il focus della questione sulle relazioni tra gruppi. Ciò consente un riesame della categoria di razza e “il riconoscimento del suo carattere di categoria storica e di creazione sociale transitoria” (1977, 11).

Attraverso una disamina storica, Guillaumin comprende, da un lato, che l’“alterità” che caratterizza certi gruppi è solo il riflesso di una distribuzione ineguale di potere e, dall’altro, che la particolarità del razzismo è una “biologizzazione del pensiero sociale che [tenta] con questo mezzo di rendere assoluta ogni differenza osservata o supposta” (Guillaumin 2002 [1972], p. 14). Storicamente recente, l’idea di categorizzare l’umanità in “entità anatomico-fisiologiche chiuse” si è affermata nel corso del XIX secolo in un contesto di profonde trasformazioni sociali: colonizzazione, rivoluzioni borghesi e regime schiavista. Fin dalle sue prime pubblicazioni, Guillaumin sottolinea a più riprese l’importanza di opporsi all’idea di definire il razzismo attraverso l’ostilità o la “negatività”. Il razzismo, infatti, può anche esprimersi attraverso giudizi percepiti come “positivi” (vigore sessuale, senso della famiglia, ecc.). Per Guillaumin, la base del razzismo va cercata altrove: nella naturalizzazione di dati gruppi. Guillaumin dimostra, poi, come l’invenzione dell’“idea di Natura” debba essere intesa come l’aspetto mentale di date relazioni di potere. (Non si tratta ancora del concetto di “appropriazione” che emergerà nel suo lavoro qualche anno più tardi).

Ne L’ideologia razzista, Guillaumin mette in evidenza che uno stesso trattamento è riservato alle diverse “categorie di gruppi alienati e oppressi” in nome di un marchio biologico irreversibile. Tali gruppi sono, pertanto, sono “razzizzati” (Guillaumin 2002 [1972], 17). Per lei, il marchio biologico è il criterio fondamentale della nozione di razza, anche se le categorie investite da questo marchio (ad esempio donne, persone omosessuali, persone operaie) lo sono “secondo schemi diversi” (ibid., p. 12). Pur avendo iniziato la sua analisi con le cosiddette categorie “razziali”, Guillaumin ha gradualmente riconosciuto l’esistenza di “una certa identità di trattamento verbale tra categorie il cui denominatore comune era quello di essere ‘alterizzate’”. Ciò l’ha condotta ad andare oltre le “razze nel senso ordinario del termine” e la percezione del razzismo come insieme di “relazioni ostili tra gruppi rigorosamente definiti come razziali” per includerne altre, come per esempio, le relazioni tra colonizzatori e colonizzati, tra persone straniere e nazionali, ma anche tra donne e uomini (Guillaumin, 2002 [1972], 99). Guillaumin include nel suo studio anche le persone omosessuali in un contesto storico in cui una prospettiva che oggi chiameremmo decostruttivista stava appena emergendo [10].

Estendere il concetto di razza non cancella per Guillaumin le distinzioni tra i diversi tipi di razzismo, ma si concentra piuttosto sui meccanismi comuni di naturalizzazione delle persone razzizzate. Infatti, anche se “ogni gruppo razzizzato ha le sue specificità concrete”, la teorica ritiene che “concentrarsi sulla generalità dei razzismi in una data società – e non sulla specificità di un dato razzismo – ci dia la possibilità di individuare la fonte dell’atto razzista e di definire la specificità di chi razzizza” (Guillaumin 2002 [1972], 18).

Questo approccio estensivo al razzismo non più in vigore nel campo degli studi del razzismo, costituisce un’originalità del pensiero di Guillaumin che meriterebbe maggiore attenzione. Affermare, alla fine degli anni Sessanta che i gruppi che si suppone siano naturali (donne, persone nere, persone musulmane, persone ebree, persone omosessuali) sono, in realtà, il prodotto di relazioni di dominio costituisce una vera e propria rottura epistemologica da diversi punti di vista. Una rottura con il naturalismo dominante negli studi su donne, persone nere, persone musulmane, persone ebree, persone omosessuali. L’idea che le categorizzazioni non siano il prodotto di un’esistenza biologica, ma che siano una costruzione sociale e storica e che la loro presunta evidenza serva solo a nascondere relazioni di dominio, stravolge le certezze delle teorie certamente anti-essenzialiste, ma che non spingono la loro critica fino a una rottura radicale con la concezione naturalista di questi “gruppi”. In secondo luogo, si tratta, poi, di una rottura con gli approcci che riconducono tutte le forme di dominio alle relazioni di classe, a una “sovrastruttura” o a un problema di “mentalità”. Sin dai suoi primi scritti, Guillaumin, si oppone a questo tipo di analisi. Se la razza e il sesso sono intesi come prodotti di dati rapporti sociali, questi ultimi non si riducono ai rapporti sociali di produzione. Pensare a una separazione, a livello analitico, tra relazioni di classe e relazioni razziali apre la possibilità di concepire altre forme di dominio in modo diverso, come suggerito da una recensione all’epoca della prima edizione de L’ideologia razzista:

I concetti di “classe sociale”, “lotta di classe” e “imperialismo” perdono forse qui un po’ della loro troppo spesso mantenuta opacità. E il concetto di “potere” sembra assumere un nuovo significato. Potrebbe essere il preludio di un canto diverso da quello funebre di una certa dominazione? (Moreau de Bellaing 1973, p. 206).

Insieme a Guillaumin, Moreau de Bellaing faceva parte di un gruppo si studio informale, il “Laboratoire de sociologie de la dominance” (LSD), che comprendeva anche Colette Capitan-Peter e Nicole-Claude Mathieu. Questo gruppo, esistito per circa dieci anni, focalizzava le ricerche su una problematica “interamente centrata sull’analisi dei sistemi gerarchici e di dominazione” ed era un “luogo di discussione appassionata e inventiva” (Guillaumin 1992, p. 5).

Questi nuovi approcci proposti da Guillaumin implicano nuovi concetti. Il pensiero antirazzista e femminista aveva bisogno di creare nuove parole, nuove categorie per nominare ciò che non poteva essere nominato dal linguaggio dominante. Le recensioni de L’ideologia razzista accolgono con favore questo sforzo: Poliakov associa “l’elaborazione di una tesi radicalmente nuova” a questa necessità di forgiare nuovi concetti (1973, 94). Moreau de Bellaing osserva che l’autrice ha dovuto “forgiare nuovi concetti o rinnovare quelli vecchi che rendono possibile la spiegazione: razzizzante/razzizzato, categorizzante/categorizzato, maggioritario/minoritario. Concetti che non hanno nulla di oscuro poiché il loro significato è espresso dalla dimostrazione che li mette in atto” (1973, 205). Alcuni di questi concetti, che non esistevano o erano stati precedentemente definiti in altri modi, sono poi entrati a far parte del vocabolario quotidiano delle scienze sociali. L’ideologia razzista ha avuto un impatto duraturo sulla riflessione sul razzismo. All’inizio degli anni ‘90, Véronique de Rudder ha affermato che “tutte le analisi contemporanee del razzismo fanno riferimento al lavoro di Guillaumin, e nessuna ricerca seria può farne astrazione” (1991, 78). Da allora, le ricerche sul razzismo si sono sviluppate in modo considerevole e l’opera di Guillaumin ha contribuito certamente a questo ampliamento della ricerca.

La creazione della teoria del sessaggio

Natura-l-mente [11]

Negli anni Cinquanta e Sessanta, sulla scia di Simone de Beauvoir, una generazione di intellettuali e teoriche scrive sulla “questione” o sulla “condizione” delle donne (Chaperon 2001). Un po’ più giovane delle donne di questa generazione, Guillaumin discute la sua tesi di dottorato prima dell’emergere della cosiddetta “seconda ondata” del femminismo. Ne L’ideologia razzista, i suoi riferimenti femministi erano Andrée Michel, Simone de Beauvoir, Evelyne Sullerot, Betty Friedan e Ruth Benedict. Si trattava di un periodo storico caratterizzato dall’emergere di approcci antinaturalisti alle categorie di sesso e razza. Si cercava, infatti, di dissociare biologia e cultura, di allontanarsi da un nesso obbligato tra sesso biologico e “femminilità”. Tuttavia, come ha scritto Nicole-Claude Mathieu all’inizio degli anni Settanta, rispetto alla categoria di sesso nelle ricerche sociologiche permaneva un’ambiguità, dato che sociologia e biologia non venivano disgiunte completamente: “i sessi come prodotto sociale di dati rapporti sociali non erano – cioè – oggetto di riflessione” (Mathieu 1973, p. 101). Sebbene molti lavori pubblicati nel corso degli anni Sessanta si basassero sull’idea che “non si nasceva donna, lo si diventava”, e che non esisteva una corrispondenza obbligatoria tra sesso biologico e “sesso sociale” o genere, il sesso continuava a essere inteso come un dato di natura. La rivista Questions féministes rompe con questo approccio. Estendendo la critica del femminismo rivoluzionario, l’approccio difeso dal collettivo considerava “uomini” e “donne” come delle categorie storicamente costruite, la cui eliminazione sarebbe stata possibile distruggendo il sistema che le costituiva:

donne = classe sociologicamente definita in (da) un rapporto materiale e storico di oppressione, ma la cui oppressione è a sua volta ideologicamente legata dal gruppo dominante a una cosiddetta determinazione biologica della classe oppressa (determinazione biologica che riguarda solo quest’ultima) (QF 1977, p.16).

Delphy, Mathieu, Capitan Peter, Plaza, Lesseps, Hennequin e Wittig hanno elaborato questa critica pionieristica al concetto di sesso, che costituisce una svolta nel pensiero femminista. Guillaumin vi ha dato un contributo importante, basandosi sul suo lavoro sulle persone razzizzate e sull’idea di natura applicata ai gruppi sfruttati.

Tra il   1975 e il 1976, Guillaumin partecipa al gruppo “Categorie di sesso e categorie di classe/Economic Relations in Domestic Groups” [12], che riunisce alcune teoriche che costituiranno la base di Questions féministes e varie femministe inglesi (alcune delle quali partecipano al dibattito sul “lavoro domestico”). Guillaumin vi presenta una prima versione del suo testo “Pratica del potere e idea di natura”.

Questo gruppo è stato creato nel 1975 ed è collegato, da parte francese, alla Maison des Sciences de l’Homme e, da parte inglese, al Social Science Research Council (Londra). È composto da ricercatrici inglesi e francesi come Diana Barker [Leonard], Leonore Davidoff, Jalna Hanmer, Jean Gardiner, Hilary Land, Maxine Molyneux, Jane Shaw e Anne Whitehead per la parte inglese; Noëlle Bisseret, Colette Capitan-Peter, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Emmanuelle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e Ursula Streckeisen per la parte francese.

La creazione della rivista Questions féministes, nel 1977, è stata una risposta a un contesto particolare. La stampa femminista viveva, soprattutto a partire dal 1974, una fase di grande effervescenza. Tuttavia, i giornali femministi avevano la tendenza a pubblicare testi brevi [13]: “spesso rifiutati, i testi più lunghi erano accettati solo da alcune riviste come Les temps modernes” (Delphy s.d., p. 1). Questions féministes nasce, così, per rispondere a questa necessità di uno spazio di discussione teorica. Ma non uno spazio qualsiasi: in quanto “rivista teorica femminista radicale”, QF è ancorata a una prospettiva che si oppone tanto agli approcci femministi essenzialisti/differenzialisti che alla corrente femminista cosiddetta “lotta di classe”.

Il concetto di sessaggio

Uno degli elementi chiave dell’analisi femminista degli anni ‘60 e ’70, tanto negli scritti militanti che nella ricerca teorica, era l’affermazione che i rapporti tra i sessi sono politici. Il primo atto del paradigma teorico delle femministe radicali è la definizione delle donne come una casta, come una classe. Non è il sesso biologico o la maternità – come invece sosteneva Shulamith Firestone (1972 [1970]) – a fondare le classi di sesso, né la sessualità – come riteneva Kate Millet (1971 [1970]) -, ma una relazione di appropriazione che Guillaumin aveva definito “sessaggio” (2016 [1978]). Guillaumin estende la proposta femminista dominante dell’epoca secondo la quale il lavoro gratuito delle donne in seno alla famiglia costituisce la base dell’oppressione e dello sfruttamento delle donne (Dupont [Delphy] 1970; Collettivo italiano 1976). Guillaumin dimostra, infatti, che “il matrimonio è solo la superficie istituzionale (contrattuale) di una relazione generalizzata: l’appropriazione di una classe sessuale da parte dell’altra. Una relazione che riguarda entrambe le classi nel loro insieme e non una parte di ciascuna di esse come potrebbe suggerire la considerazione del solo contratto matrimoniale”. Ma il matrimonio, in quanto forma privata di appropriazione, contraddice l’appropriazione collettiva. “Se [il matrimonio] esprime e limita il sessaggio, restringendo l’uso collettivo di una donna e passando questo uso a un solo individuo, esso priva allo stesso tempo gli altri individui della sua classe dell’uso di questa determinata donna.” (Guillaumin 2016 [1978], pp. 38-43).

Il rapporto di sessaggio si riferisce all’appropriazione delle donne, del loro corpo, del loro lavoro e dei frutti del loro lavoro, un rapporto sociale che implica il mantenimento fisico, emotivo e intellettuale degli esseri umani. Tale mantenimento è effettuato al di fuori dell’economia salariale, in famiglia e/o in altre istituzioni. Diversi mezzi assicurano il mantenimento dell’appropriazione di classe delle donne da parte degli uomini: il mercato del lavoro, dove il salario delle donne rimane inferiore a quello degli uomini, il confinamento spaziale, la dimostrazione di forza da parte degli uomini (percosse), la coercizione sessuale, l’arsenale giuridico e il diritto consuetudinario (Guillaumin 2016 [1978]: 38-43).

Nella teoria del sessaggio, non è solo la forza lavoro delle donne a essere accaparrata, ma la sua origine, il corpo delle donne come serbatoio di forza lavoro (2016 [1978], p.19). Guillaumin è particolarmente attenta alla dimensione ideologica dell’oppressione delle donne: il rapporto materiale di appropriazione e l’effetto ideologico sono pensati come due facce dello stesso fenomeno, l’effetto ideologico (o “lato ideologico-discorsivo” o “discorso della natura”) ne costituisce la sua “forma mentale” (2016 [1978], Parte II: Il discorso della natura). L’autrice mostra così “che i concetti non sono distinguibili dalle relazioni sociali: sono essi stessi una relazione sociale. Non che concetti, idee e teorie siano ‘riflessi’ – considerarli in questo modo non significherebbe altro che lasciare irrisolto il problema dell’origine dei fenomeni mentali dell’“ideologiaˮ. Piuttosto, sono la dimensione mentale di relazioni concrete” (2016 [1981], pp. 216-217, corsivo nel testo) [14]. In questa prospettiva, le analisi di Guillaumin pongono un forte accento, sia empirico che teorico, sulla dimensione corporea che riguarda le pratiche sociali. In numerosi passaggi Guillaumin descrive e analizza approfonditamente il modo di muoversi delle donne nello spazio, sottolineando il ruolo del linguaggio e delle modalità di apprendimento differenziate tra uomini e donne (giochi, atteggiamenti, abbigliamento, ecc.) (Guillaumin, 2016 [1978 e 1992]).

Inoltre, lavorando molto precisamente sul significato del linguaggio, Guillaumin mette in guardia dall’utilizzare il termine “patriarcato” in un senso molto generale, facendone un equivalente di qualsiasi forma di dominio maschile e insiste sul suo contenuto storico ed etnologico (1979). Così, la definizione delle classi di sesso come classi antagoniste non è coestensiva a quella di patriarcato: “la nozione di patriarcato designa una modalità particolare, una variante storicamente e geograficamente delimitata del dominio maschile.” (2017 [1998]). Questa distinzione tra l’identificazione di un rapporto sociale di dominio tra i sessi e le varie modalità che questa relazione assume, è ben lungi dall’essere presa in considerazione dalle critiche più comuni alla teoria del sessaggio tacciata di essere un approccio non storico alle relazioni tra i sessi.

Ricezione della teoria del sessaggio

Tra le prime ad aver criticato la nozione di sessaggio figura la sociologa Irène Théry che in un articolo pubblicato sulla Revue d’en face (1981) [15]. si oppone alla concettualizzazione in termini di “classe di sesso”. L’uso per i rapporti tra i sessi della categoria marxiana di classe viene denunciato come “riduzionismo economicistico”. Per Théry, la teoria femminista materialista non sarebbe in grado di rendere conto delle varie contraddizioni nelle relazioni tra uomini e donne e ridurrebbe l’analisi della sessualità e della procreazione a meri rapporti di produzione. La confutazione dell’antagonismo tra i sessi è uno dei nodi centrali della controversia. Théry rifiuta, poi, di tracciare un parallelismo tra donne sposate e prostituzione come, invece, fa un’analisi della sessualità come uso fisico del corpo delle donne da parte degli uomini. Appaiono già da allora in filigrana le fratture, più o meno profonde, che dividono i diversi movimenti femministi rispetto all’analisi della prostituzione.

Negli anni Settanta e Ottanta, emerge all’interno delle teorie femministe un’altra critica, riguardante ora la natura dei legami tra produzione domestica e produzione capitalistica, l’articolazione del sistema patriarcale e del sistema capitalistico. Questi dibattiti, con toni più o meno accademici, sono stati cruciali per definire strategie o alleanze in seno ai movimenti femministi e hanno all’epoca dato origine a diverse pubblicazioni [16]. Nell’ambito degli studi femministi, gli anni ‘80 hanno visto le prime forme di istituzionalizzazione della ricerca femminista e sulle donne. La creazione in Francia della rete APRE (Atelier/Produzione/Riproduzione) presso il CNRS rispondeva a un desiderio di scambio, di confronto teorico e metodologico [17]. Tuttavia, l’emergere di uno sforzo collettivo mirante a consolidare una concettualizzazione dei rapporti tra i sessi non cancella la grande diversità di approcci presenti. Tra questi, una serie di analisi cerca di prendere le distanze da approcci che privilegiano la relazione di classe tra i sessi rispetto ad altre relazioni sociali, in particolare quelle di classe socio-economica. In tale ottica, le relazioni di sesso non sono un sistema, non sono autonome, ma sono sempre articolate con altre relazioni sociali – di classe, di generazione. Si esprimono nell’intero spazio sociale, nel lavoro, nell’occupazione, nella scuola, nella famiglia, nello Stato e nelle politiche sociali. La promozione del termine “rapporti sociali di sesso” si impone progressivamente in Francia al fine di prendere le distanze dalle analisi in termini di “classi di sesso” (Battagliola et al. 1986; Tahon 2004; Haicault 2000).

In Québec, tuttavia, due sociologhe, Danielle Juteau e Nicole Laurin, hanno usato le analisi di Colette Guillaumin per portare alla luce le trasformazioni in corso del sistema salariale. Secondo loro, non si tratta tanto di vedere una contraddizione tra sessaggio e rapporto salariale, quanto di cogliere una trasformazione del sistema di sessaggio attraverso una generalizzazione delle forme di appropriazione collettiva da parte delle istituzioni statali e capitalistiche. Basandosi sull’ipotesi che l’appropriazione collettiva avvenga nel contesto di particolari relazioni interindividuali tra uomini e donne oltre che nel contesto di relazioni istituzionali generali, le due sociologhe leggono le differenziazioni e le discriminazioni che si manifestano nell’occupazione femminile come espressione della relazione di classe del sesso nell’ambito del lavoro salariato. Le trasformazioni contemporanee del lavoro salariato sarebbero proprio un’espressione dell’appropriazione collettiva, sottolineando, così, l’importanza delle forze patriarcali che si esercitano in seno al mercato del lavoro (Juteau e Laurin 1988). Questo lavoro, nato da un testo discusso al convegno internazionale APRE (appena citato in nota), stabilisce i legami tra l’analisi di Guillaumin e le ricerche sull’articolazione tra relazioni sociali di sesso, classe, generazione ed etnia.

Possiamo, così, affermare che, salvo rare eccezioni, il concetto di sessaggio è poco discusso dagli studi femministi in questo momento: parlare di classe di sesso e designare tanto fortemente la dipendenza delle donne dagli uomini pensandola sotto forma di appropriazione e di riduzione allo stato di cose resta senza alcun dubbio un tabù (Guillaumin 1979) [18]. L’articolo “Donne e teorie della società: osservazioni sugli effetti teorici della collera delle oppresse” (2016 [1981]), pubblicato da Guillaumin sulla rivista quebecchese Sociologie et sociétés, è stato letto e studiato in Francia solo nella seconda metà degli anni Novanta. Negli anni ‘80 e ‘90, Colette Guillaumin ha pubblicato regolarmente su alcune riviste: Le genre humain, Pluriel, L’homme et la société, Sexe et race, Discours et formes d’exclusion au XIXe et XXe siècle [19]. È stato soprattutto il suo lavoro sul razzismo ad essere studiato nelle università francesi nell’ambito degli studi delle relazioni interetniche (in particolare nel laboratorio URMIS – Unità di ricerca sulle migrazioni – dell’Università di Nizza e dell’Università di Parigi Diderot) [20].

Ripubblicazione e riscoperta

A partire dagli anni ‘90, si è diffuso in Francia l’uso del concetto di genere attraverso soprattutto saggi in lingua inglese e, in particolare, a seguito della pubblicazione, da un lato, dell’articolo di Joan Scott “Il genere come utile categoria di analisi storica” che ha toccato un vasto pubblico (Scott, 1988 [1986]) e, dall’altro, del lavoro di Judith Butler (2005 [1990]). Il movimento femminista francese conosce in quel momento un momento di nuovo vigore che trova la sua espressione nella grande manifestazione del 25 novembre 1995 organizzata sfruttando lo slancio politico che veniva da un massiccio sciopero e a seguito dell’effetto prodotto dalla Conferenza mondiale sulle donne organizzata quell’anno dalle Nazioni Unite a Pechino che ha spinto il femminismo verso prospettive più istituzionali, prime fra tutte quelle di una “parità” definita in termini essenzialisti e quella di una concezione della nozione di genere dettata da canoni onussiani [21]. La pubblicazione nel 1991 di una raccolta di saggi e articoli di Nicole-Claude Mathieu (2013 [1991]) e poi, nel 1992, di testi di Guillaumin (2016 [1992]) con il sostegno dell’ANEF (Associazione Nazionale di Studi Femministi, appena creata nel 1989) si sono rivelate fondamentali per rendere questi testi femministi accessibili alle nuove generazioni, in un momento in cui gli insegnamenti su donne, sesso e genere erano in fase di grande rinnovamento [22]. Nel 1995, una selezione di articoli di Guillaumin preceduti da un’importante prefazione di Danielle Juteau è stata pubblicata in inglese dalla celebre casa editrice Routledge, mostrando l’ampiezza del lavoro della teorica e la sua trasversalità rispetto agli ambiti femministi e a quelli delle relazioni interetniche. Se dagli anni Ottanta gli articoli pubblicati in Questions féministes sono stati pubblicati anche in inglese sulla rivista Feminist Issues, la loro riedizione per un pubblico più ampio è stata importante: proprio in quest’ottica, Danièlle Juteau scrive il suo rilevante saggio introduttivo che ricostituisce con grande rigore i diversi contesti storici e politici in cui i testi di Guillaumin sono stati scritti.

È stato soprattutto all’inizio degli anni 2000, quando i virulenti dibattiti sulla questione dei simboli religiosi nelle scuole pubbliche stavano attraversando la società francese e il movimento femminista dell’epoca, che il lavoro di Guillaumin ha ricevuto una nuova attenzione da parte degli studi femministi in Francia. In università, le analisi che usano il concetto di genere si sono andate progressivamente sviluppando toccando uno spettro disciplinare più ampio e beneficiando di un sostegno istituzionale rafforzato (Fougeyrollas-Schwebel et al. 2003). In un tale contesto, una nuova generazione di ricercatrici e ricercatori comincia ad occuparsi di oggetti di ricerca riguardanti le questioni di genere. Si dibatte, conseguentemente, dell’esistenza di una nuova e “terza ondata” di femminismo (Lamoureux 2006). In concomitanza, si moltiplicano le analisi sull’articolazione tra dominazioni sessiste e razziste che suscitano la traduzione in francese di testi del black feminism [23]. Allo stesso tempo, l’associazione studentesca femminista EFIGIES, creata nel 2003, organizza nel maggio del 2005 le sue prime giornate di studio dedicare al tema “Il genere all’intersezione di altre relazioni di potere”. Questa iniziativa, che si iscrive in continuità col lavoro di Colette Guillaumin e vuole esserne un omaggio, rappresenta per molte studiose, ricercatrici e studentesse, il primo incontro con le sue pubblicazioni.

Letture contemporanee di Guillaumin

Oggi, quindici anni dopo, la società francese è cambiata dal 2005. La presenza e la visibilità delle persone provenienti da migrazioni post-coloniali sono aumentate e il razzismo e l’islamofobia sono diventati sempre più virulenti. Gli studi sul genere e sulla sessualità hanno progressivamente guadagnato molta legittimità, ma sono ormai parte di un’università neoliberalizzata in cui la competizione e la pressione a distinguersi attraverso la produzione accademica sono sempre più esacerbate. Il paradigma dell’intersezionalità si è notevolmente sviluppato sia in ambito accademico che in ambito militante (Dorlin 2005; Palomares e Testenoire 2010; Davis, 2015). L’intersezionalità è diventata una nozione aperta e flessibile nei suoi significati e nei suoi usi al punto che il suo senso può essere vago e essere ormai impiegata da un considerevole numero di attori sociali. Questo fenomeno è stato definito e studiato da alcune ricercatrici femministe come una sua forma di “sbiancamento” (Bilge 2015) e i suoi usi possono esorbitare il campo delle stesse persone razzizzate (Aït Ben Lmadani e Moujoud 2012). Oggi l’intersezionalità è diventata lo strumento e il sinonimo della volontà di articolare razza e sesso, strumento usato per de-invisibilizzare razzismo, persone razzizzate e, soprattutto, donne razzizzate. Per questo motivo, anche quando lascia in ombra le questioni di classe (e in particolare l’analisi del modo di produzione capitalista) [24], il paradigma intersezionale appare comunque utile, dal momento che il femminismo francese soffre di un notevole ritardo nell’ambito delle questioni di razza e razzismo. Contemporaneamente, le prospettive queer e più recentemente trans*, nella loro grande varietà (comprese le analisi queer e trans di colore) hanno acquisito un peso di rilievo nell’attivismo e nell’università. Esse mirano a mettere in discussione il binarismo quanto mai riduttivo “dei generi” e la naturalità del sesso. Infine, le prospettive decoloniali latinoamericane e caraibiche, tradotte in francese ancora più recentemente, affermano che il genere stesso sarebbe un’imposizione coloniale che ha dicotomizzato – su un modello occidentale – società molto più complesse (Lugones 2019 [2008]). Le tante novità di questo contesto ci portano, ora, a fornire elementi per chiarire ciò che, leggendo Guillaumin, può oggi apparire talvolta problematico. Cercheremo, così, di dissipare aspettative anacronistiche e alcune forme di fraintendimento storico [25], per meglio evidenziare le specificità della sua opera e il suo interesse attuale.

Sulla “classe delle donne” e l’“analogia” tra sesso e razza

In passato criticato per riaffermare la preminenza delle classi sociali, il concetto guillauminiano di “classi di sesso” è ora criticato perché sarebbe omogeneizzante e binario. La prima critica (l’omogeneizzazione) è riferita alle differenze o, meglio, agli antagonismi legati alla razza. Eppure, nelle sue analisi Guillaumin non omogeneizza mai le donne, né ignora la diversità delle loro situazioni che derivano, in particolare, dall’appartenenza a vari gruppi razziali, come ha ben analizzato Juteau (2010; 2015). Un testo del 1977 mostra che Guillaumin coglie finemente gli “effetti incrociati” del sesso e delle diverse posizioni di razza in relazione all’attività-lavoro. Analizziamo il seguente estratto:

Nel 1977 in Francia, ad esempio, se ci si trova di fronte a una donna, ci si trova sicuramente di fronte a una persona che svolge un lavoro domestico gratuito, e probabilmente anche a una persona non retribuita, o talvolta retribuita, che pulisce fisicamente i bambini e le persone anziane, in famiglia o in strutture pubbliche e private, ed è molto probabile che ci si trovi di fronte a una di quelle persone che lavorano pagate al salario minimo (se non meno), che sono donne (Guillaumin 2016 [1977], pp. 180-181).

Aggiunge:

Nel 1977, in Francia, se vi trovate di fronte a un uomo “di origine mediterranea” – e non uso volutamente un termine nazionale, perché la nazionalità non c’entra, mentre la regione del mondo è determinata… – è probabile che vi troviate di fronte a uno di questi lavoratori con un tipo di contratto specifico o addirittura a un lavoratore che può non averne affatto e, forse, nemmeno un permesso di soggiorno, qualcuno che lavora più ore degli altri lavoratori, e questo nell’edilizia, nelle miniere o nell’industria pesante. Nel 1977, se ci si trova di fronte a un uomo o a una donna afroamericani, è probabile che ci si trovi di fronte a qualcuno impiegato nel settore terziario, soprattutto nell’ambito dei servizi: ospedali, trasporti, comunicazioni, a qualcuno impiegato nel servizio pubblico (Guillaumin 2016 [1977], pp. 181-182).

E a seguire:

Nel 1977 in Francia, se ci si trova di fronte a una donna “di origine mediterranea”, è probabile che ci si trovi di fronte a una persona che lavora anch’essa nei servizi, ma non nel settore pubblico, nel settore privato questa volta, individualizzato (un datore di lavoro individuale) o collettivo (un’azienda): donna delle pulizie, badante, sguattera, etc.Che ci si trovi di fronte a una persona che svolge lavoro domestico extra-familiare (come donna “di origine mediterranea”) per un salario subalterno e lavoro domestico familiare (come donna) gratuitamente, etc. (Guillaumin 2016 [1977], pp. 181-182).

Questa citazione, molto densa, ricorda la successiva, e molto approfondita, analisi di Evelyn Nakano Glenn (1992) sulla distribuzione delle posizioni occupazionali per razza e sesso negli Stati Uniti. Guillaumin, certamente, non affronta direttamente la conflittualità intracategoriale all’interno delle classi di sesso. Ne è ben consapevole, ma la colloca principalmente nel contesto delle “opposizioni politiche” (torneremo sulla questione). Notiamo già che, a livello politico, Guillaumin ha partecipato attivamente a diversi conflitti all’interno del movimento femminista, posizionandosi in particolare contro l’essenzialismo espresso dal gruppo “Psicoanalisi e politica”. Sul piano teorico, ricordiamo che le canoniche analisi marxiste di classe non impediscono in alcun modo di cogliere il conflitto che attraversa le diverse frazioni di classe. Altrimenti Gramsci non avrebbe mai potuto teorizzare l’egemonia. Pertanto, pensare con Guillaumin che esista una classe di donne non obbliga a omogeneizzarla, né a negare le opposizioni di interessi al suo interno come hanno sostenuto Moujoud e Falquet (2010) in una loro ricerca sulle lavoratrici domestiche e sui loro datori di lavoro.

La seconda critica contemporanea mossa al pensiero di Guillaumin riguarda l’eventualità che pensare in termini di classi di sesso produca un problematico “binarismo” che rischierebbe di avallare l’idea naturalista secondo cui le disuguaglianze di sesso siano in ultima analisi il risultato di un dimorfismo sessuale, ignorando, così, o condannando la molteplicità dei corpi e le diverse espressioni di genere. Una simile critica nasce, tuttavia, da un fraintendimento rispetto alla definizione di “rapporti sociali” che si collocano a un livello di analisi diverso dalle relazioni sociali, confondendone gli effetti e la logica. Il binarismo è, infatti, il “risultato” dell’antagonismo (che implica la creazione di “differenti-altri-inferiori”), antagonismo a sua volta creato dal rapporto sociale di appropriazione (causa). Per questo, la lotta deve mirare all’abolizione dei rapporti sociali di potere (che sono problematici in sé e tendono effettivamente a omogeneizzare il gruppo minoritario) e non a produrre o coltivare la molteplicità all’interno delle diverse classi di sesso, una molteplicità empirica che è molto reale, ma che di per sé non pone fine al sistema. Lo spiega bene Wittig (2001 [1980]) che, in questo, si rifà esplicitamente a Guillaumin per dire che l’esistenza del lesbismo (e non dell’omosessualità femminile) come “luogo terzo” (al di là del maschile e del femminile, al di là degli uomini e alle donne) dimostra la falsità dell’ideologia binaria dominante. Tuttavia, per Wittig, come per Guillaumin, non si tratta di riferirsi al costituirsi delle lesbiche come gruppo identitario con l’unico scopo di condurre una vita separata o di sovvertire le mere (etero)norme, ma piuttosto del loro attaccare con tutte le loro forze e “collettivamente” l’ideologia della differenza sessuale (il “pensiero straight”), aspetto mentale di una “formazione sociale” basata sui rapporti di sessaggio.

Un terzo tema che interroga il lavoro di Guillaumin è quello dell’analogia tra sesso e razza. Analogia è un termine che pone una vera e propria difficoltà semantica poiché può significare “parentela, somiglianza” e consentire paragoni pedagogici ed euristici, ma anche essere connotato in senso peggiorativo se si riferisce a correlazioni affrettate o inoperanti, quando non false. Nell’ambito delle relazioni di razza, la questione è scottante viste le analogie così spesso fatte negli Stati Uniti, prima nel XIX secolo, tra schiavitù e matrimonio e poi, una volta ottenuta l’abolizione, tra razzismo e sessismo, e considerate le potenti critiche delle donne e femministe nere americane contro queste analogie. In particolare, tali militanti hanno sottolineato l’ingenuità di tali analogie di fronte alle terribili realtà vissute dalle persone schiave e si sono rammaricate del fatto che esse abbiano portato all’usurpazione della legittimità delle lotte abolizioniste e antirazziste a favore delle lotte di donne maggioritariamente bianche, impedendo di pensare in modo accurato una di queste realtà, quando non entrambe. Soprattutto, a partire dalla famosa frase attribuita a Sojourner Truth (1851), le femministe nere americane hanno sottolineato la difficoltà di pensare attraverso il prisma dell’analogia alla situazione di persone che sono razzializzate e femminilizzate come ci ricordano Bentouhami e Guénif (2018). Il malessere permane da allora, anche se non possiamo applicare meccanicamente le critiche delle femministe nere americane ai movimenti sociali francesi e alle tradizioni teoriche antirazziste e femministe che derivano da differenti storie schiavistiche, coloniali e migratorie [26]. La duplice influenza del marxismo e dello strutturalismo francese contribuisce, infatti, a collocare Guillaumin “altrove”. Questo vale soprattutto perché, come abbiamo visto, Guillaumin propone un’analisi approfondita del razzismo basata non solo su diversi sistemi di schiavitù coloniale che vanno oltre al caso degli Stati Uniti e includono i Caraibi, ma anche sull’antisemitismo e sulle migrazioni dall’area mediterranea. In questo senso Guillaumin non mette in relazione il sesso (che sarebbe la variabile centrale) con un razzismo superficialmente inteso e confuso con la schiavitù di piantagione americana, ma trae dall’analisi del razzismo riflessioni globali sull’alterizzazione.

Ecco perché l’affermazione di Delphine Naudier e di Eric Soriano (2010) secondo cui Guillaumin avrebbe praticato un’analogia “virtuosa” perché pedagogica si presta a un fraintendimento, visto Guillaumin non formula il tipo di analogia denunciato dalle femministe afroamericane. Notiamo innanzitutto che Guillaumin utilizza i termini “parentela”, di “avvicinamento” possibile tra sessaggio e schiavitù e non quello di “analogia”, essendo molto critica nei confronti della “modalità di approccio che sottende costantemente il ‘pensiero d’ordine’ nel suo rifiuto di analizzare i processi di cambiamento” (Guillaumin 2016 [1978], p. 161). Il pensiero di Guillaumin è anche lontano da una visione antistorica e lacrimevole che farebbe della schiavitù “il senso comune dell’orrore”: si basa invece sull’analisi sociologica e politica di fatti storici. Soprattutto, invece di collocare “classe” e “razza” secondo un’immagine speculare, Guillaumin riflette su un insieme di regimi sociali che comprendono la servitù della gleba, il sistema delle caste e un insieme circostanziato di diverse logiche di schiavitù [27]. Il suo obiettivo è infatti quello di individuare, a monte di questi sistemi variegati e correlati, una logica globale che chiama “la pratica del potere e l’idea di Natura, o i rapporti di appropriazione”.

Pensare le donne razzizzate, pensare l’articolazione dei rapporti sociali di sesso e di razza

Passiamo ora alla questione del “punto cieco” della teoria del sessaggio, ovvero all’idea che tale teorizzazione sia stata pensata principalmente dal punto di vista delle donne bianche (occidentali, di classe privilegiata) e che, di fatto, descriva solo la loro situazione. Esaminiamo una per una le espressioni di appropriazione formulate da Guillaumin: le donne razzizzate non sarebbero appropriate nel loro tempo, nei loro corpi, nei prodotti dei loro corpi, non sopporterebbero il peso della violenza fisica e sessuale della classe sessuale antagonista, non si farebbero carico del peso fisico dei membri invalidi e validi della società? Se guardiamo, ora, ai mezzi della loro appropriazione: non sono forse spinte ai margini del mercato del lavoro, confinate nello spazio, mantenute ai bordi della società da una serie di violenze fisiche e sessuali, vincolate dal diritto consuetudinario e positivo? Non possiamo che concludere affermando che il concetto di sessaggio è assolutamente applicabile alle donne razzizzate. Inoltre, è sufficientemente aperto da consentire l’analisi di una serie di trasformazioni avvenute dopo la sua prima formulazione. Per esempio, la nozione di “confino nello spazio” può essere utilizzata per pensare le restrizioni statali alla mobilità delle donne attraverso le politiche migratorie come suggerito da Jules Falquet rispetto all’eterocircolazione delle donne (2011) o come propone Estelle Miramond analizzando le logiche della “lotta alla tratta” di giovani donne del Laos.

Certamente, le donne razzizzate, nella loro grande diversità, sono appropriate in modo diverso dalle donne razzizzanti, così come dagli uomini razzizzati, è evidente. Ma perché, invece di vedere le donne razzizzate come “doppiamente marginalizzate” attraverso il prisma delle teorie dell’appropriazione di razza e quella di sesso, non capovolgere il punto di vista e considerarle come soggetti centrali dell’appropriazione? E allo stesso tempo perché non concepire gli uomini razzizzati e le donne bianche come gruppi “marginali” rispetto all’appropriazione. Non è l’analisi di Guillaumin a impedirci di farlo, ma, forse, piuttosto il fatto che per molte donne bianche e per molti uomini razzizzati apparire come “casi particolari” di rapporti di potere minerebbe la loro egemonia sulle lotte e sulla teoria.

Appartenere a certi gruppi permette o impedisce di essere lesbiche (non dico omosessuali). Appartenere a certi gruppi ti mette direttamente a confronto con gli uomini a cui appartieni, ma non con tutti gli uomini. Appartenere a certi gruppi significa essere uccise/i per essere nate/i in quel gruppo e uccise/i con il gruppo nel suo insieme. Appartenere a certi gruppi significa essere segregate/i o imprigionate/i o cacciate/i o discriminate/i per il fatto di appartenere a quel gruppo, con il gruppo nel suo insieme. Appartenere a certi gruppi significa confrontarsi direttamente con gli uomini a cui si appartiene e confrontarsi, inoltre e spesso, con gli uomini che dominano gli uomini a cui si appartiene. Appartenere a certi gruppi fa di voi il premio, l’ostaggio o il mezzo nella guerra che questi gruppi fanno ad altri gruppi oppure nella guerra che questi gruppi sono costretti a subire (Guillaumin 2017 [1998]).

Detto questo, ciò che interessa a Guillaumin sono “le scelte politiche” che ciascuna donna compie in un universo di possibilità influenzato, ma non sovradeterminato, dall’appartenere ad un dato gruppo: “non sono le donne a essere diverse (anche se naturalmente sono diverse nella loro esistenza quotidiana), sono le loro scelte politiche a essere diverse” (Guillaumin 2017 [1998]). Nello stesso intervento, Guillaumin distingue tre tendenze profondamente diverse, persino antagoniste, nei movimenti delle donne. Non borghesi contro proletarie, né donne razzizzate contro donne razzizzanti. Queste divisioni possono, certamente, costituire linee di opposizione, ma sono ben lontane dall’esaurirle o dal sovrapporvisi strettamente proprio per il fatto che le relazioni di potere sono tra di loro intrecciate. Guillaumin distingue tra corrente “corporativista”, corrente “sindacale” e corrente “politica”. Quest’ultima rimanda per Guillaumin al fatto di possedere, a partire da una posizione sociale di donna, un progetto globale di società che includa una critica dei rapporti di potere nella loro molteplicità. È con quest’ultima tendenza che Guillaumin si identifica, alla ricerca di un’unità politica strategica della classe delle donne che non esclude in alcun modo tattiche di lotta autonome (per classe, religione, nazione, cultura, “razza” o anche come lesbiche), ma che rifiuta la reificazione identitaria-naturalistica prodotta, appunto, da analisi “tubolari” o monotematiche. In altre parole, Guillaumin sviluppa a partire dalla propria posizione situata nel tempo, nello spazio e nelle diverse relazioni sociali, strumenti che tengono conto della simultaneità di molteplici rapporti sociali e lo fa nel quadro di un progetto di lotta “per la giustizia sociale”. Quest’ultimo, al di là delle dispute concettuali che hanno circondato l’espansione del paradigma intersezionale, costituisce l’obiettivo originario e centrale delle femministe nere (Patricia Hill Collins 2017). Ciò induce a ritenere che pensare alla molteplicità e all’intreccio dei rapporti sociali potrebbe essere più il risultato di diverse “correnti” femministe che la specificità di date “ondate” del femminismo.

Su alcuni “femmages” e usi attuali dell’opera di Guillaumin

Dopo la scomparsa di Guillaumin, diverse pubblicazioni e vari eventi scientifici tenutisi in Francia e in Québec le hanno reso omaggio [28]: nell’ottobre del 2018 una giornata di studio organizzata dalla rete “Genere, classe, razza. Relazioni sociali e costruzione dell’alterità” dell’Associazione francese di Sociologia con la partecipazione di Danielle Juteau, nel giugno del 2019 un convegno internazionale “Penser la (dé)naturalisation de la race et du sexe: actualité de Colette Guillaumin” presso l’Università di Ottawa [29] nell’ottobre del 2019 una giornata organizzata dall’Association Nationale d’Études Féministes (ANEF) nella quale a Guillaumin era associata Nicole-Claude Mathieu (morta nel 2014). Si è, così, potuto constatare l’interesse per l’opera di Guillaumin di un gran numero di ricercatori e ricercatrici provenienti da diverse parti del mondo e attivi/e in diverse discipline.

In Francia, sono in special modo i/le sociologi/sociologhe e gli/le antropologi/antropologhe che hanno ripreso il suo lavoro. All’interno della rete “Genre, classe et race” dell’Associazione francese di sociologia, diversi/e ricercatori/ricercatrici utilizzano il lavoro di Guillaumin per analizzare le migrazioni, le relazioni interetniche e le interazioni negli ambienti militanti (cfr. il lavoro del gruppo di ricerca vicino all’URMIS, Ryzlène Dahhan, Pauline Picot, Damien Trawalé, Claire Cossée e Aude Rabaud); per studiare il lavoro domestico transnazionalizzato delle donne haitiane (Rose-Myrlie Joseph 2015) o per riflettere sulle traiettorie di lesbiche magrebine migranti in Francia o francesi nate da genitori magrebini (Salima Amari, 2018). Nel campo dell’antropologia, Nehara Feldman (2018) utilizza le analisi di Guillaumin per studiare la migrazione delle donne maliane, mentre la sociologa haitiana Sabine Lamour (2017) rivisita con lei il concetto di Poto-mitan [30].

Guillaumin è molto utilizzata anche in Québec, dove ha soggiornato in diverse occasioni. Come è noto, ha profondamente influenzato il campo della ricerca sulle questioni interetniche, di cui Juteau è stata una delle principali specialiste. A partire dall’articolo di Guillaumin sui femminicidi al Politecnico di Montréal [31], si è sviluppato il campo di studio sull’antifemminismo, in particolare con Diane Lamoureux e Anne-Marie Devreux (2012), e poi sul mascolinismo con Mélissa Blais (2018). Guillaumin costituisce un importanre riferimento anche in altre discipline: basti pensare alla ricerca della politologa Linda Pietrantonio sul concetto di “maggioritario” (2005) o a quella di Dominique Bourque sulla presa di parola minoritaria nel campo letterario (2015). La sociologa francese Elsa Galerand (2015), quebecchese d’adozione, si basa sui concetti guillauminiani per studiare la globalizzazione e il lavoro delle donne migranti in Canada. Al colloquio di Ottawa sono intervenuti ricercatori e ricercatrici che utilizzano il lavoro di Guillaumin per affrontare altri temi ancora: l’abilismo, l’appropriazione dei bambini e delle bambine, l’economia politica e la riproduzione sociale, il movimento lesbico, la lingua, i diritti abitativi, il lavoro sessuale, i racconti delle popolazioni indigene del Québec e l’arte delle donne aborigene australiane (Bronwyn Winter 2016). In Italia, la recente pubblicazione della traduzione di Sesso, razza e pratica del potere è la prova dell’esistenza di un gruppo di ricercatrici femministe che si interessano alle sue analisi sul razzismo e sul sessaggio (Garbagnoli et al. 2020).

Infine, la traduzione in spagnolo nel 2005 del suo articolo del 1978 “Pratique du pouvoir et idée de nature” da parte del collettivo transnazionale “Brecha Lésbica” (Curiel e Falquet 2005), e la successiva pubblicazione in portoghese da parte di una delle più antiche associazioni femministe del Nordeste brasiliano, SOS Corpo (Ferreira et al, 2014), hanno alimentato il crescente interesse di ricercatrici e attiviste latinoamericane e caraibiche per le analisi materialiste francofone che entrano in risonanza con diverse tradizioni femministe marxiste e con il lavoro di alcune femministe decoloniali del continente. Ricercatrici che lavorano in Colombia, Brasile, Argentina e Messico utilizzano Guillaumin, insieme ad altre teoriche femministe materialiste per affrontare un’ampia gamma di campi di indagine: Ochy Curiel (2013) la utilizza per teorizzare il carattere fondamentalmente eterosessuale della Costituzione colombiana del 1991; July Angeli Loaiza Zapata (2017) per riflettere sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini armati durante il conflitto colombiano; Mirla Cisne (2014) per affrontare l’intreccio di discriminazioni nel campo del lavoro sociale in Brasile; mentre le filosofe argentine María Luisa Femenías (2019) e Luisina Bolla (2019) la fanno dialogare con la teoria decoloniale. Luisina Bolla è all’origine della formazione di un gruppo di studio femminista materialista all’Università di La Plata [32]. Negli anni ’80, la scrittrice argentina di fantascienza Angélica Gorodischer si era già interessata a Guillaumin. Negli anni ‘80, la scrittrice argentina di fantascienza Angélica Gorodischer si era già interessata a Guillaumin.

NOTE

[1] Il saggio è stato pubblicato come introduzione al numero speciale dei Cahiers du genre dedicato a Colette Guillaumin. n° 68, 2020/1, pp.15 à 53, https://www.cairn.info/revue-cahiers-du-genre-2020-1-page-15.htm. Camille Noûs è il nome di una ricercatrice fittizia, creata nel 2020 su iniziativa del gruppo di difesa della ricerca RogueESR come metafora per protestare contro le politiche di fragilizzazione della ricerca da parte del governo francese. L’associazione di questa co-autrice agli articoli scientifici rimanda al riconoscimento pubblico dei valori della ricerca pubblica.

[2] Juteau Danielle, “La sociologa Colette Guillaumin è morta”, Le Monde, 18 maggio 2017.

[3] Il femminismo materialista è come una corrente femminista formata da teoriche quali Nicole-Claude Mathieu, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Monique Wittig e Paola Tabet, nonché dal collettivo della rivista Questions féministes (1977-1980). L’idea di un “femminismo materialista” come corrente di pensiero strutturata con i contorni che conosciamo oggi è in larga misura una “costruzione retrospettiva” in reazione all’emergere, a partire dagli anni ‘90, di un femminismo cosiddetto “postmoderno”. La rivista Questions féministes si definiva “femminista radicale”. Per una storicizzazione di questa corrente, cfr. Abreu, 2017.

[4] Feminist Issues è una rivista femminista statunitense pubblicata dal marzo 1980. Inizialmente, le direttrici della pubblicazione, Mary Jo Lakeland e Susan Ellis Wolf, intendevano tradurre in inglese e pubblicare i testi usciti in Francia su Questions féministes. Dopo il conflitto che ha posto fine all’esperienza di QF, l’iniziativa è proseguita con parte della precedente redazione. Nel primo numero di FI Wittig figurava come “Editor Advisory”, mentre nel secondo Capitan Peter, Guillaumin, Mathieu e Plaza erano indicati come “corrispondenti”.

[5] Le Genre humain è una rivista creata nel 1981 su iniziativa di Guillaumin, Léon Poliakov e Albert Jacquard dedicata all’analisi del razzismo. Il primo numero era intitolato “La scienza di fronte al razzismo” (Fresco, Olender 2017).

[6] Per ulteriori informazioni biografiche, si vedano Juteau (2017), Lhomond (2017), Naudier e Soriano (2010).

[7] Questo centro, fondato nel 1950 e inizialmente collegato al Centro di studi sociologici, è diretto da Paul-Henry Chombart de Lauwe. Le sue aree di ricerca comprendono: “La famiglia, le donne e gli uomini” e “Le segregazioni di classe e di gruppo etnico”.

[8] Sotto la direzione di Roger Bastide, presso l’École Pratique des Hautes Études.

[9] Il CERIN è stato fondato nel 1966 su iniziativa di Henri Laugier. Questo centro è poi diventato l’Istituto di studi e ricerche interetnici e interculturali (IDERIC).

[10] Mary McIntosh pubblica The Homosexual Role nel 1968. Sull’importanza di questo testo e per una panoramica delle ricerche dell’epoca, si veda, ad esempio, Jeffrey Weeks ([1998] 2011).

[11] Nature-elle-ment (la-natura-mente) è il titolo del numero 3 (maggio 1978) della rivista Questions féministes, in cui Guillaumin pubblica la seconda parte del suo saggio “Pratique du pouvoir et idée de nature”.

[12] Questo gruppo è stato creato nel 1975 ed è collegato, da parte francese, alla Maison des Sciences de l’Homme e, da parte inglese, al Social Science Research Council (Londra). È composto da ricercatrici inglesi e francesi come Diana Barker [Leonard], Leonore Davidoff, Jalna Hanmer, Jean Gardiner, Hilary Land, Maxine Molyneux, Jane Shaw e Anne Whitehead per la parte inglese; Noëlle Bisseret, Colette Capitan-Peter, Christine Delphy, Colette Guillaumin, Emmanuelle de Lesseps, Nicole-Claude Mathieu, Monique Plaza e Ursula Streckeisen per la parte francese.

[13] Sulla stampa femminista dell’epoca: Kandel 1979; Laroche e Larrouy 2011.

[14] Questa analisi dell’ideologia può essere confrontata con quella di Maurice Godelier (1984), che definisce l’ideale e il materiale come componenti di ogni relazione sociale (Daune-Richard e Haicault 1985).

[15] La Revue d’en face è una rivista politica femminista creata nel maggio 1977 e pubblicata inizialmente da Savelli. Nel novembre 1978, entra a far parte della casa editrice Tierce. Si tratta di una pubblicazione che proponeva un’alternativa analitica sia alla corrente differenzialista di Psychanalyse et Politique sia a quella delle femministe radicali di Questions féministes.

[16] Dalla Costa e James 1973; Delphy e Léger 1998 [1976]; Collectif l’Insoumise 1977; Guillaumin 1979; Bourgeois et al. 1978.

[17] Questo gruppo è stato finanziato dal programma PIRTTEM (Programma di ricerca interdisciplinare sulla tecnologia, il lavoro, l’occupazione e gli stili di vita) del CNRS dal 1985 al 1987 (più di trenta partecipanti); tutti i seminari hanno dato luogo a pubblicazioni (Marie-Agnès Barrère-Maurisson e Annette Langevin erano le responsabili delle pubblicazioni). Un colloquio internazionale, tenutosi nel novembre 1987, ha registrato un’ottima partecipazione. L’APRE, istituito in seguito al gruppo ad hoc di Città del Messico e alla pubblicazione di Sexe du travail, ha riunito la maggior parte delle équipe del CNRS e delle università che lavoravano in quel periodo nel settore (CSU-Paris, LEST-Aix en Provence, GEDISSTt-Paris, Groupe d’étude des rôles de sexes, de la famille et du développement, CEDREF Université Paris VII, Université de Nantes, ecc.).

[18] Dibattito organizzato tra Colette Guillaumin e “amiche militanti passate all’estrema sinistra”.

[19] Rivista creata nel 1985 da Rita Thalmann e pubblicata fino al 1999 dal CERIC (Centre d’études et de recherches inter-européennes contemporaines), Université Paris VII.

[20] L’Università di Parigi VII è stata pioniera nel collegare gli studi di genere o sui rapporti sociali di sesso con quelli sulle minoranze etniche migranti (v. la rete “Donne in migrazione” avviata dal CEDREF e dall’URMIS a partire dal 1997).

[21] Dagli anni Settanta a oggi si delinea così un percorso in qualche modo paradossale della ricerca femminista, a lungo lasciata ai margini della ricerca accademica e descritta come ideologica e militante: il contesto internazionale favorisce ora l’emergere di “esperte” e accademiche (Fougeyrollas-Schwebel 2000; si veda anche Collin 1995).

[22] Pubblicati da “Côté femmes” che continuerà ad esistere attraverso la collana “Bibliothèque du féminisme” edita da L’Harmattan, (1996-2009).

[23] Ricordiamo la pubblicazione in francese di Sister Outsider di Aude Lorde (2003); alcuni numeri speciali di riviste (Cahiers du Genre, 2005 e HS 2006); Cahiers du Cedref, 2006); Dorlin e Rouch (a cura di) Black feminism: anthologie du féminisme africain-américain, 1975-2000 (2008). Nel 2007 è ristampato, Femmes, race et classe di Angela Davis, già pubblicato in francese nel 1983.

[24] Non abbiamo qui lo spazio necessario per trattare a sufficienza la questione della classe: la lasceremo quindi da parte. Notiamo però che Guillaumin sottolinea l’importanza della contraddizione tra rapporti di appropriazione e rapporti di sfruttamento. Jules Falquet segue questa linea analitica, sviluppandola in una prospettiva storica e strutturale, per analizzare la globalizzazione neoliberale attraverso i concetti di “vasi comunicanti” (2015) e di “combinatoria straight” (2016).

[25] Rafforzato dalla sistematica e ricorrente cancellazione della storia femminista che porta alla perpetua illusione dell’anno zero che aveva colpito anche le attiviste e le teoriche del 1970.

[26] Per un’analisi dettagliata del libro pionieristico del 1978 La parole aux Négresses dell’autrice senegalese allora residente in Francia, Awa Thiam, si veda Bruneel e Gomes Silva (2017).

[27] Ad esempio, nel testo del 1978, distingue, da un lato, tra la Roma antica (familia), il XVIII e il XIX secolo nel Nord America e nelle Indie Occidentali e, dall’altro, situazioni di schiavitù con limiti temporali specificati in anni (la società ebraica, la polis ateniese, gli Stati Uniti d’America nel XVII secolo) o, ancora, situazioni di servitù della gleba con limiti temporali di durata pari a giorni della settimana.

[28] Un dossier intitolato “Racisme et sexisme, hommage à Véronique de Rudder, Nicole-Claude Mathieu et Colette Guillaumin” è stato pubblicato nel Journal des anthropologues n° 150-151 del 2016, a cura di Annie Benveniste, Catherine Quiminal e Jules Falquet; Hamel (2018); diversi articoli nella rivista Sociologie et Sociétés (49 (1), 2017) nonché un dossier nella rivista Cahiers de Recherche Sociologique, (67, 2020), sotto la direzione di Elsa Galerand, Danielle Juteau e Linda Pietrantonio.

[29] Ha riunito una trentina di relatori e relatrici dal 21 al 23 giugno 2019 presso l’Università di Ottawa. Gli atti filmati sono disponibili su https://leseditionssansfin.wixsite.com/colloqueguillaumin/videos.

[30] Potomitan è un’espressione creola antillano-guyanese. Si riferisce al palo centrale del tempio vudù, l’oufo. L’espressione può anche essere usata per indicare il “sostegno familiare”, di solito la madre. Il termine si riferisce alla persona al centro della famiglia, l’individuo attorno al quale tutto è organizzato e sostenuto.

[31] Il massacro dell’École Polytechnique è avvenuto il 6 dicembre 1989 all’École Polytechnique di Montreal, in Quebec (Canada). Marc Lépine, 25 anni all’epoca, ha aperto il fuoco su ventotto persone, uccidendone quattordici e ferendone altre tredici (9 donne e 4 uomini) prima di suicidarsi. È stato il massacro più letale nella storia del Canada compiuto in ambito scolastico.

[32] Primera Jornada sobre Feminismo Materialista: debates y relecturas desde el Sur, Università di La Plata, Argentina, 14 novembre 2019.

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La sabbia negli occhi

Continuum della violenza e regime politico dell’eterosessualità

di Deborah Ardilli

Secondo l’antropologa argentina Rita Laura Segato, le forme contemporanee della violenza contro le donne presentano caratteristiche inedite, tali da mettere in crisi il quadro analitico elaborato dal femminismo. L’errore delle femministe, a giudizio della studiosa, consiste nel continuare a credere che la violenza di genere abbia a che fare con i rapporti tra uomini e donne, anziché con la trasformazione della struttura della guerra. Sempre più caotico, dai contorni sempre meno definiti, il conflitto contemporaneo si orienta — per Segato — verso l’esercizio gratuito di una crudeltà in cui il corpo sacrificale della donna, svuotato dell’antica pienezza ontologica, funziona come segno all’interno di uno scambio simbolico tra uomini. In questo articolo, distanziandoci dall’impostazione differenzialista sottesa all’analisi dell’antropologa e adottando gli strumenti messi a punto dal femminismo radicale materialista, sosteniamo invece che la scena contemporanea del conflitto tende non a sfumare, ma a inasprire la dialettica sociale tra i sessi, rilanciandola su larga scala. Precisamente per questo motivo è necessaria un’alleanza femminista transnazionale per far saltare il regime di accumulazione etero-patriarcale.

 

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Pat Parker (1944-1989)

C’è una poesia di Pat Parker, la poeta nera e lesbica che nel 1976 prese la parola a nome della delegazione statunitense al Tribunale internazionale di Bruxelles per i crimini contro le donne, che recita così: «Brother / i don’t want to hear / about / how my real enemy / is the system. / i’m no genius, / but i do know / that system / you hit me with / is called / a fist» (Fratello / non venirmi a raccontare / che / il mio vero nemico / è il sistema. / non sono un genio, / ma so / che il sistema / con cui mi picchi / si chiama / pugno) [1].

Con una semplicità perfidamente ingannevole, i versi di Parker ci ricordano che una delle conquiste del movimento femminista più duramente osteggiate, anche dagli altri movimenti progressisti, è stata mettere all’ordine del giorno il tema della violenza contro le donne: vederla, nel senso pregnante del termine. E produrne intelligenza politica, cogliendola come dimensione costitutiva (e non avventizia) della nostra inserzione nel genere attraverso l’eterosessualità obbligatoria — come hanno insegnato, fra le altre, Monique Wittig e Adrienne Rich [2]. In questo senso si può ben affermare, con Christine Delphy, che fare luce sulla violenza contro le donne non equivale a esumare una città sepolta sotto metri di sabbia: è dagli occhi che bisogna togliere la sabbia, in un processo continuo di risveglio che non può mai dirsi concluso una volta per tutte [3]. Ciò non toglie, naturalmente, che sia privo di senso domandarsi che cosa abbia sedimentato nel corso del tempo, sul piano della concettualizzazione, l’attivazione di uno sguardo femminista radicale sulla violenza contro le donne.

In un articolo ormai classico, Jane Caputi e Diana Russell inscrivono il femicidio (oggi diremmo, più appropriatamente, femminicidio) al polo estremo di uno spettro che include un’ampia varietà di abusi fisici e verbali, come lo stupro, la tortura, la schiavitù sessuale, l’abuso incestuoso ed extra-familiare delle bambine, l’aggressione fisica, la molestia sessuale, le mutilazioni genitali, le operazioni ginecologiche non necessarie, la maternità obbligatoria, l’eterosessualità obbligatoria. [4] Come chiarisce Jill Radford nell’introduzione al volume in cui è incluso l’articolo, «il concetto di continuum ci permette di identificare un ventaglio di esperienze eterosessuali coercitive. Inoltre, la nozione di continuum facilita l’analisi della violenza sessuale maschile come una forma di controllo centrale per il mantenimento dell’etero-patriarcato» [5]. Il riconoscimento dell’eterosessualità in quanto istituzione sociale oppressiva, anziché in quanto preferenza sessuale privata — prosegue Radford — informa di sé la comprensione del femminicidio e costituisce un aspetto organico dell’analisi femminista radicale [6].

Ferri vecchi da consegnare a un’epoca definitivamente trascorsa? Se ci rivolgiamo a indagini a noi cronologicamente più vicine, non si direbbe. Secondo Jules Faquet, che alla questione della riorganizzazione della violenza contro le donne nel quadro della globalizzazione neoliberale ha dedicato una parte consistente delle proprie ricerche, gli assi dell’analisi femminista radicale restano punti fermi irrinunciabili. Di qui la sollecitazione di Falquet a individuare, in contesti geopolitici differenziati, il continuum della violenza contro le donne, nelle sue espressioni fisiche, sessuali, emotive, economiche, ideali; e a riconoscere il peso della sua dimensione materiale e del suo impiego eminentemente strumentale [7]. A queste indicazioni si potrebbe forse aggiungere una terza coordinata, connessa al funzionamento dissimmetrico della violenza di genere, su cui ha richiamato l’attenzione Nicole-Claude Mathieu: essere l’esposizione delle donne alla violenza non già la conseguenza di una condizione naturale di fragilità, ma il risultato della proibizione sociale alle donne di avere il minimo comportamento di resistenza violenta contro gli uomini, con la conseguente sottrazione di tutto un sapere tecnico legato alla difesa e all’attacco [8].

Si tratta, per altro, di un’osservazione in linea con quanto la stessa Falquet registra sul terreno della dialettica dei sessi che percorre la nuova composizione globale del mercato del lavoro, rilevando come questa tenda a consolidare uno degli archetipi di genere più tenaci: gli uomini come guerrieri e le donne come bottino [9]. Per la maggior parte delle donne non privilegiate del pianeta, l’ingresso sul mercato del lavoro e l’accesso a un reddito di sussistenza sono mediati dallo svolgimento di mansioni di servizio che interessano l’area delle pulizie, della cura nelle sue diverse forme e delle attività associate al sesso — un complesso di attività di cui, in regime di produzione domestica, gli uomini possono appropriarsi in blocco a titolo gratuito; in regime di produzione capitalistica, quel che si perde in termini di gratuità delle prestazioni è abbondantemente compensato dalla realizzazione di enormi guadagni tramite l’impiego di manodopera femminile a basso costo e debolmente sindacalizzata. Per gli uomini, sembrano invece moltiplicarsi a ritmo crescente le occasioni di generare reddito reggendo un’arma: per conto di un esercito, di una polizia, di una milizia privata, in una prigione, in un supermercato, in un bordello, in una zona residenziale, in un giardino pubblico, in un’organizzazione terrorista o in una piccola banda locale. Ma non è tutto qui. Polarizzazione crescente e implicazione reciproca dei termini del rapporto sono elementi inscindibili di questa dialettica di genere, se è vero — come sostiene Falquet — che «nel contesto dei rapporti sociali di sesso esistenti e del “sistema politico dell’eterosessualità” quale l’ha descritto Monique Wittig, l’esistenza stessa di uomini in armi crea una domanda di lavoro nel campo del sesso, per la quale si fa in larga maggioranza appello alle donne» [10].

Sembra dunque che non ci sia modo di decifrare il continuum della violenza senza chiamare in causa il regime politico dell’eterosessualità. Viceversa, non si intende la riproduzione “allargata” dell’eterosessualità senza chiamare in causa la violenza materiale come operatore strategico ai fini della conservazione di classi di sesso (eufemisticamente definite) “differenti e complementari”, dell’intensificazione su scala globale delle tecniche di appropriazione e sfruttamento del lavoro delle donne, della disorganizzazione e demoralizzazione dei segmenti femminili e razzializzati della forza-lavoro che rivestono un ruolo cruciale nella produzione e nella riproduzione sociale. In questo senso, l’analisi dei femminicidi lungo la frontiera tra Messico e Stati Uniti ha costituito un importante banco di prova per mettere in luce le inadempienze di letture culturalistiche o psicologizzanti della violenza contro le donne.

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Alicia Schmidt Camacho, per esempio, ha rilevato come diversi attori politici ed economici, locali e globali, abbiano contribuito alla denazionalizzazione dello spazio della frontiera messicana intensificando all’estremo le condizioni di cittadinanza dimidiata che interessano le messicane povere: condizioni, cioè, in cui il valore economico delle donne deriva direttamente dalla loro mancanza di accesso ai diritti più elementari. La femminilizzazione del lavoro si inscrive di un progetto di governance che ha generato nuove forme e nuovi spazi di creazione di reddito attraverso la mercificazione dei corpi delle donne povere e una cittadinanza limitata. Immagini di donne usate per vendere turismo, merci, lavoro e sesso riempiono le città di confine in modi che erotizzano deliberatamente l’esercizio del dominio. Di qui la studiosa fa discendere la necessità di leggere i femminicidi di Ciudad Juárez, nonché i tassi elevatissimi di impunità assicurati ai loro esecutori, non già come una manifestazione di regressione culturale, di malfunzionamento delle agenzie statali o di incompetenza dei funzionari addetti alle indagini, bensì come l’«espressione razionale» delle contraddizioni che sorgono dal codice di genere in cui è inviluppato lo sviluppo neoliberale. I femminicidi, suggerisce Schmidt Camacho, accompagnano come un’ombra il «progetto di produrre una popolazione femminilizzata senza diritti, facilmente appropriabile per fornire lavoro e servizi sia sui mercati del lavoro legali che su quelli illegali. La produzione culturale di questo gruppo subalterno ha implicato la sessualizzazione dei corpi delle messicane povere […] Le maquiladoras e l’industria del turismo, che specula così vistosamente sulle capacità fisiche delle donne, sono soltanto i luoghi più ovvi di erotizzazione del super-sfruttamento delle donne messicane» [11].

La violenza di genere in America Latina, tuttavia, è stata anche l’occasione per provare a mettere in crisi il paradigma femminista radicale. Da quanto detto finora, sembrerebbe in effetti lecito dedurre che esista un nesso significativo tra l’esercizio della violenza e l’identità sociale delle vittime. E sembrerebbe pure lecito spingere l’indagine in direzione della funzione strumentale che la violenza svolge in questo scenario di super-sfruttamento. Ma è precisamente a questo punto che ci viene chiesto di fare un passo indietro e rivedere le acquisizioni precedenti in fatto di femminicidio. È il caso della proposta interpretativa avanzata dall’antropologa argentina Rita Laura Segato, a cui una parte del movimento italiano guarda con crescente interesse [12].

A dire il vero, non è del tutto chiaro a quali aree di pensiero o di movimento si riferisca esattamente Segato quando rimprovera alla riflessione femminista di non avere ancora fatto i conti con la dimensione politica della violenza contro le donne e di averla confinata alla sfera dell’intimità, contribuendo in questo modo a consolidare «lo stereotipo che incapsula la donna in un’atmosfera domestica» [13]. Dovrebbe essere chiaro, in ogni caso, che quando Segato ripudia enfaticamente l’ipotesi che la violenza di genere abbia qualcosa a che fare con l’organizzazione etero-sociale dei rapporti tra i sessi anche quando si scatena fuori dal teatro domestico [14], quella che si sta facendo avanti è una prospettiva che punta a rompere i ponti con il femminismo.

Togliere le donne dal ghetto, in vista di alleanze e di proiezioni politiche più larghe di quelle ancorate alla linea del genere, è l’esortazione che Segato ci rivolge a partire da un’interrogazione della violenza patriarcale quale espressione paradigmatica della violenza predatoria che caratterizza la «fase apocalittica del capitale». In questa prospettiva, la violenza contro le donne assume rilievo strategico per effetto della posizione che occupa in uno scenario bellico sempre più segnato dall’anomia sociale. Senza uniformi e insegne ufficiali, senza dichiarazioni formali di guerra, di tregua o di resa, senza delimitazioni spaziali o temporali precise, senza linee di demarcazione nitide tra operazioni belliche e azioni criminali, il conflitto contemporaneo tende inesorabilmente, a giudizio di Segato, all’informalizzazione e all’indeterminazione. Fazioni, bande, gruppi tribali, mafie, formazioni statali e parastatali di vario tipo alimentano una nuova filiera armata la cui violenza corporativa e anomica, arbitraria e discrezionale, si esprime in modo esemplare e privilegiato nell’aggressione al corpo delle donne. Il corpo vittimario delle donne, per Segato, reclama dunque attenzione nella misura in cui porta incisi i segni attraverso i quali la struttura contemporanea della guerra si manifesta. Nella brutalità truculenta dei femminicidi sud-americani si rivelerebbe una modalità inedita di esercizio del potere che, per l’antropologa, risponde a una strategia complessiva di riproduzione del sistema definibile come pedagogia della crudeltà. In questa guerra non convenzionale, si rinnova l’immaginario coloniale che dà significato allo stupro come oltraggio indelebile per la vittima e per tutti coloro che detengono una capacità di tutela sul suo corpo (padre, fratelli, marito, autorità politiche). Ed è precisamente questo immaginario coloniale, secondo Segato, a installare il genere come struttura binaria e gerarchica mediante la quale la «posizione maschile» confisca per sé l’universale, relegando all’insignificanza la «posizione femminile».

All’interno di questo quadro analitico, Segato procede al recupero dello schema elaborato da Claude Lévi-Strauss ne Le strutture elementari della parentela, in base al quale le donne sono trattate come segni [15], per trasferirlo alla comprensione delle strutture elementari della violenza [16]. Risalire alle strutture elementari della violenza di genere, per l’antropologa, comporta innanzitutto accentuarne al massimo il valore espressivo, a discapito di quello strumentale. Una volta messa fuori gioco ogni ipotesi utilitaristica, Segato può presentare la scena della violenza come una complessa macchina simbolica adibita allo scambio di messaggi tra interlocutori maschili, siano essi fisicamente presenti sulla scena della violenza oppure idealmente inclusi come destinatari del messaggio nel paesaggio mentale del soggetto dell’enunciazione. Attraverso la violenza, l’aggressore si rivolge ai suoi pari, esibisce spettacolarmente la propria capacità offensiva, mostra di avere le carte in regola per integrarsi alla confraternita virile mafiosa. Sono dunque altri uomini, non la vittima, a dare senso e consistenza alla scena della violenza contro le donne. Nel linguaggio del femminicidio, secondo Segato, il corpo martoriato delle donne indica il resto, lo scarto, ciò che può essere sacrificato per un bene più alto, quale sarebbe appunto la costruzione della confraternita virile.

Ora, anche senza bisogno di disconoscere i risvolti espressivi connessi all’esercizio della violenza di genere, restano forti perplessità di fronte al fatto che la selezione delle vittime passi così drasticamente in secondo piano. La donna come segno, evidentemente, è cosa diversa dalle donne come classe di sesso. Se alla donna come segno sembra inerire naturalmente la posizione di supporto materiale dello scambio simbolico virile, tanto da dover concludere che è l’eliminazione sistematica di un «tipo umano» — la posizione femminile in quanto tale — ciò che il «femminigenocidio» ha di mira [17], per le donne come classe di sesso dovrebbe invece avere ancora senso chiedersi almeno: perché proprio loro? Non meritano attenzione, per esempio, la direzione in cui la violenza circola e la circostanza per cui non si dà la costruzione di sorellanze femminili attraverso il sacrificio estremo di corpi maschili? E se la violenza è costruita discorsivamente, perché escludere in partenza che quel discorso sia indirizzato, se non esclusivamente, certamente anche alle donne assassinate e alle loro simili? Perché restringere la cerchia dei destinatari alla confraternita maschile? Perché impedirsi di pensare che la funzione espressiva della violenza ne veicoli una strumentale, finalizzata a ottenere un risultato ottimale con il minimo dispendio di mezzi: terrorizzare tutte le donne, tenerle al loro posto, costringerle a lottare sul terreno della mera sopravvivenza (o del ritrovamento dei cadaveri delle compagne), ritardando le iniziative che potrebbero svilupparsi su altri fronti? Chi ha interesse a frenare, compromettere, scoraggiare le lotte delle “donne di servizio” e la loro costituzione in soggetto politico autonomo? Possiamo davvero scartare con tanta disinvoltura l’ipotesi che lo sfruttamento delimiti un campo di interessi in cui essere uomini o donne, appartenere all’una o all’altra classe di sesso, ha ancora un’importanza decisiva?

A scanso di equivoci, è bene chiarire subito che queste domande non sottendono il proposito di correggere, ridimensionare o negare la percezione dell’enorme portato di violenza che colpisce le donne, in America Latina e non solo. Non è per favorire l’assuefazione alla crudeltà che questi interrogativi vengono sollevati, e tanto meno per assecondare un ritornello che, con il nobile pretesto di mettere fine all’abuso di retoriche vittimizzanti, punta a silenziare qualsiasi discorso che prenda sul serio l’oppressione delle donne.

È importante, invece, mettere a fuoco l’insidia contenuta nel riferimento di Segato al corpo sacrificale delle donne. Il rischio è che, sganciato da un’analisi più puntuale dei rapporti sociali di genere nei quali è immerso, quel corpo sacrificale si converta rapidamente in metafora del corpo mistico della comunità in rovina, innescando una catena associativa (non propriamente inedita nel copione culturale occidentale) che allinea in un’unica sequenza la posizione femminile minacciata, il mondo-villaggio, l’empatia, la valorizzazione della funzione materna, l’affidabilità quotidiana, il sacro — altrettante figure di un’armonia prestabilita che soltanto l’azione corrosiva di un agente estraneo potrebbe incrinare. Paradossalmente, l’esortazione a togliere le donne dal ghetto finisce per spalancare le porte alla riproposizione di modelli già collaudati di feticizzazione della coesione comunitaria e del vincolo eterosessuale. C’è da temere, insomma, che l’enfasi di Segato sulle solidarietà locali come polo integro di resistenza alla furia devastatrice del neoliberalismo operi a tutto vantaggio della naturalizzazione di legami che custodiscono un potenziale letale per le donne.

Non per nulla, al momento di spiegare l’irruzione della violenza di genere all’interno della comunità e il passaggio da una fase di «patriarcato a bassa intensità» a una fase di «patriarcato ad alta intensità», Segato è costretta a introdurre l’ipotesi di un’alterazione antropologica di derivazione esogena. La connessione dei crimini contro le donne con la fase attuale del neoliberalismo si specificherebbe, cioè, tramite la cattura da parte della mascolinità bianca di una mascolinità dotata di prerogative già esistenti, ma compatibili con tassi ridotti di conflittualità di genere. Per effetto di questa sconfitta storica, l’uomo indigeno si trasforma nel colonizzatore di casa, mimando le gesta del patriarca metropolitano e trasferendo «la violenza appropriatrice del mondo esterno che arriva all’interno delle relazioni del suo stesso mondo» [18]. Si instaura così il Soggetto Universale della sfera pubblica. Di questo soggetto forgiato sulle ceneri della comunità veniamo a sapere che, «per marchio di origine e genealogia», sarà «1) maschile; 2) figlio della conquista coloniale e, pertanto, a) bianco o imbiancato; b) proprietario; c) istruito; d) pater familias». Curiosamente, a tali attributi si accompagna questo inciso: «(descriverlo come “eterosessuale” non è adeguato, visto che della sessualità propriamente detta del patriarca sappiamo molto poco)» [19]. L’ipotesi di partenza, secondo cui lo spessore politico delle nuove forme di violenza di genere può apparire soltanto a patto di dissociarle dalla sessualità e dalla centralità del rapporto uomini/donne tematizzato dalle femministe, si ritrova così tautologicamente confermata. La catena genealogica di trasmissione della violenza si interrompe, senza spiegazioni, alla voce “eterosessualità”.

All’alterazione antropologica indotta dal contatto con la controparte colonizzatrice sembrano invece miracolosamente scampare le donne, presentate come soggetti intrinsecamente vocati al vincolo comunitario e dunque per definizione impermeabili a ogni influenza corruttrice. Non è probabilmente un caso che il linguaggio adoperato per descrivere la comunità rifletta più i modi dell’ontologia, che quelli della storia o della sociologia. La struttura del mondo che precede l’invasione da parte del fronte statale-coloniale è presentata come una struttura «duale» ma, contrariamente a quanto si potrebbe supporre, «guidata da una reciprocità ferrea vincolante» [20]. «Il duale» prosegue Segato «è una delle varianti del molteplice e tra i termini della dualità ci sono transizioni ed è possibile la commutabilità delle posizioni. Nel mondo duale, entrambi i termini sono ontologicamente pieni, completi, sebbene possano mantenere una posizione gerarchica. Non c’è inglobamento di uno da parte dell’altro: lo spazio pubblico, abitato dagli uomini con i propri compiti, la politica e l’intermediazione (gli affari, il dibattito e la guerra), non ingloba né sussume lo spazio domestico, abitato dalle donne, dalle famiglie, con i loro molteplici tipi di compiti e di attività condivise» [21].

C’è un’involontaria ironia nel descrivere il mondo della comunità indigena con accenti che ricalcano quasi letteralmente i modi occidentali più tipici di occultamento del conflitto, come se i rapporti sociali di sesso fossero una questione di controllo dell’equilibrio delle risorse e di negoziazioni nel quadro di rapporti simmetrici tra “differenze”; o come se la concentrazione quasi esclusiva sul sentimento di sé e sulle costruzioni identitarie obbligasse a dedurre un allentamento della gerarchia che produce tali identità e l’insignificanza della matrice eterosessuale di tale gerarchia. L’idea di commutabilità delle posizioni suppone che nel «mondo duale» entrambe le «pienezze ontologiche» abbiano qualcosa da mettere sulla bilancia: la costruzione del concetto annuncia l’esistenza del potere delle donne proprio nel momento in cui congela i termini della partecipazione alla divisione del lavoro nello schema eterosessuale.

A questo punto, sarebbe interessante capire in quale misura la proposta di Segato incroci il movimento che, nel continente sudamericano, proprio a partire dalla questione della violenza di genere, ha ricostruito la pratica dello sciopero femminista dal lavoro riproduttivo e produttivo. Quanto a noi, vale forse la pena ricordare che neanche il mondo occidentale ha mai riassorbito lo spazio domestico fino al punto da rendere marginale l’esistenza di un serbatoio tanto cruciale di estrazione di lavoro gratuito e/o svalorizzato [22]. Laddove possibile, ne ha semmai trasferito le caratteristiche ai segmenti più sfruttati del mercato del lavoro. Potrebbe essere questa la premessa di un’alleanza femminista transnazionale per far saltare il regime di accumulazione etero-patriarcale, anziché l’ennesima occasione per riempirci gli occhi di sabbia chiamando “differenza” le condizioni della nostra comune subalternità.

 

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NOTE

[1] Pat Parker, Brother, in Ead., Movement in Black, Firebrand Books, Ithaca, New York 1999, p. 77.

[2] Cfr. Monique Wittig, The Straight Mind and Other Essays, Beacon Press, Boston 1992; Adrienne Rich, Compulsory Heterosexuality and Lesbian Existence, in Ead., Blood, Bread and Poetry, Norton & Company, New York 1986, pp. 23-75.

[3] Cfr. Christine Delphy, Violences contre les femmes (1997), in Ead., Un universalisme si particulier. Féminisme et exception française (1980-2010), Éditions Syllepse, Paris 2010, p. 212.

[4] Cfr. Jane Caputi, Diana E. H. Russell, Femicide: Sexist Terrorism Against Women, in Jill Radford, Diana E. H. Russell, Femicide. The Politics of Woman Killing, Twayne, New York 1992, p. 15. Sulla base della teorizzazione di Marcela Lagarde, oggi è preferibile usare il termine “femminicidio” al posto di “femicidio”, per evitare impropri effetti di simmetrizzazione tra femicidio e omicidio.

[5] Jill Radford, Introduction, in Jill Radford, Diana E. H. Russell, Femicide, cit., p. 4.

[6] Ivi, p. 8.

[7] Jules Falquet, Pax neoliberalia. Perspectives féministes sur (la réorganisation de) la violence, Éditions iXe, Donnemarie-Dontilly 2016, p. 8.

[8] Nicole-Claude Mathieu, “Origines” ou mécanismes de l’oppression des femmes? (1994), in Ead. L’anatomie politique 2. Usage, déréliction et résilience des femmes, La Dispute, Paris 2014, p. 186.

[9] Cfr. Jules Falquet, De gré ou de force. Les femmes dans la mondialisation. La Dispute, Paris 2007, pp. 51-82.

[10] Ivi, p. 60.

[11] Alicia Schmidt Camacho, Ciudadana X. Gender violence and the denationalization of women’s rights in Ciudad Juárez, Mexico, in Rosa-Linda Fregoso, Cynthia Bejarano (eds.), Terrorizing Women. Feminicide in the Américas, Duke University Press, Durham-London 2010, p. 279.

[12] Cfr. Rita Laura Segato, Patriarcato: dal margine al centro. Disciplinamento, territorialità e crudeltà nella fase apocalittica del capitale e Le nuove forme di guerra e il corpo delle donne, in Roberta Pompili, Adalgiso Amendola (a cura di), La linea del genere. Politiche dell’identità e produzione di soggettività, ombre corte, Verona 2018, rispettivamente alle pp. 57-74 e 153-186.

[13] Rita Laura Segato, Le nuove forme di guerra e il corpo delle donne, cit., p. 185.

[14] Si veda la traduzione dell’intervista a Segato di Alejandra Ojeda e Florencia Vizzi, apparsa il 17 settembre 2017 su «Dinamopress» con il titolo Femminicidi e pedagogia della crudeltà, in cui si legge: «Una delle difficoltà, tra i limiti del pensiero femminista, è credere che il problema della violenza di genere sia un problema tra uomini e donne. E in alcuni casi persino tra un uomo e una donna. E credo che sia un sintomo della storia, degli eventi che attraversano la società. E a questo punto sollevo la questione della precarietà della vita».

[15] Cfr. Claude-Lévi Strauss, Le strutture elementari della parentela (1947), Feltrinelli, Milano 2003, pp. 633-634.

[16] Cfr. Rita Laura Segato, Territory, Sovereignity, and Crime of the Second State, in Rosa-Linda Fregoso, Cynthia Bejarano (eds.), Terrorizing Women, cit. pp. 70-92. L’articolo riassume le tesi esposte più diffusamente da Segato in Las estructuras elementales de la violencia. Ensayos sobre género entre la psicología, el psicoanálisis y los derechos humanos, Universidad Nacional de Quilmes/Prometeo, Buenos Aires 2003.

[17] Rita Laura Segato, Le nuove forme di guerra e il corpo delle donne, cit., p. 182.

[18] Rita Laura Segato, Patriarcato: dal margine al centro, cit., p. 59.

[19] Ivi, p. 60.

[20] Ivi, p. 59.

[21] Ibidem

[22] Su questo cfr. Melinda Cooper, Family Values. Between Neoliberalism and the New Social Conservatism, Zone Books, New York 2017.

Rompere il tabù dell’eterosessualità, finirla con la differenza dei sessi: gli apporti del lesbismo come movimento sociale e teoria politica – Jules Falquet

Presentiamo per la prima volta in traduzione italiana — con il permesso dell’autrice — il saggio Rompre le tabou de l’hétérosexualité, en finir avec la différence des sexes: les apports du lesbianisme comme mouvement social et théorie politique, di Jules Falquet, sociologa e militante lesbo-femminista attiva in Francia e nei movimenti femministi autonomi decoloniali di Abya Yala [1]. Studiosa della riconfigurazione dei rapporti di sesso, razza e classe nel quadro della globalizzazione neoliberale [2], Falquet attinge la sua strumentazione analitica dalla tradizione del femminismo materialista francofono raccolto intorno al collettivo editoriale di Questions féministes (1977-1980), integrandola in modo originale con il contributo della frangia più radicale del femminismo Nero statunitense, il bostoniano Combahee River Collective (1974-1980).

L’esortazione che dà il titolo al saggio — rompere il tabù dell’eterosessualità, finirla con la differenza dei sessi — si colloca dunque all’interno di un filone importante, e ancora poco conosciuto (o deliberatamente rimosso), della “seconda ondata” femminista, che la sociologa francese rivisita con intenti tutt’altro che commemorativi. Rifare i conti con la storia del lesbismo come movimento sociale e teoria politica equivale piuttosto a compiere una scelta strategica per il presente, che comporta anzitutto spostare l’unità di analisi (e di iniziativa politica) dai temi del corpo, del desiderio, delle identità individuali ai rapporti sociali che presiedono alla costituzione di quelle che, di norma, vengono eufemisticamente definite come “differenze” di genere, di classe e di razza. Non è un caso pertanto che il termine “intersezionalità”, coniato alla fine degli anni Ottanta da Kimberle Crenshaw in prospettiva giuridica nel contesto del multiculturalismo statunitense [3] e popolarizzatosi al volgere del millennio, non compaia in queste pagine. Falquet preferisce invece parlare di interdipendenza (o imbricazione) di rapporti sociali di genere, razza e classe, lasciando cadere l’accento sulle dinamiche materiali di appropriazione, sfruttamento ed estrazione sottese alla codificazione ideologico-normativa di tali rapporti [4]. La questione non è puramente accademica, se si considera che l’aggettivo “intersezionale” si è imposto nell’uso corrente per qualificare un femminismo inclusivo delle “differenze”, ma forse non altrettanto agguerrito quando si tratta di interrogare, criticare e aggredire la dinamica sociale della loro riproduzione. In tal senso è significativo che, in tempi recenti, una veterana del Combahee River Collective come Barbara Smith abbia avvertito l’esigenza di prendere le distanze dal modo in cui l’elaborazione politica del gruppo è stata trasmessa alle persone più giovani da una generazione di accademic* che, non avendone compreso appieno la portata, ha finito con il ridurla a una questione di «trigger warnings, safe spaces e micro-aggressioni — tutte cose reali, ma il fatto è che non era su questo che ci concentravamo» [5]. Su che cosa dovremmo effettivamente concentrarci per non ricadere nelle trappole del pensiero straight proprio mentre ci illudiamo di contestarlo, è ciò che Jules Falquet viene a suggerirci.

NOTE

[1] Per un profilo dell’autrice, si veda julesfalquet.com.

[2] Cfr. Jules Falquet, De gré ou de force. Les femmes dans la mondialisation, La Dispute, Paris 2008; Jules Falquet, Helena Hirata, Danièle Kergoat, Brahim Labari, Nicky Le Feuvre, Fatou Sow (dir.), Le sexe de la mondialisation. Genre, classe, race et nouvelle division du travail, Presses de Sciences-po, Paris 2010; Jules Falquet, Pax neoliberalia. Perspectives féministes sur (la réorganisation) de la violence, Editions iXe, Donnemarie-Dontilly 2016.

[3] Cfr. K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, «University of Chicago Legal Forum», 1, 1989, pp. 139-167.

[4] D’accordo con Jules Falquet, abbiamo reso con «interdipendenza» il francese embrication, per favorire una maggiore leggibilità del testo. Vale comunque la pena segnalare che l’espressione «imbricazione» (dei rapporti sociali) sta entrando nell’uso italiano, in particolare nel quadro della ricerca etnografica relativa alla riproduzione dei soggetti dominanti sull’asse del genere, della razza e della classe. Si veda, al riguardo, il lavoro dell’antropologa femminista materialista Valeria Ribeiro Corossacz, Bianchezza e mascolinità in Brasile. Etnografia di un soggetto dominante, Mimesis, Milano-Udine 2015.

[5] Cfr. Keeanga-Yamahtta Taylor (ed.), How We Get Free. Black Feminism and the Combahee River Collective, Haymarket Books, Chicago 2017, p. 62.

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«I movimenti gay misti spostano la questione dell’eterosessualità focalizzandosi sulla sessualità; una parte dei movimenti femministi e lesbici non misti collocano il sistema dell’eterosessualità obbligatoria e l’organizzazione della riproduzione al cuore dell’oppressione delle donne, ed è più minaccioso» (Mathieu, 1999) [1].

 

questiones

Bisogna rallegrarsi dell’attuale moltiplicazione di movimenti e ricerche sulla/e sessualità, uno dei cui meriti, e non il minore, è rendere ogni giorno più visibili ogni sorta di pratiche e persone che, in tutto il mondo, contestano con coraggio l’ordine sessuale esistente. Tuttavia, concentrandosi quasi esclusivamente sulla sessualità come un insieme di pratiche sessuali e/o desideranti individuali, e accordando una considerevole importanza all’intervento sul corpo e sul suo aspetto — anche in questo caso, intervento principalmente individuale —, mi sembra che la corrente dominante di questi movimenti perda di vista una parte del suo obiettivo. In effetti, se si tratta di contestare il binarismo dei generi o dei sessi e soprattutto la loro sedicente naturalità — un progetto a cui ampi settori dei movimenti femministi e lesbici si dedicano da una trentina d’anni — la focalizzazione sull’identità personale e sulle pratiche quotidiane rischia di trascinarci su un binario morto. Un binario sicuramente affascinante, come possono esserlo il corpo e la psiche umana, ma che non ci permette di prendere la rincorsa sufficiente per raggiungere le radici del problema. Perché la tesi che qui vorrei difendere è che il problema non sta nel corpo, e nemmeno nelle persone…Allora, dove si trova, e come risolverlo?

Per rispondere a questa domanda propongo un incontro, o delle rimpatriate, con altre piste d’analisi e di lotta, le cui premesse sono state gettate a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, ma che oggi sono poco conosciute e poco utilizzate. Le ragioni possibili di questa ignoranza involontaria o deliberata sono molteplici. Anzitutto, la diffusione diseguale di prospettive differenti in base al loro potenziale sovversivo e alle posizioni di potere (di sesso [2], classe e «razza» [3] in particolare) delle persone e dei gruppi che le espongono, in seno all’accademia o nel mondo militante, così come nel quadro dei rapporti Nord-Sud [4]. In seconda battuta, l’indebolimento dei movimenti sociali che le hanno prodotte e che avrebbero potuto alimentarle, legato al riflusso dei movimenti «progressisti» o «rivoluzionari» e all’ascesa del conservatorismo a partire dagli anni Ottanta, nel quadro dello sviluppo della mondializzazione neoliberale.

Tuttavia, qui non si tratta tanto di interrogarsi sulle ragioni per cui questo o quell’orientamento oggi domina le scienze sociali o i movimenti sociali, quanto piuttosto di affrontare l’urgenza intellettuale e umana di comprendere e trasformare la realtà. In effetti, l’imposizione del neoliberalismo porta a un approfondimento vertiginoso delle diseguaglianze lungo le linee di frattura del sesso, della «razza» e della classe. Di fronte a questo incremento brutale della miseria e dello sfruttamento, ignorare l’eredità delle lotte radicali è un lusso che non ci possiamo permettere.

In un primo momento, per relativizzare l’attuale concezione occidentale dominante della sessualità e dei suoi rapporti con il sesso, il genere e i meccanismi di parentela, procederò ad alcuni richiami socio-antropologici e a una breve presentazione dei risultati principali che il lavoro fondamentale che Nicole-Claude Mathieu ha sviluppato nel corso degli anni Settanta e Ottanta e che ha raccolto, nel 1991, in un’opera dal titolo eloquente: L’anatomie politique. Presenterò poi quelli che mi sembrano costituire i più importanti apporti teorici e politici del movimento lesbico, radicale e femminista [5] di quel periodo, negli Stati Uniti e in Francia [6]. Per finire, mostrerò in quale misura tali apporti sono particolarmente preziosi nell’attuale contesto neoliberale, e in che modo potrebbero essere ulteriormente arricchiti per affrontare le sfide analitiche e politiche che la mondializzazione ci pone.

Varietà delle pratiche sessuali e matrimoniali tra «donne» e dei significati che vengono loro attribuiti.

 Storicità e molteplicità delle pratiche sessuali e matrimoniali tra donne

 Il mondo occidentale attuale, urbano, «bianco» ed economicamente privilegiato è lontano dall’essere il primo o l’unico all’interno del quale delle «donne» stabiliscono fra di loro relazioni sessuali, d’amore e/o coniugali. Diverse poete hanno testimoniato in prima persona del loro amore carnale per altre «donne», a partire da Saffo dell’antica Lesbo fino all’afro-nordamericana Audre Lorde (Lorde 1982; 1984). Malgrado le distruzioni successive, l’India pre-vedica ha lasciato sculture molto esplicite di relazioni sessuali fra «donne» (Thadani, 1996). Nello Zimbabwe, l’attivista lesbica Tsitsi Tiripano (deceduta nel 2001) e il gruppo lesbico e gay GALZ, all’interno del quale Tiripano militava, sono la dimostrazione eclatante che il lesbismo esiste nel continente africano (Aarmo, 1999). A Sumatra, in Indonesia, i «tomboys» sono «donne mascoline» che stabiliscono relazioni di coppia con altre «donne» (Blackwood, 1999).

Il lesbismo, qual è definito oggi nel pensiero occidentale dominante, è una categoria recente. Essa implica numerosi postulati eminentemente sociali che si sono progressivamente installati in società differenti. Alcuni fra questi sono largamente condivisi al di là del mondo occidentale — la credenza nell’esistenza di donne e di uomini, e nel fatto che queste donne e questi uomini siano tali in funzione di un «sesso» che sarebbe assegnato loro dalla Natura. Altri sono più specifici: assegnare alle persone un’identità sessuale sulla base di pratiche sessuali, decretare che tale identità è stabile e permanente (ovvero innata), fare infine coincidere tale «identità» con un tipo di carattere o di personalità.

Per contro, pratiche che potrebbero sembrare lesbiche all’interno delle attuali logiche occidentali, si tratti di pratiche sessuali o matrimoniali, non lo sono necessariamente per le società che le mettono in opera. Così, almeno in una trentina di società africane, come presso i Nandi del Kenya occidentale, esistono forme di matrimonio tra «donne», senza che queste ultime abbiano necessariamente delle relazioni sessuali fra loro (Amadiume, 1987; Oboler, 1980). Generalmente, si tratta per una donna ricca e anziana di avere una discendenza con una donna più giovane che le darà questi figli avendo relazioni sessuali con un uomo. Allo stesso modo, presso le popolazioni indiane nelle pianure del nord del continente americano, gli/le sciamani/e chiamati/e «berdaches» formano delle coppie con persone dello stesso «sesso», proprio perché sono socialmente considerati/e come appartenenti a un genere opposto al proprio «sesso» (Lang, 1999). È precisamente questa enorme diversità e complessità delle configurazioni culturali del sesso, del genere e della sessualità, presenti e passate, minoritarie e maggioritarie, ciò che il lavoro di Nicole-Claude Mathieu (1991) mette in luce.

 

Il quadro d’analisi di Mathieu

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Il quadro d’analisi che Mathieu propone è tanto più interessante in quanto ingloba al tempo stesso società non occidentali e occidentali, attuali e passate, a cui ella applica il doppio sguardo sociologico e antropologico che le appartiene. Il nucleo del suo pensiero sull’articolazione tra sesso, genere e sessualità appare nell’articolo «Identité sexuelle/sexuée/de sexe? Trois modes de conceptualisation de la relation entre sexe et genre» [7]. In questo articolo Mathieu risponde a un’ipotesi di Saladin d’Anglure (1985) secondo cui l’esistenza di un «terzo sesso», come nella società Inuit, invaliderebbe l’idea del binarismo dei sessi e dei generi. E soprattutto attenuerebbe, secondo Mathieu, la teoria dell’oppressione delle «donne». Nella sua elaborazione, Mathieu lavora su un insieme di pratiche che riguardano la sessualità, il genere o il sesso che l’attuale pensiero occidentale qualificherebbe volentieri come queer. Più precisamente, ella analizza:

« – [le] “devianze istituzionalizzate”, in modo permanente o occasionale, indagando se esse siano un’inflessione della norma o, al contrario, la sua quintessenza;

  • l’autodefinizione di gruppi o di individui considerati devianti o marginali, domandandosi se essa costituisca una soluzione “normata” alle incongruenze esperite o una sovversione» (Mathieu, 1991, 230)

Studiando queste «devianze» all’interno delle società più varie, Mathieu mostra (1) che la maggior parte fra queste costituiscono in realtà dei meccanismi istituzionalizzati di adattamento e/o sono funzionali al sistema sociale considerato e, soprattutto, (2) che non esiste un’unica maniera di credere (o di non credere) alla naturalità del sesso e dei generi. L’articolo di Mathieu è particolarmente interessante perché mostra bene i limiti della «vulgata sesso-genere» che, a partire dagli anni Ottanta, tende a sostituirsi alle analisi propriamente femministe: essa è inoffensiva e banale se le viene tolta la dimensione della sessualità. Ma soprattutto, come dimostra Mathieu, non sono le sessualità o i generi queer a fornire veramente la chiave della comprensione dei rapporti sociali di sesso, bensì la norma che questi rivelano, ovvero il principio direttivo dell’eterosessualità che infesta come uno spettro le «teorie del genere». È smascherando questo fantasma nelle sue diverse manifestazioni che Mathieu arriva a scoprire non uno, ma tre grandi modi di articolazione del sesso, del genere e della sessualità:

  • «Modo I: identità “sessuale”, basata su una coscienza individualista del sesso. Corrispondenza omologica tra sesso e genere: il genere traduce il sesso.
  • Modo II: identità “sessuata”, basata su una coscienza di gruppo. Corrispondenza analogica tra sesso e genere: il genere simbolizza il sesso (e viceversa).
  • Modo III: identità “di sesso”, basata su una coscienza di classe. Corrispondenza sociologica tra sesso e genere: il genere costruisce il sesso» (Mathieu, 1991, 231).

Questa tipologia permette di distanziarsi realmente dall’etnocentrismo e dal malinteso universalismo che caratterizzano lo sguardo occidentale dominante contemporaneo sulla sessualità e soprattutto sulle credenze relative alle identità di sesso. Questo decentramento svela il carattere eminentemente relativo, storico, culturale, non assoluto insomma, del sesso, del genere e della sessualità. Nello stesso movimento, Mathieu mostra bene che gran parte delle persone eterosessuali, al pari di quelle che contestano l’eterosessualità nel mondo occidentale, ma anche, direi, di ampi settori dei movimenti globali gay, queer e trans che si sviluppano oggi, aderiscono di fatto al modo I e talvolta al modo II di articolazione sesso-genere-sessualità.

Qui propongo, al contrario, di ritornare alle logiche sviluppate da altre correnti e che si inscrivono da molto tempo, come il pensiero della stessa Mathieu, in quello che lei definisce modo III, anti-naturalista e materialista [8]. Tuttavia, prima di proseguire, occorre fare ancora qualche importante precisazione sul contesto materiale e concettuale in cui queste analisi si collocano.

I tre modi di concettualizzazione dei rapporti tra sesso, genere e sessualità descritti da Mathieu si inscrivono nel quadro di una netta predominanza (numerica e politica) di società organizzate a beneficio di persone considerate come uomini e come maschi. Questa egemonia, che si osserva quasi ovunque nel mondo per i periodi storicamente documentati, funziona grazie a una stretta combinazione tra (1) rapporti sociali di sesso vari ma patriarcali [9] e (2) per le «donne», l’imposizione generale dell’eterosessualità procreativa e soprattutto la severa interdizione e invisibilizzazione dell’omosessualità femminile esclusiva.

Certamente, esistono delle eccezioni. Come mostra un insieme di lavori recenti raccolti da Mathieu (2007), alcune società matrilineari e soprattutto uxorilocali [10] conoscono rapporti sociali di sesso nettamente meno inegualitari di quelli che esistono nei sistemi patrilineari e virilocali. Quanto alla sessualità, non è raro che l’omosessualità maschile (alcune pratiche sessuali, in alcuni periodi della vita) e soprattutto l’omosocialità siano socialmente integrate ai dispositivi di potere patriarcali, come presso gli antichi Greci, gli Azandé, i Baruya o in certi club esclusivamente maschili di numerose metropoli odierne, come ricorda molto bene Mathieu (1991). Per contro, le pratiche sessuali tra «donne» in genere vengono tollerate soltanto a patto di essere strettamente private, invisibili e chiaramente separate da pratiche omosociali e/o di solidarietà morale e materiale, ovvero da alleanze matrimoniali e politiche visibili [11] tra «donne». Ora, è precisamente dalla congiunzione deliberata, collettiva tra pratiche sessuali, d’amore e alleanze materiali tra «donne» a detrimento delle relazioni obbligatorie con gli «uomini», cioè a partire dal lesbismo come movimento politico, che possono avere luogo le autentiche rivoluzioni di pensiero che qui presento.

 

Il lesbismo come movimento sociale e la sua teorizzazione politica

Apparizione di un movimento sociale autonomo e critico degli altri movimenti

L’esistenza semi-pubblica di collettività lesbiche in diversi paesi occidentali (in particolare) precede di molto lo sviluppo del movimento femminista, come attesta per esempio lo studio di Davies e Kennedy (1989) sulla cittadina di Buffalo, negli Stati Uniti maccartisti degli anni Cinquanta, che mostra l’esistenza di comunità di lesbiche proletarie e/o razzizzate organizzate, fra le altre cose, intorno a codici «butch/femme» [12]. Tuttavia, è soprattutto alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta che appare il movimento lesbico, al Nord come al Sud, in un clima di prosperità economica e di profonde trasformazioni sociali e politiche: sviluppo della società dei consumi, «modernità» trionfante e emersione di diversi movimenti progressisti e/o rivoluzionari. Negli Stati Uniti i movimenti per i diritti civili, la liberazione Nera, l’indipendenza di Porto Rico o i diritti indiani, le lotte rivoluzionarie e la decolonizzazione, l’opposizione alla guerra del Vietnam, infine i movimenti femminista e omosessuale, costituiscono altrettante «scuole» politiche per un’intera generazione di militanti. Tuttavia, per diverse ragioni, questi movimenti lasciano insoddisfatte molte donne e lesbiche. È precisamente la critica di tali insufficienze, delle contraddizioni e delle dimenticanze di questi movimenti che le porta a un’autonomizzazione organizzativa e soprattutto teorica.

Per quanto riguarda le lesbiche, la prima espressione largamente visibile di questa necessità di autonomia risale alla nord-americana bianca Jill Johnston, che si fa eco delle critiche rivolte, contemporaneamente, al movimento gay dominato dagli uomini e al movimento femminista dominato da donne eterosessiste e spesso eterosessuali. I suoi articoli, pubblicati sul Village Voice tra il 1969 e il 1972, sono raccolti in un’opera intitolata (dal suo editore) Lesbian Nation: the Feminist Solution. Apparsa nel 1973 nei circuiti editoriali classici, diventa rapidamente un best-seller (Johnston, 1973). Di fatto negli anni Settanta, e non senza conflitti, il movimento lesbico si diffonde a macchia d’olio un po’ ovunque nel mondo, rivendicando la propria autonomia sia nei riguardi al femminismo che del movimento omosessuale misto e, più complessivamente, rispetto all’insieme delle organizzazioni «progressiste» da cui le militanti sono spesso uscite. [13]

Sicché, il primo tipo di apporti del movimento lesbico agli altri movimenti sociali non è altro che metterli nelle condizioni di interrogarsi sui propri limiti e sui propri impensati, tanto nelle pratiche quotidiane che negli obiettivi politici, in particolare nel campo della sessualità, della famiglia, della divisione sessuale del lavoro o della definizione dei ruoli maschili e femminili. Le innumerevoli critiche formulate dalle lesbiche a questo riguardo, la maggior parte delle quali sono state articolate anche dal movimento femminista, sono uno specchio rivolto ai diversi movimenti e ai/lle militanti, che potrebbe permettere loro di dare realmente ai loro progetti tutta l’ampiezza di respiro politico che ostentano.

 

Teorizzazione dell’interdipendenza dei rapporti di potere e della necessità delle alleanze 

 

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Combahee River Collective

Nello stesso slancio di autonomizzazione e di approfondimento della riflessione sugli obiettivi a lungo termine e sulla quotidianità dei movimenti sociali, appare a Boston nel 1974 il Combahee River Collective, uno dei primi gruppi femministi Neri. Esso nasce a partire da una quadruplice critica: al sessismo e alla dimensione piccolo-borghese del movimento Nero, al razzismo e alle prospettive piccolo-borghesi del movimento femminista e lesbico, al carattere riformista della National Black Feminist Organization, e alla cecità delle femministe socialiste di fronte alle questioni di «razza». In risposta a tutte queste insufficienze, il Combahee River Collective afferma per la prima volta, in un manifesto divenuto classico, l’inseparabilità delle oppressioni e, dunque, delle lotte contro il razzismo, il patriarcato, il capitalismo e l’eterosessualità:

«La definizione più generale della nostra politica attuale può essere riassunta come segue: siamo attivamente impegnate nella lotta contro l’oppressione razzista, sessuale, eterosessuale e di classe e ci diamo come compito specifico quello di sviluppare un’analisi e una pratica integrate, basate sul fatto che i principali sistemi di oppressione sono interdipendenti (interlocking). La sintesi di queste oppressioni crea le condizioni in cui viviamo. In quanto donne Nere, logicamente vediamo il femminismo Nero come il movimento politico per combattere le oppressioni molteplici e simultanee che l’insieme delle donne di colore affronta» (Combahee River Collective, 1979).

Numerose lesbiche e femministe «di colore» gli fanno rapidamente eco. Tra le iniziative più importanti, l’antologia This Bridge Called My Back, coordinata da due lesbiche chicane, Gloria Anzaldúa e Cherríe Moraga, raccoglie le voci di un insieme di femministe e lesbiche Nere, Indiane, Asiatiche, Latine, migranti e rifugiate, che affermano a propria volta l’impossibilità di scegliere tra la propria identità in quanto donna e la propria identità in quanto persona «di colore» (Moraga, Anzaldúa, 1981).

Da un punto di vista teorico, le prospettive aperte da quelle militanti segnano un vero e proprio cambiamento di paradigma, con la formulazione pionieristica, da parte del Combahee River Collective, del concetto di interdipendenza [interlocking] di quattro rapporti di oppressione (Combahee River Collective, 1979). Notiamo che questo fondamentale contributo alle scienze sociali è indissociabile dal loro punto di vista di outsiders within, in quanto donne, Nere, lesbiche e proletarie. La loro capacità di vedere ed enunciare questa interdipendenza è, in ugual misura, il frutto della loro esperienza collettiva di militanza. Si tratta di un apporto supplementare: il Combahee ci ricorda che, se si prende sul serio la teoria dello standpoint [14], occorre tenere in considerazione almeno tre elementi nella ricezione di una teoria: non solo la posizione sociale occupata dalla persona, o dalle persone, che la formula(no), ma anche il carattere più o meno collettivo del pensiero e il modo in cui questo si inserisce in progetti di trasformazione sociale.

Sul piano politico, gli apporti di un gruppo come il Combahee sono altrettanto significativi. Anzitutto, le sue militanti affermano l’ineluttabilità della lotta simultanea su più fronti. In secondo luogo, insistono sulla necessità che tutte/i prendano in carico le diverse lotte. Combattere il razzismo, per esempio, è una responsabilità delle persone bianche come delle altre e spetta tanto sugli uomini che alle donne opporsi ai rapporti sociali di sesso patriarcali. Tuttavia, ed è un altro punto centrale, esse sottolineano che l’organizzazione delle lotte dovrebbe rispettare certe regole. Lo scopo non è che ogni gruppo si chiuda in se stesso e si isoli in battaglie specifiche, come spiega Barbara Smith, una delle militanti più in vista del Combahee:

«Ho spesso criticato le trappole del separatismo lesbico praticato soprattutto da donne bianche. […] Invece di lavorare per sfidare il sistema e trasformarlo, molte separatiste se ne lavano le mani e il sistema va avanti tranquillamente per la propria strada. […] L’autonomia e il separatismo sono fondamentalmente differenti». (Smith, 1983).

La distinzione che Smith propone tra separatismo e autonomia è particolarmente utile. In effetti, come il separatismo, l’autonomia implica la libera scelta di ogni gruppo dei criteri di inclusione delle militanti e dei metodi di lavoro. Per contro, a differenza del separatismo, essa non solo permette, ma deve sfociare nella creazione di spazi di incontro e alleanza:

«Le donne Nere possono legittimamente scegliere di non lavorare con le donne bianche. Quello che non è legittimo è ostracizzare le donne Nere che non hanno fatto la stessa scelta. Il peggior problema del separatismo non è chi definiamo come “nemico”, ma il fatto che esso ci isola le une dalle altre». (Smith, 1983).

Infine, ed è una conseguenza logica particolarmente importante di tutto ciò che precede, di fronte alla simultaneità di oppressioni e nel quadro dell’autonomia politica, la strategia difesa da queste lesbofemministe Nere è la ricerca attiva e la costruzione di coalizioni, non sulla base di un’addizione di identità e di organizzazione frammentate all’infinito, ma a partire da azioni concrete e in vista della formulazione collettiva di un progetto politico (Smith, 1983).

 

Denaturalizzazione dell’eterosessualità e del sesso

Il terzo grande apporto delle lesbiche è il rovesciamento completo della prospettiva naturalista di senso comune sulla sessualità, sui generi e soprattutto sui sessi. Tale rovesciamento è realizzato dalla rimessa in causa dell’idea, apparentemente semplice e innocente, secondo cui l’eterosessualità sarebbe un meccanismo naturale di attrazione tra due sessi.

Il primo attacco contro la supposta naturalità dell’eterosessualità, dei generi e dei sessi è sferrato nel 1975 dall’antropologa bianca Gayle Rubin nel suo saggio Lo scambio delle donne. Note sull’economia politica del “sesso” (Rubin, 1975). In questo studio audace, Rubin mostra il carattere profondamente sociale dell’eterosessualità. Ella sottolinea che lo stesso Claude Lévi-Strauss è stato pericolosamente vicino a sostenere che l’eterosessualità fosse un processo socialmente istituito, affermando che era la divisione sessuale del lavoro, socialmente costruita, a rendere imperativa la formazione di unità «familiari» costituite almeno da una donna e un uomo. Più precisamente, ciò che l’antropologo constata è che, in vista della riproduzione biologica e sociale, occorre obbligare gli individui a formare unità sociali costituite almeno da una «femmina» e un «maschio» — unità sociali che gli individui non formano spontaneamente. Sulla scorta di Lévi Strauss, Rubin dimostra che questa è la funzione della divisione sessuale del lavoro, intesa in questa prospettiva come un divieto per ciascun sesso di padroneggiare l’insieme dei compiti necessari alla sua sopravvivenza, cosa che li rende materialmente e simbolicamente dipendenti l’uno dall’altro. È anche e soprattutto questa, spiega Rubin, la ragion d’essere del tabù della similarità tra uomini e donne, intimamente legato al tabù dell’omosessualità — anteriore al tabù dell’incesto e più fondamentale di questo (Rubin, 1975) [15].

Alcuni anni più tardi, è collocando infine il lesbismo al cuore del ragionamento che altre due scrittrici e militanti femministe bianche, Monique Wittig e Adrienne Rich, riescono a spingere l’analisi più lontano. È consueto opporre queste due teoriche [16], tuttavia entrambe procedono a un riposizionamento particolarmente euristico del lesbismo, mediante una triplice operazione. Anzitutto, fanno uscire il lesbismo dal campo angusto delle pratiche strettamente sessuali. In secondo luogo, spostano l’attenzione da questa pratica «minoritaria» verso quella delle «maggioranze», ovvero puntando il proiettore sull’eterosessualità. Infine, e soprattutto, mostrano fino a che punto le poste sia del lesbismo che dell’eterosessualità non si trovano tanto nel campo della sessualità, quanto in quello del potere. Per entrambe l’eterosessualità, lungi dall’essere un’inclinazione naturale dell’essere umano, è imposta alle donne mediante la forza, ovvero mediante la violenza al tempo stesso fisica e materiale, compresa quella economica, e mediante un solido controllo ideologico, simbolico e politico, che fa intervenire un insieme di dispositivi che vanno dalla pornografia fino alla psicoanalisi.

Così, nel suo articolo «Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica» [17], Rich denuncia l’eterosessualità obbligatoria come una norma sociale resa possibile dall’invisibilizzazione del lesbismo — anche all’interno del movimento femminista. Il lesbismo viene situato nella prospettiva di un «continuum lesbico» che unisce tutte le donne che, in maniere differenti, si allontanano dall’eterosessualità obbligatoria e tentano di sviluppare dei legami tra loro per lottare contro l’oppressione delle donne, indipendentemente dalla loro sessualità. Rich ha criticato certi aspetti essenzialisti del concetto di «donna identificata alle donne» (Koedt, 1970). Nel suo articolo, sottolinea invece pratiche di solidarietà tra donne descritte da donne Nere come Toni Morrison o Zora Neale Hurston. Ed è in qualche modo ciò che si augura di vedere svilupparsi: una vera solidarietà tra le donne, non «naturale», romantica o ingenua, bensì volontaria e chiaramente politica, che faccia spazio a tutte nella lotta per la liberazione comune. In un lavoro successivo, Rich afferma:

«È fondamentale intendere il femminismo lesbico nel suo senso più profondo e radicale, come l’amore per noi stesse e per le altre donne, l’impegno per la libertà di tutte e di ciascuna di noi, che trascende la categoria di “preferenza sessuale” e quella di diritti civili, per trasformarsi in una politica che ponga le questioni delle donne che lottano per un mondo in cui l’integrità di tutte — e non quella di un pugno di elette — venga riconosciuta e tenuta in considerazione in tutti i campi della cultura» (Rich, 1979).

Monique Wittig, per parte sua, comincia subito con una delle proposizioni principali del femminismo materialista — che in quel momento si sviluppa intorno alla rivista Questions féministes, dove vengono pubblicati i suoi due articoli inaugurali [18] — secondo la quale donne e uomini non si definiscono in base al loro «sesso». Per questa corrente gli uomini e le donne non sono affatto definiti da un riferimento naturalista al corpo, ma da un rapporto di classe, da una posizione occupata all’interno di rapporti sociali di potere e che Colette Guillaumin ha definito come rapporti di appropriazione fisica diretta, che ha chiamato rapporti di sexage, con il loro aspetto mentale: la naturalizzazione delle dominate (Guillaumin, 1978). Nei termini di Wittig, «ciò che costituisce una donna è la particolare relazione sociale con un uomo, relazione che precedentemente abbiamo chiamato servaggio, relazione che implica obblighi personali e fisici, così come obblighi economici (“assegnazione di residenza”, corvée domestica, dovere coniugale, produzione di figli illimitata, etc.)» (Wittig, 1980). Le donne e gli uomini sono categorie politiche che non possono esistere l’una senza l’altra. Le lesbiche, «fuggendo, o rifiutando di divenire, o di restare, eterosessuali», mettendo in causa questa relazione sociale, l’eterosessualità, problematizzano l’esistenza stessa delle donne e degli uomini. Ma non è sufficiente fuggire a livello individuale, perché non esiste veramente un “fuori”: per esistere, le lesbiche devono condurre una lotta politica di vita o di morte per l’estinzione delle donne come classe, per distruggere il «mito della Donna» e per abolire l’eterosessualità:

«La nostra sopravvivenza esige che contribuiamo con tutte le nostre forze alla distruzione della classe — le donne — tramite cui gli uomini si appropriano delle donne e ciò può avvenire soltanto attraverso la distruzione dell’eterosessualità in quanto sistema sociale basato sull’oppressione e sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini e che produce il corpus dottrinario sulla differenza fra i sessi [19] per giustificare tale oppressione» [Wittig, 1980].

Ciò che mostra Wittig è che l’eterosessualità (1) non è naturale ma sociale, (2) non è una pratica sessuale ma un’ideologia, che lei chiama «pensiero straight» e, soprattutto, (3) che questa ideologia centrale ai fini dell’oppressione patriarcale delle donne, della loro appropriazione da parte della classe degli uomini, è basata sulla credenza fervente e continuamente rinnovata nell’esistenza di una differenza sessuale. Wittig sottolinea che questa «differenza sessuale» costituisce un postulato sotteso non solo al senso comune, ma anche al complesso delle «scienze» occidentali, dalla psicoanalisi fino all’antropologia. Ora, secondo lei tale credenza, autentica pietra angolare dell’eterosessualità, non solo non viene mai sottoposta ad analisi, ma è smentita, giorno dopo giorno, dall’esistenza politica delle lesbiche e del loro movimento.

 

Le sfide attuali

Che bilancio possiamo fare oggi delle teorizzazioni che ho appena presentato e che costituiscono il fondamento di un pensiero femminista e/o lesbico materialista, anti-naturalista e radicale? Come ci permettono di affrontare alla radice i problemi «di fondo» che ho evocato all’inizio di quest’articolo? D’altronde quali sono, in ultima analisi, questi problemi?

Il primo, come ripetono con insistenza le militanti lesbiche e femministe Nere, fra le altre, è l’interdipendenza dei rapporti sociali di potere. Questo elemento fondamentale rimette profondamente in questione gli orientamenti di tutta una parte dominante del movimento LGBTQI [20], che combatte un solo tipo di rapporti sociali (di sesso) e contemporaneamente si basa — e rafforza — prospettive «gay-maschili-patriarcali», bianche e di classe media. Evidentemente, non si tratta qui di contestare in assoluto la legittimità delle lotte delle sessualità e dei generi «minoritari», ma di esortare alla vigilanza per non perdere, in qualche modo, sul piano della «razza» e della classe quello che si può eventualmente conquistare sul piano dei rapporti di sesso. Al tempo stesso, la coscienza dell’interdipendenza dei rapporti di potere obbliga a spingere più lontano le prospettive di Wittig, Rich o Mathieu. In particolare, dobbiamo portare avanti l’analisi del modo in cui l’eterosessualità come ideologia e come istituzione sociale costruisce e naturalizza non soltanto la differenza sessuale, ma anche la differenza di «razza» e di classe. Si tratta di un campo particolarmente vasto e appassionante, in cui la maggior parte delle analisi sono ancora da fare.

È di importanza tanto più vitale decifrare questo campo oggi, quando il nazionalismo, la xenofobia e l’essenzialismo (di «razza» e di sesso) ritornano in auge con la mondializzazione e lo sviluppo di un pensiero politico reazionario, naturalista e a-storico, legato all’ascesa dei fondamentalismi religiosi, negli Stati Uniti e nel mondo, incoraggiato moralmente e finanziariamente dai governi nord-americani che si sono alternati e/o esacerbato dalla loro politica. I lavori di Colette Guillaumin sulla naturalizzazione della «razza» e del sesso, che sono una delle principali fonti della corrente femminista e lesbica, costituiscono una base estremamente solida su cui appoggiarsi. Tuttavia, non inganniamoci sul «nemico principale»: ciò che questo processo ideologico (naturalizzazione delle posizioni sociali delle persone, ascesa del religioso come espressione culminante del politico) sottende è un processo materiale di sfruttamento, di estrazione e di concentrazione di ricchezze, che si intensifica nella mondializzazione neoliberale.

Una terza serie di sfide (il «cuore» del problema, forse) riguarda precisamente l’inasprimento dei rapporti sociali di potere e il deterioramento delle condizioni di vita di una grossa parte della popolazione mondiale. L’impoverimento brutale della maggioranza delle «donne» (e degli uomini) nel mondo costringe molte persone alla mobilità, mentre le politiche migratorie internazionali si fanno più dure e il controllo degli spostamenti interni si rafforza in molti paesi (tramite la minorizzazione giuridica, la concentrazione nei campi dei rifugiati, la reclusione penitenziaria, i muri eretti da ogni parte, la ghettizzazione di numerosi quartieri popolari, ma anche la minaccia dell’assassinio-femminicidio sul «modello» di Ciudad Juárez, il rafforzamento delle separazioni «etniche», la mancanza di mezzi finanziari per spostarsi, etc.). Il lavoro si modifica e si informalizza, mentre una quantità sempre maggiore di manodopera è spinta verso quello che altrove ho chiamato il «continuum di lavoro considerato femminile», né completamente gratuito, né veramente salariato, e che comprende l’insieme dei «servizi» attesi ed estratti a basso costo delle persone socialmente costruite come donne (Falquet, 2008).

A questo riguardo il lavoro di Paola Tabet, in sintonia con le analisi presentate qui, potrebbe rivelarsi di enorme utilità, in particolare il suo concetto di scambio economico-sessuale (2004). Infatti, esso potrebbe permettere di comprendere meglio le nuove logiche delle alleanze matrimoniali, sessuali e del lavoro (e dunque una parte importante delle pratiche sessuali e di genere) delle donne impoverite e razzizzate, le cui «scelte» possibili, per via della loro frequente mancanza di autonomia giuridica, oscillano sempre più tra il matrimonio con uomini bianchi e più ricchi, eventualmente di altre nazionalità, e il lavoro sessuale in tutte le sue forme, antiche e nuove. Simultaneamente, sarebbe necessario fare intervenire massicciamente le prospettive della co-formazione dei rapporti sociali per analizzare il modo in cui si organizza questo scambio economico-sessuale e come si combina con il «classico» lavoro salariato. Per esempio, per comprendere gli interventi sul corpo: dotarsi di seni, o ingrandirseli, o schiarire la pelle, permette di trovare un marito, un cliente o un impiego da receptionist, o di diventare o di restare una «donna», «bianca/bella»?

Come si vede, i problemi sono numerosi e complessi. Per orientarci, tuttavia, disponiamo di strumenti — ancora da perfezionare — : le teorie dell’interdipendenza dei rapporti di sociali di sesso, di «razza», di classe e l’analisi del «pensiero straight». Queste teorie sollecitano ad allontanarsi da una politica «identitaria» che si ipnotizza intorno alla difesa o alla contestazione di attributi simbolici, corporei e psichici di un sesso, di una «razza» o di una classe. Le lesbiche femministe l’hanno mostrato chiaramente: la Natura non esiste e questi attributi non sono altro che contrassegni e conseguenze dell’assegnazione di un posto particolare nell’organizzazione sociale del lavoro. Essi possono mutare senza che l’organizzazione del lavoro ne risulti, contestualmente, perturbata. Inoltre, finché si combatte una sola dimensione alla volta, l’interdipendenza dei rapporti sociali permette il loro riadattamento reciproco senza che la logica di fondo venga modificata — vale a dire l’oppressione e lo sfruttamento. E sono dunque l’oppressione e lo sfruttamento che dobbiamo aggredire, se vogliamo combattere efficacemente i loro effetti. In altri termini, dobbiamo lottare per modificare l’organizzazione della divisione del lavoro, dell’accesso alle risorse e alle conoscenze. E, per cominciare, possiamo ri-appropriarci delle analisi dei movimenti sociali che si sono proposti di attaccare direttamente il cuore dei rapporti di potere.

[Per citare questo articolo copiare il link:]

Rompere il tabù dell’eterosessualità, finirla con la differenza dei sessi: gli apporti del lesbismo come movimento sociale e teoria politica – Jules Falquet

NOTE

[1] Benché questo testo rifletta esclusivamente le mie posizioni personali, mi sarebbe stato impossibile scriverlo senza aver preso parte al movimento lesbico e femminista. Tengo a sottolineare l’importanza teorica e politica che hanno avuto per me i gruppi Comal-Citlalmina, Archives lesbiennes, La Barbare, Media Luna, Próxima, 6 novembre e Cora. G, in particolare. Ringrazio anche Nasima Moujoud, Florence Degavre, Ochy Curiel, Natacha Chetcuti, Cécile Chartrain e Nicole-Claude Mathieu per i loro preziosi commenti.

[2] Per controbilanciare la forte tendenza alla naturalizzazione di molte categorie analitiche, che si confondono spesso con categorie del senso comune, in questo testo utilizzo molte virgolette. Chiamerò «donna» tra virgolette una persona socialmente considerata come tale, in una società data, indipendentemente da ogni considerazione naturalista.

[3] Qui uso il concetto di «razza» per designare il risultato di un rapporto sociale che include diverse dimensioni, come il «colore» ma anche lo statuto migratorio o la nazionalità, fra gli altri.

[4] Le categorie di Sud, Nord e Occidente sono categorie politiche. Non si tratta in nessun caso di blocchi politici o a-storici. L’Occidente è multiplo e fratturato, come il Sud e il Nord; sono attraversati da contraddizioni di sesso, di classe, di «razza», regionali, etc., e sono in costante trasformazione.

[5] Non posso entrare qui nella complessità delle designazioni di ogni tendenza lesbica e femminista. Per maggiori dettagli sulle correnti del pensiero lesbico, si possono vedere Falquet (2004) o Turcotte (1998).

[6] Ben inteso, il mondo è infinitamente più vasto di questi due paesi, ma sono quelli in cui hanno vissuto le militanti e le teoriche il cui lavoro ho scelto di presentare, avendo coscienza di lasciare da parte altre riflessioni importanti.

[7] È nel 1982, in occasione del X Congresso mondiale di sociologia in Messico, che Nicole-Claude Mathieu ha presentato le basi di questo lavoro. In seguito, esso è stato pubblicato all’interno di un’opera collettiva, quindi ripreso nel 1991 nel libro di Mathieu già menzionato che offre una visione d’insieme delle sue ricerche: L’anatomie politique.

[8] «Nel modo III di concettualizzazione del rapporto tra sesso e genere, la bipartizione del genere è concepita come estranea alla “realtà” biologica del sesso (che diventa per altro sempre più complessa da discernere), ma non, come si vedrà, all’efficacia della sua definizione ideologica. Ed è l’idea stessa di questa eterogeneità tra sesso e genere (la loro diversa natura) che conduce a non pensare più che la differenza sessuale sia “tradotta” (modo I) o “espressa” o “simbolizzata” (modo III) attraverso il genere, ma che il genere costruisce il sesso. Tra sesso e genere si stabilisce una corrispondenza sociologica, e politica. Si tratta di una logica anti-naturalista e di un’analisi materialista dei rapporti sociali di sesso» (Mathieu, 1991, 255-256; traduzione nostra).

[9] Uso l’aggettivo patriarcale non per indicare un sistema presuntivamente universale e a-storico (un’idea che è stata largamente criticata e battuta in breccia, idea per altro incoerente con la prospettiva di co-formazione dei rapporti sociali di potere), ma per qualificare certe configurazioni dei rapporti sociali di sesso sfavorevoli alle donne (i rapporti sociali all’interno un dato gruppo, in una determinata epoca, possono essere più o meno patriarcali, vale a dire più o meno oppressivi per le donne, proprio come possono essere più o meno razzisti, per esempio).

[10] Matrilineare: sistema entro cui l’appartenenza al gruppo viene definita seguendo la linea materna. Uxorilocale: sistema entro cui, dopo il matrimonio, lo sposo va risiedere nella casa della sposa.

[11] È il motivo per cui la trasgressione, da parte di alcune «donne», dell’apparenza socialmente prescritta alle donne e soprattutto del loro posto nella divisione del lavoro, è severamente sanzionata nella maggior parte delle società (le «donne» che rifiutano la maternità e/o l’allevamento dei figli, il lavoro domestico, lo scambio economico-sessuale con gli «uomini», o ancora che avanzano la pretesa di guadagnare un salario migliore degli «uomini» e di occupare posizioni di potere). Per sperare di aggirare queste sanzioni, occorre essere particolarmente abili, disporre di un sostegno collettivo e/o beneficiare di privilegi legati all’età, alla «razza» e/o alla classe.

[12] «Butch» designa lesbiche mascoline e «fem» lesbiche «femminili» (Chetcuti, 2008; Lemoine, Renard, 2001)

[13] Per l’America latina, si può consultare il lavoro pionieristico di Norma Mogrovejo (2000).

[14] Le diverse teorizzazioni del «punto di vista», sviluppate in particolare da Patricia Hill Collins, Sandra Harding e bell hooks, implicano (1) la riflessività di chi conduce la ricerca in rapporto alla propria posizione sociale di sesso, classe e «razza», fra le altre cose, al momento di effettuare il proprio lavoro e (2) la considerazione del punto di vista a partire dal quale una teoria viene sviluppata, in modo da sapere quale posizione assegnarle nell’analisi.

[15] A partire dagli anni Ottanta, Rubin sviluppa analisi che si allontanano dalla corrente teorica che presento qui, riducendo la sessualità lesbica a una sessualità (oppressa) fra tante altre.

[16] In effetti, dopo aver pubblicato i due articoli di Wittig e nel contesto di un conflitto più ampio all’interno del movimento femminista in Francia intorno alla questione del sedicente «separatismo lesbico», in realtà quella del lesbismo radicale, la rivista Questions féministes esplode. Quando riappare, con il nome di Nouvelles questions féministes, pubblica immediatamente la traduzione dell’articolo di Rich, presentandola nell’editoriale come la sua «nuova linea» (Nouvelles Questions féministes, 1981). Più che l’opposizione Wittig/Rich, sarebbe importante esplorare maggiormente i principi e gli esiti di tale scissione, che ha influenzato profondamente lo sviluppo teorico della corrente femminista materialista francese. Bisognerebbe analizzare in parallelo (1) l’intervento, negli Stati Uniti, del «french feminism» (Delphy, 1996; Moses, 1996), (2) le evoluzioni teoriche di autrici come Gayle Rubin e del movimento femminista e lesbico nord-americano sulla sessualità, a partire dalla conferenza del Barnard College del 1982 sulla «politica sessuale», e (3) molto più di recente e in un altro ambito disciplinare, l’ascesa delle teorie butleriane, in parte appoggiate sull’interpretazione di autrici francesi, fra cui Wittig.

[17] Articolo inizialmente apparso in Signs nel 1981 e tradotto in Nouvelles Questions féministes (Rich 1980; 1981). La traduzione italiana dell’articolo, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, è apparsa su «DWF», 23-24, 1985, pp. 5-40.

[18] «On ne naît pas femme» e «La pensée straight», frutti di un lavoro presentato originariamente in inglese durante una conferenza tenuta nel 1978 negli Stati Uniti, e pubblicati in francese nel 1980 (Wittig, 1980; 1981).

[19] La sottolineatura è mia.

[20] Lesbico, gay, bisessuale, trans, queer e intersex.

 

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