Si chiamava Norma

di Yasmin Nair

Norma McCorvey nel 1989 – foto di Lorie Shaull

Chi era Jane Roe, ovvero Norma McCorvey, la querelante nel caso Roe v. Wade? La storica sentenza con cui nel 1973 la Corte suprema degli Stati Uniti aveva riconosciuto il diritto all’aborto è stata clamorosamente annullata nel giugno del 2022. Yasmin Nair ripercorre la vicenda di Norma McCorvey/Jane Roe, evidenziando i limiti dell’interpretazione liberale della pratica dell’autodeterminazione e le sue disastrose ricadute politiche.

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Ho scritto questo articolo nel 2020, due anni prima del recente annullamento della sentenza sull’aborto Roe v. Wade. Non mi interessava recuperare la figura di Norma McCorvey come quella di un’eroina senza macchia: il mio scopo era dimostrare che le nostre battaglie politiche più incisive sono radicate in vite e storie complicate che dobbiamo mettere in evidenza, non oscurare. McCorvey è stata usata da una comunità di attiviste per il diritto all’aborto che l’ha nascosta alla vista del pubblico, temendo che una persona così imperfetta (cioè, reale) potesse diminuire la simpatia verso la causa. Ma a cosa serve una causa che ignora la realtà delle vite che pretende di rappresentare? Oggi i liberal-democratici di tutto il mondo si torcono le mani per il recente annullamento di Roe, dichiarandosi scioccati dalla piega che hanno preso gli eventi. Ma Roe è stata praticamente inutile fin dall’inizio per le donne come McCorvey, perché è stata basata su concetti come “privacy” e “autonomia corporea”, che sono tutti fondati su un’economia di privilegi. La vita di Norma McCorvey ci ricorda che non dobbiamo ripristinare e ritornare a una Roe imperfetta e inefficace. Invece, in tutto il mondo, dobbiamo costruire un accesso all’aborto infinitamente migliore e più sostenibile, che veda l’aborto come una questione economica. (Y. N.)

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“Con lei, tutti i nostri passati – quello queer, quello femminista e quello apertamente etero – diventano infintamente più complicati e infinitamente più ricchi”.

Norma McCorvey è morta il 18 febbraio del 2017. Tre anni dopo, un documentario su di lei ha provocato sconcerto, costernazione e un profondo senso di tradimento da entrambe le parti del dibattito sull’aborto.

Norma McCorvey era Jane Roe, la querelante nella storica sentenza Roe v. Wade del 1973, alla quale viene ampiamente attribuito il merito di aver dato alle donne americane il diritto di “scegliere” l’aborto. Il film è AKA Jane Roe. In realtà, come sappiamo, le attuali leggi sull’aborto sono ancora enormemente restrittive, quasi quanto lo erano il giorno in cui McCorvey, allora ventenne, nel 1969, cercò di abortire in Texas, dove le donne non potevano legalmente interrompere la gravidanza senza uscire dallo Stato. Trovandosi incinta e senza alcuna speranza di ricevere assistenza da parte dei medici, anche se dichiarò di avere subito uno stupro, McCorvey finì in un posto in cui si praticavano aborti clandestini, un luogo infestato da scarafaggi e coperto di sporcizia: diede un’occhiata ed ebbe paura di non uscirne viva. Se ne tornò a casa e partorì un bambino che diede subito in adozione.

Negli anni successivi, qualcuno la mise in contatto con due avvocate che stavano cercando una donna attorno alla quale potessero imbastire una causa sul diritto all’aborto fino al terzo trimestre: doveva essere abbastanza povera da non poter uscire dallo Stato per abortire. In McCorvey trovarono la candidata perfetta. Quando vinsero la causa, la chiamarono per congratularsi e le chiesero: Non sei contenta? Lei rispose: Perché dovrei essere contenta? Il bambino l’ho avuto.

Nel 1989 a Washington ci fu una manifestazione di donne provenienti da tutto il paese per il diritto all’aborto. Tra le celebrità intervenute, cariche di privilegi e frementi di rabbia, c’erano donne che vibravano di virtuosa indignazione come Whoopi Goldberg e Cybil Shepherd. Nel frattempo, McCorvey era stata intervistata a proposito del suo aborto e aveva rivelato che in realtà, no, la gravidanza che aveva cercato di interrompere e che aveva portato alla causa legale non era mai stata il risultato di uno stupro. Come disse senza mezzi termini, mentire era quello che bisognava fare, a quei tempi, per ottenere un aborto. Questo, insieme al suo carattere brusco da proletaria (lavorava come donna delle pulizie) e al suo pronunciato accento nasale della Louisiana/Texas, l’aveva resa un’oratrice inadatta agli occhi delle organizzatrici della manifestazione, e non fu invitata a parlare. L’ironia è che Roe v. Wade avrebbe potuto avere successo solo con una donna come McCorvey e che nessuna delle donne a cui era stata data l’opportunità di tuonare contro la perdita del diritto all’aborto avrebbe mai dovuto combattere per ottenerlo come dovette fare lei.

Con il passare degli anni, la salute e la situazione economica di McCorvey divennero sempre più precarie: alla fine rinnegò il proprio aborto, divenne una born-again Christian e trovò accoglienza tra le braccia del movimento antiabortista, che si rallegrò di trovare in lei un’icona perfetta da esibire. Come dichiara l’evangelico Robert Schenck nel documentario: “con lei abbiamo avuto il nostro Oscar”. McCorvey continuò a fare campagna elettorale per candidati antiabortisti e parlò spesso della propria fede in televisione. Il movimento per il diritto all’aborto, lo stesso che si era rifiutato di darle voce a dispetto del suo ruolo fondamentale per la causa, a quel punto si sentì profondamente tradito. Come ha potuto? si chiedevano. Ecco, sapevamo di non poterci fidare di lei.

Poi, tre anni dopo la sua morte, McCorvey ha di nuovo inorridito tutti, su entrambi i fronti. Il documentario mostra un filmato in cui la donna rivela di avere assunto una posizione antiabortista solo in cambio di denaro, che le era stato versato attraverso vari canali dalle forze anti-choice, in particolare dall’organizzazione Operation Rescue di Randall Terry: l’importo totale era di circa 450.000 dollari nell’arco di diversi anni. Nel video McCorvey afferma chiaramente di essere, in realtà, a favore del diritto dell’aborto, poi ride e si fa beffe dell’ipocrisia di coloro che pensavano di aver comprato le sue opinioni: Sono una brava attrice, dice ridendo e facendo spallucce.

Tutto ciò potrebbe non essere completamente vero, anche se le parole di Robert Schenck, l’unico evangelico di tutta la baracca che abbia qualcosa di simile a una coscienza, sembrano le più appropriate: Mi sono sempre chiesto: Ci sta prendendo in giro? Perché so per certo che noi stiamo prendendo in giro lei… Ora la farsa è finita.

La maggior parte delle persone, me compresa, non ha mai saputo che la donna il cui cognome fittizio è diventato simbolo del diritto all’aborto in realtà non ha mai ottenuto l’aborto che voleva. Il suo nome e il suo volto apparivano qua e là soprattutto come curiosità: Oh, guardate, eccola, la querelante nella causa Roe v. Wade, o Avete sentito che la donna di Roe v. Wade ora è antiabortista?

E la maggior parte delle persone, me compresa, non sapeva che McCorvey ha avuto diverse relazioni lesbiche, tra cui quella con Connie Gonzalez, con cui ha vissuto per trentacinque anni. Commentando il film, The Advocate (USA) e Pink News (UK) hanno usato parole identiche per descriverla: McCorvey, che si identificava come lesbica ma ebbe relazioni sia con uomini che con donne…

Il “ma” è indicativo del profondo sospetto della comunità gay mainstream nei confronti di tutte le persone che non possono essere identificate con precisione da una sessualità facilmente riconoscibile; il “ma” indica una persona di cui non ci si può fidare. Avrebbero potuto scrivere tranquillamente: “McCorvey, che si identificava come lesbica E aveva relazioni sia con uomini che con donne”, ma sarebbe stato troppo: tutta la gay-lesbicità sarebbe crollata, incapace di sopportare il peso dell’indeterminatezza e dell’illeggibilità.

A tutt’oggi, sebbene in occasione di ogni Pride a tante figure venga attribuito uno status eroico, non si è parlato neanche della possibilità di collocare Norma McCorvey in una sorta di firmamento che riconosca il suo posto straordinariamente importante, anche se conflittuale e talvolta confuso, nella storia americana. Senza di lei, non ci sarebbe stata la sentenza Roe v. Wade, per quanto imperfetta e inadeguata. Con lei, tutti i nostri passati – quello queer, quello femminista e quello ostentatamente etero – diventano infinitamente più complicati e infinitamente più ricchi.

La parola “menzogna” ricorre spesso nel modo in cui viene narrata McCorvey, i cui racconti autobiografici sono costellati di quelle che potremmo definire omissioni di ogni tipo. Ma se dovessimo guardare alle storie delle donne e alle storie queer in modo più onesto, dovremmo riconoscere che non riescono a integrare le vite delle persone come lei: fu odiata e abbandonata dalla madre, che lei stessa chiamerà Una stronza, falsa e stronza! Alla tenera età di dieci anni McCorvey è scappata con un’amichetta e, in qualche modo, le due sono riuscite a prendere una stanza d’albergo dove sono state trovate a baciarsi. Per questo fu messa in un’istituzione per ragazze (che, dirà in seguito, amava perché, come dichiarò, Non avevo mai visto così tante tette in un posto solo). Una volta uscita da lì, fu affidata a un parente che la stuprò ripetutamente, quindi sposò un uomo che – racconta – la picchiò quando rimase incinta, fu emarginata da un movimento letteralmente costruito sul suo nome, e così via. La storia dei gay e delle lesbiche,  e un certo filone della storia femminista, si basano sulla verità ineccepibile, o su una qualche versione di essa: ci piace che le nostre figure eroiche siano incontaminate, preferibilmente belle e colte. McCorvey non era una “figura imperfetta”: era una figura umana, che a malapena riusciva a sopravvivere sotto la pressione del capitalismo e che, alla fine, raccolse tutte le sue riserve e rivolse un gigantesco dito medio al movimento antiabortista che pensava di essere riuscito a comprare il suo silenzio.

Norma McCorvey era una lesbica, Norma McCorvey non era una lesbica, Norma McCorvey non era in grado di essere fedele alla verità, Norma McCorvey diceva la verità come nessun’altra.

Si chiamava Norma McCorvey e dobbiamo fare tutto il possibile per ricordarla.

*** Testo originale sul blog di Yasmin Nair.
Ringraziamo l’autrice per la nota introduttiva scritta per Manastabal.

Il mito dell’orgasmo vaginale

di Anne Koedt, 1970

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Il mito dell’orgasmo vaginale, uno dei primi testi del femminismo radicale statunitense (pubblicato in forma breve nel 1968, per esteso nel 1970), portò con sé una novità dirompente: per la prima volta il piacere sessuale delle donne viene trattato come argomento politico e analizzato nel contesto dei rapporti di potere della società patriarcale. Alla fine degli anni ’60 le femministe si trovano di fronte due modelli di eterosessualità femminile, quello freudiano tradizionale della donna passiva e quello della donna “liberata” della controcultura. Contestano entrambi i modelli come pilastri del patriarcato, eleggendo la clitoride e il suo piacere a simbolo dell’autodeterminazione delle donne.

Se la retorica maschile della cosiddetta “liberazione sessuale” era già stata smascherata dall’umorismo al vetriolo di Valerie Solanas, nel suo pamphlet Anne Koedt si occupa di sfatare il mito dell’orgasmo vaginale: quel discorso fraudolento degli “esperti” che ha causato accuse infondate di “frigidità”, enormi problemi psicologici alle donne e il ricorso diffuso alla dissimulazione. Un discorso patriarcale che conferisce importanza alla vagina come simbolo della femminilità “normale”, affermando l’essenziale dipendenza delle donne dagli uomini e dal pene per il proprio appagamento sessuale ed emotivo. L’autrice sposta invece l’attenzione sulla clitoride, sottraendola alla patologizzazione freudiana con il ricorso alle più recenti ricerche della sessuologia. Nasce così la nuova visione femminista della clitoride come luogo potenziale di una sessualità femminile autonoma, non definita dall’uomo. Come Koedt accenna alla fine del saggio, la sessualità clitoridea non solo destabilizza la gerarchia eterosessuale ma mette in questione la stessa “istituzione dell’eterosessualità”. Centralità della clitoride, potenziale superfluità del maschio, sessualità femminile autodeterminata che si pone al di là delle categorie di etero- e omosessualità: una visione talmente radicale che in seguito alla pubblicazione del testo l’autrice ricevette una gran quantità di lettere d’odio e una minaccia di morte.

Se in questo testo alcuni aspetti dell’analisi sono datati, perché restano dentro i limiti di una spiegazione tutta psicologica del dominio maschile e dei rapporti sociali patriarcali, questo saggio, divenuto un classico del femminismo, rappresenta tuttavia un prezioso documento storico del pensiero femminista: testimonia il tentativo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 (in Italia si pensi a La donna clitoridea e la donna vaginale di Lonzi) di politicizzare la conoscenza del proprio corpo e immaginare un nuovo tipo di sessualità femminile. La clitoride in quegli anni diventa un simbolo che serve ad affermare l’autonomia sessuale delle donne e a demolire il mito della complementarietà naturale dei sessi.

Grazie alla pratica politica della traduzione femminista, in particolare a Serena Luce Castaldi, The Myth of the Vaginal Orgasm arrivò in Italia nel 1972, incluso nella raccolta Donne è bello a cura del gruppo milanese L’Anabasi. Manastabal propone qui una nuova traduzione aggiornata e integrale, basata sul testo pubblicato in Notes of the Second Year: Women’s Liberation. Major Writings of the Radical Feminists, a cura di Shulamith Firestone e Anne Koedt, New York, 1970.

Dalla copertina del libro Radical Feminism, a cura di Anne Koedt, Ellen Levine, Anita Rapone, New York, 1973

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Ogni qualvolta si discute di orgasmo femminile e frigidità, si fa una falsa distinzione tra l’orgasmo vaginale e quello clitorideo. La frigidità è stata generalmente definita dagli uomini come l’incapacità delle donne di avere orgasmi vaginali. In realtà, la vagina non è una zona particolarmente sensibile e non ha una struttura adatta a raggiungere l’orgasmo. È la clitoride a essere il centro della sensibilità sessuale e l’equivalente femminile del pene.

Credo che questo spieghi moltissime cose: prima di tutto il fatto che il cosiddetto tasso di frigidità tra le donne sia incredibilmente alto. Piuttosto che ricondurre la frigidità femminile a false premesse sull’anatomia femminile, i nostri “esperti” hanno stabilito che la frigidità è un problema psicologico delle donne. Le donne che lamentano tale frigidità sono state indirizzate a psichiatri che potessero scoprire quale fosse il loro “problema”, di solito diagnosticato come incapacità di adattarsi al proprio ruolo di donne.

I dati di fatto dell’anatomia e della risposta sessuale femminile ci raccontano tutta un’altra storia. Sebbene vi siano molte zone di eccitazione sessuale, vi è solo una zona per il raggiungimento del climax: questa zona è la clitoride. Tutti gli orgasmi sono estensioni di sensazioni da quest’area. Proprio perché la clitoride non viene sufficientemente stimolata nelle posizioni sessuali convenzionali, ecco che restiamo “frigide”.

Oltre alla stimolazione fisica, che è la causa comune di orgasmo nella maggior parte delle persone, vi è anche una stimolazione attraverso processi principalmente mentali. Alcune donne, ad esempio, possono raggiungere l’orgasmo attraverso fantasie sessuali o attraverso feticismi. In ogni caso, mentre lo stimolo può essere psicologico, l’orgasmo si manifesta fisicamente. La causa può essere psicologica, ma l’effetto è comunque fisico e l’orgasmo ha luogo, necessariamente, nell’organo sessuale preposto al climax sessuale, la clitoride.

L’esperienza dell’orgasmo, inoltre, può assumere diversi gradi di intensità: alcuni più localizzati, altri più diffusi e sensibili. Ma sono tutti orgasmi clitoridei.

Tutto questo pone alcune questioni interessanti sul sesso convenzionale e sul ruolo che in esso svolgiamo. Gli uomini raggiungono l’orgasmo essenzialmente per sfregamento con la vagina e non con la zona clitoridea, che è esterna e non adatta per l’uomo a produrre frizione come la penetrazione vaginale. Le donne, quindi, sono state definite sessualmente in base a ciò che procura piacere agli uomini. La nostra biologia non è stata propriamente analizzata. Invece, siamo state nutrite con il mito della donna “liberata” e del suo orgasmo vaginale – un orgasmo che di fatto non esiste.

Quello che dobbiamo fare è ridefinire la nostra sessualità. Dobbiamo liberarci dai “normali” concetti del sesso e creare nuove linee generali che prendano in considerazione un godimento sessuale reciproco. Sebbene l’idea del godimento reciproco sia ampiamente applaudita nei manuali sul matrimonio, non la si porta alla sua logica conclusione. Dobbiamo iniziare a esigere che, se certe posizioni sessuali definite “standard” non portano reciprocamente all’orgasmo, allora non possano più essere definite “standard”. Bisogna usare o elaborare nuove tecniche che portino a un cambiamento di questo particolare aspetto del nostro attuale sfruttamento sessuale.

Notes from the Second Year, 1970 (Rubenstein Library, Duke University)

Freud, un padre dell’orgasmo vaginale

Freud sosteneva che l’orgasmo clitorideo fosse adolescenziale e che, con la pubertà, quando le donne iniziano ad avere rapporti con gli uomini, esse dovrebbero trasferire il centro dell’orgasmo nella vagina. Si presupponeva che la vagina fosse in grado di produrre un orgasmo analogo, ma più “maturo” rispetto alla clitoride. Si è lavorato molto per sviluppare questa teoria, ma poco si è fatto per mettere in questione i suoi assunti di base. Per comprendere appieno questa incredibile invenzione, si dovrebbe forse ricordare, per prima cosa, l’atteggiamento generale di Freud verso le donne. Mary Ellman, in Thinking about women, lo ha così riassunto:

Tutto, nell’atteggiamento paternalistico e preoccupato di Freud verso le donne, viene ricondotto alla loro mancanza del pene, ma è solo nel suo saggio Psicologia della donna che Freud rende esplicito il suo disprezzo per le donne, altrove implicito nella sua opera. Egli, quindi, prescrive per le donne l’abbandono della vita intellettuale, che interferirebbe con la loro funzione sessuale. Quando è un uomo a essere psicoanalizzato, l’analista si prefigge il compito di sviluppare le capacità del paziente; ma se si tratta di donne, il lavoro dell’analista consiste nel riportarle entro i limiti alla loro sessualità. Come scrive Mr. Rieff, per Freud «l’analisi non può incoraggiare nelle donne l’investimento di nuove energie per ottenere successo e raggiungere obiettivi, ma soltanto insegnare loro la lezione di una razionale rassegnazione».

Furono le sue opinioni sulle donne, che egli considerava secondarie e inferiori rispetto agli uomini, a formare la base per le teorie di Freud sulla sessualità femminile.

Dopo aver dettato legge sulla natura della nostra sessualità, Freud, guarda caso, scoprì un tremendo problema di frigidità nelle donne. La cura che prescriveva per una donna frigida era quella psichiatrica. Per lui, infatti, la donna soffriva dell’incapacità di adeguarsi mentalmente al suo ruolo “naturale” di donna. Frank S. Caprio, un seguace contemporaneo di tali idee, afferma:

Ogni volta che una donna è incapace di raggiungere l’orgasmo tramite il coito, malgrado il marito sia un partner adeguato, e preferisce la stimolazione clitoridea a qualsiasi altra forma di attività sessuale, essa può essere considerata sofferente di frigidità, e bisognosa di assistenza psichiatrica (The Sexually Adequate Female, p. 64).

La spiegazione fornita è che le donne erano invidiose degli uomini: «rinuncia della femminilità». Quindi il fenomeno veniva diagnosticato come un attacco agli uomini.

È importante sottolineare che Freud non ha basato la sua teoria sullo studio dell’anatomia femminile, ma piuttosto sulle sue personali convinzioni sulla donna come un’appendice, inferiore all’uomo, e sul suo conseguente ruolo sociale e psicologico. Nei loro tentativi di affrontare il problema della frigidità di massa delle donne, i freudiani hanno dovuto fare complicati salti mortali nei loro ragionamenti. Marie Bonaparte, in Female Sexuality, arriva a consigliare la chirurgia per riportare le donne sulla giusta strada. Avendo scoperto una strana correlazione tra la donna non frigida e la posizione della clitoride vicino alla vagina, scrive:

Mi è venuto in mente, allora, che, qualora in alcune donne questa distanza fosse eccessiva e la fissazione sulla clitoride fosse ostinata, una riconciliazione clitorideo- vaginale si potrebbe effettuare con mezzi chirurgici, in modo da portare beneficio alla normale funzione erotica. Il professor Halban di Vienna, biologo e chirurgo, si è interessato al problema e ha individuato una semplice tecnica operatoria, in cui il legamento sospensorio della clitoride viene reciso e la clitoride collegata alle strutture sottostanti, fissandola così in una posizione più bassa, con un’eventuale riduzione delle piccole labbra (p. 148).

Ma il danno più grave non ha riguardato l’ambito chirurgico, in cui i freudiani si sono dati da fare nel tentativo assurdo di cambiare l’anatomia femminile per adeguarla ai loro presupposti di base. Il danno peggiore è stato causato alla salute mentale delle donne, sia che soffrissero silenziosamente per il loro senso di colpa, sia che corressero dagli psichiatri alla ricerca disperata di quella terribile repressione nascosta che impediva loro di realizzare il loro destino vaginale.

Mancanza di evidenza?

Inizialmente si potrebbe forse sostenere che queste sono aree sconosciute e poco esplorate, ma a un più attento esame, questo certamente non è vero oggi, e non lo era neanche in passato. Gli uomini, ad esempio, hanno sempre saputo che le donne soffrivano di frigidità durante il rapporto: il problema c’era. E c’è molta evidenza specifica: gli uomini sapevano che la clitoride era – ed è – l’organo essenziale per la masturbazione, sia nelle bambine che nelle donne adulte. Ovviamente le donne hanno chiarito dove pensavano che fosse localizzata la loro sessualità. È piuttosto sospetto, peraltro, che gli uomini sembrino consapevoli del potere della clitoride durante “i preliminari”, quando vogliono fare eccitare le donne e produrre la lubrificazione necessaria alla penetrazione. I preliminari sono un concetto creato per gli scopi degli uomini e che finisce per essere uno svantaggio per molte donne, visto che, appena la donna è eccitata, l’uomo cambia e si dedica alla stimolazione vaginale, lasciando la partner eccitata ma insoddisfatta.

Si è a conoscenza, inoltre, del fatto che generalmente le donne non hanno bisogno di anestesia interna durante operazioni chirurgiche vaginali, il che evidenzia che la vagina non è di fatto una zona molto sensibile. Oggi, con le ampliate conoscenze anatomiche, con gli studi di Kelly, Kinsey, e Masters e Johnson, per citarne solo alcuni, non c’è ignoranza in materia. Ci sono, tuttavia, ragioni sociali per cui queste conoscenze non vengono diffuse su larga scala: viviamo in una società maschile che non persegue alcun cambiamento nel ruolo delle donne.

La prima versione del testo pubblicata su Notes of the First Year, New York, 1968 (Rubenstein Library, Duke University)

Evidenze anatomiche

Invece di iniziare parlando di ciò che le donne dovrebbero sentire, sarebbe più logico partire dalle evidenze anatomiche che riguardano la clitoride e la vagina.

La clitoride è un piccolo equivalente del pene, tranne per il fatto che l’uretra non vi passa attraverso come avviene nell’uomo. La sua erezione è simile a quella maschile e la testa della clitoride ha lo stesso tipo di struttura e funzione della testa del pene.

C. Lombard Kelly, in Sexual Feeling in Married Men and Women, scrive:

La testa della clitoride è anch’essa composta da tessuto erettile e ha un epitelio, o superficie coprente, molto sensibile, fornito di speciali terminazioni nervose chiamate corpuscoli genitali. Essi sono particolarmente adatti alla stimolazione sensoriale che, con le adeguate condizioni mentali, sfocia nell’orgasmo sessuale. Nessun’altra parte dell’apparato sessuale femminile è dotato di questi corpuscoli (p. 35).

La clitoride non ha altra funzione che il piacere sessuale.

La vagina. Le sue funzioni sono collegate alla funzione riproduttiva. Principalmente 1) per le mestruazioni 2) per la ricezione del pene 3) per trattenere lo sperma 4) come passaggio per il parto. L’interno della vagina, che secondo i difensori dell’orgasmo vaginale, sarebbe il centro produttore dell’orgasmo:

Come quasi tutte le altre strutture interne del corpo, è assai poco dotato di organi di senso. Il rivestimento interno della vagina, di origine endodermica, la rende simile da questo punto di vista al retto e ad altre parti dell’apparato digerente (Kinsey, Sexual Behavior in the Human Female, p. 580).

Il grado di insensibilità all’interno della vagina è talmente elevato che «del campione di donne sottoposte a un nostro test ginecologico, meno del 14% hanno mostrato consapevolezza di essere state toccate» (Kinsey, p. 580). Anche l’importanza della vagina come semplice centro erotico (piuttosto che come centro dell’orgasmo) è risultata poco rilevante.

Altre aree – Le piccole labbra e il vestibolo della vagina. Queste due aree sensibili possono dar avvio a un orgasmo clitorideo. Poiché possono essere efficacemente stimolate durante un “normale” coito – sebbene ciò avvenga raramente – questo tipo di stimolo è stato erroneamente considerato un orgasmo vaginale. Tuttavia, è importante distinguere tra aree che possono stimolare la clitoride, incapaci di produrre autonomamente l’orgasmo, e la clitoride stessa:

Indipendentemente dal mezzo di eccitamento usato per portare l’individuo allo stato di climax sessuale, la sensazione è percepita dai corpuscoli genitali ed è localizzata dove questi si trovano: nella testa della clitoride o del pene (Kelly, p. 49).

L’orgasmo stimolato psicologicamente. Oltre ai già citati metodi diretti o indiretti per stimolare la clitoride, vi è un terzo modo per dare avvio a un orgasmo: attraverso la stimolazione mentale (corticale), quando l’immaginazione stimola il cervello, il quale a sua volta stimola i corpuscoli genitali a produrre un orgasmo.

Donne è bello, a cura del gruppo L’Anabasi, Milano, 1972

Donne che dicono di avere un orgasmo vaginale

Confusione. A causa della mancanza di conoscenza della propria anatomia, alcune donne accettano l’idea che un orgasmo percepito durante un rapporto “normale” abbia un’origine vaginale. Questa confusione è dovuta alla combinazione di due fattori. Il primo è l’incapacità di localizzare il centro dell’orgasmo, il secondo è il desiderio di adeguare la propria esperienza all’idea di normalità sessuale definita dal maschio. Dal momento che le donne sanno poco della propria anatomia, è facile confondersi.

Inganno. La maggior parte delle donne che fingono di avere un orgasmo vaginale lo fa, per dirla con Ti-Grace Atkinson, «per non essere scaricata». In un nuovo best-seller danese, I Accuse, Matte Ejlersen tratta specificatamente questo problema diffuso, che lei chiama «la commedia del sesso». Questa commedia ha molte cause. Prima di tutto, l’uomo esercita una forte pressione psicologica sulla donna, perché pensa che la posta in gioco sia la propria abilità come amante. Perciò, per non offendere l’ego di lui, la donna si adatterà al ruolo prescritto e vivrà un’estasi simulata. Tra le donne danesi citate, alcune che non avevano sperimentato il godimento avevano perso ogni interesse per il sesso e fingevano l’orgasmo vaginale per concludere velocemente l’atto sessuale. Altre hanno ammesso di aver simulato l’orgasmo vaginale per legare a sé un uomo. In un caso, una donna aveva simulato l’orgasmo vaginale affinché lui lasciasse la sua prima moglie, che ammetteva di essere vaginalmente frigida. Fu poi costretta a continuare la finzione, poiché, ovviamente, non poteva chiedere al partner di stimolarle la clitoride.

Molte altre donne avevano semplicemente paura di affermare il proprio diritto a un uguale godimento, poiché pensavano che l’atto sessuale fosse anzitutto a beneficio dell’uomo e che ogni piacere che la donna ottenesse fosse in sovrappiù.

Altre donne, con abbastanza amor proprio da respingere la convinzione dell’uomo che esse avessero bisogno di cure psichiatriche, si sono rifiutate di riconoscersi come frigide. Non hanno accettato il senso di colpa, ma non sapevano come risolvere il problema, non conoscendo i dati della propria fisiologia. Così sono rimaste in una sorta di limbo.

Uno dei risultati forse più esasperanti e dannosi di tutta questa farsa è che a donne che erano perfettamente sane sessualmente è stato insegnato a pensare di non esserlo. Quindi, oltre ad essere state private del godimento sessuale, queste donne sono state indotte a colpevolizzarsi, quando non avevano alcuna colpa. Cercare una soluzione a questo problema insolubile può portare una donna su una strada senza uscita di odio di sé e insicurezza. Infatti, le viene detto dal suo analista che anche in quell’unico ruolo che le viene assegnato dalla società maschile – il ruolo di donna – lei fallisce. Così è costretta a mettersi sulla difensiva poiché a partire da dati falsati, le viene chiesto di essere ancor più femminile, di pensare in modo femminile e rinnegare la sua invidia nei confronti degli uomini. Cioè, pedalare, carina!

Edizione della New England Free Press, Boston, 1970

Perché gli uomini tengono in vita il mito

1. Preferenza per la penetrazione vaginale. Lo stimolo migliore per il pene è la vagina, che fornisce la necessaria frizione e lubrificazione. Da un punto di vista strettamente tecnico, questa posizione offre le migliori condizioni fisiche, anche se l’uomo può provare altre posizioni per variare.

2. La donna invisibile. Uno degli elementi dello sciovinismo maschile è il rifiuto o l’incapacità di vedere le donne come esseri umani completi e autonomi. Piuttosto, gli uomini hanno scelto di definire le donne in base al vantaggio che apportano alla loro vita. Sessualmente, una donna non è vista come un soggetto a pari titolo dell’atto sessuale, non più di quanto non sia vista come una persona con desideri indipendenti quando faccia qualsiasi altra cosa nella società. Quindi è stato facile inventare ciò che era più conveniente riguardo alle donne, soprattutto visto che la società è stata pensata in funzione degli interessi maschili e le donne non si erano organizzate nemmeno per contrapporre una resistenza verbale agli “esperti”.

3. Il pene come epitome della mascolinità. Gli uomini definiscono la loro vita principalmente in termini di mascolinità. È una forma universale di autoesaltazione. Vale a dire, in ogni società, anche quando fosse omogenea (per esempio, priva di differenze di “razza”, etnia o di grosse differenze economiche) vi è sempre un gruppo sociale – le donne – da opprimere. L’essenza dello sciovinismo maschile consiste nella superiorità psicologica che gli uomini esercitano sulle donne. Questo tipo di definizione di sé basata sul concetto di superiorità/inferiorità, piuttosto che una definizione positiva basata sulla propria crescita e realizzazione, ha incatenato vittima e oppressore. Ma quella di gran lunga più brutalizzata è la vittima.

Un’analogia si può fare con il razzismo, in cui il razzista bianco compensa il proprio senso di inadeguatezza creando l’immagine dell’uomo nero (è una battaglia prima di tutto maschile) come biologicamente inferiore rispetto a sé. Grazie alla sua posizione avvantaggiata nella struttura di potere maschile e bianca, l’uomo bianco può imporre questa distinzione inventata. Nella misura in cui gli uomini tentano di razionalizzare e giustificare la superiorità maschile attraverso la differenziazione fisica, la mascolinità è simboleggiata dall’essere più muscoloso, più peloso, avere la voce più profonda e il pene più grande. Le donne, invece, ricevono approvazione (cioè, vengono definite “femminili”) se sono delicate, piccole, si depilano le gambe e hanno la voce acuta ma dolce.

Dato che la clitoride è molto simile al pene, in varie società, come è stato attestato, vi sono uomini che tentano di cancellarne l’esistenza per conferire grande importanza alla vagina (come ha fatto Freud), oppure, come avviene in alcune zone del Medioriente, ricorrono all’imposizione della clitoridectomia. Freud considerava questa antica usanza, ancora oggi praticata, come un modo di “femminilizzare” ulteriormente la donna rimuovendo il principale residuo della sua mascolinità. Va notato, inoltre, che una clitoride grande viene considerata brutta e mascolina. Alcune culture utilizzano la pratica di versare un prodotto chimico sulla clitoride per ridurla alla “giusta” misura. Mi sembra chiaro che gli uomini temono la clitoride come una minaccia alla loro mascolinità.

4. Il maschio sessualmente superfluo. Gli uomini temono di diventare sessualmente superflui se la clitoride prende il posto della vagina come centro del piacere delle donne. Effettivamente questo timore è fondato se si considera unicamente l’anatomia. La posizione del pene all’interno della vagina, sebbene perfetta per la riproduzione, non stimola necessariamente l’orgasmo nelle donne, perché la clitoride è situata esternamente e più in alto. Nella posizione “normale”, le donne devono affidarsi alla stimolazione indiretta. La sessualità lesbica è una dimostrazione eccellente, basata su dati anatomici, dell’irrilevanza dell’organo maschile. Albert Ellis accenna al fatto che un uomo senza pene può essere un ottimo amante per una donna.

Considerando che la vagina, dal punto di vista dell’uomo, è molto desiderabile puramente su basi fisiche, si può intuire il dilemma maschile. E ciò ci costringe anche a scartare molti argomenti basati sulla “fisicità” che spiegano perché le donne vadano a letto con gli uomini. Quello che rimane, mi sembra, è un insieme di ragioni principalmente psicologiche che portano le donne a scegliere gli uomini come partner sessuali ed escludere le donne.

Controllo sulle donne. Una ragione per spiegare la pratica mediorientale della clitoridectomia è che tratterrà le donne dall’avere una sregolata vita sessuale. Rimuovendo l’organo sessuale capace di orgasmo, evidentemente il loro desiderio sessuale diminuirà. Dato che gli uomini guardano alle donne come loro proprietà, particolarmente in alcuni paesi, dovremmo iniziare a chiederci come mai non sia nell’interesse degli uomini che le donne siano sessualmente libere. La doppia morale, com’è praticata ad esempio in America latina, è imposta per mantenere le donne come proprietà totale del marito, mentre lui è libero di avere tutti i rapporti che desidera.

6. Lesbismo e bisessualità. A parte le ragioni strettamente anatomiche per cui le donne possono cercare altre donne come amanti, vi è la paura da parte degli uomini che le donne cerchino la compagnia di altre donne su una base pienamente umana. Riconoscere l’evidenza dell’orgasmo clitorideo minaccerebbe l’istituzione eterosessuale. Indicherebbe che il piacere sessuale è ottenibile sia da uomini che da donne, rendendo quindi l’eterosessualità non un assoluto ma una opzione. Si aprirebbe così la questione di relazioni sessuali umane che vadano al di là dei confini dell’attuale sistema dei ruoli maschile e femminile.

Testi citati:

  • Bonaparte, Marie, Female Sexuality, Grove Press, 1953
  • Caprio, Frank S., The Sexually Adequate Female, Fawcett Gold Medal Books, 1953 and 1966
  • Ejlersen,Mette, Jeg Anklager (I Accuse), Chr. Erichsens Forlag, 1968
  • Ellis, Albert, Sex Without Guilt, Grove Press,1958 and 1965
  • Ellman, Mary, Thinking About Women, Harcourt, Brace & World, 1968
  • Kelly, G. Lombard, Sexual Feelings in Married Men and Women, Pocketbooks, 1951 and 1965
  • Kinsey, Alfred C., Sexual Behavior in the Human Female, Pocketbooks, 1953
  • Masters and Johnson, Human Sexual Response, Little, Brown, 1966

Copyright © by Anne Koedt, 1970

6 dicembre 1975

Femministe ed estrema sinistra nell’Italia degli anni Settanta

6 dicembre 1975. 20.000 donne arrivano a Roma per una manifestazione sull’aborto. I giovani del servizio d’ordine di Lotta Continua, guidati da Erri De Luca, tentano di sfondare il corteo in nome dell’unità di classe. La sera stessa le donne di Lotta Continua invadono la riunione del Comitato nazionale e accusano di fascismo i compagni. Il giornale dell’organizzazione glissa e l’indomani titola: “20.000 donne da tutta Italia per il loro diritto alla vita, per la morte di questo governo”. Il 12 dicembre interviene Adriano Sofri per ricordare la chiave tutta antifascista della manifestazione contro gli assassini del Circeo e fare di quel crimine, che a suo dire “appartiene tutto intero alla borghesia e alla sua oppressione”, un richiamo di unità.

Sempre in nome dell’unità di classe, nel luglio del 1972, i militanti del Potere Operaio romano avevano brutalmente interrotto il primo seminario separatista sull’occupazione femminile organizzato da Lotta Femminista presso la facoltà di magistero dell’Università di Roma, suggellando l’incompatibilità, anche fisica, tra le ragioni del neofemminismo e quelle della sinistra extraparlamentare. Straordinaria, al riguardo, la testimonianza di Vania Vecchi (militante modenese di Lotta Femminista) sul pestaggio di Roma:

“Eravamo là dentro tante tante donne, in questa atmosfera anche di festa, perché quando ci si vede tra tante persone che vengono da tanti posti diversi con delle idee in testa in comune… Quando si entrava bisognava passare in mezzo a due file di ragazzi grandi e grossi, che mostravano il pugno, inveivano e io ancora non avevo capito chi fossero, dopo, quando siamo là dentro, c’è tutta una vetrata enorme, io tra l’altro ero anche abbastanza vicina. A un certo punto si rompono le vetrate e cadono dei pezzi di ghiaccio lunghi così e ci piovevano addosso… Sei o sette ne hanno tirati, roba da cinema. Puoi figurarti, le urla, il casino, il fuggi fuggi. Questi ci assediavano dentro la sala, dopo aver buttato il ghiaccio erano venuti tutti davanti alla porta. Noi per forza dovevamo passarci in mezzo e alcune dicevano che ci avrebbero picchiato. Dissero che l’unica era uscire tutte assieme e una delle Busatta, che erano come le katanga delle femministe, si era cavata le scarpe e le usava come arma. È stata lei che ha aperto l’uscio con le scarpe in mano, e da lì siamo uscite tutte a valanga… In effetti loro menavano, siamo passate in mezzo come succede nei ‘corridoi’ della polizia, tra due ali di deficienti grandi e grossi che urlavano e cantavano l’Internazionale. Io ero talmente allibita che non correvo neanche, davanti a me una signora che avrà avuto quarant’anni è stata presa per la borsa e trascinata nel corridoio e presa a calci per 5-6 metri. C’è stata una vera e propria battaglia e io non avevo capito che quelli erano di Potere Operaio, pensavo che, essendo Roma una città in cui ci sono tanti fascisti, fossero arrivati loro. Alla fine mi ricordo che sono sfilata davanti a ‘sti omaccioni con le loro ragazze di Potere Operaio, se le erano portate, e io, siccome cantavano col pugno chiuso Bandiera rossa e l’Internazionale, a quel punto ho capito che erano i compagni di Potere Operaio e, nel mio sbalordimento e nella mia ingenuità, ho detto: ‘ma ragazzi, anch’io sono una compagna’ e due o tre hanno messo davanti le loro donne dicendo: ‘No, queste sono vere compagne, tu sei una femminista’, come dire ‘sei una merda’, per cui me ne sono andata da sola davanti a questa curva da stadio che intonava l’Internazionale col pugno chiuso alzato”.

(cit. in Deborah Ardilli e Marcella Farioli, “Crisi dell’emancipazionismo e critica del modello emiliano: Lotta femminista a Modena“, in Modena e la stagione dei movimenti. Politica, lotta e militanza negli anni Settanta, a cura di Alberto Molinari, Editrice Socialmente, Bologna 2018).

Solidarietà a Marcella Campagnano. Marketing “femminista” e soppressione della voce.

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Quello che ho da dire lo dico da sola
Chi ha detto che hai giovato alla mia causa?
Io ho giovato alla tua carriera

Chi ha detto che il potere non lo conosci?
“Occuparsi di” è arroganza intellettuale
Più ti occupi della donna e più mi sei estranea

io dico io, Secondo Manifesto di Rivolta Femminile, 1977

Manastabal dialoga con Marcella Campagnano, autrice del ciclo fotografico L’invenzione del Femminile: Ruoli (1974). Nel gennaio 2018 abbiamo conosciuto Marcella alla Libreria delle Donne di Milano durante la presentazione di Trilogia SCUM di Valerie Solanas. Per l’occasione Marcella ci mostrò una cartolina autografa di Solanas da lei ricevuta nel 1977.

A partire da agosto 2020 il nome di Marcella viene associato – a sua insaputa – alla campagna pubblicitaria internazionale della nuova collezione Dior su diverse testate e riviste di moda, italiane e straniere. Il nostro dialogo con lei era iniziato prima di questa impropria associazione, in vista di un articolo che si sarebbe dovuto intitolare L’invenzione del femminile: Marcella Campagnano e la fotografia femminista. Alla luce di quanto accaduto, tuttavia, ci preme lasciare la parola alla fotografa sull’esproprio che ha subito. La questione, d’altronde, non riguarda soltanto Marcella: come ha ricostruito Elvira Vannini nel suo articolo L’arte femminista non è un brand Dior (2 marzo 2020), già da qualche tempo l’industria della moda parassita il femminismo, appropriandosi di citazioni fuori contesto e di figure storiche della seconda ondata (Carla Lonzi, Robin Morgan) per ricavarne profitto. La collezione prêt-à-porter autunno-inverno di Dior, disegnata dalla Direttrice Creativa Maria Grazia Chiuri, è presentata sul sito della maison (dotata anche di un “Ufficio di Gender Studies“) come “espressione di una visione spiccatamente femminista”: le fotografie delle modelle, realizzate da Paola Mattioli, ricalcano in sedicesimo la famosa serie di immagini, intitolata Ruoli, che Marcella creò nel salotto di casa insieme alle donne del suo gruppo di autocoscienza, in un momento storico di effervescenza politica collettiva. Diverse riviste di moda pubblicizzano l’operazione di Dior come un “omaggio” alla “feminist icon” Marcella Campagnano.

Scrive Marcella:

“So di aver progettato e strutturato (1974) un’immagine ironica e critica, riferita alla complice subalternità, consapevole o meno, che la figura femminile offre, da migliaia d’anni in tutte le culture, alla degustazione maschile. Questo fenomeno oggi si chiama moda. Marcella Campagnano non ha, comunque, nulla a che fare con la campagna pubblicitaria della Dior che si nutre di isolate figure femminili in campo neutro.”

MANASTABAL: Il ciclo fotografico L’invenzione del Femminile: Ruoli, comincia nel 1974. In un’intervista rilasciata a Marco Scotini su Flash Art hai parlato di quel lavoro come di un «teatro dell’esperienza», un modo per registrare «la mobilitazione spontanea, partecipata ed entusiastica di decine di amiche che, in quei giorni, si prestavano allegramente a un gioco di svelamento del proprio essere al mondo, di cui ognuna di noi coglieva la sotterranea induzione da parte di modelli maschili, che da secoli suggeriscono e guidano la nostra possibile o improbabile identità femminile». In qualche modo suggerisci che, al di là dell’apparente variabilità delle identità femminili, resta invariata la “regia” patriarcale che presiede al loro rinnovamento, e addirittura lo sollecita; e parli di una disponibilità diffusa da parte delle tue amiche, evidentemente debitrice della pratica dell’autocoscienza, a fare i conti con la pressione sotterranea esercitata da questa “regia” patriarcale. Come è nata l’idea di Ruoli?

MARCELLA: Fin dai primi anni Sessanta, durante i miei studi all’Accademia, iniziava in tutte/i noi quel processo di revisione critica che toccava ambiti del vivere e del sapere che, fino ad allora, si erano mantenuti come modelli e luoghi di comunicazione sociale. La nuova richiesta, rivolta anche alla Pittura, ha legittimato, poi, quel percorso che porterà a critiche radicali come quella che condurrà alla nuova coscienza femminista. La Pittura nella sua grandezza, era, pur tuttavia, uno dei celebrati strumenti dell’agire maschile.

Picasso e Duchamp erano gli estremi di una vicenda che poneva le figure di donne artiste in posizione subalterna e ripetitiva. La consapevolezza di tale stato mi spinse a cercare strumenti altri, meno contaminati e coinvolti in questo confronto che improntava tutti i saperi del XX secolo. La Fotografia emancipava da quella eterna ricerca del segno soggettivo per cui, dal Rinascimento in poi, si davano battaglia i grandi autori della Storia dell’Arte. Passando dalla pittura alla fotografia sentivo di accumulare dati della realtà sociale (femminile) che “avrebbero reso superflui tutti i commenti, o anche i giudizi” (S. Sontag).

Donne. Immagini, testo di Lidia Campagnano, Collana “Donne contro”, Milano, Moizzi Editore 1976

MANASTABAL: Prima di Ruoli, negli anni Sessanta, hai realizzato la serie “Donne per la strada” (confluita in Donne. Immagini, 1976), donne “qualsiasi”, di ogni età, fotografate per le vie di Milano. Queste donne sembrano colte durante le attività quotidiane, forse la spesa, o delle commissioni: come hai detto altrove, “una vita milanese che non fa notizia”. Uno sguardo femminista, oggi come allora, può cogliere quanto di politico vi sia in quel soggetto (la vita quotidiana delle donne in una società patriarcale), e anche nel modo in cui è rappresentato attraverso la tua fotografia: le protagoniste rivolgono lo sguardo all’obiettivo e in quello sguardo si percepisce una relazione con la fotografa. Non si tratta di scatti “rubati” come spesso accade nella tradizione della fotografia (maschile) nello spazio pubblico, quella che va “a caccia” di volti o situazioni da catturare di nascosto, con il distacco di chi dirige la lente su un oggetto. Come sei arrivata a uscire dalle mura dell’Accademia e a interessarti al quotidiano delle donne?

MARCELLA: L’Accademia cominciava ad allontanarsi e non rispondeva più agli interessi di Marcella che, definitivamente si stacca dai percorsi indotti. È la città, questo grande contenitore di luoghi, figure e relazioni umane, che si propone ormai come affascinante enigma da affrontare e sciogliere decostruendo l’impianto che, da tempo indicibile, si era accumulato. Senza cercare particolari atteggiamenti e significati, ha cominciato a registrare con la massima obiettività, (quasi impersonalità) queste figure del vivere quotidiano che non avevano mai avuto rilievo e risposta. Erano le “invisibili” relegate a quella coazione a ripetere del quotidiano che, attraverso consapevolezza e analisi femministe, troveranno un riconoscimento irreversibile.

Nella pratica: noi stesse.

È il momento in cui, di fatto e concretamente, Marcella incontra delle illuminazioni che potrebbero anche separarsi da quello che si era ritenuto artistico. La posta in gioco era ormai ben più importante.

MANASTABAL: «In una società femminile l’unica Arte, l’unica Cultura sarà l’esistenza di femmine insolenti, stravaganti, scatenate, capaci di ricavare piacere l’una dall’altra e da qualsiasi altra cosa nell’universo»: sono le parole con cui Valerie Solanas conclude il paragrafo “Grande Arte” e “cultura” di Manifesto SCUM (1967). Ti riconosci in una posizione come questa, che sfocia in sostanza nel rifiuto dell’arte in quanto sistema di alienazione delle donne?

MARCELLA: Mi piacciono davvero queste parole di Valerie Solanas, e contemporaneamente a lei, che allora non conoscevo, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, all’uscita dall’Accademia, ho sostenuto, soprattutto con le mie amiche aspiranti artiste, che l’Arte come lo stesso linguaggio comune, sono il prodotto degli interessi vitali e di scambio del mondo maschile. L’Arte si trascina esausta fino ai giorni nostri (industrializzazione, tecnologia, Duchamp). L’oggetto d’arte, da valore intrinseco diventa valore d’esposizione; è per questo che io azzardo che noi donne dovremmo espandere, lievitare, in modo IMPREVEDIBILE, non ancora formulato. Non una nuova forma d’arte, un nuovo “ismo”.
Altro, altro, come sentiamo di essere.

MANASTABAL: Di recente, in un messaggio alle amiche, hai manifestato insofferenza verso quei galleristi che vorrebbero convertire il tuo lavoro in valore di mercato, attraverso la procedura dell’esposizione. «Il mio lavoro non è nato per i muri delle gallerie, ma per un’apertura e un dialogo collettivo», hai detto. In fondo, la maison Dior, che si è appropriata anche di Carla Lonzi le cui parole figurano su un modello di t-shirt (€ 620 l’una), non si è comportata con te diversamente dai galleristi a cui ti riferivi… Sembra che il mito dell’inclusione prenda il posto della liberazione.

Nel caso di Dior, colpisce il fatto che non solo ti abbiano lasciata all’oscuro dell’operazione – presentata come un “omaggio” a un’“icona femminista” – ma si siano completamente disinteressati al tuo parere in merito…

MARCELLA: A proposito dell’intervista di Maria Grazia Chiuri su Vanity Fair, l’intelligenza tattica e iperprofessionale della direttrice creativa delle linee femminili della maison Dior non scalfisce davvero la ragion d’essere di questa straordinaria MULTINAZIONALE con estesa rete di licenze e royalties. Naturalmente tutta la fatica e il lavoro manuale di tante confezionatrici che costruiscono lo splendore e le preziosità che poi ammiriamo nelle sfilate di Parigi, Milano, New York, resta solitamente occultato.

Il nome di CARLA LONZI e la maison Dior vengono ancora una volta assimilati in un’operazione scontatamente e volgarmente promozionale e pubblicitaria. La cosa si trascina da tempo e pretende di dare la mediocre misura di quello che tutte noi abbiamo sempre ritenuto, invece, un ineffabile volo.

Io non ho più parole. Resto sommessamente in ascolto delle vostre.

MANASTABAL: Dicevi che il tuo lavoro è nato per un’apertura e per un dialogo collettivo. In quali forme ti piacerebbe venisse portato avanti questo dialogo?

MARCELLA: Quello che, stentatamente, ho cercato di dirvi, per me, si raccoglie nell’ormai dilagante espressione (una sintesi di cui vi sono davvero riconoscente): “l’inclusione prende il posto della liberazione”. Non lasciamo, però, che la parola confonda le nostre umane intenzioni. A ottant’anni sono ormai subissata da immagini, ipotesi, finte verità che, potendo, io stessa avrei potuto cavalcare, ma cinquant’anni fa mi sono obbligata a restituire quello che ritenevo un estremo barlume di verità.

Quello che vorrei venisse portato avanti è TUTTO DA INVENTARE nello SCAMBIO COLLETTIVO.

Marcella parla del suo lavoro L’invenzione del femminile: Ruoli (intervista ripresa nel maggio 2019)


Christine Delphy a 50 anni dalla nascita del MLF

 

Parigi, 26 agosto 1970: in Francia debutta il movimento di liberazione delle donne.

Christine Delphy (1941), femminista materialista, sociologa, tra le fondatrici del Mouvement de Libération des Femmes nel 1970, co-fondatrice nel 1977 di Questions féministes, la rivista diretta da Simone De Beauvoir, a cui partecipano anche Monique Wittig, Colette Guillaumin e Nicole-Claude Mathieu, e di Nouvelles Questions féministes nel 1981.

Traduzione dell’intervista a Christine Delphy apparsa su Le Monde, 23 agosto 2020, di Mailis Rey-Bethbeder.

26AGOSTO

Cinquant’anni dopo aver partecipato alla sua primissima azione, la sociologa ritorna sulla storia del Movimento di liberazione delle donne, che ha co-fondato, e sulle lotte che bisogna ancora combattere, in particolare contro le violenze sessuali.

Militante femminista ed ex ricercatrice al CNRS, Christine Delphy è stata una delle fondatrici del Movimento di Liberazione delle donne (MLF) nel 1970 e da allora non ha mai smesso di impegnarsi nella lotta per l’uguaglianza tra i sessi. Nel 2011 cura Un troussage de domestique (Syllepse) in cui analizza le reazioni all’arresto e al rinvio a giudizio di Dominique Strauss-Kahn, e co-firma nel 2019 L’exploitation domestique (Syllepse), nel quale scrive che la condivisione dei compiti domestici non esiste. A settantanove anni l’autrice non ha perso nulla della sua postura militante ed elogia le giovani femministe di oggi, che “hanno una gran faccia tosta” e “non hanno più alcuna paura, alcuna inibizione, di fronte agli uomini”.

Il 26 agosto 1970 ti trovavi sotto l’Arco di trionfo. Con otto compagne avete deposto una corona di fiori in omaggio alla “moglie del milite ignoto”, ancora più ignota del marito. Questa azione punta il dito contro l’invisibilizzazione delle donne nella società e segna la creazione del MLF. Cinquant’anni più tardi che cosa ricordi di quella giornata? 

Quando abbiamo saputo che ci sarebbe stata questa giornata negli Stati Uniti (il 26 agosto 1970 le americane del Women’s Liberation Movement prevedevano di commemorare a New York i cinquant’anni della loro conquista del diritto di voto, manifestando per l’uguaglianza tra uomini e donne e contro il “dovere coniugale”), abbiamo deciso di fare qualcosa. Siamo state aiutate da una giornalista grazie alla quale quella piccola manifestazione ha avuto un’eco su L’Aurore. Nel mese di agosto non succedeva niente, dunque i giornali avevano difficoltà a riempire le pagine.

Eravamo nove, otto reggevano quattro striscioni e io tenevo la corona di fiori. Abbiamo attraversato la Place de l’Etoile che conduceva fino al monumento. Quando siamo arrivate un poliziotto si è lanciato verso di me e mi ha portata, insieme alle mie compagne, in un posto di polizia situato dentro una delle basi dell’Arco di trionfo. Siamo state malmenate e spinte dentro. Mi ha colpita l’osservazione del commissario di polizia: “Non vi vergognate?” ci ha detto. Siamo passate per tre posti di polizia diversi e siamo state liberate circa tre ore dopo la nostra azione, che era iniziata verso mezzogiorno. Eravamo molto cariche e allegre. Chiuse in una piccola cella, ci siamo messe a cantare canzoni da gite estive, i poliziotti erano esasperati. Non sapevano assolutamente cosa fare di noi, non capivano. Alcuni si sentivano insultati dallo striscione “Un uomo su due è una donna”: credevano che li trattassimo da omosessuali. C’è molta malafede in questo, ma è perché non erano abituati ad essere criticati.

Da quanto tempo all’interno di quel gruppo esistevano riflessioni sul femminismo prima di quell’azione? 

Eravamo un piccolissimo gruppo di giovani, professoresse, ricercatrici… È stata Jacqueline Feldman (ricercatrice in Fisica teorica e Matematica applicata alle scienze sociali, co-fondatrice del FMA, che stava prima per Féminine Masculine Avenir, poi per Féminisme Marxisme Action) a introdurmi in quel collettivo durante gli eventi del maggio 1968. Organizzavamo delle riunioni alla Sorbona occupata. C’erano molte persone interessate, avevamo raccolto i nomi di una quarantina di persone, quasi metà delle quali uomini. Dopo ci furono le vacanze e tutti se ne andarono.

Ci siamo ritrovati in autunno, ma eravamo già molti meno. Gli uomini che venivano alle nostre riunioni hanno cominciato a diradarsi, come anche alcune donne. Ciò fece sì che all’inizio del 1970 non fossimo più di quattro. All’epoca esistevano altri gruppi di donne, come quello guidato da Antoinette Fouque (che in seguito ha registrato il marchio MLF, dando luogo a disaccordi e alla disgregazione del movimento). Dopo questa azione all’Arco di trionfo, una volta finita l’estate, abbiamo tenuto delle riunioni alle Belle Arti, e ha cominciato ad affluire un numero maggiore di donne.

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Quali erano le vostre rivendicazioni principali?

Non avevamo “rivendicazioni principali”. In quelle grandi riunioni alle Belle Arti si procedeva in tutte le direzioni. Con Anne Zelensky (professoressa e co-fondatrice del FMA), avevamo deciso di militare per il diritto all’aborto, mentre molte altre non volevano saperne. Alcune dicevano che non era sufficiente. La mia posizione era che non si poteva fare tutto nello stesso momento. Bisognava arrivarci per tappe. Pensavo anche che sarebbe stato più facile affrontare quell’argomento perché molte persone, in Francia, erano favorevoli. Molte famiglie avevano dovuto farci i conti. Esistevano gli aborti illegali e l’unico risultato era l’esistenza di donne che ne morivano.

Credo sia stato uno degli argomenti principali di Simone Veil, che aveva ricevuto tutti gli insulti immaginabili, compreso quello di “nazi”, quando aveva difeso la sua legge (per la legalizzazione dell’aborto, promulgata il 17 gennaio 1975). È stata ammirevole e noi alla fine abbiamo vinto. Il punto su cui eravamo d’accordo è che non volevamo uomini nelle nostre riunioni alle Belle Arti. Tuttavia, ogni quindici giorni, si presentava un giovane uomo. Parlava davanti a duecento donne e non lo turbava minimamente dirci quale fosse la verità, “insegnarci”.

È un esempio di quello che oggi potremmo chiamare “mansplaining”… 

Era molto diffuso allora. Quel che succede oggi è che giustamente viene denunciato. È questo che trovo straordinario.

Secondo te quali progressi ci sono stati da allora?

Ce ne sono stati alcuni. Per esempio per quanto riguarda l’aborto, il matrimonio per tutti e per tutte, ci sono stati dei cambiamenti. È certo, per esempio, che il lesbismo e l’omosessualità in generale non sono più condannati come lo erano cinquant’anni fa. Ci sono anche più donne nell’ambiente sportivo che rivendicano il proprio posto, anche se alcune sono molto maltrattate, molestate e stuprate dai loro allenatori.

Quali sono le nuove lotte femministe?

È passato tanto tempo. Sono co-redattrice di Nouvelles Questions féministes (rivista che esce dal 1981), e con delle amiche del comitato di redazione ci siamo dette che sarebbe bello fare un numero speciale sulle giovani femministe. Perché quel che vedo è che ci sono moltissime giovani femministe e che hanno una gran faccia tosta. Non hanno più alcuna paura, alcuna inibizione di fronte agli uomini, scendono per le strade. Le trovo straordinarie. Penso soprattutto alle mobilitazioni contro le violenze sessuali, contro le violenze in generale. Non hanno timidezza su questo. Se paragonate quello che dicono oggi con quello che dicevamo noi prima… c’era ancora un tabù. Bisogna anche dire che soltanto l’1 % degli stupratori viene perseguito. È molto poco. È stato necessario spostare la colpa sullo stupratore e non sulla stuprata, e questo è un enorme cambiamento. È come se cambiaste il vostro vestito, rivoltate tutto. È molto difficile da fare.

C’è sempre un certo grado di progresso ma ci sono sempre anche, se non degli arretramenti, dei periodi minacciosi per il femminismo. In questo momento l’aspetto che riceve maggiore attenzione sono le violenze contro le donne. Ma ci sono molti altri argomenti. Non esiste un unico problema. Le persone discutono spesso di quali siano le priorità, ma a mio parere non esiste priorità. Vale a dire che l’oppressione delle donne in generale ricopre moltissimi aspetti. Ci si chiede da dove cominciare. In realtà, bisogna cominciare da tutto. Le persone vorrebbero che le femministe rimanessero garbate. Ma io spero che non rimangano tali. Essere garbata, in questa società, non serve assolutamente a nulla.

Che cosa pensi del movimento #metoo?

Trovo che sia stato molto ben fatto. Penso che sia stato un gran bene che delle donne che non erano in nessun gruppo femminista si siano riconosciute in quel movimento. Ciò ha dato loro l’opportunità di denunciare quello che avevano subìto. Di prenderne coscienza. Ci sono diversi modi per impadronirsi di un tema, per esempio i manifesti incollati a Parigi per puntare il dito contro i femminicidi. È una cosa che prima non si faceva, ma è una buona cosa, che dà sui nervi ai maschilisti. E poi, per altro verso, c’è stata l’invenzione di nuove parole: non si diceva “maschilisti” prima.

“Mansplaining”, femminicidio, maschilista… queste nuove parole permettono di apportare del concreto, di dare un nome a fenomeni di cui le donne sono vittime…

Certamente, e questo permette di introdurre nuovi concetti. Il temine “femminicidio” esisteva nei paesi ispanofoni, ma ci ha messo del tempo a generalizzarsi. Le donne si sono riconosciute in quella parola. Ci sono nuove parole perché ci sono nuove cose che vengono denunciate e che prima non lo erano.

Oggi che cosa resta del MLF? 

Quel che resta del MLF è un gran numero di gruppi che si sono formati su temi che noi non avevamo affrontato, perché non avevamo osato, credo. In che modo denunciare la molestia sessuale è una cosa nuova. Noi non vedevamo il modo di attaccarla, come se non fosse abbastanza grave, come se fosse una fatalità e non potessimo farci niente.

Che cosa resta da fare?

L’unica cosa da fare è continuare la lotta.

 

Manifesti femministi / Una conversazione sul femminismo radicale

Ripubblichiamo da Operaviva Magazine

Questa conversazione prende spunto dalla pubblicazione del libro Manifesti femministi. Il femminismo radicale attraverso i suoi scritti programmatici 1964-1977 VandA / Morellini, 2018, a cura di Deborah Ardilli

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VandA (e-book) / Morellini, Milano 2018 Pagina fb Manifesti femministi

Federico Zappino: Qualche tempo fa, ma in realtà accade periodicamente, venni sollecitato a replicare alle affermazioni, giudicate omofobiche e transfobiche, di alcune femministe che si definivano «radicali». Affermazioni che, come immagini, vertono attorno a questioni conflittuali come la gestazione per altri, il sex work o il transgenderismo. Ora, al di là del contenuto specifico di queste affermazioni, su cui non mi sembra utile soffermarsi, o almeno non nei termini in cui vengono correntemente formulate (e nemmeno, purtroppo, in quelli che solitamente caratterizzano le risposte di parte opposta), a colpirmi di quell’intervista fu che ben prima di articolare una risposta, mi ritrovai affannosamente a spiegare, o a provarci, che l’appropriazione dell’aggettivo «radicale», da parte di quelle esponenti del femminismo, occultasse in realtà un «differenzialismo», o un «essenzialismo». E non era solo una questione di parole. Era una questione storica, e politica. Com’era accaduto che il femminismo radicale – quello cioè in cui qualunque minoranza di genere e sessuale dovrebbe trovare importanti spunti teorici a sostegno della propria lotta, dal momento che il suo obiettivo consiste nella sovversione del sistema sociale etero-patriarcale – fosse finito per coincidere, nella vulgata, con il femminismo differenzialista, o essenzialista? Al di là del fatto che la presa di distanza dall’essenzialismo, attorno a cui convergono i gender studies accademici, non costituisca di per sé nulla di automaticamente promettente, mi sembra in ogni caso che l’opportuna pubblicazione di Manifesti femministi, a tua cura, consenta di appianare questo equivoco, tanto per iniziare. Mi sembra che questo disagio sia vissuto come tale da quant* ritengono impellente mettersi sulle tracce delle inestimabili risorse che storicamente hanno consentito loro di pensare, oggi, la necessità di «un più ampio movimento politico che miri ad abolire il sistema eterosessuale», come scrisse Louise Turcotte a commento dell’opera di Monique Wittig.Deborah Ardilli: Quando l’editrice mi ha proposto di curare un’antologia di manifesti della «seconda ondata» femminista, ho pensato che valesse la pena cogliere l’occasione per provare a mettere in discussione una rappresentazione del femminismo radicale che, ancora troppo spesso, rasenta la caricatura. Servirebbe forse un rimando ad altri volumi per raccontare in maniera dettagliata in che modo quella rappresentazione si sia insediata nel senso comune, dando luogo all’equivoco che hai appena richiamato. Qui mi limito a segnalare che, a partire dagli ultimi due decenni del Novecento, quando da più parti si annunciava la transizione verso costellazioni post-patriarcali, sono stati versati fiumi di inchiostro per dipingere la «seconda ondata» del femminismo come un blocco omogeneo, compattamente attestato su posizioni «essenzialiste» – il peggior insulto che il gergo accademico possa concepire.

Stando alla vulgata, il femminismo di quegli anni costituirebbe lo stadio primitivo di una ricerca che, con l’avanzare del tempo, sarebbe progredita in direzione di una maggiore complessità teorica e di uno sguardo più scaltrito sulle questioni di genere. In nome della complessità, pareva finalmente possibile scrollarsi di dosso la zavorra ideologica con cui le femministe radicali avevano sovraccaricato pratiche e discorsi. Ora, è chiaro che se si parte dal presupposto che la «seconda ondata» rappresenti uno stadio infantile del femminismo da cui occorre congedarsi senza indugi, molte cose sono destinate a passare inosservate. Non ultimo il fatto che, all’epoca, femminismo radicale e pensiero della differenza sessuale costituivano tendenze distinte e rivali all’interno del movimento di liberazione delle donne. In Francia, per esempio, l’area «differenzialista» raccolta intorno a Psychanalyse et Politique rifiutava persino di definirsi «femminista» ed era in conflitto aperto con le Féministes révolutionnaires di Christine Delphy e Monique Wittig.

Ripristinare canali di comunicazione con il passato può, allora, essere un primo passo per mettere in questione l’idea che la radicalità del femminismo coincida con la feticizzazione di un dato anatomico, o con la rivendicazione della potenza generativa del materno, o di qualsiasi altra forma di valorizzazione di una specificità sessuata. Capita ancora spesso, per altro, di imbattersi in giudizi portati a demonizzare la scelta separatista con l’argomento che soltanto un rozzo pregiudizio naturalistico potrebbe motivarla. Il mio auspicio è che restituire un minimo di respiro storico ai nostri ragionamenti aiuti non solo a vedere che le cose non stanno così, ma anche a comprendere che la presa di distanza dal feticismo biologico non necessariamente coincide, per il femminismo radicale, con l’obiettivo di prolungare con altri mezzi i dispositivi di inclusione della tolleranza liberale.

Un esempio tratto da Manifesti femministi: quando le Redstockings di Shulamith Firestone scrivono, nel loro manifesto del 1969, che «le donne sono una classe oppressa», che «poiché abbiamo vissuto in intimità con i nostri oppressori, isolate le une delle altre, ci è stato impedito di vedere nella nostra sofferenza individuale una condizione politica», che «il nostro compito principale in questo momento è creare una coscienza di classe femminile condividendo la nostra esperienza e denunciando pubblicamente il fondamento sessista di tutte le nostre istituzioni», la problematica che si impone, con ogni evidenza, non è quella della valorizzazione della differenza sessuale. C’è indubbiamente una politica femminista del corpo; ma, a giustificarla, non è l’idea che l’anatomia costituisca di per sé un principio di classificazione sociale. Diversamente, non si spiegherebbe il ricorso alla categoria di classe di sesso: non si spiegherebbe, in altre parole, per quale motivo le frange più innovative del femminismo radicale abbiano ritenuto di poter estendere al genere l’analisi materialista. L’implicazione logica della rivolta delle donne è che la loro condizione può essere modificata, che il rapporto sociale che le definisce come la natura, il sesso, la differenza, l’alterità complementare all’uomo, può essere sovvertito. Fino a che punto si sarebbe dovuta spingere la trasformazione per poter effettivamente parlare di estinzione del patriarcato, lo avrebbe chiarito poco più tardi la stessa Firestone nelle pagine di The Dialectic of Sex (1970): «E proprio come lo scopo della rivoluzione socialista non era soltanto l’eliminazione del privilegio economico di classe, ma della distinzione di classe in quanto tale, allo stesso modo lo scopo della rivoluzione femminista deve essere, diversamente dal primo movimento femminista, non soltanto l’eliminazione del privilegio maschile, ma della distinzione sessuale in quanto tale: le differenze genitali tra esseri umani non dovrebbero più avere importanza culturale».

Zappino: Una rappresentazione piuttosto efficace di ciò che potrebbe significare «sovversione dell’eterosessualità».

Ardilli: Senz’altro. Ma permettimi un’ulteriore precisazione, in relazione alla rivolta delle donne e alle sue implicazioni. Se seguiamo le peripezie dell’aggettivo «radicale» a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta ci accorgiamo subito che il mutamento semantico riflette uno spostamento politico, non la convalida di un assunto biologico. Prendiamo il caso statunitense, che mi pare idoneo a illuminare processi di soggettivazione politica che, negli stessi anni, si attivano anche al di qua dell’Atlantico. Fino alla seconda metà degli anni Sessanta, per una giovane donna nord-americana essere una radical woman equivaleva a gravitare nell’orbita della Nuova Sinistra, cioè di quella frastagliata area politica, comportamentale e contro-culturale che comprendeva l’attivismo studentesco, il movimento per i diritti civili, la protesta contro la guerra del Vietnam e il riferimento obbligato ai movimenti di liberazione nei paesi del cosiddetto Terzo mondo. Alla fine del decennio, lo stesso aggettivo passa invece a qualificare quella componente – numericamente minoritaria, ma politicamente significativa – del movimento delle donne che, da un lato, mette fine alla militanza di servizio all’interno del movimento misto, mentre dall’altro lato prende le distanze dall’emancipazionismo di organizzazioni femminili di impronta riformista, come la NOW (National Organization for Women) di Betty Friedan. Che cosa comporta questa politicizzazione del privato, se non una vigorosa spinta verso la sua de-naturalizzazione? Che cosa motiva la doppia demarcazione polemica, se non la scoperta di una matrice autonoma di oppressione, che impone di spingere l’analisi politica nei territori del privato, della famiglia, della sessualità, del lavoro domestico?

Zappino: Se c’è qualcosa che accomuna l’odierno movimento femminista, da una parte, e quello gay, lesbico e trans*, dall’altra, sembra essere invece proprio la difficoltà di riconoscere l’esistenza di una matrice di oppressione. Non si capisce da dove venga questa nostra oppressione, e in realtà a volte non è nemmeno chiaro se concordiamo attorno al fatto di essere soggette a una qualche forma di oppressione. Nei casi migliori, riconosciamo l’esistenza di qualcosa che si chiama «capitalismo», o «neoliberismo», qualcosa che sortisce effetti tangibili sulla materialità delle nostre vite. Ma raramente siamo pronte ad accordare a qualcosa che si chiama invece «eterosessualità», o «etero-patriarcato», lo stesso potere di determinare le nostre esistenze, nonché di porsi come discrimine tra gli effetti sortiti differenzialmente, dallo stesso capitalismo, sulle «vite», a seconda del fatto che le vite siano quelle degli uomini o quelle delle donne, quelle degli uomini cis-eterosessuali e quelle dei gay o delle persone trans*. A volte, capita di leggere pagine e pagine di testi che dichiarano di ispirarsi al femminismo, o al queer, ma senza che in essi vi compaia mai, se non timidamente, un riferimento specifico al sistema sociale eterosessuale, o all’eterosessualità come modo di produzione patriarcale delle cosiddette «differenze» di genere.

Senza dubbio, una delle cause di questa distorsione percettiva è costituita proprio dall’affermazione della razionalità liberale, per cui non esiste alcuna matrice di oppressione, né alcun rapporto sociale di forza, ma solo individui che stipulano coscientemente un contratto sociale con altri individui, altrettanto liberi e uguali, in piena autodeterminazione, libertà di scelta, responsabilità (e colpa, di conseguenza, per i propri personali fallimenti). Tutte parole che, a ben vedere, sono ampiamente confluite nel lessico degli odierni movimenti femministi o Lgbtq. Al contempo, sappiamo anche che questa non è l’unica causa, dal momento che la difficoltà di mettersi d’accordo a proposito di una matrice di oppressione sembra permeare anche ampi strati del movimento più vicini alla critica marxista.

Ardilli: È una delle cause, appunto, ma non l’unica. Anche perché non sono sicura che il lessico degli odierni movimenti femministi o Lgbtq sia totalmente e indistintamente intriso di retorica liberale, o neoliberale. In fondo, sappiamo bene che una vigorosa retorica anti-neoliberale, o anche anti-capitalista, può essere del tutto compatibile con il misconoscimento dell’etero-patriarcato come sistema sociale. Può ben darsi che l’eco dei conflitti che, negli anni Settanta, hanno diviso marxisti e femministe oggi si sia affievolita. Ciò non significa, tuttavia, che i nodi fondamentali di quella discussione abbiano perso pertinenza.

Certamente, è innegabile che oggi sia diffusa – molto più di allora – la propensione a prosciugare il discorso sulle determinanti che influenzano le nostre vite: riconoscersi non solo condizionate, ma oppresse, è difficile. E doloroso. Mi sembra che il prestigio che circonda la reinterpretazione dei rapporti sociali in chiave di cooperazione volontaria tra soggettività libere e autodeterminate dipenda, molto più che dalla forza esplicativa di questo modello, dalla sua capacità di rassicurarci: perché perseguire faticosi progetti politici di liberazione, se la nostra autodeterminazione può esprimersi già qui e ora? In queste condizioni, tendono a moltiplicarsi discorsi che mettono l’accento sull’individuo, sulla sua postura volitiva o desiderante, sulla sua agency, sul suo empowerment. Da questo punto di vista, poni chiaramente un problema affine a quello sollevato in un intervento del 1990 di Catharine MacKinnon, emblematicamente intitolato Il liberalismo e la morte del femminismo. In quel discorso, MacKinnon si chiedeva dove fosse finito il movimento femminista che, negli anni Settanta, era stato capace di criticare concetti sacri come quelli di «scelta» e «consenso», che cosa fosse rimasto di quel movimento consapevole del fatto che «quando le condizioni materiali ti precludono il 99% delle opzioni, non ha senso definire il restante 1% – ciò che stai facendo – una scelta». E nonostante negli ultimi anni la questione del rapporto tra femminismo e neoliberalismo sia stata ampiamente dibattuta, sembra che ciò sia avvenuto in termini rovesciati rispetto a quelli proposti da MacKinnon. Mi sembra che il suo approccio colga il problema dell’impatto negativo della razionalità liberale in modo per noi più pertinente di quanto riescano a fare altre prospettive – su tutte, quella di Nancy Fraser – portate invece a rimproverare al movimento femminista degli anni Settanta di avere contribuito all’ascesa del neoliberalismo attraverso la critica del salario familiare. Il testo di Silvia Federici incluso in Manifesti femministi consente invece di comprendere quale fosse la portata reale della critica al salario familiare sviluppata, in particolare, dai gruppi per il salario al/contro il lavoro domestico: critica che mi pare grossolanamente fraintesa se interpretata, in chiave emancipazionista, come una richiesta di maggiore integrazione delle donne ai processi di valorizzazione capitalistica.

Quello che mi preme sottolineare, per tornare alla questione, è che il riferimento all’egemonia della razionalità neoliberale ci aiuta a cogliere solo un aspetto della questione. Come accennavo sopra, nel quadro dell’odierna «terza ondata» femminista non è affatto raro imbattersi in critiche della razionalità neoliberale (e del suo doppiofondo neofondamentalista, come sai bene), anche molto affilate, ma che, tuttavia, tendono a perdere mordente quando si tratta di pronunciarsi sull’etero-patriarcato. Certamente il sostantivo «patriarcato» e l’aggettivo «patriarcale» compaiono ancora nei documenti prodotti dal movimento odierno. Contrariamente alle apparenze, però, questo non significa che il concetto di patriarcato – o, come mi sembra più corretto dire, di etero-patriarcato – conservi il peso determinante che aveva avuto per il femminismo radicale.

Provo a spiegarmi meglio: la maggioranza del movimento femminista attuale è assolutamente disposta a riconoscere che le politiche neo-liberali hanno effetti devastanti sulla vita delle donne e delle minoranze di genere. I problemi sorgono non appena si tratta di rispondere a domande come queste: perché la privatizzazione dello stato sociale si traduce in un aggravio di lavoro sulle spalle delle donne? Perché sono in stragrande maggioranza femminili, o femminilizzati, i corpi di servizio – incluso quello sessuale – che affluiscono verso le società occidentali da paesi messi in ginocchio dal debito e dai programmi di riaggiustamento strutturale? È sulla risposta da dare a interrogativi come questi che si palesano le divergenze tra chi ritiene indispensabile utilizzare il concetto di etero-patriarcato e chi, al contrario, ritiene di poterne fare a meno. L’area del femminismo socialista, per esempio, è propensa a sostenere che 1) questi fenomeni vanno messi sul conto della crisi della riproduzione sociale che investe le società capitalistiche e 2) che il capitale resta il principale agente, oltre che l’unico beneficiario, di tali forme di sfruttamento. Per quale strano motivo proprio le donne vengano assegnate alla «sfera riproduttiva» non viene chiarito dalle teorie che escludono programmaticamente il riferimento a un modo di produzione eteropatriarcale. Veniamo invece sollecitate a interrogare il modo in cui il capitale utilizza a proprio vantaggio la differenza sessuale. Ma come venga prodotta quella «differenza», nel quadro di quale rapporto sociale, resta un mistero. A differenza del femminismo radicale, il femminismo socialista sembra suggerirci che la differenza tra uomini e donne, semplicemente, c’è: è un dato biologico, pre-sociale, una distinzione funzionale necessaria alla riproduzione sessuale che destina la maggior parte delle donne a un’intimità permanente con gli uomini, in vista della rigenerazione della forza-lavoro su base quotidiana e generazionale. Credo si debba tener conto di questa ipoteca differenzialista per comprendere l’insistenza a parlare di lavoro riproduttivo (anche a dispetto del fatto che i servizi prodotti possiedano un valore di scambio, dato che è possibile trasferirli sul mercato) e a tacere il fatto che gli uomini, proletari inclusi, sono beneficiari diretti del lavoro che riescono a estorcere gratuitamente alle donne. Va per altro precisato, a scanso di equivoci, che lo sfruttamento domestico non esaurisce il campo dell’oppressione etero-patriarcale. Senonché, è proprio quando volgiamo lo sguardo verso altri fenomeni macroscopici del dominio etero-patriarcale, come la violenza sessuale, che diventa ancora più problematico chiamare in causa il capitale, o il neoliberalismo. Correlare uno stupro al plusvalore, o a una crisi di sovrapproduzione, mi riesce decisamente più difficile che non associarlo all’esistenza un sistema eterosessuale finalizzato all’appropriazione del lavoro, della sessualità e della coscienza delle donne. E tu potresti fare questo stesso discorso, come già fai, per altre forme di violenza di genere, parlando del pestaggio nei riguardi della persona trans* o del ragazzo gay ammazzato di botte al termine del suo primo giorno di lavoro al centro commerciale. D’altronde: come si spiega la sovra-rappresentazione delle persone trans* tra le fila dei disoccupati? È sufficiente riferirsi alla dinamica capitalistica come fattore «in ultima istanza» determinante, per capire come mai alcune fasce di popolazione stentano più di altre ad accedere ai circuiti dell’economia formale?

Periodicamente mi cadono sotto gli occhi articoli che documentano, con una certa passione dimostrativa, impennate di violenza contro le donne a partire dalla crisi economica del 2007-08. Il messaggio di questi contributi è chiaro: la crisi economica e la relativa precarizzazione delle condizioni di vita e di lavoro induce gli uomini alla violenza. Vorrei fosse altrettanto chiara, però, l’esigenza che abbiamo di conservare il senso delle proporzioni, evitando di trasformare una correlazione statistica in una teoria dell’oppressione. Sospetto, per altro, che anche le femministe socialiste avvertano questa difficoltà. Non è un caso che non si siano completamente estinte le concessioni alla retorica femminista: il ricorso residuale all’aggettivo «patriarcale», o al sostantivo, «patriarcato» potrebbero veicolare un’implicita ammissione dell’insufficienza del quadro analitico marxista. Tuttavia, questo omaggio formale alla terminologia del femminismo radicale raramente si spinge al di là di una definizione che circoscrive il patriarcato alla sfera delle mentalità, degli stereotipi, dei pregiudizi: il sistema sociale di riferimento resta uno solo, il capitalismo. E questo mi sembra un ostacolo serio a indagare le cause delle nostra oppressione.

Zappino: Pensavo che è curioso che ci troviamo a interrogarci attorno a tali questioni nel tempo dell’intersezionalità. O meglio, di una versione rimasticata e distorta dell’intersezionalità – una produzione etero-patriarcale dell’intersezionalità, mi verrebbe da definirla. È infatti strano, non trovi?, che nell’ora della piena affermazione delle retoriche dell’intersezionalità, o dell’alleanza, femministe e altre minoranze di genere continuino tranquillamente a confliggere, e che non concordino nemmeno attorno al fatto di essere soggette a una comune matrice di oppressione. E spesso è difficile non cedere alla tentazione che dietro alle retoriche dell’intersezionalità si celi solo un inganno, per noi. L’intersezionalità consiste forse nel non focalizzarsi mai nemmeno per sbaglio sulla specificità delle forme di oppressione, nel guardare indistintamente a tutto (ossia, a nulla), affinché le ingiunzioni alla salvaguardia del movimento misto, dietro lo spauracchio del separatismo, possano tranquillamente occultare, e dunque perpetuare, il dominio maschile ed eterosessuale al suo interno? È questo che vogliamo?

Ardilli: La mia impressione è che, nel discorso corrente, la parola «intersezionalità» abbia assunto il valore di una formazione di compromesso. A un primo sguardo, si direbbe che la sua diffusione rifletta un certo grado di consenso intorno alla necessità di abbandonare lo schema che induce a graduare le oppressioni su una scala gerarchica. Nella pratica, vediamo però che le cose funzionano diversamente: il richiamo all’«intersezionalità» opera come un principio di universalizzazione astratta che finisce col ristabilire silenziosamente le gerarchie che, in linea teorica, si volevano eliminare. Mi sembra chiaro, per esempio, che precipitarsi a proclamare manifestazioni antifasciste e antirazziste ogniqualvolta l’autore di una violenza contro le donne è un soggetto razzializzato equivale a dire che, di fronte al rischio (tutt’altro che improbabile) di strumentalizzazioni a destra, la protesta contro la violenza sessuale deve passare in secondo piano. Anziché agire come moltiplicatore e intensificatore dei fronti di lotta, l’intersezionalità rischia di inibirne alcune, o di moderarne le pretese, in nome di un irresistibile richiamo all’unità. Noblesse oblige. Al contrario, per le femministe radicali di cui mi occupo in Manifesti femministi era del tutto ovvio che «le persone non si radicalizzano combattendo le battaglie degli altri». Mi sembra che oggi quell’intuizione si sia come capovolta: mettere tra pudiche parentesi la propria oppressione, combattere le battaglie degli altri, rinunciare all’auto-legittimazione che proviene dall’essere contemporaneamente soggetto e oggetto della propria liberazione – insomma, quel complesso di attitudini che Monique Wittig e le altre autrici di Per un movimento di liberazione delle donne non esitavano a squalificare come «altruismo cristiano e piccolo-borghese» – oggi sono considerate qualità politiche di prim’ordine.

Nell’appello per lo sciopero dell’8 marzo 2019 diffuso da Ni Una Menos, per esempio, si legge che l’importanza del movimento femminista odierno dipende dall’essere diventato «cassa di risonanza per tutti i conflitti sociali». Ecco, l’immagine del movimento femminista come una cavità aperta in cui si amplificano suoni emessi altrove potrebbe essere una metafora eloquente di quella che tu definisci una «produzione etero-patriarcale dell’intersezionalità».

[pagina fb con estratti dal libro: Manifesti femministi]

Christabel Pankhurst. Una biografia

In occasione dell’uscita di Christabel Pankhurst. A Biography, della storica femminista June Purvis (Routledge 2018), pubblichiamo in anteprima la traduzione di un breve estratto dall’Introduzione.

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Quando Christabel Pankhurst è morta nel 1958, all’età di settattasette anni, fu celebrata da più parti per essere stata, in gioventù, la principale organizzatrice della WSPU (Women’s Social and Political Union), il più famigerato tra i gruppi del movimento per il voto nella Gran Bretagna dell’epoca edoardiana. Aveva condiviso la leadership della WSPU con la madre vedova, Emmeline, e fu conosciuta da tutti come principale leader delle “suffragette militanti”, come venivano chiamate le attiviste della WSPU. Christabel, bella e aggraziata, divenne quella che oggi chiameremmo una“celebrity”. La sua immagine veniva riprodotta sui giornali, su cartoline, spillette e poster; veniva rappresentata in una vasta gamma di espressioni culturali, come canzoni, opere teatrali, poesie, romanzi, dipinti e vignette. Forse nessun’altra giovane femminista era mai stata tanto ammirata, come lo fu lei all’apice della sua notorietà, sia da uomini che da donne.

Per Christabel Pankhurst la condizione subordinata che le donne vivevano nella società edwardiana era dovuta al potere degli uomini e quindi lei individuò nella separatista WSPU, che ammetteva solo donne, un importante mezzo per alimentare un senso di sorellanza tra le donne che avrebbe permesso loro di trovare la forza in se stesse e articolare le proprie richieste politiche. (…)

Eppure, a dispetto della sua importanza per il femminismo, Christabel Pankhurst non ha goduto di popolarità né presso autrici femministe né presso gli storici. (…)

Finora l’unica biografia esistente di Christabel [Pankhurst] era Queen Christabel, scritta da David Mitchell e pubblicata nel 1977. Già il titolo della biografia di Mitchell suggerisce qualcosa del suo approccio a un soggetto per il quale prova un’evidente antipatia.

Come [lo storico] Dangerfield prima di lui, anche Mitchell deride e insulta questa importante personalità politica, descrivendola come “la grande manipolatrice femminista che faceva ballare i burattini con la musica suonata da lei”.

Christabel viene presentata come una lesbica spietata, fredda, ambiziosa, autocratica, autocentrata, fissata, calcolatrice ed egoista – oltre che carismatica, brava con le parole e di cervello fine. Ma la sua vita da femminista viene filtrata attraverso tutti i primi aggettivi. (…) In tal modo, l’immagine di Christabel come lesbica pazza, “anormale”, raggiunge l’apice.

Infatti, il capitolo finale di Queen Christabel, nel quale viene paragonata alle femministe radicali degli anni Settanta, porta il famigerato titolo “Bitch power”. Spaventato da queste arpie femministe della seconda ondata che osavano sfidare il potere maschile, Mitchell arriva ad affermare che alcuni editoriali scritti da Christabel “si avvicinavano molto” alle minacce di Valerie Solanas e della sua Society for Cutting Up Men. Come hanno commentato sarcasticamente [le storiche] Ann Morley e Liz Stanley, ci si può immaginare Mitchell, “poverino, che scrive mentre si guarda spesso alle spalle nervosamente, con una mano a coppa, a proteggersi il pacco”.

[da: June Purvis, Christabel Pankhurst. A Biography, Routledge 2018]

In italiano segnaliamo l’articolo “Corpi militanti tra strada e prigione: suffragismo inglese e costruzione della femminilità eroica” di Stefania Arcara – in Ne uccide più la parola. Lessici dell’odio e pratiche di reclusione, a cura di S. Arcara, L. Capponcelli, A. Fabiani, ETS, Pisa, 2018, pp. 43-66. Scaricabile QUI in pdf.

Ada Wright on Black Friday

“Black Friday” (“Il venerdì nero”) – Londra, 18 novembre 1910

Passato e presente

GERMANIA_ABORTO

Il 6 giugno del 1971 il settimanale tedesco «Stern» pubblicava un manifesto di auto-denuncia firmato da 374 donne, intitolato “Wir haben abgetrieben” (“Abbiamo abortito”). L’apparizione del manifesto segna l’inizio della campagna per la depenalizzazione dell’aborto nella Repubblica Federale Tedesca, dove l’interruzione di gravidanza era punita dal paragrafo 218 del codice penale con pene fino a un anno di reclusione. L’iniziativa, ideata dalla giornalista Alice Schwarzer, all’epoca corrispondente a Parigi, ricalcava una strategia già adottata dalle femministe francesi, che nel mese di aprile avevano scelto le colonne del «Nouvel Observateur» per dichiarare di avere abortito illegalmente.

La risposta ostile delle autorità della RFT, con l’apertura di procedure penali contro molte delle firmatarie del manifesto, ebbe l’effetto di far lievitare il consenso intorno alla campagna e di accelerare la spinta all’unificazione del movimento delle donne intorno alla battaglia per l’aborto libero. Con la moltiplicazione delle iniziative di protesta in tutto il paese, si pose la necessità di raccordare l’attività dei vari gruppi in un coordinamento nazionale: Aktion 218 era l’organizzazione-ombrello destinata ad assolvere a questa funzione.

Frauendemonstration gegen den Paragraphen 218

Nel 1972, messo sotto pressione dalla crescita impetuosa del movimento, il Ministro della giustizia socialdemocratico Gerhard Jahn presentò un progetto di riforma che prevedeva la depenalizzazione per gli aborti praticati entro il primo trimestre della gravidanza. Dopo diverse revisioni della bozza originaria, la legge venne approvata nel 1974 con una risicata maggioranza parlamentare. Subito dopo il voto al Bundestag, alcuni esponenti della CDU presentarono ricorso contro la riforma alla Corte Federale di Giustizia.

Il 25 febbraio 1975 la Corte dichiarò nulla la legge, giudicandola incompatibile con il principio di sacralità della vita umana difeso dalla Costituzione. «La protezione del feto» sentenziarono i giudici costituzionali «è prioritaria rispetto all’autodeterminazione della donna». La decisione venne accolta dal movimento delle donne con manifestazioni di protesta in diverse città della RFT, tra cui Bonn, Berlino, Amburgo, Karlsruhe. A Francoforte un gruppo di donne diede fuoco a tre fantocci che rappresentavano, rispettivamente, un giudice, un prete e un medico.

Di fronte all’inappellabilità della sentenza, un nucleo di affiliate alle Cellule Rivoluzionarie (una parte delle quali, due anni dopo, avrebbe dato vita al gruppo femminista autonomo Rote Zora) decise di alzare il livello dello scontro. La sera del 4 marzo, a Karlsruhe, una bomba esplose nell’edificio che ospitava la Corte Federale di Giustizia, provocando ingenti danni materiali. Il giorno seguente diverse redazioni giornalistiche di Berlino Ovest ricevettero una busta contenente un documento di rivendicazione.

L’attacco, si legge nel documento firmato dalle Donne delle Cellule Rivoluzionarie, aveva avuto luogo «non per difendere la Costituzione dalla Corte Costituzionale come sostiene il signor Abendroth, ma per difendere noi stesse da questa Costituzione, che fornisce un quadro legale allo sfruttamento quotidiano, all’infiacchimento e al logoramento psichico di milioni di donne e di uomini. Una Costituzione che costringe all’illegalità le donne, e molte le uccide quando non lasciano decidere alla mafia dei medici e dei giudici sulla propria sessualità, l’uso del proprio corpo, il numero dei propri figli. Noi non ci uniamo al lamento di coloro che si dolgono perché la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale una legge votata democraticamente dal Parlamento, in quanto non c’è una differenza sostanziale quando 6 o 600 stronzi dettano le condizioni di vita a 60 milioni di persone. Noi facciamo però distinzioni molto nette, nelle attuali condizioni, tra le leggi più o meno dannose nei confronti del popolo, che questo pugno di servi del capitale, pagati con i soldi delle tasse, emana contro di noi. La sentenza terroristica della Corte Costituzionale, che ribadisce essere giusto e legale il divieto di abortire secondo il famigerato “statuto liberal-democratico”, è così intollerabile, per il disprezzo e l’annientamento delle donne che presuppone, che noi la combatteremo con tutti i mezzi possibili» [1].

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A eccezione del «Frankfurter Rundschau» e di altri giornali locali, i media nazionali praticamente ignorarono l’attentato. Molti degli articoli apparsi si basavano sulle dichiarazioni rese dal Ministro federale della giustizia Hans-Jochen Vogel durante la conferenza stampa immediatamente successiva all’attentato, interpretato dalle autorità come una sfida allo Stato e alla democrazia costituzionale. Scarsa fu anche l’attenzione da parte della sinistra extra-parlamentare: il giornale di movimento «Wir wollen alles» di Francoforte pubblicò la rivendicazione di responsabilità, ma senza commenti. Addirittura sprezzante fu la reazione di Ulrike Meinhof, che in una nota di prigionia ebbe a osservare:  «la loro azione contro la Corte Federale di Giustizia è stata una merda, un sostituto del pigro movimento 218, che non può essere resuscitato da una simile azione, soprattutto perché hanno scelto l’obiettivo sbagliato».

Che l’attentato coincidesse con un momento di crisi del movimento era, d’altronde, indubitabile. Con quella azione, le Donne delle Cellule Rivoluzionarie si proponevano di persuadere le femministe del fatto che, a meno di combinarsi con tattiche violente, auto-coscienza, self-help, centri delle donne e cortei pacifici non sarebbero mai stati sufficienti a piegare la resistenza patriarcale messa in campo dalle istituzioni politiche, giudiziarie, mediche ed ecclesiastiche. La risposta del movimento delle donne fu, complessivamente, negativa. Il 6 marzo il giornale «Die Welt» riferiva di tredici gruppi di donne che avevano preso le distanze dall’attacco dinamitardo. Il giornale femminista «Frauenzeitung: Frauen gemeinsam sind stark» optò invece per un approccio diverso: anziché condannare o applaudire l’azione, ristampò il testo della rivendicazione sollecitando le lettrici a inviare contributi per la discussione. Sul numero successivo del giornale, tuttavia, non apparvero lettere né editoriali di commento al testo.

Secondo la storica Katharina Karcher, la mancanza di risposte pubbliche non autorizza a concludere che la discussione non abbia avuto luogo all’interno dei circoli femministi, ma è comunque indicativa di un silenzio più ampio sull’impiego della violenza politica a scopi femministi [2]. A questa osservazione se ne potrebbe forse aggiungere un’altra: il rifiuto dell’avanguardismo armato, con la sua logica minoritaria, era la coerente espressione politica di un movimento che aveva raggiunto dimensioni di massa, riuscendo a catalizzare consensi intorno all’obiettivo della depenalizzazione dell’aborto. Il silenzio sulla violenza, al tempo stesso, tradiva la carenza di una riflessione strategica alternativa che permettesse di fare i conti con gli ostacoli, tutt’altro che immaginari, posti al movimento dal ruolo dello Stato.

Mentre a partire dal luglio 1975 le attiviste femministe cominciavano a organizzare viaggi per abortire nelle cliniche olandesi, una versione modificata della riforma approdava in Parlamento. Nel febbraio 1976 veniva approvata una legge che recepiva l’essenziale della sentenza emessa dalla Corte Federale: la RFT non poteva permettersi di riconoscere alle donne il diritto all’autodeterminazione. L’aborto entro il primo trimestre veniva depenalizzato, ma a condizione che l’interessata riuscisse a convincere una commissione medica di versare in condizioni talmente spaventose da non poter portare a termine la gravidanza. Nel mese di novembre lo «Spiegel» riferiva che, in alcune parti del paese, per le donne più povere era impossibile abortire anche quando avevano i requisiti legali per farlo.

NOTE

[1] Il testo del documento è riportato in Rote Zora. Guerriglia urbana femminista. Repubblica Federale Tedesca 1975-1995, Autoproduzione Femminista, s. l. 2018, pp. 86-89.

[2] Katharina Karcher, Sisters in Arms. Militant Feminism in the Federal Republic of Germany since 1968, Berghahn, New York-Oxford 2017, p. 80.