Monique Wittig: la fuga che fa dimenticare tutte le altre

Note a margine di Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 77, euro 10.

di Deborah Ardilli

Viviamo, per generale ammissione, in un’epoca in cui i tempi e gli spazi di ascolto concessi alla parola letteraria tendono a comprimersi. O a ridisegnarsi in funzione dell’ascendente esercitato da altri, più remunerativi, codici di comunicazione. Messo a confronto con i suoi fasti novecenteschi, l’accanimento nella ricerca di forme nuove, specie se animato da una tensione utopica e anti-conciliativa, oggi appare fortemente ridimensionato. Un’analoga sorte incombe sulla nostra memoria letteraria, cioè sull’unica riserva simbolica in grado di assicurare le condizioni di un uso rigenerante dei testi del passato. Date queste premesse, un écrivain — questo il nudo appellativo inciso sulla lapide del Père-Lachaise di Parigi — come Monique Wittig (1935-2003) sembrerebbe il candidato ideale a una ben gracile forma di sopravvivenza culturale, affidata per intero alle premure di una cerchia esclusiva di professionisti della parola in possesso delle chiavi per accedere ai suoi libri.

Se così non è, se l’opera di Wittig non è condannata a vegetare come una pianta da serra, insomma se la vita postuma di un’intellettuale di capitale importanza per la storia femminista e lesbica del Novecento può in qualche modo proseguire e confidare di raggiungerci nell’aperto, lo dobbiamo anzitutto al dinamismo di quel che ancora si muove alla periferia dell’accademia e del mercato editoriale. Appartengono a questa piccola schiera di engagées Eva Feole, specialista di letteratura francese, e la sociologa femminista Sara Garbagnoli, entrambe già autrici di diversi lavori su Wittig e su altre esponenti del femminismo materialista francofono, ai quali oggi si aggiunge Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, da poco pubblicato per la collana essentials di DeriveApprodi.

Con la sua perlustrazione limpida, concisa e solidamente informata delle coordinate entro cui gravita l’opera di Wittig, il volume si presenta nella veste di un’agile introduzione per principianti. Già questo basterebbe a raccomandarlo come esempio di divulgazione di qualità, a maggior ragione in una fase in cui torna di moda riavvicinare le parole “femminismo” e “materialismo”, sebbene resti per lo più eluso il confronto con le autrici (Christine Delphy, Monique Wittig, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet) che per prime si sono poste il problema di estendere all’analisi dell’oppressione patriarcale la strumentazione concettuale del materialismo storico. Ma a favore del libretto depone anche un’altra ragione, meno esteriore e più direttamente legata alle iniziative promosse dalle autrici per restituire centralità al contatto diretto con i testi wittighiani: da ultimo, la conduzione del ciclo di letture Nel cantiere letterario di Monique Wittig, organizzato insieme a Lesbiche Bologna e Some Prefer Cake tra gennaio e maggio 2023.

Non è un merito da poco, per chi si adopera a costruire occasioni di questo tipo, riuscire a riaccendere il piacere del testo senza soccombere all’alternativa rovinosa tra “fruire” e “capire”, all’ombra della quale cova la tentazione di scindere la Wittig poeta dalla Wittig politica, e di salvare l’una a spese dell’altra. Dunque, se leggere Wittig «non è altro che un’esortazione a reinventare il mondo» (MW, p. 12), la fatica che Feole e Garbagnoli le consacrano richiede a propria volta di essere recepita non già come un bignami autosufficiente, ma come un vero e proprio invito al viaggio. Nella consapevolezza che la sollecitazione a prendere il largo, anche da collaudati schemi percettivi e interpretativi, potrà essere effettivamente raccolta a patto di non bruciare in un generico conato decostruttivo le tappe che separano il punto di partenza, ossia la comprensione del funzionamento politico e ideologico del regime eterosessuale, dalla destinazione finale, ossia il superamento delle classi/categorie di sesso prodotte e riprodotte da quel regime.

Ai fraintendimenti ancora sussistenti a questo riguardo, Feole e Garbagnoli dedicano alcune battute introduttive, rimarcando da un lato il paradosso costituito dalle interpretazioni differenzialiste di Wittig (a lungo in voga in area anglofona alla voce French Feminism, ma presenti anche nel contesto italiano) e, dall’altro, l’inadeguatezza delle letture inclini a fare della scrittrice una «prodomica manifestazione delle teorie queer» (MW, p. 10): letture per altro parzialmente condivise, sia pure con giudizio di valore negativo, dalla capostipite francese del pensiero della differenza sessuale, Antoinette Fouque [1]. L’ostilità e l’estraneità di entrambe le correnti, differenzialista e queer, al paradigma materialista entro cui Wittig si inscrive (ed entro cui continuerà a inscriversi anche dopo la tempestosa dissoluzione del collettivo editoriale di Questions féministes) è la principale ragione della difficoltà a cogliere i contorni teorici del suo percorso intellettuale. Wittig non risponde al richiamo delle proliferazioni di genere, perché le sa impotenti a scalfire la tenuta del sistema eterosessuale. Analogamente, non si lascia incantare dalle sirene di una differenza più “originaria” di quella posta dal patriarcato, perché riconosce l’inganno delle ontologie fondamentali che proiettano nell’essere le divisioni gerarchiche create dall’organizzazione sociale.  

Chiariti tali aspetti, le direzioni da seguire vengono individuate da Feole e Garbagnoli attraverso cinque lemmi-chiave illustrati, con gli opportuni riferimenti bibliografici, in altrettanti capitoli. Ultimo in ordine di apparizione — preceduto da «Femminismo materialista», «Pensiero straight», «Cantiere letterario», «Corpo lesbico» — «Cavallo di Troia» è il capitolo da cui suggerirei di cominciare. Avere preliminarmente chiaro cosa voglia dire «ridefinire l’universale, sottraendolo alla confisca fattane dai dominanti» (MW, p. 68) è, in effetti, il modo più spedito per rendersi conto di quale sia la sfida lanciata da Wittig a un tempo — il nostro, più ancora di quello della sua vita — talmente ripiegato su rivendicazioni di “parità nella differenza” da non avvertire nemmeno la contraddizione in termini custodita dallo slogan in questione.

Cavallo di Troia, dunque. Tratta dal secondo libro dell’Eneide, (ri)letta da Wittig nella straniante traduzione francese di Pierre Klossowski, la figura della macchina da guerra ideata dai greci per spiazzare le difese nemiche è l’immagine che, con frequenza crescente a partire dalla fine degli anni Settanta, la scrittrice elegge a metafora privilegiata del proprio fare poetico. Potremmo dire, in forzosa sintesi, che quella del cavallo di Troia è l’immagine deputata a descrivere il movimento dialettico che consente al fare poetico di liberare la propria riserva di energia senza disperderla nell’informe e nell’indeterminazione. Da un lato, si tratta infatti di mettere in crisi le convenzioni letterarie ereditate, a partire dai presupposti che fondano la classificazione canonica dei generi letterari; dall’altro, si tratta di procedere al «rimontaggio dei materiali precedentemente smontati e rilavorati che conduce alla costruzione di un senso nuovo» (MW, p. 67). Sotto questo profilo, l’opera letteraria può agire come una macchina da guerra solo sulla base di un alto grado di intertestualità e di un’esplicita intenzione anti-mimetica nei riguardi dell’ipotesto ripreso nella nuova scrittura. Il modello parodiato, ovvero riplasmato dal punto di vista minoritario, perde così il proprio statuto canonico per diventare materiale da lavoro, sottoposto a nuovi fini. Il «cantiere letterario», lo spazio «al contempo concreto e astratto che coincide con la pagina ancora da scrivere», pur contenendo «tutto ciò che è stato già scritto dagli altri scrittori e scrittrici» (MW, p. 39), altro non che è il luogo adibito alla fabbricazione di quegli avatar del cavallo del Troia che i testi wittighiani ambiscono a essere.

L’enfasi sulla scrittura come lavoro applicato al materiale linguistico e la valorizzazione della metafora militare sono i tratti che, con maggiore evidenza, permettono di distinguere la poetica wittighiana da quell’idea di écriture féminine che, a partire dagli anni Settanta, ha largamente influenzato la percezione del rapporto tra femminismo e letteratura, trasformando il primo in un elogio a oltranza della differenza (cioè in un anti-femminismo che si esplicita come tale a fasi alterne, a seconda delle geografie e delle opportunità politiche) e facendo della seconda una sorta di calco simbolico del corpo sessuato. Diversamente, come sottolineano Feole e Garbagnoli, stanno le cose per Wittig. Da questo punto di vista, la figura del cavallo di Troia si impone, in sede di riflessione meta-letteraria, come un morceau choisi sfilato dal fornitissimo arsenale di strumenti offensivi e difensivi, ordigni e marchingegni bellici che appaiono a cadenza regolare nella fiction wittighiana: ausili indispensabili allo scatenamento di quel «furore così perfetto» messo in scena per significare la violenza necessaria a condurre a buon fine l’«ultima guerra possibile della storia» (G, p. 184/ p. 115).

Difficile, in questo senso, non accorgersi di come la presenza massiccia, nei romanzi wittighiani, di archi, frecce, scudi, carabine, specchi capaci di proiettare raggi micidiali, lancia-razzi, mitragliette e pistole laser richiami, per antitesi, un aspetto costante dei rapporti di dominio patriarcali, vale a dire il sottoequipaggiamento tecnologico che priva le dominate di una capacità di intervento sul mondo estesa al di là delle possibilità e dei limiti del corpo fisico. «Non sarà questa», si chiede l’antropologa Paola Tabet, «una delle condizioni necessarie perché le donne stesse siano materialmente utilizzabili nel lavoro, nella riproduzione, nella sessualità?» [2].

Ecco allora che, per annullare le condizioni della reificazione delle donne e della feticizzazione della differenza sessuale, la pagina di Wittig si popola di armi, in modo tale da suggerire un’associazione stretta fra lotta antipatriarcale, apprendistato letterario ed emersione di quella «nuova dimensione dell’umano» costituita, per la scrittrice francese, dal lesbismo. Ne L’opoponax, per limitarsi a un esempio precoce, il desiderio tra Catherine Legrand e Valerie Borge si nutre senz’altro del dono reciproco di versi inventati o prelevati da poeti come Malherbe, Louise Labé, Leopardi e Baudelaire; ma anche delle tre pallottole di carabina che l’una, già avviata all’attività di tiro, mette in mano all’altra pregandola di conservarle (O, p. 267/p.208).

Il momento dello scambio amoroso delle pallottole si colloca, letteralmente, a un passo dal ciclo epico de Le guerrigliere, dal quale apprendiamo che «quelle che vogliono trasformare il mondo» devono «prima di tutto impadronirsi dei fucili» (G, pp. 120-21/p. 74). Se ci fermassimo al versante più agevolmente riconoscibile della frase, forse non coglieremmo altro che un’eco della retorica maoista dilagante nella Francia post-68. Senonché, in mano a Wittig, i problemi della guerra e della strategia assumono una dimensione di portata decisamente più ampia, definita sempre da una relazione fortissima e, non di pura derivazione, con l’insieme della tradizione letteraria.         

«Alla guerra penseranno gli uomini» è, come si ricorderà, la battuta perentoria che Ettore rivolge ad Andromaca nel sesto libro dell’Iliade, uno degli ipotesti alla base de Le guerrigliere. Con un ribaltamento apparentemente clamoroso, la guerra verrà poi qualificata come «un affare di donne» nella Lisistrata di Aristofane, un altro dei testi a cui Wittig fa esplicitamente allusione. Veicolata dal motivo dello sciopero del sesso, la competenza politica delle donne trova la propria fonte di legittimazione, nella commedia aristofanea, nel contributo da queste offerto alla polis in veste di madri: ragion per cui, spetta alle donne escogitare una soluzione per mettere fine a un conflitto ventennale, quello fra Ateniesi e Spartani, che minaccia la tenuta dell’ordine mandando in rovina le famiglie. Per effetto di un altro rovesciamento, sotto la penna di Wittig la stessa frase, «la guerra è un affare di donne» (G, p. 180/p. 112), assume un significato completamente nuovo che, salvo errori, non ha precedenti nella vicenda delle riscritture della Lisistrata — nemmeno nelle versioni a intonazione femminista [3]. A ridosso dell’esplosione del Movimento di liberazione delle donne in Francia, di cui la scrittrice sarà una delle principali istigatrici, si tratta infatti di legittimare il diritto di elles, l’eroe collettivo della moderna epopea guerrigliera, di partecipare non a una guerra qualsiasi, ma di fare la guerra contro ils per liberarsi dalle condizioni della propria soggezione, porsi come soggetti universali di enunciazione di sé e del mondo e affrancarsi dalla necessità di identificarsi con i simboli che esaltano il corpo frammentato e la specificità femminile, ovvero con l’ultimo legame che le stringe a una cultura morta.  

È, questo, solo uno dei molti campioni che si potrebbero prelevare in vivo per verificare cosa intendono Feole e Garbagnoli quando osservano che, per Wittig, si tratta «di far violenza a una lingua e a una letteratura che strutturalmente fanno violenza ai gruppi minoritari negando loro piena soggettività, di far dire al linguaggio e alla letteratura ciò che non sono fatti per dire: la piena umanità e universalità dei soggetti minoritari» (MW, p. 68). Ma è anche un esempio particolarmente idoneo a illuminare, per contrasto, gli ostacoli che si frappongono non solo alla legittimazione, ma alla stessa concepibilità, del conflitto prefigurato da Le Guerrigliere.

«Pensiero straight» è, nel lessico critico messo a punto da Wittig, l’espressione riassuntiva di tali ostacoli. Solo un’interpretazione superficiale della realtà del dominio, e di quello eteropatriarcale in particolare, potrebbe equipararli alla somma delle opinioni sessiste e dei giudizi svalorizzanti che circolano all’interno della società in un dato momento. Ciò che conta, nella definizione del pensiero straight, non sono i contenuti particolari, ma la forma ideologica di un’interpretazione del mondo rintracciabile tanto nella doxa corrente quanto nel discorso delle scienze umane (strutturalismo e psicoanalisi in primis, ma non solo). E questa interpretazione del mondo, condotta dal punto di vista del dominante, non ha altra funzione fuorché quella di agire come schema di occultamento del conflitto: di nascondere e congelare, a ogni livello, gli antagonismi che innervano la struttura sociale. Se quello fra uomini e donne è il più vulnerabile alla presa mistificante dell’ideologia straight, ciò non dipende solo dall’anteriorità storica del patriarcato rispetto a forme moderne di dominazione, ma dal fatto che i meccanismi concreti di appropriazione delle donne da parte degli uomini offrono un terreno propizio alla credenza nella necessità di un rapporto intimo e permanente fra “diversi” e “complementari”. Si radica qui la resistenza tenace a concepire donne e uomini come classi di sesso, anziché come gruppi naturali.

Nell’universo mitico forgiato dall’ideologia straight, in effetti, non esistono dominanti e dominati, appropriate e appropriatori, maggioritari e minoritari, così come non c’è spazio per la dialettica intesa come coscienza pensante della contraddizione reale. Esistono solo i titolari legittimi dell’universale, da un lato, e, dall’altro, differenze e alterità elevate a qualità intrinseche delle classi oppresse per meglio mascherare i rapporti sociali di dominio. La pacificazione garantita dal pensiero straight è sinonimo di riconciliazione con la disuguaglianza e consacrazione delle gerarchie. Come sottolinea “Wittig” (il personaggio messo in scena in Virgile, non) commentando una scena di prostituzione, la denuncia dell’inferno dell’oppressione, e della devastazione umana che ne scaturisce, sarà sempre, dal punto di vista straight, un’esagerazione imputabile al «flagello lesbico». E, in quanto tale, meritevole di censura (VN, p. 42/p. 42.).   

L’accostamento proposto da Feole e Garbagnoli tra la nozione di «pensiero straight» e quella di «ideologia razzista» elaborata da Colette Guillaumin [4] non è importante solo ai fini dell’individuazione di una delle fonti, del resto dichiarate, del pensiero di Wittig. La sovrapponibilità fra «pensiero straight» e «ideologia razzista» rimanda a un sistema globale di percezione basato su un’idea di natura in virtù della quale ai soggetti oppressi viene imputata una «forma di “determinismo endogeno” operante come causa insita del loro essere» (MW, p. 33). Che cos’è questa, se non la forma tipicamente moderna di legittimazione della pratica sociale della subordinazione, dotata di sufficiente plasticità da applicarsi a diverse possibili espressioni del dominio? Se non ci fossero principi moderni da negare nella prassi, se le deroghe agli universali presentati non necessitassero di una giustificazione compatibile con la salvaguardia formale dei criteri di uguaglianza, che senso avrebbe la scomposizione dell’umanità in un catalogo di alterità inemendabili, differenze essenziali, eterogeneità incommensurabili?

Se il femminismo materialista, nel suo insieme, scopre e mette a tema l’ubiquità di questo dispositivo di giustificazione del dominio, correlandolo di volta in volta agli assetti materiali che lo fondano, e in particolare al persistente regime di appropriazione delle donne da parte degli uomini, Wittig è colei che più di tutte punta a riqualificare il lesbismo come «posizione sociale a partire dalla quale è più facilmente possibile muovere una critica radicale al patriarcato» (MW, p. 51), circostanza che le è valsa il duro ostracismo — l’altra faccia dell’inferno — rappresentato nelle pagine di Virgile, non, del Voyage sans fin e di Paris-la-politique. Resta il fatto che nemmeno l’avversione più caparbia all’utopia perseguita da Wittig può negare il contributo offerto dalla scrittrice al riscatto del lesbismo dalla penombra del folklore sessuale: «Dai corpi delle guerrigliere a quelli delle amanti, passando per il corpo delle protagoniste lesbiche di Virgile, non, il “corpo lesbico” è un corpo scritto e immaginato per costringere chi legge a mettere in discussione la rappresentazione univoca, reificata, passiva, appropriata e straight delle donne e dei loro corpi. Alludendo, come la stessa Wittig fa spesso, alla tradizione evangelica, potremmo dire che il “corpo lesbico” non ha la facoltà di redimere e non libera dai peccati, ma apre a chi legge, e alle donne in particolare, un mondo al di là delle categorie di sesso» (MW, p. 60).

Negli Appunti per un dizionario delle amanti, il libro pubblicato da Wittig insieme a Sande Zeig nel 1976, si legge: «Esistono delle fughe simili alle perdite d’acqua nella coscienza di ogni persona. Le fughe o vuoti di memoria sono l’esempio più frequente. Quante amanti davanti a questa emorragia dei loro ricordi, delle loro informazioni e delle loro conoscenze si sono messe a digiunare. […] Esistono anche fughe di interesse, fughe di sentimenti, fughe di energia, fughe di immaginazione. Esiste anche un’altra sorta di fuga detta “fuga in avanti” che ha il vantaggio di far dimenticare tutte le altre» (B, p. 91/pp. 69-70). Meglio di così non si saprebbe descrivere il viaggio a cui Garbagnoli e Feole ci invitano. Che è tutto, fuorché d’evasione.       

SIGLE

B = Monique Wittig, Sande Zeig, Brouillon pour un dictionnaire des amantes, Grasset, Paris 1976; trad. it. di Onna Pas, Appunti per un dizionario delle amanti, Meltemi, Milano 2020.

G = Monique Wittig, Les Guérillères, Minuit, Paris 1969; trad. it. di Ana Cuenca, Le guerrigliere, Lesbacce Incolte, Bologna 1996 (nuova ed. La Porta Terra di donne, Bologna 2019). 

MW = Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023.

O = Monique Wittig, L’Opoponax, Minuit, Paris 1964; trad. it. di Clara Lusignoli, L’opoponax,Einaudi, Torino 1966.

VN = Monique Wittig, Virgile, non, Minuit, Paris 1985; trad. it. di Rosanna Fiocchetto, Virgilɘ, non, Il Dito e La Luna, Milano 2005.

NOTE

[1] Cfr. Qui êtes-vous, Antoinette Fouque? Entretien avec Christophe Bourseiller, des femmes-Anoinette Fouque, Paris 2009, p. 48: «Ciò che interessava a Monique Wittig era dissotterrare una cultura dell’omosessualità femminile, liberare la lesbica dalla donna. Ma è stato necessario attendere due anni [dal 1968 al 1970] perché si risolvesse a farlo. Ciò l’ha condotta a porre una non-mixité assoluta, una sorta di separatismo, per arrivare a un movimento marcato dal femminismo e dal lesbismo che, in fondo, vuole la scomparsa della parola “donna”, la cancellazione delle donne. Alla fine, emigrerà negli Stati Uniti per teorizzare il suo pensiero e inventare il queer».

[2] Paola Tabet, Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», 19, 3-4, 1979, p. 12; trad. it. «Mani, strumenti, armi», in Ead., Le dita tagliate, Ediesse, Roma 2014, p. 190.

[3] Per una rassegna, cfr. Simone Beta, La donna che sconfigge la guerra. Lisistrata racconta la sua storia, Carocci, Roma 2022.

[4] Colette Guillaumin, L’idéologie raciste. Genèse et language actuel, Mouton & Co, Paris 1972 [Gallimard, Paris 2002]; trad. it. di Sara Garbagnoli, L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, il nuovo melangolo, Genova 2023. 

Il bacio di Sally. Erotismo, lesbismo e femminismo in Mrs Dalloway di Virginia Woolf

di Stefania Arcara
[estratto da un articolo originariamente pubblicato su Critica del testo, XXV / 3, 2022, pp. 1-21]

Occorre assumere insieme un punto di vista particolare e un punto di vista universale, almeno per essere parte della letteratura. Ovvero, si deve lavorare per raggiungere il generale, anche se si inizia da un punto di vista individuale o specifico.
(Monique Wittig)

Prima edizione di Mrs Dalloway, 1925 – copertina di Vanessa Bell

«La critica non ha mai messo a tema il fatto che per mezzo secolo Sally ha baciato un fiore, anziché l’amica Clarissa»: così la traduttrice Anna Nadotti, nel 2012, accennava alla censura dell’erotismo lesbico imposta al romanzo woolfiano Mrs Dalloway nell’unica traduzione disponibile al pubblico italiano tra il 1946 e il 1989.[1] Il bacio sulle labbra tra due giovani donne innamorate, Sally Seton e la protagonista, evocato in una scena cruciale del romanzo, è stato sostituito nella traduzione italiana conosciuta da generazioni di lettori e lettrici da un casto, quanto insensato, bacio sui petali di un fiore. Il testo originale recita: «Sally stopped; picked a flower; kissed her on the lips»; «Sally si fermò; colse un fiore; la baciò sulle labbra» (La signora Dalloway, a cura di M. Sestito, Venezia, Marsilio, 2012, p. 115). La traduzione del 1946 riportava invece: «Sally si fermò, spiccò un fiore, lo portò alle labbra e lo baciò» (La signora Dalloway, a cura di S. Perosa, trad. A. Scalero, Milano, Mondadori, 19882, p. 41). Oltre all’intensità erotica della narrazione, tale rimozione ha anche cancellato, nel testo italiano, la centralità diegetica di quello che Clarissa ricorda come «il momento più bello di tutta la sua vita», «infinitamente prezioso» – un episodio senza il quale la lettura del romanzo risulterà evidentemente distorta.

La traduzione censurata del ’46 è stata riedita negli anni Ottanta a cura di Sergio Perosa, che nel suo saggio introduttivo tace tanto sul lesbismo quanto sulla censura operata sul testo.[2] Il bacio tra Clarissa e Sally è stato restituito al pubblico italiano per la prima volta nel 1989 nella traduzione di Nadia Fusini, che mantiene il massimo riserbo sulla questione, e nelle numerose traduzioni successive, l’ultima del 2012.[3] È interessante notare come la disponibilità della traduzione corretta nei decenni scorsi non abbia scalfito la lettura del romanzo in chiave strettamente eterosessuale ancora oggi predominante in Italia, che prevede un tradizionale triangolo amoroso lei-lui-lui e si concentra sulla scelta della protagonista di sposare il più pacato e rassicurante Richard Dalloway piuttosto che il suo primo pretendente, Peter Walsh, del quale, secondo questa interpretazione, sarebbe stata «innamorata».[4] Tale lettura minimizza, o persino sopprime del tutto (com’è accaduto anche di recente), il rilievo del tema lesbico nel romanzo.[5]

Molto diversa è la lettura dell’opera in ambito anglofono, non solo accademico: in un programma culturale rivolto al grande pubblico quale In Our Time della BBC Radio 4, nella puntata dedicata a Mrs Dalloway, il conduttore Melvyn Bragg discute a lungo con Jane Goldman, Hermione Lee e Kathryn Simpson – tra le maggiori studiose woolfiane – dell’importanza del lesbismo, della scena del bacio saffico e del personaggio di Sally Seton.[6] Un confronto tra la ricezione italiana del romanzo da una parte, e le letture femministe offerte dalla critica anglofona dall’altra, spinge a chiedersi se il lesbismo, in Mrs Dalloway come nel resto dell’opera woolfiana, non abbia costituito un argomento tabù presso le studiose italiane, il cui approccio si fonda sul pensiero della differenza sessuale. Se già nel 1976 Judith McDaniel poneva la domanda «Why not Sally?»,[7] in Italia il lesbismo nella scrittura (e nella vita) di Woolf, quando non ignorato, appare talvolta banalizzato – ridotto ad aspetto marginale, a personale eccentricità: nella recente pubblicazione del carteggio tra Woolf e Sackville-West, Nadia Fusini, pur riconoscendo l’amore e «l’energia erotica» che scorre in quelle lettere, le presenta rivolgendosi al «lettore» che abbia «un certo gusto del pettegolezzo piccante».[8] Il lesbismo è stato cioè artatamente disgiunto dalla visione femminista dell’autrice, arrivando a essere liquidato come fastidiosa questione «politically correct» e come mera etichetta limitante.[9]

Non è questa la sede per offrire una lettura dell’opera woolfiana attraverso la lente della critica femminista e lesbofemminista (per quest’ultima rimando al prestigioso volume Virginia Woolf. Lesbian Readings, uscito nel 1997, culmine di almeno vent’anni di studi precedenti).[10] Mi concentrerò qui sulla rappresentazione dell’eros in Mrs Dalloway, proponendomi un duplice obiettivo: da una parte, esaminare le strategie narrative con le quali l’autrice, partendo da un punto di vista particolare (l’amore lesbico) ma creando letteratura universale, evoca in questo romanzo la qualità dell’esperienza erotica; dall’altra, iniziare a restituire al pubblico italiano l’intreccio tra femminismo e lesbismo nella scrittura di Virginia Woolf, ovvero, come già auspicava Karyn Sproles, a integrare la sessualità nella lettura della sua opera come accade per Proust o Gertrude Stein.[11] Non si tratta, s’intende, di affibbiare un’etichetta a Woolf e costringerla nella camicia di forza di una “categoria”, come temono alcune; ma, al contrario, di aprire la possibilità di una lettura dell’opera libera da qualsiasi censura (non solo traduttiva), che ne colga tutta la ricchezza.

Nelle letture italiane di Mrs Dalloway che fin qui hanno cancellato il lesbismo sparisce infatti, con un colpo di spugna, anche uno degli elementi tematici e formali del romanzo, la critica al patriarcato, all’istituzione del matrimonio e all’eterosessualità obbligatoria che, come nota una studiosa del calibro di Jane Goldman,[12] è intrecciato agli altri aspetti di critica sociale che informano la narrazione, quali la denuncia della guerra, dell’imperialismo britannico e dell’establishment medico-psichiatrico.

Solo tenendo insieme desiderio erotico, lesbismo e femminismo è possibile cogliere il significato dell’amore tra donne nella scrittura di Woolf: «women alone stir my imagination», scriveva l’autrice nel 1930 a Ethel Smyth a proposito della propria arte.[13] Ricorrono infatti, nell’opera di Woolf, figure positive di donne che si sottraggono all’eterosessualità e si oppongono alle norme patriarcali: Mary Datchet in Night and Day, Lily Briscoe in To the Lighthouse, Eleanor e Sarah Pargiter in The Years, Miss La Trobe in Between the Acts, e la lista potrebbe continuare.[14]

Come ci ricorda Terry Castle a proposito della dimensione fantasmatica della figura della donna non eterosessuale nella cultura moderna, «when it comes to lesbians (…) many people have trouble seeing what’s in front of them».[15] Se è vero, come fa notare Patricia Cramer, che le norme culturali dominanti e la formazione accademica tradizionale ci predispongono a riconoscere in un’opera temi eterosessuali ma non omosessuali,[16] una lettura attenta ci confermerà che parlare di eros nella scrittura woolfiana significa parlare di lesbismo: «we must remember that when she did express desire, it was more commonly lesbian».[17] Come vedremo, è proprio questo il caso di Mrs Dalloway: il desiderio, la passione, l’erotismo riguardano, in questo romanzo, esclusivamente il rapporto tra donne. Come suggerisce Pamela J. Olano, in quanto lettrici, noi tutte, indipendentemente dall’“orientamento” sessuale, possiamo adoperarci per abbandonare l’aspettativa automaticamente eterocentrata a proposito della narrazione erotico-amorosa e immergerci nello spazio narrativo lesbico creato dall’autrice.[18]

Illustrazione di Maria Giovanna De Fino, 2019

Una Woolf verginale? Una «frigida dama?»

Prima di occupare un posto di rilievo nel canone letterario, la narrativa woolfiana non è stata esente da critiche: una delle debolezze riscontrate riguardava la presunta assenza di elementi relativi alla sessualità presenti invece in autori quali Proust e Joyce.[19] L’accusa di “asessualità” rivolta all’opera di Woolf poggiava anche su considerazioni extra-letterarie, basate sulla biografia pubblicata dal nipote Quentin Bell nel 1972. Prendendo per buona l’opinione del biografo, secondo il quale nella personalità di Woolf «the erotic element (…) was faint and tenuous»,[20] fu facile trarre la conclusione che l’autrice fosse una donna “frigida” e che di questa caratteristica risentisse anche la sua narrativa. Bell minimizzava l’importanza sia del lesbismo che della sessualità nella vita di Woolf, descrivendola ripetutamente come «verginale». Pur menzionando le relazioni di Woolf con le donne, il biografo non le presentava come rilevanti per la sua scrittura o per la sua analisi sociale.[21] Bell e altri individuavano nei romanzi woolfiani una qualità eterea e priva di sostanza, limite che veniva addirittura spiegato dal biografo come riflesso della “nevrosi” sessuale dell’autrice, da lui definita una «sexless Sappho».[22] Persino una studiosa come Elaine Showalter, in un saggio del 1977, ha visto in Woolf una scrittrice vittima della repressione sessuale vittoriana, arrivando ad associare l’immagine di «una stanza tutta per sé» all’idea di un isolamento sepolcrale, simbolo della «femminilità» mortifera e disincarnata dell’autrice e del suo disimpegno sociale e sessuale.[23]

La figura di Virginia Woolf ha sempre generato «custody battles over who gets to define her meaning».[24] È quanto accade a partire dagli anni Settanta, con la pubblicazione delle lettere e dei diari dell’autrice, che ha permesso a lettrici e studiose di ascoltare la voce di Woolf «unfiltered through husband or nephew or academic critics».[25] Sono stati denunciati così i limiti delle versioni ufficiali fornite dal marito Leonard e da quei «sons of Bloomsbury» – il nipote Quentin Bell e Nigel Nicolson, figlio di Vita Sackville-West – che avevano dato risalto alla malattia mentale della scrittrice, descrivendola come donna sessualmente frigida e classificandola come autrice elitaria.[26]

Se negli studi critici e nelle biografie è stata a lungo pratica comune ignorare o ridimensionare la relazione lesbica tra Virginia Woolf e Vita Sackville-West per affermare il primato dei legami eterosessuali delle due donne[27] (pratica invalsa anche in Italia con la rituale celebrazione della figura salvifica di Leonard), negli ultimi decenni è stata evidenziata, al contrario, la centralità della relazione d’amore e amicizia tra le due scrittrici, efficacemente definita una «partnership», durata quasi due decenni: un «collaborative project» la cui influenza fu reciproca e profonda.[28]

Virginia Woolf inizia a scrivere Mrs Dalloway nel 1922 e lo pubblica nel 1925: sono gli anni della «Sapphic modernity», la graduale diffusione di una «visible modern English lesbian subculture» che caratterizzerà la cultura britannica tra le due guerre.[29] Nel 1921 il Parlamento discute una legge per criminalizzare l’omosessualità femminile e nel 1928 il romanzo di Radclyffe Hall, The Well of Loneliness, è al centro di un processo per oscenità il cui esito sarà la censura (malgrado non apprezzi il romanzo, Virginia Woolf, insieme ad altre personalità di Bloomsbury, si schiera in difesa della scrittrice in nome della libertà d’espressione).[30] Negli stessi anni in cui le istituzioni si impegnano a patologizzare e criminalizzare il lesbismo, si registra una fioritura senza precedenti di relazioni e comunità intellettuali “saffiche” (questo il termine in voga), di cui Woolf era a conoscenza attraverso figure di spicco di quelle comunità, quali Vita Sackville-West e più tardi Ethel Smyth.[31]

Le crescente intimità tra le due scrittrici, che si conobbero nel dicembre del 1922, incoraggerà Virginia Woolf a mettere a tema l’omoerotismo nel romanzo a cui stava lavorando.[32] Nel 1924, mentre è impegnata nella stesura dell’opera, annota nel suo diario: «Here I am peering across Vita at my blessed Mrs Dalloway».[33] Nel 1928 Woolf racconterà a Sackville-West del suo primo innamoramento per una donna, l’amica di famiglia Madge Symonds Vaughan, sulla quale, come lei stessa rivela, ha modellato il personaggio di Sally Seton in Mrs Dalloway.[34]

Hermione Lee invita giustamente alla cautela rispetto a una lettura in chiave biografica del romanzo, poiché Woolf, come tutte le grandi menti creative, «splits herself in the book into all different characters» (per esempio, l’esperienza personale della malattia mentale è incarnata nel romanzo dal personaggio di Septimus).[35] La signora Dalloway è molto lontana dalla sua autrice in termini di classe sociale o vedute politiche, tuttavia le parole di Clarissa per descrivere la propria passione amorosa per Sally («holding the hot-water can in her hands and saying aloud, “She is beneath this roof… She is beneath this roof!”»)[36] coincidono quasi verbatim con quelle della giovane Virginia innamorata di Madge Symonds, riportate da Quentin Bell: «her hand gripping the handle of the water-jug in the top room at Hyde Park Gate, she exclaimed to herself: “Madge is here; at this moment she is actually under this roof”».[37] Come afferma lo stesso biografo, la passione della giovane Virginia fu intensa: «Virginia once declared that she had never felt a more poignant emotion over anyone than she did at that moment for Madge»,[38] un’intensità espressa iperbolicamente come quella che, nel romanzo, Clarissa prova per Sally.

È pur vero che nell’economia del romanzo la relazione saffica di Clarissa Dalloway è a prima vista una presenza poco cospicua. Come si vedrà, Woolf adotta sottili strategie di svelamento e nascondimento per trattare il tema del lesbismo nella sua scrittura, e lo fa con estrema consapevolezza: lo testimonia, tra l’altro, la soddisfazione divertita che esprime nel 1927 quando il lesbismo passa inosservato nella sua «little Sapphist story», Slater’s Pins Have No Points, che riesce a pubblicare senza censure: «the editor has not seen the point», si vanta con Vita, «though he’s been looking for it in the Adirondacks».[39]

D’altra parte, la signora Dalloway, proprio come Virginia Woolf e Vita Sackville-West, vive una vita apparentemente “normale”: per queste donne, infatti, il lesbismo non è un’identità, ma la tessitura di legami emotivi ed erotici che potevano prosperare felicemente negli interstizi di un’esistenza eterosessuale, nelle pieghe dell’istituzione matrimoniale.[40] Sicuramente Woolf era lontana dal concepire il lesbismo sulla base delle categorie del discorso medico-sessuologico e antifemminista rappresentato, tra Otto e Novecento, da Havelock Ellis, Edward Carpenter e Stella Browne, che in parte influenzarono Sackville-West.[41] Si può dire piuttosto, con Suzanne Raitt, che Woolf e Sackville-West «both were and were not lesbian».[42] Un’indicazione importante in questo senso ce la fornisce il personaggio di Clarissa, la quale, nel discorso indiretto libero che esprime i suoi pensieri mentre passeggia per le strade di Londra, evita di dare definizioni di sé stessa e delle persone che ha intorno: «she would not say of anyone in the world now that they were this or were that. (…) She would not say of herself, I am this, I am that».

Il titolo dell’opera definisce però la protagonista attraverso un’identità ben precisa, quella di moglie. Come nota Kathryn Simpson, il titolo che sembra preannunciare la storia di un matrimonio felice si rivelerà fuorviante: Clarissa Dalloway è infatti «un’eroina ambigua».[43] Il ricordo del bacio della sua amata Sally l’accompagna per l’intera narrazione: in tal modo Clarissa continua a sottrarsi, in una certa misura, alla dimensione di compromesso eterosessuale in cui vive nel presente. La scelta di una protagonista non più giovane, dai capelli bianchi, che ha già adempiuto ai propri doveri di moglie e madre («there being no more marrying, no more having children now») è una delle novità dello sperimentalismo modernista woolfiano, che insieme alle convenzioni del romanzo realista, abbandona matrimonio e maternità come uniche narrazioni previste per i personaggi femminili e crea invece «subversive subplots», spesso incentrati sull’omoerotismo: è quanto avviene in Mrs Dalloway, che è stato considerato dalla critica «Woolf’s most overt celebration of lesbian sexuality» e «the most lesbian specific piece of writing Woolf ever published».[44]

Com’è noto, la narrazione si dipana in un continuo intreccio di passato e presente, la vita che scorre nella Londra postbellica in un giorno di giugno del 1923 e i ricordi di un’estate trascorsa a Bourton quando Clarissa Parry aveva diciotto anni. Con la sua tecnica del tunnelling process, Woolf scava cunicoli nella mente della protagonista: lì, nella memoria della signora Dalloway, riaffiora a distanza di più di trent’anni l’innamoramento per l’amica Sally Seton, un’emozione talmente intensa da essere espressa con un verso dell’Othello shakespeariano («if it were now to die ’twere now to be most happy») che racchiude l’idea di massima felicità, quella giovanile, innocente e autentica – un’esperienza che formerà parte della sua coscienza per il resto della sua esistenza.

Malgrado sia moglie e madre, la Clarissa del presente, che dorme da sola in un attico, è presentata più volte con attributi verginali, associata a spazi claustrali e paragonata per due volte a una monaca («like a nun withdrawing»): tuttavia, le letture che insistono sulla “frigidità” di Clarissa (Fusini la chiama «la frigida dama», il cui vero e unico «emozionante coito nuziale» è la sintonia ideale con il suicida Septimus; Showalter associa la camera da letto solitaria alla morte)[45] scelgono di ignorare sia il discorso omoerotico che pervade la narrazione che la sexual politics sottesa a queste connotazioni di “castità” del personaggio. Non è un caso, infatti, che la freddezza di Clarissa sia la «coldness» che le viene attribuita da Peter Walsh, il pretendente rifiutato, insieme ai termini «woodenness» e, significativamente, «impenetrability»; è quella freddezza per la quale lei stessa ritiene di essere stata “manchevole” nei confronti del marito («she had failed him»). La freddezza di Clarissa, la sua castità monacale, non sono altro che il suo sottrarsi all’eterosessualità, e non un’impassibilità connaturata al personaggio: il “verginale” autocontrollo e la mancanza di trasporto nei confronti del marito e di Peter Walsh non impediscono infatti a Clarissa di provare piacere, passione, attrazione erotica per le donne, emozioni rintracciabili, a ben guardare, nelle pagine del romanzo. Clarissa è attratta dalle donne, «this falling in love with women», «yielding to the charm of a woman», come lei stessa afferma inequivocabilmente quando è assorta nei suoi pensieri nell’intimità della propria «stanza tutta per sé», in cui dorme lontana dal letto matrimoniale.

«Il momento più bello di tutta la sua vita»

Una delle più lunghe sequenze narrative del romanzo rievoca gli anni della giovinezza della protagonista: la vita di una giovane donna dell’alta borghesia nella fase di passaggio dalla libertà dell’amicizia tra donne al destino sociale del matrimonio.La passione amorosa tra Clarissa e Sally è attrazione intellettuale e insieme erotica: Clarissa è sedotta tanto dalla sensualità di Sally («all that evening she could not take her eyes off Sally»), quanto dalle sue opinioni politiche. Con le sue vedute radicali e la sua condotta ribelle, Sally rappresenta la possibilità di una piena realizzazione personale, un’alternativa al destino patriarcale riservato alle donne.[46] A Bourton le due ragazze leggono William Morris, Shelley, Platone, e conversano fino a tarda notte nella camera da letto «at the top of the house», uno spazio separato, come l’attico in cui dorme la Clarissa del presente. Il loro è un innamoramento fatto di complicità: «a sense of being in league together», un sentimento associato all’idea di integrità, poiché, a differenza di quello per un uomo, è «completely disinterested», una qualità «which could only exist between women».

Entrambe le ragazze pensano al matrimonio come a una «catastrofe». Com’è stato notato, la critica all’istituzione del matrimonio percorre sottilmente tutto il romanzo:[47] da Evelyn Whitbread, che soffre di «some internal ailment», a Lady Bradshaw, che a un certo punto «had gone under», all’infelice Lucrezia, le donne sposate sembrano pagare il tributo della perdita di indipendenza. Per Clarissa il matrimonio con il parlamentare Richard Dalloway, basato su rispetto reciproco, amicizia e affetto, ma privo di passione erotica, costituisce parte integrante della propria identità sociale. Richard, che regge «like a weapon» il mazzo di fiori da regalare alla moglie, è considerato lucidamente da Clarissa «the foundation» della propria esistenza agiata, ma mai oggetto di attrazione erotica. Questo matrimonio, che le ha evitato il coinvolgimento che il possessivo Peter Walsh le avrebbe richiesto (e che lei non era disposta a garantire), le consente di mantenere le apparenze e al tempo stesso di coltivare la propria attrazione per le donne. Clarissa tuttavia è consapevole dell’incompatibilità tra i propri desideri e l’identità pubblica della “signora Dalloway”: significativamente, il bacio di Sally è per lei un tesoro segreto, custodito per tutta la vita nel privato dell’anima, «a diamond, something precious, wrapped up».

Anche la Sally del presente, come scopriremo verso la fine del romanzo, ha ceduto alla pressione sociale e abbandonato ogni proposito di ribellione, tanto da essere divenuta la ricca Lady Rosseter, orgogliosa madre di cinque figli maschi. Tuttavia, in un importante passaggio nelle ultime pagine del testo, si dice convinta, insieme a Peter Walsh, che si ami davvero una sola volta nella vita: «and she had loved her», Sally dichiarava a quel punto in una prima stesura del romanzo, mentre nella versione definitiva l’oggetto del vero, unico amore di Sally resta implicito, eppure inequivocabile.[48] Anche il matrimonio di Sally, come quello di Clarissa, non è associato all’attrazione erotica: Lady Rosseter è la moglie di un uomo calvo, un ricco industriale del cotone, e sebbene si dica felice, ha perso ogni fiducia nei rapporti umani – «Are we not all prisoners?», si chiede – trovando consolazione solo nelle sue serre di fiori esotici.

Mentre il matrimonio è rappresentato come sessualmente insoddisfacente, in Mrs Dalloway il piacere e la passione sono associati alla relazione tra donne. La qualità erotica di questa relazione affiora attraverso lo stile lirico e allusivo della scrittura woolfiana. Virginia Woolf è consapevole della difficoltà, per una romanziera, non solo di scrivere di passioni e di corpi, ma di scriverne dicendo la verità su di essi da un punto di vista femminile. Nel 1932 dichiarerà che uno dei problemi che, come ogni scrittrice, ha dovuto affrontare, insieme a quello di uccidere «the Angel in the House», è quello di «telling the truth about my own experiences as a body», mentre gli uomini si permettono «great freedoms» a questo proposito.[49] Come ci ricorda la stessa autrice in A Room of One’s Own, alle donne, in letteratura, raramente è stato permesso di piacersi l’un l’altra: le figure femminili sono state quasi sempre rappresentate in relazione agli uomini. Ciò che Woolf riesce a realizzare, in alcuni passaggi di Mrs Dalloway, è qualcosa di inedito e audace: parlare di eros da una prospettiva femminile e non eterosessuale, cogliendo la vita delle donne in relazione tra loro, non più viste attraverso lo sguardo maschile.

Mantenendo un delicato equilibrio tra rivelazione e occultamento, Woolf elabora un «seductive and allusive style» che al tempo stesso sollecita e ostacola l’operazione di svelamento da parte di chi legge: con raffinate «coding techniques» l’autrice offre infatti una rappresentazione “cifrata” dell’omoerotismo.[50] Le immagini floreali sono uno degli esempi di tale codificazione del lesbismo: i fiori sono spesso associati, nella narrativa woolfiana, alla condivisione di sentimenti ed emozioni, anche sessuali, tra donne,[51] così come le immagini legate a flora e fauna sono cariche di intensità erotica negli scritti privati dell’autrice la quale, nel 1926, così scriveva dell’imminente incontro con l’amante: «Vita is now arriving to spend 2 nights alone with me (…) the June nights are long and warm; the roses flowering; and the garden full of lust and bees».[52] E ancora, in una lettera a Vita dello stesso anno, i fiori sono termine di paragone per alludere alla sensualità dell’amante: «The flowers have come, and are adorable, dusky, tortured, passionate like you», mentre in una lettera in cui rimprovera scherzosamente alla sorella Vanessa il disinteresse per il fascino femminile compare la metafora del giardino: «You will never succumb to the charms of any of your sex – What an arid garden the world must be for you!»; [53] gli esempi potrebbero continuare.

Graffiti, 2007 – foto di Brocco

L’uso che Woolf fa delle immagini floreali si colloca in una tradizione di scrittura lesbica che, come osserva Patricia Cramer, si contrappone alla convenzione letteraria maschile che associa fiori e “femminilità” per idealizzare quest’ultima in termini di delicatezza e vulnerabilità; Woolf rielabora questa associazione tra donne e fiori per esprimere l’intensità del desiderio omoerotico, nella tradizione di Emily Dickinson e delle poetesse tardovittoriane conosciute come “Michael Field”, da lei apprezzate.[54]

La scena del bacio sulle labbra tra Sally e Clarissa è ambientata in giardino, accanto a una «stone urn with flowers in it», ed è evocata con un’audace mescolanza di carnalità e spiritualità, al tempo stesso sensazione fisica di vertigine e attimo di trascendenza:

Sally stopped; picked a flower; kissed her on the lips. The whole world might have turned upside down! The others disappeared; there she was alone with Sally. And she felt that she had been given a present, wrapped up, and told just to keep it, not to look at it—a diamond, something infinitely precious, wrapped up, which, as they walked (up and down, up and down), she uncovered, or the radiance burnt through, the revelation, the religious feeling!

Il piacere erotico, per Clarissa, ha la forza di una «rivelazione» che per essere verbalizzata richiede un linguaggio lirico.[55] È una felicità definita in termini trascendenti, ma provata inequivocabilmente attraverso i sensi, nell’attimo del contatto con le labbra di Sally, un attimo in cui tutto il resto scompare e il mondo si capovolge.

Il momento termina bruscamente con l’arrivo di Peter Walsh e del vecchio Joseph. Di fronte a questa intrusione di due uomini che interrompono la sua estasi erotica, Clarissa prova una sensazione fisica paragonata a un urto violento: «It was like running one’s face against a granite wall in the darkness! It was shocking; it was horrible!». Nella poetica woolfiana l’immagine del granito rimanda, come nota Fusini, alla solidità e all’opacità del reale, facendo da contrappunto a quella dell’arcobaleno, «le illuminazioni soggettive»:[56] non a caso, il bacio è vissuto da Clarissa proprio come tale, un’epifania sensuale – interrotta dall’imporsi della realtà sociale che spegne all’improvviso lo splendore dell’attimo erotico-amoroso. È un punto cruciale della narrazione, in cui la sensazione di orribile shock contrasta con la felicità estatica del momento precedente: Clarissa aveva sempre saputo che «something would interrupt, would embitter her moment of happiness». Le norme sociali prevedono che quel bacio debba essere interrotto, e così avviene. D’ora in poi Clarissa dovrà dedicarsi a svolgere il proprio ruolo sociale nel rituale del corteggiamento e poi del matrimonio.

Com’è stato notato, dal punto di vista diegetico il momento del bacio è fuori sincrono rispetto allo sviluppo convenzionale della narrazione incentrata sul legame eterosessuale: quest’attimo di felicità estatica costituisce una «erotic pause» rispetto al futuro eterosessuale che seguirà.[57] È uno di quei momenti, ricorrenti nella narrazione woolfiana, in cui il tempo funziona in modo diverso, dilatandosi. L’evento non ha conseguenze sulla “trama” del romanzo, poiché conosciamo sin dall’inizio, addirittura dal titolo, la direzione che ha preso la vita della protagonista, diventata «Mrs Richard Dalloway»: esso ritorna nel testo senza alcuna logica narrativa di causa ed effetto: l’amore e l’attrazione per Sally non sono infatti relegati nel passato come se questo fosse un’epoca conclusa, nettamente distinta dal presente. L’interruzione della scena da parte degli uomini non diminuisce, ma al contrario, sottolinea la centralità del bacio nella narrazione: il bacio ha infatti un’«afterlife», è un attimo che dura, che torna ad agire sul presente di Clarissa.[58] In questo senso, il bacio di Sally esemplifica la capacità della scrittura woolfiana di smantellare la forma narrativa basata sulla linearità temporale e contemporaneamente di reinventare la trama romanzesca tradizionale (eterosessuale).

È significativo che l’unico altro bacio che compare nelle pagine di Mrs Dalloway sia quello eterosessuale, e non consensuale, imposto alla giovane Sally dall’amico Hugh Whitbread: non solo questo bacio non ha nulla di erotico, ma è un modo, da parte dell’uomo, per rimettere al suo posto la giovane ribelle che in una discussione aveva difeso il suffragio femminile («to punish her for saying that women should have votes»); è equiparato a un insulto («he had insulted her – kissed her») che fa infuriare Sally, e come tale viene ancora ricordato da lei trent’anni dopo, alla festa di Clarissa. Non è un caso che nella narrativa woolfiana vi sia un altro bacio eterosessuale, anch’esso non voluto, ma al contrario subìto, da una giovane donna: quello che Rachel Vinrace, la protagonista di A Voyage Out, riceve da uno dei passeggeri della nave, di nome Richard Dalloway – una molestia che le procurerà profondo turbamento e incubi notturni.

In netta contrapposizione a queste espressioni di sessualità maschile, tra cui spiccano anche l’atteggiamento predatorio e la «masturbatory fantasy»[59] di Peter Walsh che segue una giovane donna per strada, in Mrs Dalloway Woolf sperimenta forme inedite, persino audaci, di rappresentazione dell’omoerotismo. In un passo spesso citato dalla critica compare l’immagine vivida di un «fiammifero che brucia in un croco», una metafora floreale che esprime l’intensità emotiva e la sorpresa di un erotismo non concepito in termini fallici. Lo stile allusivo e le figure suggestive rendono possibile leggere il brano su diversi livelli: preceduta da un chiaro riferimento all’attrazione di Clarissa per le donne («she did … feel what men felt»), l’immagine floreale-clitoridea del croco è una rappresentazione lirica dell’omoerotismo, pervasa da una tensione che si accumula e si scioglie in una liberazione orgasmica.[60] Essa è anche un esempio di alta poesia, di quella letteratura capace di assumere, come auspicava Monique Wittig, un punto di vista universale, pur partendo da uno particolare.[61] Al tempo stesso, infatti, in questo passo Woolf evoca un moment of being, uno di quegli attimi conoscitivi, un’esperienza di illuminazione, sorta di epifania laica che per l’autrice costituisce la qualità più importante della vita, nonché la materia della propria arte:[62]

It was a sudden revelation, a tinge like a blush which one tried to check and then, as it spread, one yielded to its expansion, and rushed to the farthest verge and there quivered and felt the world come closer, swollen with some astonishing significance, some pressure of rapture, which split its thin skin and gushed and poured with an extraordinary alleviation over the cracks and sores! Then, for that moment, she had seen an illumination; a match burning in a crocus; an inner meaning almost expressed. But the close withdrew; the hard softened. It was over—the moment.

Il linguaggio lirico e lo stile evocativo, le raffinate cifre, allusioni e suggestioni, celebrano il lesbismo in Mrs Dalloway in modo tale da non destare scalpore: esso assume la qualità di un’apparizione “fantasmatica” – per dirla con Terry Castle[63] – poco percettibile sia dal censore che dal grande pubblico. Proprio in quanto «highly dressed up in metaphor», come nota Hermione Lee, l’erotismo saffico può passare inosservato ai più in occasione della pubblicazione del romanzo nella Gran Bretagna degli anni Venti,[64] quando E.M. Forster tiene chiuso nel cassetto il manoscritto di Maurice e le copie di The Well of Loneliness vengono distrutte per ordine della magistratura. Sperimentando con metafore e allusioni, Woolf inventa un linguaggio in grado di rappresentare quell’“amore che non osa dire il proprio nome” e, tuttavia, sufficientemente vago da non creare scandalo e sfuggire alla censura: un’abilità, quella di stare in bilico tra il dire e il non dire, perfezionata da generazioni di scrittori e scrittrici non eterosessuali.[65]

Un ulteriore motivo che rese Mrs Dalloway un romanzo pubblicabile, a differenza del già citato The Well of Loneliness, è la scelta di Woolf di associare il personaggio di Clarissa al lesbismo senza legittimare in alcun modo le teorie sessuologiche allora predominanti dell’“inversione”: l’autrice non ricorre, cioè, alla mascolinizzazione della donna saffica per ristabilire la complementarietà eterosessuale. Clarissa, moglie e madre, nulla ha della mascolinità di Stephen Gordon, protagonista di The Well of Loneliness, un testo pesantemente influenzato dalla sessuologia. Al contrario, attraverso Clarissa, Woolf tenta di esprimere in una prospettiva femminista una sessualità lesbica che sia libera dalle distorsioni dei sessuologi.[66] In realtà, la scrittrice sembra proiettare le connotazioni negative della mannish lesbian, la lesbica mascolina della tassonomia sessuologica, sulla figura di Doris Kilman: attraverso questo personaggio poco amabile, il romanzo illustra le conseguenze devastanti della repressione sociale del lesbismo sulla psiche di una donna (l’odio di sé, il rifugio nel fanatismo religioso) e sulla sua condizione sociale (stigma, isolamento, povertà). Clarissa ha nei suoi confronti un atteggiamento ambivalente: prova avversione nei confronti di Miss Kilman, eppure è profondamente consapevole dell’ingiustizia e dell’odio sociale di cui questa è vittima. In un passo significativo, che proietta in una dimensione altra, in un mondo alternativo, la possibilità dell’amore tra donne, Clarissa riflette sul fatto che «with another roll of the dice (…) she could have loved Miss Kilman!» (corsivo mio).

Sebbene Clarissa rifiuti la concezione dell’amore omosessuale come quel «crime against nature», a cui alluderà la coscienza psicotica di Septimus, per lei lesbismo ed erotismo resteranno per tutta la vita associati alla dimensione privata e profondamente intima dell’anima, al riparo dallo sguardo pubblico.[67] D’altra parte, a differenza di quanto avviene in The Well of Loneliness e in Maurice, in Mrs Dalloway la relazione omosessuale viene interrotta sul nascere, come viene interrotto bruscamente il bacio di Sally, quella possibile via di fuga dalle costrizioni patriarcali.

La configurazione del desiderio lesbico e la visione femminista che informa il romanzo sono state spesso minimizzate attraverso una lettura eterocentrata che derubrica l’innamoramento di Clarissa per Sally a una mera fase giovanile, superata dalla raggiunta maturità eterosessuale realizzata nel matrimonio. È questa la soluzione fornita, tra le altre, da Elaine Showalter nel 1994 per accennare al lesbismo nel romanzo, descritto come «girlhood fascination»,[68] non dissimile da quella offerta, sul piano biografico, da Nadia Fusini nel 2017 a proposito di alcune lettere giovanili di Virginia Stephen cariche di omoerotismo, che la studiosa riduce enfaticamente, secondo i dettami della psicoanalisi, a immatura fissazione materna risolta dall’arrivo di Leonard: una tendenza della critica, questa, che Ruth Vanita deplorava già un trentennio fa.[69]

Eppure, la narrazione woolfiana è chiara nel presentare la traiettoria di Clarissa e Sally, che va dall’amore «disinteressato» tra donne, carico di erotismo, alla «catastrofe» del matrimonio privo di passione, non già come un’evoluzione desiderabile, bensì come un passaggio socialmente inevitabile. La Clarissa del presente ha imparato a vivere nel compromesso: è moglie, madre, «Mrs Richard Dalloway», ma è anche custode di quel «diamond, something infinitely precious» donatole da Sally.

In un’iniziale concezione dell’opera, Clarissa si sarebbe tolta la vita.[70] Il progetto narrativo matura però con il personaggio di Septimus, coprotagonista e alter ego di Clarissa, e in quella «sinfonia urbana»[71] che è Mrs Dalloway, Woolf offre tanto una meditazione lirica sulla morte, quanto una celebrazione della vita. Nelle ultime pagine del romanzo, com’è stato notato, l’identificazione di Clarissa con Septimus avviene a vari livelli, tra i quali anche quello della dissidenza sessuale.[72] La protagonista “sente” che il giovane suicida custodiva nell’animo, proprio come lei, qualcosa di prezioso, un «tesoro» – immagine che fa riaffiorare ancora una volta nella mente di Clarissa il verso di Othello e il ricordo vivido del suo innamoramento per Sally: «But this young man who had killed himself — had he plunged holding his treasure? “If it were now to die, ‘twere now to be most happy,” she had said to herself once, coming down in white». In questo momento nodale del romanzo – la meditazione di Clarissa sulla notizia del suicidio di Septimus – Woolf sonda «le zone più segrete dell’anima»,[73] tenendo insieme la gioia di vivere e l’immagine della morte. Clarissa sceglie la vita, la resistenza, ma la sua sensibilità è affine a quella del giovane suicida che sfugge al doloroso compromesso del vivere, a una società che lo annienta.

L’idea di felicità autentica qui evocata nella coscienza di Clarissa, che fa da contrappunto alla morte di un giovane, prende la forma dell’innamoramento per una donna (il verso di Othello e il ricordo del vestito bianco che lei indossava in quell’attimo irripetibile della sua gioventù). Ma questa forma particolare di felicità perduta, che illumina il presente e fronteggia il buio della disperazione, assume al tempo stesso un significato universale, è una nota elegiaca che rimanda alla consapevolezza che la vita – per tutti e tutte – è compromesso, è perdita, ma è anche rivelazione ed estasi.

Erotismo, lesbismo e femminismo sono dunque elementi che contribuiscono alla polisemia di quell’opera straordinaria che è Mrs Dalloway, una sinfonia il cui senso non può essere riducibile ai singoli strumenti che la compongono. Sarebbe limitante fare di Mrs Dalloway un romanzo sul lesbismo come lo sarebbe farne un romanzo sulla malattia mentale o sulla guerra. Il 13 giugno 1923 Woolf annotava nel suo diario: «I want to give life & death, sanity & insanity; I want to criticize the social system, and to show it at work at its most intense».[74] È riuscita nel suo intento, creando in Mrs Dalloway «una sorta di essay filosofico sulla saggezza e la follia, di meditazione metafisica sulla vita e la morte, di spaccato, anche, di una ben definita realtà sociale».[75] Soprattutto, come auspicava Monique Wittig a proposito del rapporto tra testo letterario e tema omosessuale,[76] l’arte di Virginia Woolf è capace di tenere insieme particolare e universale: riesce a universalizzare partendo da un punto di vista particolare.

PER CITARE QUESTO ARTICOLO:
Stefania Arcara, “Il bacio di Sally. Erotismo, lesbismo e femminismo in Mrs Dalloway di Virginia Woolf”, Critica del testo XXV / 3, 2022, pp. 1-21.


[1] S. Basso, Intervista ad Anna Nadotti, in «Tradurre», 3 (2012), https://rivistatradurre.it/tu-dai-voce-a-me-io-do-voce-a-te/

[2] L’unico riferimento, indiretto, al lesbismo in questa edizione si trova in una nota biografica su Woolf, in cui Perosa scrive di «certi suoi strani rapporti con personaggi come Vita Sackville-West» (corsivo mio). S. Perosa, Appendice, in ibid., pp. xxv- xlii, a p. xxx.

[3] Dopo la prima traduzione di Alessandra Scalero (Mondadori, 1946) sono apparse le traduzioni di Nadia Fusini (Mondadori, 1989), Laura Ricci Doni (SE, 1992), Pier Francesco Paolini (Newton Compton, 1992), Anna Nadotti (Einaudi, 2012) e Marisa Sestito (Marsilio, 2012). Nel suo ampio saggio introduttivo, Nadia Fusini non nomina mai il lesbismo: solo una volta, afferrando il concetto quasi con pinze sterilizzate, accenna en passant a non meglio specificate «passioni profonde e desideri potenti» nella giovinezza di Clarissa. N. Fusini, Virgo, la stella, in V. Woolf, Romanzi, a cura di N. Fusini, Milano, Mondadori, 1998, pp. xi-lxx, a p. xxiv. Nel 2005 Liliana Rampello, in una nota a piè di pagina, a proposito della traduzione del 1946 si chiede: «errore o censura?». Tuttavia, è facile constatare che il testo inglese non presenta alcuna difficoltà traduttiva che possa indurre in errore. Cfr. L. Rampello, Il canto del mondo reale. Virginia Woolf. La vita nella scrittura, Milano, Il Saggiatore, 2005, p. 206, nota 39.

[4] Si veda ad esempio Rampello, Il canto del mondo reale cit., p. 79: «Trent’anni prima Clarissa si era innamorata, ricambiata, di Peter Walsh».

[5] Nel 2020 Sara Sullam arriva a espungere il lesbismo dalla trama del romanzo, anche quando accenna al superamento del tradizionale marriage plot. S. Sullam, Leggere Woolf, Roma, Carocci, 2020, pp. 61-71. Un’eccezione è costituita da Marisa Sestito che evidenzia l’omosessualità come tratto comune di Clarissa e Septimus. M. Sestito Introduzione, in V. Woolf, La signora Dalloway, a cura di M. Sestito, Venezia, Marsilio, 2012, pp. 9-35, a p. 17.

[6] M. Bragg, In Our Time: “Mrs Dalloway”, with J. Goldman, H. Lee, K. Simpson, podcast BBC Radio 4, 2014. https://www.bbc.co.uk/programmes/b048033q

[7] J. McDaniel et al., Lesbians and Literature, in «Sinister Wisdom», 1 (1976), 2, pp. 20-33, a p. 20.

[8] N. Fusini, Due donne in amore, in V. Woolf, V. Sackville-West, Scrivi sempre a mezzanotte. Lettere d’amore e desiderio, a c. di E. Munafò, Roma, Donzelli, 2019, pp. 7-22, p. 7. Nello stesso saggio Fusini definisce il lesbismo di Vita Sackville-West «la passione travolgente che prova per la femmina d’uomo» (ibid., corsivo mio).

[9] Fusini afferma di non voler «riaccendere la polemica stanca e inutile di un impeto politically correct volto a costringerla in categorie – lesbica, saffica o frigida»: pone così su un piano di equivalenza il lesbismo e il concetto di frigidità elaborato in ambito sessuologico e psicoanalitico. Cfr. N. Fusini, Da Virginia Stephen a Virginia Woolf: ritratto della scrittrice da giovane, in V. Woolf, Ritratto della scrittrice da giovane. Lettere 1896-1912, trad. A. Cane, Torino, Utet, 2017, pp. 7-22, a p. 13.

[10] Virginia Woolf: Lesbian Readings, ed. by E. Barrett and P. Cramer, New York & London, New York University Press, 1997. Si veda anche D.L. Swanson, Lesbian Approaches in Palgrave Advances in Virginia Woolf Studies, ed. by A. Snaith, Basingstoke, Palgrave Macmillan, 2007, pp. 184-208.

[11] K. Sproles, Desiring Women. The Partnership of Virginia Woolf and Vita Sackville-West, Toronto, University of Toronto Press, 2006, p. 11.

[12] Goldman in Bragg, In Our Time cit.

[13] Lettera a Ethel Smyth del 19 agosto 1930. The Letters of Virginia Woolf, ed. by N. Nicolson and J. Trautmann, London, Hogarth Press, 1978, IV, p. 203.

[14] Si veda P. Cramer, Notes from the Underground: Lesbian Ritual in the Writings of Virginia Woolf, in Virginia Woolf Miscellanies. Proceedings of the First Annual Conference on Virginia Woolf, ed. by M. Hussey and V. Neverow-Turk, New York, Pace University Press, 1992, pp. 177-188, a p. 178.

[15] T. Castle, The Apparitional Lesbian, New York, Columbia University Press, 1993, p. 2.

[16] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., pp.117-127, p. 122.

[17] K. Kaivola, Virginia Woolf, Vita Sackville-West, and the Question of Sexual Identity, in «Woolf Studies Annual», 4 (1998), pp. 18-40, a p. 35, corsivo mio.

[18] P. J. Olano, “Women Alone Stir My Imagination”: Reading Virginia Woolf as a Lesbian, in Virginia Woolf: Themes and Variations, ed. by V. Neverow-Turk and M. Hussey, New York, Pace University, 1993, pp. 158-171, a p. 158.

[19] H. Fromm, Virginia Woolf: Art and Sexuality, in «The Virginia Quarterly Review», 5 (1979), 3, pp. 441-459, a p. 443.

[20] Q. Bell, Virginia Woolf. A Biography, New York, Harcourt Brace Jovanovich, 1972, II, p. 6. Bell fa riferimento più volte alla «frigidità» della scrittrice.

[21] Swanson, Lesbian Approaches cit., p. 185.

[22] Cfr. E. Hawkes Rogat, The Virgin in the Bell Biography, in «Twentieth-Century Literature», 20 (1974), pp. 96-113; Bell, Virginia Woolf cit., II, p. 185.

[23] E. Showalter, A Literature of Their Own, Princeton, Princeton University Press, 1977, p. 34 e p. 297.

[24] B.R. Silver, Virginia Woolf Icon, Chicago & London, University of Chicago Press, 1999, p. 4.

[25] T.A.H. McNaron, A Lesbian Reading Virginia Woolf, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., pp. 10-20, a p. 16.

[26] B.W. Cook,“Women Alone Stir My Imagination”: Lesbianism and the Cultural Tradition’, in «Signs», 4 (1979), 4, pp. 718–39, a p. 725.

[27] Kaivola, Virginia Woolf cit., p. 18. R. Vanita, Sappho and the Virgin Mary, New York, Columbia University Press, 1996, p. 190.

[28] Sproles, Desiring Women cit., p. 5.

[29] L. Doan, Fashioning Sapphism: The Origins of a Modern English Lesbian Culture, New York, Columbia University Press, 2001, pp. xii-xiii; Sapphic Modernities, ed. by L. Doan and J. Garrity, New York, Palgrave MacMillan, 2006.

[30] Jane Marcus ha sottolineato la presenza di riferimenti al processo a Hall nel testo di A Room of One’s Own e la necessità di tenerne conto per decifrare il sottotesto lesbico del saggio. J. Marcus, Sapphistry: Narration as Lesbian Seduction in A Room of One’s Own, in Virginia Woolf and the Languages of Patriarchy, Bloomington, IN, Indiana University Press, 1987, pp. 163–87.

[31] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 119.

[32] Sproles, Desiring Women cit., p. 52.

[33] V. Woolf, The Diary of Virginia Woolf, ed. by A. Olivier Bell and A. McNeille, London, Hogarth, II, 1977, p. 313.

[34] Bell, Virginia Woolf cit., 1, pp. 60-61; Sproles, Desiring Women cit., p. 52.

[35] Lee in Bragg, In Our Time cit.

[36] Questa e le successive citazioni sono tratte dall’edizione bilingue a cura di M. Sestito, La signora Dalloway, cit.

[37] Bell, Virginia Woolf cit., 1, pp. 60-61. Cfr. ancheE. Barrett, Unmasking Lesbian Passion: The Inverted World of Mrs Dalloway, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., pp. 146-164, a p. 151 e Sproles, Desiring Women cit., p. 52.

[38] Bell, Virginia Woolf cit., 1, pp. 60-61.

[39] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 122.

[40] L. Brimstone, Towards a New Cartography: Radclyffe Hall, Virginia Woolf and the Working of Common Land in What Lesbians Do in Books, ed. by E. Hobby and C. White, London, The Women’s Press, 1991, pp. 86-108, a p. 94. S. Raitt, Vita & Virginia. The Work and Friendship of V. Sackville-West and Virginia Woolf, Oxford, Clarendon, 1993, p. 7.

[41] Si veda lo scritto autobiografico di Sackville-West, pubblicato postumo in N. Nicolson, Portrait of a Marriage, London, Weidenfeld & Nicolson, 1973.

[42] Raitt, Vita & Virginia cit., p. 167.

[43] Simpson, in Bragg, In Our Time cit.; E. Showalter, Introduction, in V. Woolf, Mrs Dalloway, ed. S. McNichol, with an introduction and notes by E. Showalter, London, Penguin, 1992, pp. xxi-li, a p. xxii

[44] Cramer, Underground cit., p. 178; Brimstone, New Cartography cit., p. 103.

[45] Fusini, Virgo, la stella cit., p. vx; Showalter, Introduction cit., p. xxxix.

[46] C.E. Bond, Remapping Female Subjectivity in Mrs Dalloway, in «Woolf Studies Annual», 23, 2017, pp. 63-82, a p. 70.

[47] Barrett, Unmasking Lesbian Passion cit., p. 152.

[48] Mrs Dalloway fragments, 7 Jan. 1924, in the Berg Collection of the New York Public Library, p. 159, cit. in S. Henke, Mrs Dalloway: The Communion of Saints, in New Feminist Essays on Virginia Woolf, ed. by J. Marcus, Lincoln, University of Nebraska Press, 1981, pp. 125–47, a p. 136.

[49] V. Woolf, Professions for Women, in Women and Writing, introduced by M. Barrett, London, The Women’s Press, 1979, pp. 57-63, a p. 62.

[50] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 123.

[51] Ibid. p. 122.

[52] Lettera a Vanessa Bell, 13 giugno 1926, in The Letters cit., 3, p. 275.

[53] Lettera del 19 novembre 1926, in ibid., p. 303; lettera del 22 maggio 1927, in ibid., p. 381.

[54] Cramer, Underground cit., p. 184. B. Lounsberry, Virginia Woolf, the War Without, the War Within, Gainesville, University Press of Florida, 2018, pp. 87-100. Su “Michael Field” cfr. S. Arcara, I classici ‘proibiti’ nell’età vittoriana tra pornografia e poesia saffica, in «Enthymema», 24, 2019, pp. 286-298.

[55] Cfr. Henke, Mrs Dalloway cit., p. 135.

[56] N. Fusini, Virginia Woolf, o del tremore in Nomi, Milano, Feltrinelli, 1986, p. 80. L’immagine della coppia granito-arcobaleno compare nel saggio di Woolf The New Biography del 1927, ripubblicato nella raccolta postuma Granite and Rainbow. Essays, New York, Harcourt Brace, 1958.

[57] K. Haffey, Exquisite Moments and the Temporality of the Kiss in ‘Mrs Dalloway’ and ‘The Hours’, in «Narrative», 18 (2010), 2, pp. 137-162, a p. 137.

[58] Simpson, in Bragg, In Our Time cit.

[59] S.M. Squier, Virginia Woolf and London, Chapel Hill & London, The University of North Carolina Press, 1985, p. 107.

[60] Cramer, Underground cit., p. 185. Goldman, Lee, Simpson in Bragg, In Our Time cit.

[61] Wittig, The Point of View cit., p. 67.

[62] Il momento dell’essere come esperienza personale e come oggetto della scrittura è illustrato da Woolf nel saggio autobiografico A Sketch of the Past, pubblicato postumo. V. Woolf, A Sketch of the Past, in Moments of Being, ed. by J. Schulkind, New York, Harcourt Brace, 1978, pp. 64-159.

[63] Castle, The Apparitional Lesbian cit.

[64] Lee, in Bragg, In Our Time cit.

[65] Cramer, Introduction, in Virginia Woolf: Lesbian Readings cit., p. 125.

[66] Ibid., p. 124.

[67] Barrett, Unmasking Lesbian Passion cit. p. 148.

[68] E. Showalter, “Mrs Dalloway”, in Virginia Woolf: Introductions to the Major Works, ed. Julia Briggs, London, Virago, 1994, pp. 125-156, a p. 144.

[69] Fusini, Da Virginia Stephen a Virginia Woolf cit., p. 15. Vanita, Sappho and the Virgin Mary, cit., p. 273.

[70] Lo afferma la stessa Woolf nell’introduzione all’edizione americana del romanzo; Mrs Dalloway, New York, Modern Library, 1928, p. vi.

[71] L. Marcus, The Tenth Muse, Oxford, Oxford University Press, 2007, p. 141.

[72] E. Jensen, Clarissa Dalloway’s Respectable Suicide, in Virginia Woolf: A Feminist Slant, ed. by J. Marcus, Lincoln, University of Nebraska Press, 1984, pp. 162–79.

[73] V. Amoruso, Virginia Woolf, Bari, Adriatica, 1968, p. 112.

[74] Woolf, Diary cit., II, p. 248.

[75] Amoruso, Virginia Woolf cit., p. 113.

[76] Wittig, The Point of View cit.

Monique Wittig e le lesbiche barbute

Intervista a Monique Wittig di Catherine Deudon, Actuel, novembre 1974, p. 12-14.

Traduzione di Sara Garbagnoli

Monique Wittig ritratta in una foto di Catherine Deudon

Con il suo cappello nero e i suoi blue-jeans blu, assomiglia un po’ a una giusitiziera del Far West. Monique Wittig è una guerrigliera che lotta per la liberazione delle donne e per il riconoscimento dei diritti delle lesbiche. Militante di lunga data, nel 1969 è stata una delle donne che hanno lasciato i gruppi di sinistra (troppo sessisti per i loro gusti) per fondare il MLF (Movimento di Liberazione delle Donne). Oggi che il MLF si sta dividendo in tendenze politiche, Wittig si è unita alle femministe rivoluzionarie. “Poter vivere in una società di donne” è il suo desiderio più caro, un’esclusività lesbica che fa trasalire gli uomini, ma che noi dobbiamo cominciare ad ascoltare e che è un suo sacrosanto diritto volere.
Lo afferma con orgoglio. Perché il personaggio ha talento. Tre libri, tre periodi: L’Opoponax o l’infanzia di una bambina, Le guerrigliere, romanzo del MLF, e infine Il corpo lesbico, il libro più ambizioso perché cerca, molto semplicemente, di inventare un linguaggio femminista, di eliminare l’io inteso come soggetto maschile, un linguaggio che – dice Wittig – diventerebbe persino incomprensibile agli uomini. Una delle sue amiche, Catherine Deudon, ha allegato per la rivista il suo manifesto dedicato a una lesbica barbuta.
Attualmente, il movimento di liberazione delle donne sta attuando concretamente la parola d’ordine di decentramento che viene dalle femministe radicali. In particolare, le femministe, le femministe radicali, le Gouine rouges, le ragazze che hanno animato la fiera delle donne, donne anglofone, donne latinoamericane hanno oggi uno spazio indipendente dalle altre tendenze del movimento che sono Psychanalyse et Politique e il Circolo Dimitrieff. Questo spazio si trova a Parigi (24, cité Trévise, al primo piano a sinistra). Ogni lunedì dalle 19.00 alle 22.00 si tiene l’assemblea generale e l’accoglienza delle “nuove” tel: TAI.-71-50, aperto tutti i giorni dalle 18.00 alle 20.00. Ogni venerdì dalle 19 alle 22 il gruppo lesbico delle Gouines rouges tiene una riunione intitolata “Lesbismo e femminismo”. Stanno ora preparando un raduno di lesbiche che si ritroveranno a Parigi per otto giorni a Pasqua in un luogo ancora da decidere. Tutte le donne sono invitate a partecipare. È perché crediamo che le donne omosessuali abbiano una cultura e una lotta specifica da portare avanti all’interno del movimento che ci separiamo da Psychanalyse et Politique, che, tra l’altro, nega questa cultura e vuole ignorare la specificità dei problemi e della lotta delle donne omosessuali.

Actuel: Qual è il legame tra il movimento di liberazione delle donne e Il corpo lesbico?

Monique: Il movimento delle donne è un cambiamento radicale nella mia vita. Per me c’è un prima e un dopo. Il dopo è ciò che ci sta accadendo oggi. Molte di noi stanno già vivendo in un altro mondo, un mondo di cui non avevano idea prima. Il corpo lesbico è uno dei prodotti diretti di questo cambiamento. Non riesco a cogliere esattamente quanto sia importante il movimento delle donne per la società. A volte mi sembra che siamo solo una piccola spina nella sua carne, e ci vedo come delle pure schizofreniche, completamente scollegate dalla realtà. Questo è il significato del pronome “j/e” che uso nel libro. A volte, invece, mi sembra che, pur essendo così poche, tutte insieme rappresentiamo l’unica forma di protesta veramente radicale all’interno del sistema. In questi momenti, mi sembra che qualcosa inizi a muoversi. Ovunque si parla di donne. Ma soprattutto le donne stesse cominciano a parlare, a parlare tra loro. Non c’è città, nemmeno la più piccola o remota, in cui oggi non si sappia che esiste un movimento di liberazione delle donne. E anche se non si sa esattamente cosa significhi, si sa d’istinto che è molto importante. Quando penso a questo, sento che siamo davvero forti e che esistiamo in questo nuovo mondo che comincia a essere nostro, e grazie all’euforia che provo, scrivo “j/e”, soggetta altra di un altro universo.

Actuel: Un altro mondo, cosa vuoi dire? Intendi dire che le donne insieme creano un nuovo mondo?

Monique: È la cosa più difficile da definire. Non voglio illudermi. Per la maggior parte del tempo viviamo tra donne, e questo non significa che le polemiche, i dissensi o le divergenze siano miracolosamente aboliti. Ma si può immaginare dall’esterno cosa significhi essere una donna e stare in mezzo a donne che lottano insieme? La novità è che le donne sono finalmente insieme: per quanto mi ricordo, questa è l’unica cosa che non mi è mai stata raccontata quando ero bambina. Niente sarà più come prima, questa è la convulsione definitiva che scuoterà la società da cima a fondo. E so che la gente ha paura, compresa la maggior parte delle donne, purtroppo. Ma per quanto riguarda noi che siamo coinvolte in questo processo, sappiamo che è irresistibile. A volte penso che tra dieci anni il movimento delle donne sarà morto e sepolto per mancanza di combattenti, di determinazione, di obiettivi a lungo termine: so con assoluta certezza che se il movimento delle donne muore, io muoio. La mia persona perde ogni realtà, ogni significato, non potrò sopravvivere nel vecchio ordine. Ma so anche che siamo in molte a reagire così. Il movimento è la cosa più vitale per noi, è la nostra sopravvivenza in questa società.

Actuel: Quindi, sei femminista prima di essere scrittrice…

Monique: Sono una donna che scrive di donne e per le donne. È lo stesso atto; non posso separare i due termini “femminista” e “scrittrice”. Si tratta del mio corpo, del mio desiderio, dei miei sogni e della mia speranza.

Actuel: Il lesbismo è un fenomeno a parte, oltre al movimento? Come lo collochi rispetto all’intero movimento?

Monique: Far parte di un movimento che esclude gli uomini è già un atto omosessuale, almeno ideologicamente. Il lesbismo non è solo una pratica sessuale, è anche un comportamento culturale: vivere da sé e per sé, essere in una totale indipendenza dallo sguardo degli uomini, dal modello del mondo che essi hanno costruito. Non sento alcuna differenza culturale con certe amiche “omosessuali” il cui interesse è nettamente focalizzato sulle donne e per le quali la pratica sessuale non è altro che un dettaglio. Inoltre, ultimamente abbiamo visto che questo è un falso problema. La cosiddetta “liberazione sessuale”, la cosiddetta “rivoluzione sessuale” è solo un inganno quando si tratta delle donne, perché con sessualità si intende un’eterosessualità riadattata. Intendo dire che la “sessualità” non è altro che un grande baccano intorno all’eterosessualità. E l’eterosessualità è la sessualità degli uomini. Non so nemmeno se si possa definire “eterosessuale” una donna. Penso che le categorie eterosessuale-omosessuale funzionino come un modo per dividere e distogliere da un problema che è comune a tutte noi: cos’è la nostra sessualità?

Actuel: Insomma, pensi che per le donne come non esiste l’eterosessualità non esista l’omosessualità?

Monique: Aspetta, vai troppo in fretta. Quando il movimento ha iniziato a mettere in discussione la sessualità conosciuta e riconosciuta – l’eterosessualità – le lesbiche radicali (le Gouines rouges) hanno avuto un ruolo determinante. A partire dalla loro pratica omosessuale (negata, non riconosciuta, considerata deviante) hanno messo in discussione la sessualità e l’eterosessualità che, contrariamente a quanto sembra, non hanno nulla di evidente. Alla domanda: “Cosa fa sì che una donna sia attratta da una donna?” rispondono: “Cosa fa sì che una donna desideri un uomo?”. A chi chiede: “Nel rapporto tra donne, tenerezza, sessualità, parola, quale differenza c’è con quelle tra una donna e un uomo?”, rispondono: “Cosa c’è nel lesbismo che ci fa pensare subito alla tenerezza, come se a noi lesbiche mancasse qualcosa, per esempio le palle, per essere violente?”.

Actuel: Per te il lesbismo è solo un passo verso una sessualità liberata?

Monique: Aspetta, no, non sono d’accordo. Il lesbismo non è nato con il movimento di liberazione delle donne. Le lesbiche ci sono sempre state. E non si può ignorare il desiderio e il piacere in nome di principi politici. Quando una donna è attratta dalle donne, quando vive il suo piacere con le donne perché dovrebbe fermarsi e pensare “quando tutto sarà a posto nel migliore dei mondi, desidererò anche gli uomini”? Che cosa ne sappiamo? E perché è scontato pensare che gli uomini, un giorno o l’altro, entreranno nel campo del nostro desiderio? Non si tratta forse di una norma? Non si diventa lesbiche per obbligo o per scelta politica.

Actuel: Le lesbiche sono più fortunate degli uomini omosessuali perché il lesbismo non è soggetto a repressione.

Monique: Assolutamente no. Il peggior tipo di repressione consiste nel negare completamente l’esistenza del lesbismo. Non se ne parla. Recentemente sulla rivista “Elle” in un articolo dedicato all’omosessualità, c’era scritto: “Quali sono i problemi delle madri che hanno figli omosessuali?”. Il lesbismo non viene nemmeno menzionato. Idem per quanto riguarda il programma televisivo di qualche giorno fa, intitolato “Omosessualità”. Il lesbismo: questo sconosciuto. Nei libri di eminenti psichiatri sull’omosessualità, il lesbismo è sempre una piccola aggiunta, un corollario che parla della questione in questi termini: il lesbismo negli harem, i dildi. Oppure si dice: le lesbiche sono donne disgustate dall’autoritarismo degli uomini. Siamo lesbiche contro qualcosa o qualcuno, non per. Desiderio lesbico: questo sconosciuto. Assolutamente inedito, una tenerezza sdolcinata tra donnine che passano il tempo a baciarsi sul collo e a tenersi per mano. Ripugnante: non c’è cultura lesbica, non ci sono luoghi di incontro per lesbiche. Non esistiamo. E quando, nonostante tutte queste barriere, si trovano due ragazze abbastanza ostinate da essere lesbiche, le si interna in ospedali psichiatrici. Esempio recente: i genitori di una ragazza adulta la fanno internare perché è lesbica. In questo modo, la ragazza è privata della sua capacità giuridica, diventa minorenne. E la sua compagna (maggiorenne) viene messa dentro per aver “traviato una minorenne”! O ancora: una ragazza scopre di essere lesbica. Fino ad allora aveva avuto un amante. L’amante in questione le dice: “Ma tu non sei lesbica perché sei venuta a letto con me”. Beh, non è vero. Non verrebbe mai in mente a nessuno di dubitare dell’omosessualità di un uomo che è andato a letto con una donna per sbaglio. Ma, ovviamente, una donna è “segnata” a vita da un uomo, è definitivamente annessa al gruppo degli uomini, non può essere lesbica, tanto il lesbismo è dell’ordine dell’inconsistente. Non è repressione questa? Un altro esempio: per strada, rispondiamo verbalmente all’aggressione di un tipo mandandolo a quel paese. Il ragazzo attonito risponde: “Lesbiche!”. Noi controbattiamo: “Ti disturba?”. Conclusione: ci spacca la faccia. E lo stesso vale per la solita solfa: “Ma cosa potranno mai fare due donne insieme?”. Reinquadramento, aggressioni fisiche, reclusione, derisione, negazione assoluta sono tutte manifestazioni di una repressione che è tanto più riuscita quanto più è strisciante. Ed è vero che ci sono poche lesbiche e molti più uomini omosessuali.

Actuel: Puoi dirmi in che modo il lesbismo si è manifestato per la prima volta nel movimento delle donne? Qualche fatto.

Monique: Nei primi gruppuscoli che si sono formati all’interno dell’MLF abbiamo iniziato a concentrarci sugli aspetti più evidenti dell’oppressione delle donne: l’aborto, la non disposizione dei nostri corpi, lo stupro, il lavoro domestico, il rapporto tra uomini e donne. In questi gruppi c’erano anche donne omosessuali. Ma non ci sentivamo di parlare della nostra omosessualità. Una sorta di imbarazzo. Una paura di spaventare le “donne”, un senso di colpa, la sensazione di non essere al nostro posto. Non eravamo “vere donne” con problemi delle “vere donne”. Avevamo paura che il movimento stesso venisse percepito come un manipolo di lesbiche incazzate. Alla fine, però, è successo: una casuale conversazione sull’omosessualità in una delle case in cui ci riunivamo. Una domanda di pura curiosità: “Come fate tra di voi? Che cos’è il piacere lesbico? Il desiderio lesbico?”. Commenti come: “La cosa disturbante dell’essere lesbica è che non si possono avere figli” o, ancora, “Non se ne può più dell’omosessualità”. Così, alcune di noi si sono sentite aggredite perché questo era l’unico aspetto della nostra oppressione che non veniva affrontato politicamente, era come la “sezione folcloristica” del movimento, la sezione delle attrazioni da vedere. Così, abbiamo pensato che fosse necessario iniziare a parlarne tra di noi, come era stato fatto per tutti gli altri temi. Le Gouines rouges sono nate così. Allo stesso tempo, le ragazze di Arcadie e del movimento hanno creato il FHAR (Front Homosexuel d’Action Révolutionnaire). (All’inizio c’erano solo uno o due uomini).

Actuel: Ha senso, visto che gli omosessuali sono gli unici uomini che non negano il lesbismo.

Monique: È quello che pensavamo. Che avevamo problemi comuni. Gli uomini pensavano che senza le donne il FHAR non sarebbe mai stato radicale perché solo da loro si poteva attaccare lo sciovinismo maschio, compreso quello degli omosessuali. Ma in realtà la nostra storia era molto diversa. Loro avevano per cosi dire la fortuna di dover fronteggiare la repressione poliziesca. Gli uomini omosessuali almeno esistevano, avevano tutta una cultura onorabile dietro di loro, dai greci a Proust, a Genet. Esisteva un ghetto enorme dove almeno potevano incontrarsi, riconoscersi, trovarsi per avere incontri sessuali. Potevano essere in molti, molto rapidamente, grazie ad una sorta di passaparola. Ed è vero, sono venuti numerosissimi alle riunioni del FHAR alle Beaux-Arts. Poi son cominciati gli antagonismi tra gli uomini e le donne presenti. Noi donne non potevamo nemmeno prendere la parola alle assemblee generali senza dover urlare in modo isterico. Gli uomini erano focalizzati sulla loro omosessualità. Erano molto infastiditi dalle lesbiche. Si chiedevano anche loro, come tutti gli uomini, cosa potessero mai fare due donne insieme.

Actuel: Che dire della coppia omosessuale? Non riproduce tutto ciò che rifiutiamo: dipendenza, rapporti di potere, ruoli?

Monique: È un po’ sbrigativo metterla così. Vivere in coppia per due donne è già una vittoria in questo mondo in cui una donna senza un uomo non è considerata una vera donna. Uscire per strada con una donna e non con un uomo, andare al ristorante con una donna, farsi vedere con una donna, giocare a flipper con una donna, condividere gli oneri sociali con una donna, ecco, questa è già una vittoria. Per non parlare della situazione di miseria, dolore e penuria in cui vive la maggior parte di noi. Avere un’amante non è cosa facile e non si ha voglia di perderla. Inoltre, l’analogia tra una coppia lesbica e una coppia etero è molto vaga: in una coppia lesbica i ruoli maschili e femminili sono intercambiabili, se proprio si vuole introdurli a tutti i costi. Quando vedi una “Jules” e una “minette” – una “butch” e una “fem” – insieme, sai che si tratta di una forma di teatro. È più spesso un gioco di quanto si pensi: due donne che interpretano insieme la coppia etero. E poi dietro la coppia lesbica non c’è una base economica e sociale di oppressione come nel caso degli etero.

Actuel: Ma in realtà stai facendo un panegirico della coppia più classica.

Monique: Mi rendo conto che quello che dico può sembrare equivoco. Parlo a nome di tutte le lesbiche isolate o di provincia che potrebbero sentirsi in colpa per la “liberazione” che non sono ancora riuscite a introdurre nel loro stile di vita. Quello che vivono è il risultato di una lunga storia di oppressione. Tuttavia, non voglio negare che esistano anche nel caso delle lesbiche coppie alienate costituite secondo lo schema eterosessuale, con dipendenza reciproca e obbedienza dell’una all’altra. Nel movimento le coppie non durano a lungo. Ci sono poche coppie durature tra noi. Vedrei piuttosto il movimento come una costellazione di individui con qua e là forme di associazioni per affinità. E in ogni caso, non siamo più “tipizzate”, almeno così ci vediamo noi.

Actuel: Ma si incontrano ancora delle “Jules”, anche nel movimento.

Monique: Per fortuna. Non vorrai mica che sembrassimo donne-donne solo perché siamo donne in un movimento liberazione? Inoltre, a volte è necessario prendere in prestito dall’altro sesso, i suoi abiti, i suoi comportamenti, per trovare l’Amazzone che sonnecchhia in noi. Prendere cioè in prestito i segni di ciò che di positivo c’è in loro e in noi: forza, coraggio, non passività, violenza. In realtà, non “prendiamo in prestito” da nessuno dei due sessi perché non sappiamo di cosa siamo fatte fondamentalmente. Ciò che prendiamo in prestito sono i segni di ciò che ci è precluso quando nasciamo in una categoria o nell’altra. Come le “folles”, le checche, e i travestiti siamo alla ricerca di un concetto umano di cui né la mascolinità né la femminilità possono dar conto. Per noi l’idea dell’Amazzone è la più vicina a questa idea di umano. Sebbene ci sia stato insegnato che le Amazzoni siano personaggi mitologici, la loro esistenza ha un significato per noi, qui e ora. Ciò che ci parla di loro è la loro società di donne, il fatto che vivevano in una cultura che poteva appartenere solo a loro. In questa cultura non c’erano i modelli di identificazione che conosciamo, forse non c’erano affatto modelli. In ogni caso, che fossero madri o meno, le Amazzoni erano donne per le quali la maternità era solo un incidente e non un fatto culturale determinante. Un’Amazzone non si preoccupa di essere maschio o femmina e ama i suoi simili. Provarci non è facile perché richiede una metamorfosi delle proprie strutture mentali e soprattutto la fine della paura del ridicolo cioè dello sguardo degli uomini. Vorrei aggiungere, e voglio farlo, che mi è capitato di scrivere IIl corpo lesbico, che mi dà la possibilità di parlare di lesbismo. Ma lo faccio in modo molto abusivo. Non sono una “specialista” dell’argomento. Sono sicura che molte altre donne avrebbero potuto parlarne meglio di me. Mi dispiace che non ne abbiano avuto l’opportunità e chiedo loro di perdonarmi per il diritto che mi sono arrogata, spero di non dire troppe sciocchezze. Lunga vita a tutte noi!

Si chiamava Norma

di Yasmin Nair

Norma McCorvey nel 1989 – foto di Lorie Shaull

Chi era Jane Roe, ovvero Norma McCorvey, la querelante nel caso Roe v. Wade? La storica sentenza con cui nel 1973 la Corte suprema degli Stati Uniti aveva riconosciuto il diritto all’aborto è stata clamorosamente annullata nel giugno del 2022. Yasmin Nair ripercorre la vicenda di Norma McCorvey/Jane Roe, evidenziando i limiti dell’interpretazione liberale della pratica dell’autodeterminazione e le sue disastrose ricadute politiche.

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Ho scritto questo articolo nel 2020, due anni prima del recente annullamento della sentenza sull’aborto Roe v. Wade. Non mi interessava recuperare la figura di Norma McCorvey come quella di un’eroina senza macchia: il mio scopo era dimostrare che le nostre battaglie politiche più incisive sono radicate in vite e storie complicate che dobbiamo mettere in evidenza, non oscurare. McCorvey è stata usata da una comunità di attiviste per il diritto all’aborto che l’ha nascosta alla vista del pubblico, temendo che una persona così imperfetta (cioè, reale) potesse diminuire la simpatia verso la causa. Ma a cosa serve una causa che ignora la realtà delle vite che pretende di rappresentare? Oggi i liberal-democratici di tutto il mondo si torcono le mani per il recente annullamento di Roe, dichiarandosi scioccati dalla piega che hanno preso gli eventi. Ma Roe è stata praticamente inutile fin dall’inizio per le donne come McCorvey, perché è stata basata su concetti come “privacy” e “autonomia corporea”, che sono tutti fondati su un’economia di privilegi. La vita di Norma McCorvey ci ricorda che non dobbiamo ripristinare e ritornare a una Roe imperfetta e inefficace. Invece, in tutto il mondo, dobbiamo costruire un accesso all’aborto infinitamente migliore e più sostenibile, che veda l’aborto come una questione economica. (Y. N.)

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“Con lei, tutti i nostri passati – quello queer, quello femminista e quello apertamente etero – diventano infintamente più complicati e infinitamente più ricchi”.

Norma McCorvey è morta il 18 febbraio del 2017. Tre anni dopo, un documentario su di lei ha provocato sconcerto, costernazione e un profondo senso di tradimento da entrambe le parti del dibattito sull’aborto.

Norma McCorvey era Jane Roe, la querelante nella storica sentenza Roe v. Wade del 1973, alla quale viene ampiamente attribuito il merito di aver dato alle donne americane il diritto di “scegliere” l’aborto. Il film è AKA Jane Roe. In realtà, come sappiamo, le attuali leggi sull’aborto sono ancora enormemente restrittive, quasi quanto lo erano il giorno in cui McCorvey, allora ventenne, nel 1969, cercò di abortire in Texas, dove le donne non potevano legalmente interrompere la gravidanza senza uscire dallo Stato. Trovandosi incinta e senza alcuna speranza di ricevere assistenza da parte dei medici, anche se dichiarò di avere subito uno stupro, McCorvey finì in un posto in cui si praticavano aborti clandestini, un luogo infestato da scarafaggi e coperto di sporcizia: diede un’occhiata ed ebbe paura di non uscirne viva. Se ne tornò a casa e partorì un bambino che diede subito in adozione.

Negli anni successivi, qualcuno la mise in contatto con due avvocate che stavano cercando una donna attorno alla quale potessero imbastire una causa sul diritto all’aborto fino al terzo trimestre: doveva essere abbastanza povera da non poter uscire dallo Stato per abortire. In McCorvey trovarono la candidata perfetta. Quando vinsero la causa, la chiamarono per congratularsi e le chiesero: Non sei contenta? Lei rispose: Perché dovrei essere contenta? Il bambino l’ho avuto.

Nel 1989 a Washington ci fu una manifestazione di donne provenienti da tutto il paese per il diritto all’aborto. Tra le celebrità intervenute, cariche di privilegi e frementi di rabbia, c’erano donne che vibravano di virtuosa indignazione come Whoopi Goldberg e Cybil Shepherd. Nel frattempo, McCorvey era stata intervistata a proposito del suo aborto e aveva rivelato che in realtà, no, la gravidanza che aveva cercato di interrompere e che aveva portato alla causa legale non era mai stata il risultato di uno stupro. Come disse senza mezzi termini, mentire era quello che bisognava fare, a quei tempi, per ottenere un aborto. Questo, insieme al suo carattere brusco da proletaria (lavorava come donna delle pulizie) e al suo pronunciato accento nasale della Louisiana/Texas, l’aveva resa un’oratrice inadatta agli occhi delle organizzatrici della manifestazione, e non fu invitata a parlare. L’ironia è che Roe v. Wade avrebbe potuto avere successo solo con una donna come McCorvey e che nessuna delle donne a cui era stata data l’opportunità di tuonare contro la perdita del diritto all’aborto avrebbe mai dovuto combattere per ottenerlo come dovette fare lei.

Con il passare degli anni, la salute e la situazione economica di McCorvey divennero sempre più precarie: alla fine rinnegò il proprio aborto, divenne una born-again Christian e trovò accoglienza tra le braccia del movimento antiabortista, che si rallegrò di trovare in lei un’icona perfetta da esibire. Come dichiara l’evangelico Robert Schenck nel documentario: “con lei abbiamo avuto il nostro Oscar”. McCorvey continuò a fare campagna elettorale per candidati antiabortisti e parlò spesso della propria fede in televisione. Il movimento per il diritto all’aborto, lo stesso che si era rifiutato di darle voce a dispetto del suo ruolo fondamentale per la causa, a quel punto si sentì profondamente tradito. Come ha potuto? si chiedevano. Ecco, sapevamo di non poterci fidare di lei.

Poi, tre anni dopo la sua morte, McCorvey ha di nuovo inorridito tutti, su entrambi i fronti. Il documentario mostra un filmato in cui la donna rivela di avere assunto una posizione antiabortista solo in cambio di denaro, che le era stato versato attraverso vari canali dalle forze anti-choice, in particolare dall’organizzazione Operation Rescue di Randall Terry: l’importo totale era di circa 450.000 dollari nell’arco di diversi anni. Nel video McCorvey afferma chiaramente di essere, in realtà, a favore del diritto dell’aborto, poi ride e si fa beffe dell’ipocrisia di coloro che pensavano di aver comprato le sue opinioni: Sono una brava attrice, dice ridendo e facendo spallucce.

Tutto ciò potrebbe non essere completamente vero, anche se le parole di Robert Schenck, l’unico evangelico di tutta la baracca che abbia qualcosa di simile a una coscienza, sembrano le più appropriate: Mi sono sempre chiesto: Ci sta prendendo in giro? Perché so per certo che noi stiamo prendendo in giro lei… Ora la farsa è finita.

La maggior parte delle persone, me compresa, non ha mai saputo che la donna il cui cognome fittizio è diventato simbolo del diritto all’aborto in realtà non ha mai ottenuto l’aborto che voleva. Il suo nome e il suo volto apparivano qua e là soprattutto come curiosità: Oh, guardate, eccola, la querelante nella causa Roe v. Wade, o Avete sentito che la donna di Roe v. Wade ora è antiabortista?

E la maggior parte delle persone, me compresa, non sapeva che McCorvey ha avuto diverse relazioni lesbiche, tra cui quella con Connie Gonzalez, con cui ha vissuto per trentacinque anni. Commentando il film, The Advocate (USA) e Pink News (UK) hanno usato parole identiche per descriverla: McCorvey, che si identificava come lesbica ma ebbe relazioni sia con uomini che con donne…

Il “ma” è indicativo del profondo sospetto della comunità gay mainstream nei confronti di tutte le persone che non possono essere identificate con precisione da una sessualità facilmente riconoscibile; il “ma” indica una persona di cui non ci si può fidare. Avrebbero potuto scrivere tranquillamente: “McCorvey, che si identificava come lesbica E aveva relazioni sia con uomini che con donne”, ma sarebbe stato troppo: tutta la gay-lesbicità sarebbe crollata, incapace di sopportare il peso dell’indeterminatezza e dell’illeggibilità.

A tutt’oggi, sebbene in occasione di ogni Pride a tante figure venga attribuito uno status eroico, non si è parlato neanche della possibilità di collocare Norma McCorvey in una sorta di firmamento che riconosca il suo posto straordinariamente importante, anche se conflittuale e talvolta confuso, nella storia americana. Senza di lei, non ci sarebbe stata la sentenza Roe v. Wade, per quanto imperfetta e inadeguata. Con lei, tutti i nostri passati – quello queer, quello femminista e quello ostentatamente etero – diventano infinitamente più complicati e infinitamente più ricchi.

La parola “menzogna” ricorre spesso nel modo in cui viene narrata McCorvey, i cui racconti autobiografici sono costellati di quelle che potremmo definire omissioni di ogni tipo. Ma se dovessimo guardare alle storie delle donne e alle storie queer in modo più onesto, dovremmo riconoscere che non riescono a integrare le vite delle persone come lei: fu odiata e abbandonata dalla madre, che lei stessa chiamerà Una stronza, falsa e stronza! Alla tenera età di dieci anni McCorvey è scappata con un’amichetta e, in qualche modo, le due sono riuscite a prendere una stanza d’albergo dove sono state trovate a baciarsi. Per questo fu messa in un’istituzione per ragazze (che, dirà in seguito, amava perché, come dichiarò, Non avevo mai visto così tante tette in un posto solo). Una volta uscita da lì, fu affidata a un parente che la stuprò ripetutamente, quindi sposò un uomo che – racconta – la picchiò quando rimase incinta, fu emarginata da un movimento letteralmente costruito sul suo nome, e così via. La storia dei gay e delle lesbiche,  e un certo filone della storia femminista, si basano sulla verità ineccepibile, o su una qualche versione di essa: ci piace che le nostre figure eroiche siano incontaminate, preferibilmente belle e colte. McCorvey non era una “figura imperfetta”: era una figura umana, che a malapena riusciva a sopravvivere sotto la pressione del capitalismo e che, alla fine, raccolse tutte le sue riserve e rivolse un gigantesco dito medio al movimento antiabortista che pensava di essere riuscito a comprare il suo silenzio.

Norma McCorvey era una lesbica, Norma McCorvey non era una lesbica, Norma McCorvey non era in grado di essere fedele alla verità, Norma McCorvey diceva la verità come nessun’altra.

Si chiamava Norma McCorvey e dobbiamo fare tutto il possibile per ricordarla.

*** Testo originale sul blog di Yasmin Nair.
Ringraziamo l’autrice per la nota introduttiva scritta per Manastabal.

Il mito dell’orgasmo vaginale

di Anne Koedt, 1970

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Il mito dell’orgasmo vaginale, uno dei primi testi del femminismo radicale statunitense (pubblicato in forma breve nel 1968, per esteso nel 1970), portò con sé una novità dirompente: per la prima volta il piacere sessuale delle donne viene trattato come argomento politico e analizzato nel contesto dei rapporti di potere della società patriarcale. Alla fine degli anni ’60 le femministe si trovano di fronte due modelli di eterosessualità femminile, quello freudiano tradizionale della donna passiva e quello della donna “liberata” della controcultura. Contestano entrambi i modelli come pilastri del patriarcato, eleggendo la clitoride e il suo piacere a simbolo dell’autodeterminazione delle donne.

Se la retorica maschile della cosiddetta “liberazione sessuale” era già stata smascherata dall’umorismo al vetriolo di Valerie Solanas, nel suo pamphlet Anne Koedt si occupa di sfatare il mito dell’orgasmo vaginale: quel discorso fraudolento degli “esperti” che ha causato accuse infondate di “frigidità”, enormi problemi psicologici alle donne e il ricorso diffuso alla dissimulazione. Un discorso patriarcale che conferisce importanza alla vagina come simbolo della femminilità “normale”, affermando l’essenziale dipendenza delle donne dagli uomini e dal pene per il proprio appagamento sessuale ed emotivo. L’autrice sposta invece l’attenzione sulla clitoride, sottraendola alla patologizzazione freudiana con il ricorso alle più recenti ricerche della sessuologia. Nasce così la nuova visione femminista della clitoride come luogo potenziale di una sessualità femminile autonoma, non definita dall’uomo. Come Koedt accenna alla fine del saggio, la sessualità clitoridea non solo destabilizza la gerarchia eterosessuale ma mette in questione la stessa “istituzione dell’eterosessualità”. Centralità della clitoride, potenziale superfluità del maschio, sessualità femminile autodeterminata che si pone al di là delle categorie di etero- e omosessualità: una visione talmente radicale che in seguito alla pubblicazione del testo l’autrice ricevette una gran quantità di lettere d’odio e una minaccia di morte.

Se in questo testo alcuni aspetti dell’analisi sono datati, perché restano dentro i limiti di una spiegazione tutta psicologica del dominio maschile e dei rapporti sociali patriarcali, questo saggio, divenuto un classico del femminismo, rappresenta tuttavia un prezioso documento storico del pensiero femminista: testimonia il tentativo, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70 (in Italia si pensi a La donna clitoridea e la donna vaginale di Lonzi) di politicizzare la conoscenza del proprio corpo e immaginare un nuovo tipo di sessualità femminile. La clitoride in quegli anni diventa un simbolo che serve ad affermare l’autonomia sessuale delle donne e a demolire il mito della complementarietà naturale dei sessi.

Grazie alla pratica politica della traduzione femminista, in particolare a Serena Luce Castaldi, The Myth of the Vaginal Orgasm arrivò in Italia nel 1972, incluso nella raccolta Donne è bello a cura del gruppo milanese L’Anabasi. Manastabal propone qui una nuova traduzione aggiornata e integrale, basata sul testo pubblicato in Notes of the Second Year: Women’s Liberation. Major Writings of the Radical Feminists, a cura di Shulamith Firestone e Anne Koedt, New York, 1970.

Dalla copertina del libro Radical Feminism, a cura di Anne Koedt, Ellen Levine, Anita Rapone, New York, 1973

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Ogni qualvolta si discute di orgasmo femminile e frigidità, si fa una falsa distinzione tra l’orgasmo vaginale e quello clitorideo. La frigidità è stata generalmente definita dagli uomini come l’incapacità delle donne di avere orgasmi vaginali. In realtà, la vagina non è una zona particolarmente sensibile e non ha una struttura adatta a raggiungere l’orgasmo. È la clitoride a essere il centro della sensibilità sessuale e l’equivalente femminile del pene.

Credo che questo spieghi moltissime cose: prima di tutto il fatto che il cosiddetto tasso di frigidità tra le donne sia incredibilmente alto. Piuttosto che ricondurre la frigidità femminile a false premesse sull’anatomia femminile, i nostri “esperti” hanno stabilito che la frigidità è un problema psicologico delle donne. Le donne che lamentano tale frigidità sono state indirizzate a psichiatri che potessero scoprire quale fosse il loro “problema”, di solito diagnosticato come incapacità di adattarsi al proprio ruolo di donne.

I dati di fatto dell’anatomia e della risposta sessuale femminile ci raccontano tutta un’altra storia. Sebbene vi siano molte zone di eccitazione sessuale, vi è solo una zona per il raggiungimento del climax: questa zona è la clitoride. Tutti gli orgasmi sono estensioni di sensazioni da quest’area. Proprio perché la clitoride non viene sufficientemente stimolata nelle posizioni sessuali convenzionali, ecco che restiamo “frigide”.

Oltre alla stimolazione fisica, che è la causa comune di orgasmo nella maggior parte delle persone, vi è anche una stimolazione attraverso processi principalmente mentali. Alcune donne, ad esempio, possono raggiungere l’orgasmo attraverso fantasie sessuali o attraverso feticismi. In ogni caso, mentre lo stimolo può essere psicologico, l’orgasmo si manifesta fisicamente. La causa può essere psicologica, ma l’effetto è comunque fisico e l’orgasmo ha luogo, necessariamente, nell’organo sessuale preposto al climax sessuale, la clitoride.

L’esperienza dell’orgasmo, inoltre, può assumere diversi gradi di intensità: alcuni più localizzati, altri più diffusi e sensibili. Ma sono tutti orgasmi clitoridei.

Tutto questo pone alcune questioni interessanti sul sesso convenzionale e sul ruolo che in esso svolgiamo. Gli uomini raggiungono l’orgasmo essenzialmente per sfregamento con la vagina e non con la zona clitoridea, che è esterna e non adatta per l’uomo a produrre frizione come la penetrazione vaginale. Le donne, quindi, sono state definite sessualmente in base a ciò che procura piacere agli uomini. La nostra biologia non è stata propriamente analizzata. Invece, siamo state nutrite con il mito della donna “liberata” e del suo orgasmo vaginale – un orgasmo che di fatto non esiste.

Quello che dobbiamo fare è ridefinire la nostra sessualità. Dobbiamo liberarci dai “normali” concetti del sesso e creare nuove linee generali che prendano in considerazione un godimento sessuale reciproco. Sebbene l’idea del godimento reciproco sia ampiamente applaudita nei manuali sul matrimonio, non la si porta alla sua logica conclusione. Dobbiamo iniziare a esigere che, se certe posizioni sessuali definite “standard” non portano reciprocamente all’orgasmo, allora non possano più essere definite “standard”. Bisogna usare o elaborare nuove tecniche che portino a un cambiamento di questo particolare aspetto del nostro attuale sfruttamento sessuale.

Notes from the Second Year, 1970 (Rubenstein Library, Duke University)

Freud, un padre dell’orgasmo vaginale

Freud sosteneva che l’orgasmo clitorideo fosse adolescenziale e che, con la pubertà, quando le donne iniziano ad avere rapporti con gli uomini, esse dovrebbero trasferire il centro dell’orgasmo nella vagina. Si presupponeva che la vagina fosse in grado di produrre un orgasmo analogo, ma più “maturo” rispetto alla clitoride. Si è lavorato molto per sviluppare questa teoria, ma poco si è fatto per mettere in questione i suoi assunti di base. Per comprendere appieno questa incredibile invenzione, si dovrebbe forse ricordare, per prima cosa, l’atteggiamento generale di Freud verso le donne. Mary Ellman, in Thinking about women, lo ha così riassunto:

Tutto, nell’atteggiamento paternalistico e preoccupato di Freud verso le donne, viene ricondotto alla loro mancanza del pene, ma è solo nel suo saggio Psicologia della donna che Freud rende esplicito il suo disprezzo per le donne, altrove implicito nella sua opera. Egli, quindi, prescrive per le donne l’abbandono della vita intellettuale, che interferirebbe con la loro funzione sessuale. Quando è un uomo a essere psicoanalizzato, l’analista si prefigge il compito di sviluppare le capacità del paziente; ma se si tratta di donne, il lavoro dell’analista consiste nel riportarle entro i limiti alla loro sessualità. Come scrive Mr. Rieff, per Freud «l’analisi non può incoraggiare nelle donne l’investimento di nuove energie per ottenere successo e raggiungere obiettivi, ma soltanto insegnare loro la lezione di una razionale rassegnazione».

Furono le sue opinioni sulle donne, che egli considerava secondarie e inferiori rispetto agli uomini, a formare la base per le teorie di Freud sulla sessualità femminile.

Dopo aver dettato legge sulla natura della nostra sessualità, Freud, guarda caso, scoprì un tremendo problema di frigidità nelle donne. La cura che prescriveva per una donna frigida era quella psichiatrica. Per lui, infatti, la donna soffriva dell’incapacità di adeguarsi mentalmente al suo ruolo “naturale” di donna. Frank S. Caprio, un seguace contemporaneo di tali idee, afferma:

Ogni volta che una donna è incapace di raggiungere l’orgasmo tramite il coito, malgrado il marito sia un partner adeguato, e preferisce la stimolazione clitoridea a qualsiasi altra forma di attività sessuale, essa può essere considerata sofferente di frigidità, e bisognosa di assistenza psichiatrica (The Sexually Adequate Female, p. 64).

La spiegazione fornita è che le donne erano invidiose degli uomini: «rinuncia della femminilità». Quindi il fenomeno veniva diagnosticato come un attacco agli uomini.

È importante sottolineare che Freud non ha basato la sua teoria sullo studio dell’anatomia femminile, ma piuttosto sulle sue personali convinzioni sulla donna come un’appendice, inferiore all’uomo, e sul suo conseguente ruolo sociale e psicologico. Nei loro tentativi di affrontare il problema della frigidità di massa delle donne, i freudiani hanno dovuto fare complicati salti mortali nei loro ragionamenti. Marie Bonaparte, in Female Sexuality, arriva a consigliare la chirurgia per riportare le donne sulla giusta strada. Avendo scoperto una strana correlazione tra la donna non frigida e la posizione della clitoride vicino alla vagina, scrive:

Mi è venuto in mente, allora, che, qualora in alcune donne questa distanza fosse eccessiva e la fissazione sulla clitoride fosse ostinata, una riconciliazione clitorideo- vaginale si potrebbe effettuare con mezzi chirurgici, in modo da portare beneficio alla normale funzione erotica. Il professor Halban di Vienna, biologo e chirurgo, si è interessato al problema e ha individuato una semplice tecnica operatoria, in cui il legamento sospensorio della clitoride viene reciso e la clitoride collegata alle strutture sottostanti, fissandola così in una posizione più bassa, con un’eventuale riduzione delle piccole labbra (p. 148).

Ma il danno più grave non ha riguardato l’ambito chirurgico, in cui i freudiani si sono dati da fare nel tentativo assurdo di cambiare l’anatomia femminile per adeguarla ai loro presupposti di base. Il danno peggiore è stato causato alla salute mentale delle donne, sia che soffrissero silenziosamente per il loro senso di colpa, sia che corressero dagli psichiatri alla ricerca disperata di quella terribile repressione nascosta che impediva loro di realizzare il loro destino vaginale.

Mancanza di evidenza?

Inizialmente si potrebbe forse sostenere che queste sono aree sconosciute e poco esplorate, ma a un più attento esame, questo certamente non è vero oggi, e non lo era neanche in passato. Gli uomini, ad esempio, hanno sempre saputo che le donne soffrivano di frigidità durante il rapporto: il problema c’era. E c’è molta evidenza specifica: gli uomini sapevano che la clitoride era – ed è – l’organo essenziale per la masturbazione, sia nelle bambine che nelle donne adulte. Ovviamente le donne hanno chiarito dove pensavano che fosse localizzata la loro sessualità. È piuttosto sospetto, peraltro, che gli uomini sembrino consapevoli del potere della clitoride durante “i preliminari”, quando vogliono fare eccitare le donne e produrre la lubrificazione necessaria alla penetrazione. I preliminari sono un concetto creato per gli scopi degli uomini e che finisce per essere uno svantaggio per molte donne, visto che, appena la donna è eccitata, l’uomo cambia e si dedica alla stimolazione vaginale, lasciando la partner eccitata ma insoddisfatta.

Si è a conoscenza, inoltre, del fatto che generalmente le donne non hanno bisogno di anestesia interna durante operazioni chirurgiche vaginali, il che evidenzia che la vagina non è di fatto una zona molto sensibile. Oggi, con le ampliate conoscenze anatomiche, con gli studi di Kelly, Kinsey, e Masters e Johnson, per citarne solo alcuni, non c’è ignoranza in materia. Ci sono, tuttavia, ragioni sociali per cui queste conoscenze non vengono diffuse su larga scala: viviamo in una società maschile che non persegue alcun cambiamento nel ruolo delle donne.

La prima versione del testo pubblicata su Notes of the First Year, New York, 1968 (Rubenstein Library, Duke University)

Evidenze anatomiche

Invece di iniziare parlando di ciò che le donne dovrebbero sentire, sarebbe più logico partire dalle evidenze anatomiche che riguardano la clitoride e la vagina.

La clitoride è un piccolo equivalente del pene, tranne per il fatto che l’uretra non vi passa attraverso come avviene nell’uomo. La sua erezione è simile a quella maschile e la testa della clitoride ha lo stesso tipo di struttura e funzione della testa del pene.

C. Lombard Kelly, in Sexual Feeling in Married Men and Women, scrive:

La testa della clitoride è anch’essa composta da tessuto erettile e ha un epitelio, o superficie coprente, molto sensibile, fornito di speciali terminazioni nervose chiamate corpuscoli genitali. Essi sono particolarmente adatti alla stimolazione sensoriale che, con le adeguate condizioni mentali, sfocia nell’orgasmo sessuale. Nessun’altra parte dell’apparato sessuale femminile è dotato di questi corpuscoli (p. 35).

La clitoride non ha altra funzione che il piacere sessuale.

La vagina. Le sue funzioni sono collegate alla funzione riproduttiva. Principalmente 1) per le mestruazioni 2) per la ricezione del pene 3) per trattenere lo sperma 4) come passaggio per il parto. L’interno della vagina, che secondo i difensori dell’orgasmo vaginale, sarebbe il centro produttore dell’orgasmo:

Come quasi tutte le altre strutture interne del corpo, è assai poco dotato di organi di senso. Il rivestimento interno della vagina, di origine endodermica, la rende simile da questo punto di vista al retto e ad altre parti dell’apparato digerente (Kinsey, Sexual Behavior in the Human Female, p. 580).

Il grado di insensibilità all’interno della vagina è talmente elevato che «del campione di donne sottoposte a un nostro test ginecologico, meno del 14% hanno mostrato consapevolezza di essere state toccate» (Kinsey, p. 580). Anche l’importanza della vagina come semplice centro erotico (piuttosto che come centro dell’orgasmo) è risultata poco rilevante.

Altre aree – Le piccole labbra e il vestibolo della vagina. Queste due aree sensibili possono dar avvio a un orgasmo clitorideo. Poiché possono essere efficacemente stimolate durante un “normale” coito – sebbene ciò avvenga raramente – questo tipo di stimolo è stato erroneamente considerato un orgasmo vaginale. Tuttavia, è importante distinguere tra aree che possono stimolare la clitoride, incapaci di produrre autonomamente l’orgasmo, e la clitoride stessa:

Indipendentemente dal mezzo di eccitamento usato per portare l’individuo allo stato di climax sessuale, la sensazione è percepita dai corpuscoli genitali ed è localizzata dove questi si trovano: nella testa della clitoride o del pene (Kelly, p. 49).

L’orgasmo stimolato psicologicamente. Oltre ai già citati metodi diretti o indiretti per stimolare la clitoride, vi è un terzo modo per dare avvio a un orgasmo: attraverso la stimolazione mentale (corticale), quando l’immaginazione stimola il cervello, il quale a sua volta stimola i corpuscoli genitali a produrre un orgasmo.

Donne è bello, a cura del gruppo L’Anabasi, Milano, 1972

Donne che dicono di avere un orgasmo vaginale

Confusione. A causa della mancanza di conoscenza della propria anatomia, alcune donne accettano l’idea che un orgasmo percepito durante un rapporto “normale” abbia un’origine vaginale. Questa confusione è dovuta alla combinazione di due fattori. Il primo è l’incapacità di localizzare il centro dell’orgasmo, il secondo è il desiderio di adeguare la propria esperienza all’idea di normalità sessuale definita dal maschio. Dal momento che le donne sanno poco della propria anatomia, è facile confondersi.

Inganno. La maggior parte delle donne che fingono di avere un orgasmo vaginale lo fa, per dirla con Ti-Grace Atkinson, «per non essere scaricata». In un nuovo best-seller danese, I Accuse, Matte Ejlersen tratta specificatamente questo problema diffuso, che lei chiama «la commedia del sesso». Questa commedia ha molte cause. Prima di tutto, l’uomo esercita una forte pressione psicologica sulla donna, perché pensa che la posta in gioco sia la propria abilità come amante. Perciò, per non offendere l’ego di lui, la donna si adatterà al ruolo prescritto e vivrà un’estasi simulata. Tra le donne danesi citate, alcune che non avevano sperimentato il godimento avevano perso ogni interesse per il sesso e fingevano l’orgasmo vaginale per concludere velocemente l’atto sessuale. Altre hanno ammesso di aver simulato l’orgasmo vaginale per legare a sé un uomo. In un caso, una donna aveva simulato l’orgasmo vaginale affinché lui lasciasse la sua prima moglie, che ammetteva di essere vaginalmente frigida. Fu poi costretta a continuare la finzione, poiché, ovviamente, non poteva chiedere al partner di stimolarle la clitoride.

Molte altre donne avevano semplicemente paura di affermare il proprio diritto a un uguale godimento, poiché pensavano che l’atto sessuale fosse anzitutto a beneficio dell’uomo e che ogni piacere che la donna ottenesse fosse in sovrappiù.

Altre donne, con abbastanza amor proprio da respingere la convinzione dell’uomo che esse avessero bisogno di cure psichiatriche, si sono rifiutate di riconoscersi come frigide. Non hanno accettato il senso di colpa, ma non sapevano come risolvere il problema, non conoscendo i dati della propria fisiologia. Così sono rimaste in una sorta di limbo.

Uno dei risultati forse più esasperanti e dannosi di tutta questa farsa è che a donne che erano perfettamente sane sessualmente è stato insegnato a pensare di non esserlo. Quindi, oltre ad essere state private del godimento sessuale, queste donne sono state indotte a colpevolizzarsi, quando non avevano alcuna colpa. Cercare una soluzione a questo problema insolubile può portare una donna su una strada senza uscita di odio di sé e insicurezza. Infatti, le viene detto dal suo analista che anche in quell’unico ruolo che le viene assegnato dalla società maschile – il ruolo di donna – lei fallisce. Così è costretta a mettersi sulla difensiva poiché a partire da dati falsati, le viene chiesto di essere ancor più femminile, di pensare in modo femminile e rinnegare la sua invidia nei confronti degli uomini. Cioè, pedalare, carina!

Edizione della New England Free Press, Boston, 1970

Perché gli uomini tengono in vita il mito

1. Preferenza per la penetrazione vaginale. Lo stimolo migliore per il pene è la vagina, che fornisce la necessaria frizione e lubrificazione. Da un punto di vista strettamente tecnico, questa posizione offre le migliori condizioni fisiche, anche se l’uomo può provare altre posizioni per variare.

2. La donna invisibile. Uno degli elementi dello sciovinismo maschile è il rifiuto o l’incapacità di vedere le donne come esseri umani completi e autonomi. Piuttosto, gli uomini hanno scelto di definire le donne in base al vantaggio che apportano alla loro vita. Sessualmente, una donna non è vista come un soggetto a pari titolo dell’atto sessuale, non più di quanto non sia vista come una persona con desideri indipendenti quando faccia qualsiasi altra cosa nella società. Quindi è stato facile inventare ciò che era più conveniente riguardo alle donne, soprattutto visto che la società è stata pensata in funzione degli interessi maschili e le donne non si erano organizzate nemmeno per contrapporre una resistenza verbale agli “esperti”.

3. Il pene come epitome della mascolinità. Gli uomini definiscono la loro vita principalmente in termini di mascolinità. È una forma universale di autoesaltazione. Vale a dire, in ogni società, anche quando fosse omogenea (per esempio, priva di differenze di “razza”, etnia o di grosse differenze economiche) vi è sempre un gruppo sociale – le donne – da opprimere. L’essenza dello sciovinismo maschile consiste nella superiorità psicologica che gli uomini esercitano sulle donne. Questo tipo di definizione di sé basata sul concetto di superiorità/inferiorità, piuttosto che una definizione positiva basata sulla propria crescita e realizzazione, ha incatenato vittima e oppressore. Ma quella di gran lunga più brutalizzata è la vittima.

Un’analogia si può fare con il razzismo, in cui il razzista bianco compensa il proprio senso di inadeguatezza creando l’immagine dell’uomo nero (è una battaglia prima di tutto maschile) come biologicamente inferiore rispetto a sé. Grazie alla sua posizione avvantaggiata nella struttura di potere maschile e bianca, l’uomo bianco può imporre questa distinzione inventata. Nella misura in cui gli uomini tentano di razionalizzare e giustificare la superiorità maschile attraverso la differenziazione fisica, la mascolinità è simboleggiata dall’essere più muscoloso, più peloso, avere la voce più profonda e il pene più grande. Le donne, invece, ricevono approvazione (cioè, vengono definite “femminili”) se sono delicate, piccole, si depilano le gambe e hanno la voce acuta ma dolce.

Dato che la clitoride è molto simile al pene, in varie società, come è stato attestato, vi sono uomini che tentano di cancellarne l’esistenza per conferire grande importanza alla vagina (come ha fatto Freud), oppure, come avviene in alcune zone del Medioriente, ricorrono all’imposizione della clitoridectomia. Freud considerava questa antica usanza, ancora oggi praticata, come un modo di “femminilizzare” ulteriormente la donna rimuovendo il principale residuo della sua mascolinità. Va notato, inoltre, che una clitoride grande viene considerata brutta e mascolina. Alcune culture utilizzano la pratica di versare un prodotto chimico sulla clitoride per ridurla alla “giusta” misura. Mi sembra chiaro che gli uomini temono la clitoride come una minaccia alla loro mascolinità.

4. Il maschio sessualmente superfluo. Gli uomini temono di diventare sessualmente superflui se la clitoride prende il posto della vagina come centro del piacere delle donne. Effettivamente questo timore è fondato se si considera unicamente l’anatomia. La posizione del pene all’interno della vagina, sebbene perfetta per la riproduzione, non stimola necessariamente l’orgasmo nelle donne, perché la clitoride è situata esternamente e più in alto. Nella posizione “normale”, le donne devono affidarsi alla stimolazione indiretta. La sessualità lesbica è una dimostrazione eccellente, basata su dati anatomici, dell’irrilevanza dell’organo maschile. Albert Ellis accenna al fatto che un uomo senza pene può essere un ottimo amante per una donna.

Considerando che la vagina, dal punto di vista dell’uomo, è molto desiderabile puramente su basi fisiche, si può intuire il dilemma maschile. E ciò ci costringe anche a scartare molti argomenti basati sulla “fisicità” che spiegano perché le donne vadano a letto con gli uomini. Quello che rimane, mi sembra, è un insieme di ragioni principalmente psicologiche che portano le donne a scegliere gli uomini come partner sessuali ed escludere le donne.

Controllo sulle donne. Una ragione per spiegare la pratica mediorientale della clitoridectomia è che tratterrà le donne dall’avere una sregolata vita sessuale. Rimuovendo l’organo sessuale capace di orgasmo, evidentemente il loro desiderio sessuale diminuirà. Dato che gli uomini guardano alle donne come loro proprietà, particolarmente in alcuni paesi, dovremmo iniziare a chiederci come mai non sia nell’interesse degli uomini che le donne siano sessualmente libere. La doppia morale, com’è praticata ad esempio in America latina, è imposta per mantenere le donne come proprietà totale del marito, mentre lui è libero di avere tutti i rapporti che desidera.

6. Lesbismo e bisessualità. A parte le ragioni strettamente anatomiche per cui le donne possono cercare altre donne come amanti, vi è la paura da parte degli uomini che le donne cerchino la compagnia di altre donne su una base pienamente umana. Riconoscere l’evidenza dell’orgasmo clitorideo minaccerebbe l’istituzione eterosessuale. Indicherebbe che il piacere sessuale è ottenibile sia da uomini che da donne, rendendo quindi l’eterosessualità non un assoluto ma una opzione. Si aprirebbe così la questione di relazioni sessuali umane che vadano al di là dei confini dell’attuale sistema dei ruoli maschile e femminile.

Testi citati:

  • Bonaparte, Marie, Female Sexuality, Grove Press, 1953
  • Caprio, Frank S., The Sexually Adequate Female, Fawcett Gold Medal Books, 1953 and 1966
  • Ejlersen,Mette, Jeg Anklager (I Accuse), Chr. Erichsens Forlag, 1968
  • Ellis, Albert, Sex Without Guilt, Grove Press,1958 and 1965
  • Ellman, Mary, Thinking About Women, Harcourt, Brace & World, 1968
  • Kelly, G. Lombard, Sexual Feelings in Married Men and Women, Pocketbooks, 1951 and 1965
  • Kinsey, Alfred C., Sexual Behavior in the Human Female, Pocketbooks, 1953
  • Masters and Johnson, Human Sexual Response, Little, Brown, 1966

Copyright © by Anne Koedt, 1970

Christabel Pankhurst. Una biografia

In occasione dell’uscita di Christabel Pankhurst. A Biography, della storica femminista June Purvis (Routledge 2018), pubblichiamo in anteprima la traduzione di un breve estratto dall’Introduzione.

christabel

Quando Christabel Pankhurst è morta nel 1958, all’età di settattasette anni, fu celebrata da più parti per essere stata, in gioventù, la principale organizzatrice della WSPU (Women’s Social and Political Union), il più famigerato tra i gruppi del movimento per il voto nella Gran Bretagna dell’epoca edoardiana. Aveva condiviso la leadership della WSPU con la madre vedova, Emmeline, e fu conosciuta da tutti come principale leader delle “suffragette militanti”, come venivano chiamate le attiviste della WSPU. Christabel, bella e aggraziata, divenne quella che oggi chiameremmo una“celebrity”. La sua immagine veniva riprodotta sui giornali, su cartoline, spillette e poster; veniva rappresentata in una vasta gamma di espressioni culturali, come canzoni, opere teatrali, poesie, romanzi, dipinti e vignette. Forse nessun’altra giovane femminista era mai stata tanto ammirata, come lo fu lei all’apice della sua notorietà, sia da uomini che da donne.

Per Christabel Pankhurst la condizione subordinata che le donne vivevano nella società edwardiana era dovuta al potere degli uomini e quindi lei individuò nella separatista WSPU, che ammetteva solo donne, un importante mezzo per alimentare un senso di sorellanza tra le donne che avrebbe permesso loro di trovare la forza in se stesse e articolare le proprie richieste politiche. (…)

Eppure, a dispetto della sua importanza per il femminismo, Christabel Pankhurst non ha goduto di popolarità né presso autrici femministe né presso gli storici. (…)

Finora l’unica biografia esistente di Christabel [Pankhurst] era Queen Christabel, scritta da David Mitchell e pubblicata nel 1977. Già il titolo della biografia di Mitchell suggerisce qualcosa del suo approccio a un soggetto per il quale prova un’evidente antipatia.

Come [lo storico] Dangerfield prima di lui, anche Mitchell deride e insulta questa importante personalità politica, descrivendola come “la grande manipolatrice femminista che faceva ballare i burattini con la musica suonata da lei”.

Christabel viene presentata come una lesbica spietata, fredda, ambiziosa, autocratica, autocentrata, fissata, calcolatrice ed egoista – oltre che carismatica, brava con le parole e di cervello fine. Ma la sua vita da femminista viene filtrata attraverso tutti i primi aggettivi. (…) In tal modo, l’immagine di Christabel come lesbica pazza, “anormale”, raggiunge l’apice.

Infatti, il capitolo finale di Queen Christabel, nel quale viene paragonata alle femministe radicali degli anni Settanta, porta il famigerato titolo “Bitch power”. Spaventato da queste arpie femministe della seconda ondata che osavano sfidare il potere maschile, Mitchell arriva ad affermare che alcuni editoriali scritti da Christabel “si avvicinavano molto” alle minacce di Valerie Solanas e della sua Society for Cutting Up Men. Come hanno commentato sarcasticamente [le storiche] Ann Morley e Liz Stanley, ci si può immaginare Mitchell, “poverino, che scrive mentre si guarda spesso alle spalle nervosamente, con una mano a coppa, a proteggersi il pacco”.

[da: June Purvis, Christabel Pankhurst. A Biography, Routledge 2018]

In italiano segnaliamo l’articolo “Corpi militanti tra strada e prigione: suffragismo inglese e costruzione della femminilità eroica” di Stefania Arcara – in Ne uccide più la parola. Lessici dell’odio e pratiche di reclusione, a cura di S. Arcara, L. Capponcelli, A. Fabiani, ETS, Pisa, 2018, pp. 43-66. Scaricabile QUI in pdf.

Ada Wright on Black Friday

“Black Friday” (“Il venerdì nero”) – Londra, 18 novembre 1910

Rompere il tabù dell’eterosessualità, finirla con la differenza dei sessi: gli apporti del lesbismo come movimento sociale e teoria politica – Jules Falquet

Presentiamo per la prima volta in traduzione italiana — con il permesso dell’autrice — il saggio Rompre le tabou de l’hétérosexualité, en finir avec la différence des sexes: les apports du lesbianisme comme mouvement social et théorie politique, di Jules Falquet, sociologa e militante lesbo-femminista attiva in Francia e nei movimenti femministi autonomi decoloniali di Abya Yala [1]. Studiosa della riconfigurazione dei rapporti di sesso, razza e classe nel quadro della globalizzazione neoliberale [2], Falquet attinge la sua strumentazione analitica dalla tradizione del femminismo materialista francofono raccolto intorno al collettivo editoriale di Questions féministes (1977-1980), integrandola in modo originale con il contributo della frangia più radicale del femminismo Nero statunitense, il bostoniano Combahee River Collective (1974-1980).

L’esortazione che dà il titolo al saggio — rompere il tabù dell’eterosessualità, finirla con la differenza dei sessi — si colloca dunque all’interno di un filone importante, e ancora poco conosciuto (o deliberatamente rimosso), della “seconda ondata” femminista, che la sociologa francese rivisita con intenti tutt’altro che commemorativi. Rifare i conti con la storia del lesbismo come movimento sociale e teoria politica equivale piuttosto a compiere una scelta strategica per il presente, che comporta anzitutto spostare l’unità di analisi (e di iniziativa politica) dai temi del corpo, del desiderio, delle identità individuali ai rapporti sociali che presiedono alla costituzione di quelle che, di norma, vengono eufemisticamente definite come “differenze” di genere, di classe e di razza. Non è un caso pertanto che il termine “intersezionalità”, coniato alla fine degli anni Ottanta da Kimberle Crenshaw in prospettiva giuridica nel contesto del multiculturalismo statunitense [3] e popolarizzatosi al volgere del millennio, non compaia in queste pagine. Falquet preferisce invece parlare di interdipendenza (o imbricazione) di rapporti sociali di genere, razza e classe, lasciando cadere l’accento sulle dinamiche materiali di appropriazione, sfruttamento ed estrazione sottese alla codificazione ideologico-normativa di tali rapporti [4]. La questione non è puramente accademica, se si considera che l’aggettivo “intersezionale” si è imposto nell’uso corrente per qualificare un femminismo inclusivo delle “differenze”, ma forse non altrettanto agguerrito quando si tratta di interrogare, criticare e aggredire la dinamica sociale della loro riproduzione. In tal senso è significativo che, in tempi recenti, una veterana del Combahee River Collective come Barbara Smith abbia avvertito l’esigenza di prendere le distanze dal modo in cui l’elaborazione politica del gruppo è stata trasmessa alle persone più giovani da una generazione di accademic* che, non avendone compreso appieno la portata, ha finito con il ridurla a una questione di «trigger warnings, safe spaces e micro-aggressioni — tutte cose reali, ma il fatto è che non era su questo che ci concentravamo» [5]. Su che cosa dovremmo effettivamente concentrarci per non ricadere nelle trappole del pensiero straight proprio mentre ci illudiamo di contestarlo, è ciò che Jules Falquet viene a suggerirci.

NOTE

[1] Per un profilo dell’autrice, si veda julesfalquet.com.

[2] Cfr. Jules Falquet, De gré ou de force. Les femmes dans la mondialisation, La Dispute, Paris 2008; Jules Falquet, Helena Hirata, Danièle Kergoat, Brahim Labari, Nicky Le Feuvre, Fatou Sow (dir.), Le sexe de la mondialisation. Genre, classe, race et nouvelle division du travail, Presses de Sciences-po, Paris 2010; Jules Falquet, Pax neoliberalia. Perspectives féministes sur (la réorganisation) de la violence, Editions iXe, Donnemarie-Dontilly 2016.

[3] Cfr. K. Crenshaw, Demarginalizing the Intersection of Race and Sex: A Black Feminist Critique of Antidiscrimination Doctrine, Feminist Theory and Antiracist Politics, «University of Chicago Legal Forum», 1, 1989, pp. 139-167.

[4] D’accordo con Jules Falquet, abbiamo reso con «interdipendenza» il francese embrication, per favorire una maggiore leggibilità del testo. Vale comunque la pena segnalare che l’espressione «imbricazione» (dei rapporti sociali) sta entrando nell’uso italiano, in particolare nel quadro della ricerca etnografica relativa alla riproduzione dei soggetti dominanti sull’asse del genere, della razza e della classe. Si veda, al riguardo, il lavoro dell’antropologa femminista materialista Valeria Ribeiro Corossacz, Bianchezza e mascolinità in Brasile. Etnografia di un soggetto dominante, Mimesis, Milano-Udine 2015.

[5] Cfr. Keeanga-Yamahtta Taylor (ed.), How We Get Free. Black Feminism and the Combahee River Collective, Haymarket Books, Chicago 2017, p. 62.

***

«I movimenti gay misti spostano la questione dell’eterosessualità focalizzandosi sulla sessualità; una parte dei movimenti femministi e lesbici non misti collocano il sistema dell’eterosessualità obbligatoria e l’organizzazione della riproduzione al cuore dell’oppressione delle donne, ed è più minaccioso» (Mathieu, 1999) [1].

 

questiones

Bisogna rallegrarsi dell’attuale moltiplicazione di movimenti e ricerche sulla/e sessualità, uno dei cui meriti, e non il minore, è rendere ogni giorno più visibili ogni sorta di pratiche e persone che, in tutto il mondo, contestano con coraggio l’ordine sessuale esistente. Tuttavia, concentrandosi quasi esclusivamente sulla sessualità come un insieme di pratiche sessuali e/o desideranti individuali, e accordando una considerevole importanza all’intervento sul corpo e sul suo aspetto — anche in questo caso, intervento principalmente individuale —, mi sembra che la corrente dominante di questi movimenti perda di vista una parte del suo obiettivo. In effetti, se si tratta di contestare il binarismo dei generi o dei sessi e soprattutto la loro sedicente naturalità — un progetto a cui ampi settori dei movimenti femministi e lesbici si dedicano da una trentina d’anni — la focalizzazione sull’identità personale e sulle pratiche quotidiane rischia di trascinarci su un binario morto. Un binario sicuramente affascinante, come possono esserlo il corpo e la psiche umana, ma che non ci permette di prendere la rincorsa sufficiente per raggiungere le radici del problema. Perché la tesi che qui vorrei difendere è che il problema non sta nel corpo, e nemmeno nelle persone…Allora, dove si trova, e come risolverlo?

Per rispondere a questa domanda propongo un incontro, o delle rimpatriate, con altre piste d’analisi e di lotta, le cui premesse sono state gettate a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, ma che oggi sono poco conosciute e poco utilizzate. Le ragioni possibili di questa ignoranza involontaria o deliberata sono molteplici. Anzitutto, la diffusione diseguale di prospettive differenti in base al loro potenziale sovversivo e alle posizioni di potere (di sesso [2], classe e «razza» [3] in particolare) delle persone e dei gruppi che le espongono, in seno all’accademia o nel mondo militante, così come nel quadro dei rapporti Nord-Sud [4]. In seconda battuta, l’indebolimento dei movimenti sociali che le hanno prodotte e che avrebbero potuto alimentarle, legato al riflusso dei movimenti «progressisti» o «rivoluzionari» e all’ascesa del conservatorismo a partire dagli anni Ottanta, nel quadro dello sviluppo della mondializzazione neoliberale.

Tuttavia, qui non si tratta tanto di interrogarsi sulle ragioni per cui questo o quell’orientamento oggi domina le scienze sociali o i movimenti sociali, quanto piuttosto di affrontare l’urgenza intellettuale e umana di comprendere e trasformare la realtà. In effetti, l’imposizione del neoliberalismo porta a un approfondimento vertiginoso delle diseguaglianze lungo le linee di frattura del sesso, della «razza» e della classe. Di fronte a questo incremento brutale della miseria e dello sfruttamento, ignorare l’eredità delle lotte radicali è un lusso che non ci possiamo permettere.

In un primo momento, per relativizzare l’attuale concezione occidentale dominante della sessualità e dei suoi rapporti con il sesso, il genere e i meccanismi di parentela, procederò ad alcuni richiami socio-antropologici e a una breve presentazione dei risultati principali che il lavoro fondamentale che Nicole-Claude Mathieu ha sviluppato nel corso degli anni Settanta e Ottanta e che ha raccolto, nel 1991, in un’opera dal titolo eloquente: L’anatomie politique. Presenterò poi quelli che mi sembrano costituire i più importanti apporti teorici e politici del movimento lesbico, radicale e femminista [5] di quel periodo, negli Stati Uniti e in Francia [6]. Per finire, mostrerò in quale misura tali apporti sono particolarmente preziosi nell’attuale contesto neoliberale, e in che modo potrebbero essere ulteriormente arricchiti per affrontare le sfide analitiche e politiche che la mondializzazione ci pone.

Varietà delle pratiche sessuali e matrimoniali tra «donne» e dei significati che vengono loro attribuiti.

 Storicità e molteplicità delle pratiche sessuali e matrimoniali tra donne

 Il mondo occidentale attuale, urbano, «bianco» ed economicamente privilegiato è lontano dall’essere il primo o l’unico all’interno del quale delle «donne» stabiliscono fra di loro relazioni sessuali, d’amore e/o coniugali. Diverse poete hanno testimoniato in prima persona del loro amore carnale per altre «donne», a partire da Saffo dell’antica Lesbo fino all’afro-nordamericana Audre Lorde (Lorde 1982; 1984). Malgrado le distruzioni successive, l’India pre-vedica ha lasciato sculture molto esplicite di relazioni sessuali fra «donne» (Thadani, 1996). Nello Zimbabwe, l’attivista lesbica Tsitsi Tiripano (deceduta nel 2001) e il gruppo lesbico e gay GALZ, all’interno del quale Tiripano militava, sono la dimostrazione eclatante che il lesbismo esiste nel continente africano (Aarmo, 1999). A Sumatra, in Indonesia, i «tomboys» sono «donne mascoline» che stabiliscono relazioni di coppia con altre «donne» (Blackwood, 1999).

Il lesbismo, qual è definito oggi nel pensiero occidentale dominante, è una categoria recente. Essa implica numerosi postulati eminentemente sociali che si sono progressivamente installati in società differenti. Alcuni fra questi sono largamente condivisi al di là del mondo occidentale — la credenza nell’esistenza di donne e di uomini, e nel fatto che queste donne e questi uomini siano tali in funzione di un «sesso» che sarebbe assegnato loro dalla Natura. Altri sono più specifici: assegnare alle persone un’identità sessuale sulla base di pratiche sessuali, decretare che tale identità è stabile e permanente (ovvero innata), fare infine coincidere tale «identità» con un tipo di carattere o di personalità.

Per contro, pratiche che potrebbero sembrare lesbiche all’interno delle attuali logiche occidentali, si tratti di pratiche sessuali o matrimoniali, non lo sono necessariamente per le società che le mettono in opera. Così, almeno in una trentina di società africane, come presso i Nandi del Kenya occidentale, esistono forme di matrimonio tra «donne», senza che queste ultime abbiano necessariamente delle relazioni sessuali fra loro (Amadiume, 1987; Oboler, 1980). Generalmente, si tratta per una donna ricca e anziana di avere una discendenza con una donna più giovane che le darà questi figli avendo relazioni sessuali con un uomo. Allo stesso modo, presso le popolazioni indiane nelle pianure del nord del continente americano, gli/le sciamani/e chiamati/e «berdaches» formano delle coppie con persone dello stesso «sesso», proprio perché sono socialmente considerati/e come appartenenti a un genere opposto al proprio «sesso» (Lang, 1999). È precisamente questa enorme diversità e complessità delle configurazioni culturali del sesso, del genere e della sessualità, presenti e passate, minoritarie e maggioritarie, ciò che il lavoro di Nicole-Claude Mathieu (1991) mette in luce.

 

Il quadro d’analisi di Mathieu

mathieu

Il quadro d’analisi che Mathieu propone è tanto più interessante in quanto ingloba al tempo stesso società non occidentali e occidentali, attuali e passate, a cui ella applica il doppio sguardo sociologico e antropologico che le appartiene. Il nucleo del suo pensiero sull’articolazione tra sesso, genere e sessualità appare nell’articolo «Identité sexuelle/sexuée/de sexe? Trois modes de conceptualisation de la relation entre sexe et genre» [7]. In questo articolo Mathieu risponde a un’ipotesi di Saladin d’Anglure (1985) secondo cui l’esistenza di un «terzo sesso», come nella società Inuit, invaliderebbe l’idea del binarismo dei sessi e dei generi. E soprattutto attenuerebbe, secondo Mathieu, la teoria dell’oppressione delle «donne». Nella sua elaborazione, Mathieu lavora su un insieme di pratiche che riguardano la sessualità, il genere o il sesso che l’attuale pensiero occidentale qualificherebbe volentieri come queer. Più precisamente, ella analizza:

« – [le] “devianze istituzionalizzate”, in modo permanente o occasionale, indagando se esse siano un’inflessione della norma o, al contrario, la sua quintessenza;

  • l’autodefinizione di gruppi o di individui considerati devianti o marginali, domandandosi se essa costituisca una soluzione “normata” alle incongruenze esperite o una sovversione» (Mathieu, 1991, 230)

Studiando queste «devianze» all’interno delle società più varie, Mathieu mostra (1) che la maggior parte fra queste costituiscono in realtà dei meccanismi istituzionalizzati di adattamento e/o sono funzionali al sistema sociale considerato e, soprattutto, (2) che non esiste un’unica maniera di credere (o di non credere) alla naturalità del sesso e dei generi. L’articolo di Mathieu è particolarmente interessante perché mostra bene i limiti della «vulgata sesso-genere» che, a partire dagli anni Ottanta, tende a sostituirsi alle analisi propriamente femministe: essa è inoffensiva e banale se le viene tolta la dimensione della sessualità. Ma soprattutto, come dimostra Mathieu, non sono le sessualità o i generi queer a fornire veramente la chiave della comprensione dei rapporti sociali di sesso, bensì la norma che questi rivelano, ovvero il principio direttivo dell’eterosessualità che infesta come uno spettro le «teorie del genere». È smascherando questo fantasma nelle sue diverse manifestazioni che Mathieu arriva a scoprire non uno, ma tre grandi modi di articolazione del sesso, del genere e della sessualità:

  • «Modo I: identità “sessuale”, basata su una coscienza individualista del sesso. Corrispondenza omologica tra sesso e genere: il genere traduce il sesso.
  • Modo II: identità “sessuata”, basata su una coscienza di gruppo. Corrispondenza analogica tra sesso e genere: il genere simbolizza il sesso (e viceversa).
  • Modo III: identità “di sesso”, basata su una coscienza di classe. Corrispondenza sociologica tra sesso e genere: il genere costruisce il sesso» (Mathieu, 1991, 231).

Questa tipologia permette di distanziarsi realmente dall’etnocentrismo e dal malinteso universalismo che caratterizzano lo sguardo occidentale dominante contemporaneo sulla sessualità e soprattutto sulle credenze relative alle identità di sesso. Questo decentramento svela il carattere eminentemente relativo, storico, culturale, non assoluto insomma, del sesso, del genere e della sessualità. Nello stesso movimento, Mathieu mostra bene che gran parte delle persone eterosessuali, al pari di quelle che contestano l’eterosessualità nel mondo occidentale, ma anche, direi, di ampi settori dei movimenti globali gay, queer e trans che si sviluppano oggi, aderiscono di fatto al modo I e talvolta al modo II di articolazione sesso-genere-sessualità.

Qui propongo, al contrario, di ritornare alle logiche sviluppate da altre correnti e che si inscrivono da molto tempo, come il pensiero della stessa Mathieu, in quello che lei definisce modo III, anti-naturalista e materialista [8]. Tuttavia, prima di proseguire, occorre fare ancora qualche importante precisazione sul contesto materiale e concettuale in cui queste analisi si collocano.

I tre modi di concettualizzazione dei rapporti tra sesso, genere e sessualità descritti da Mathieu si inscrivono nel quadro di una netta predominanza (numerica e politica) di società organizzate a beneficio di persone considerate come uomini e come maschi. Questa egemonia, che si osserva quasi ovunque nel mondo per i periodi storicamente documentati, funziona grazie a una stretta combinazione tra (1) rapporti sociali di sesso vari ma patriarcali [9] e (2) per le «donne», l’imposizione generale dell’eterosessualità procreativa e soprattutto la severa interdizione e invisibilizzazione dell’omosessualità femminile esclusiva.

Certamente, esistono delle eccezioni. Come mostra un insieme di lavori recenti raccolti da Mathieu (2007), alcune società matrilineari e soprattutto uxorilocali [10] conoscono rapporti sociali di sesso nettamente meno inegualitari di quelli che esistono nei sistemi patrilineari e virilocali. Quanto alla sessualità, non è raro che l’omosessualità maschile (alcune pratiche sessuali, in alcuni periodi della vita) e soprattutto l’omosocialità siano socialmente integrate ai dispositivi di potere patriarcali, come presso gli antichi Greci, gli Azandé, i Baruya o in certi club esclusivamente maschili di numerose metropoli odierne, come ricorda molto bene Mathieu (1991). Per contro, le pratiche sessuali tra «donne» in genere vengono tollerate soltanto a patto di essere strettamente private, invisibili e chiaramente separate da pratiche omosociali e/o di solidarietà morale e materiale, ovvero da alleanze matrimoniali e politiche visibili [11] tra «donne». Ora, è precisamente dalla congiunzione deliberata, collettiva tra pratiche sessuali, d’amore e alleanze materiali tra «donne» a detrimento delle relazioni obbligatorie con gli «uomini», cioè a partire dal lesbismo come movimento politico, che possono avere luogo le autentiche rivoluzioni di pensiero che qui presento.

 

Il lesbismo come movimento sociale e la sua teorizzazione politica

Apparizione di un movimento sociale autonomo e critico degli altri movimenti

L’esistenza semi-pubblica di collettività lesbiche in diversi paesi occidentali (in particolare) precede di molto lo sviluppo del movimento femminista, come attesta per esempio lo studio di Davies e Kennedy (1989) sulla cittadina di Buffalo, negli Stati Uniti maccartisti degli anni Cinquanta, che mostra l’esistenza di comunità di lesbiche proletarie e/o razzizzate organizzate, fra le altre cose, intorno a codici «butch/femme» [12]. Tuttavia, è soprattutto alla fine degli anni Sessanta e all’inizio degli anni Settanta che appare il movimento lesbico, al Nord come al Sud, in un clima di prosperità economica e di profonde trasformazioni sociali e politiche: sviluppo della società dei consumi, «modernità» trionfante e emersione di diversi movimenti progressisti e/o rivoluzionari. Negli Stati Uniti i movimenti per i diritti civili, la liberazione Nera, l’indipendenza di Porto Rico o i diritti indiani, le lotte rivoluzionarie e la decolonizzazione, l’opposizione alla guerra del Vietnam, infine i movimenti femminista e omosessuale, costituiscono altrettante «scuole» politiche per un’intera generazione di militanti. Tuttavia, per diverse ragioni, questi movimenti lasciano insoddisfatte molte donne e lesbiche. È precisamente la critica di tali insufficienze, delle contraddizioni e delle dimenticanze di questi movimenti che le porta a un’autonomizzazione organizzativa e soprattutto teorica.

Per quanto riguarda le lesbiche, la prima espressione largamente visibile di questa necessità di autonomia risale alla nord-americana bianca Jill Johnston, che si fa eco delle critiche rivolte, contemporaneamente, al movimento gay dominato dagli uomini e al movimento femminista dominato da donne eterosessiste e spesso eterosessuali. I suoi articoli, pubblicati sul Village Voice tra il 1969 e il 1972, sono raccolti in un’opera intitolata (dal suo editore) Lesbian Nation: the Feminist Solution. Apparsa nel 1973 nei circuiti editoriali classici, diventa rapidamente un best-seller (Johnston, 1973). Di fatto negli anni Settanta, e non senza conflitti, il movimento lesbico si diffonde a macchia d’olio un po’ ovunque nel mondo, rivendicando la propria autonomia sia nei riguardi al femminismo che del movimento omosessuale misto e, più complessivamente, rispetto all’insieme delle organizzazioni «progressiste» da cui le militanti sono spesso uscite. [13]

Sicché, il primo tipo di apporti del movimento lesbico agli altri movimenti sociali non è altro che metterli nelle condizioni di interrogarsi sui propri limiti e sui propri impensati, tanto nelle pratiche quotidiane che negli obiettivi politici, in particolare nel campo della sessualità, della famiglia, della divisione sessuale del lavoro o della definizione dei ruoli maschili e femminili. Le innumerevoli critiche formulate dalle lesbiche a questo riguardo, la maggior parte delle quali sono state articolate anche dal movimento femminista, sono uno specchio rivolto ai diversi movimenti e ai/lle militanti, che potrebbe permettere loro di dare realmente ai loro progetti tutta l’ampiezza di respiro politico che ostentano.

 

Teorizzazione dell’interdipendenza dei rapporti di potere e della necessità delle alleanze 

 

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Combahee River Collective

Nello stesso slancio di autonomizzazione e di approfondimento della riflessione sugli obiettivi a lungo termine e sulla quotidianità dei movimenti sociali, appare a Boston nel 1974 il Combahee River Collective, uno dei primi gruppi femministi Neri. Esso nasce a partire da una quadruplice critica: al sessismo e alla dimensione piccolo-borghese del movimento Nero, al razzismo e alle prospettive piccolo-borghesi del movimento femminista e lesbico, al carattere riformista della National Black Feminist Organization, e alla cecità delle femministe socialiste di fronte alle questioni di «razza». In risposta a tutte queste insufficienze, il Combahee River Collective afferma per la prima volta, in un manifesto divenuto classico, l’inseparabilità delle oppressioni e, dunque, delle lotte contro il razzismo, il patriarcato, il capitalismo e l’eterosessualità:

«La definizione più generale della nostra politica attuale può essere riassunta come segue: siamo attivamente impegnate nella lotta contro l’oppressione razzista, sessuale, eterosessuale e di classe e ci diamo come compito specifico quello di sviluppare un’analisi e una pratica integrate, basate sul fatto che i principali sistemi di oppressione sono interdipendenti (interlocking). La sintesi di queste oppressioni crea le condizioni in cui viviamo. In quanto donne Nere, logicamente vediamo il femminismo Nero come il movimento politico per combattere le oppressioni molteplici e simultanee che l’insieme delle donne di colore affronta» (Combahee River Collective, 1979).

Numerose lesbiche e femministe «di colore» gli fanno rapidamente eco. Tra le iniziative più importanti, l’antologia This Bridge Called My Back, coordinata da due lesbiche chicane, Gloria Anzaldúa e Cherríe Moraga, raccoglie le voci di un insieme di femministe e lesbiche Nere, Indiane, Asiatiche, Latine, migranti e rifugiate, che affermano a propria volta l’impossibilità di scegliere tra la propria identità in quanto donna e la propria identità in quanto persona «di colore» (Moraga, Anzaldúa, 1981).

Da un punto di vista teorico, le prospettive aperte da quelle militanti segnano un vero e proprio cambiamento di paradigma, con la formulazione pionieristica, da parte del Combahee River Collective, del concetto di interdipendenza [interlocking] di quattro rapporti di oppressione (Combahee River Collective, 1979). Notiamo che questo fondamentale contributo alle scienze sociali è indissociabile dal loro punto di vista di outsiders within, in quanto donne, Nere, lesbiche e proletarie. La loro capacità di vedere ed enunciare questa interdipendenza è, in ugual misura, il frutto della loro esperienza collettiva di militanza. Si tratta di un apporto supplementare: il Combahee ci ricorda che, se si prende sul serio la teoria dello standpoint [14], occorre tenere in considerazione almeno tre elementi nella ricezione di una teoria: non solo la posizione sociale occupata dalla persona, o dalle persone, che la formula(no), ma anche il carattere più o meno collettivo del pensiero e il modo in cui questo si inserisce in progetti di trasformazione sociale.

Sul piano politico, gli apporti di un gruppo come il Combahee sono altrettanto significativi. Anzitutto, le sue militanti affermano l’ineluttabilità della lotta simultanea su più fronti. In secondo luogo, insistono sulla necessità che tutte/i prendano in carico le diverse lotte. Combattere il razzismo, per esempio, è una responsabilità delle persone bianche come delle altre e spetta tanto sugli uomini che alle donne opporsi ai rapporti sociali di sesso patriarcali. Tuttavia, ed è un altro punto centrale, esse sottolineano che l’organizzazione delle lotte dovrebbe rispettare certe regole. Lo scopo non è che ogni gruppo si chiuda in se stesso e si isoli in battaglie specifiche, come spiega Barbara Smith, una delle militanti più in vista del Combahee:

«Ho spesso criticato le trappole del separatismo lesbico praticato soprattutto da donne bianche. […] Invece di lavorare per sfidare il sistema e trasformarlo, molte separatiste se ne lavano le mani e il sistema va avanti tranquillamente per la propria strada. […] L’autonomia e il separatismo sono fondamentalmente differenti». (Smith, 1983).

La distinzione che Smith propone tra separatismo e autonomia è particolarmente utile. In effetti, come il separatismo, l’autonomia implica la libera scelta di ogni gruppo dei criteri di inclusione delle militanti e dei metodi di lavoro. Per contro, a differenza del separatismo, essa non solo permette, ma deve sfociare nella creazione di spazi di incontro e alleanza:

«Le donne Nere possono legittimamente scegliere di non lavorare con le donne bianche. Quello che non è legittimo è ostracizzare le donne Nere che non hanno fatto la stessa scelta. Il peggior problema del separatismo non è chi definiamo come “nemico”, ma il fatto che esso ci isola le une dalle altre». (Smith, 1983).

Infine, ed è una conseguenza logica particolarmente importante di tutto ciò che precede, di fronte alla simultaneità di oppressioni e nel quadro dell’autonomia politica, la strategia difesa da queste lesbofemministe Nere è la ricerca attiva e la costruzione di coalizioni, non sulla base di un’addizione di identità e di organizzazione frammentate all’infinito, ma a partire da azioni concrete e in vista della formulazione collettiva di un progetto politico (Smith, 1983).

 

Denaturalizzazione dell’eterosessualità e del sesso

Il terzo grande apporto delle lesbiche è il rovesciamento completo della prospettiva naturalista di senso comune sulla sessualità, sui generi e soprattutto sui sessi. Tale rovesciamento è realizzato dalla rimessa in causa dell’idea, apparentemente semplice e innocente, secondo cui l’eterosessualità sarebbe un meccanismo naturale di attrazione tra due sessi.

Il primo attacco contro la supposta naturalità dell’eterosessualità, dei generi e dei sessi è sferrato nel 1975 dall’antropologa bianca Gayle Rubin nel suo saggio Lo scambio delle donne. Note sull’economia politica del “sesso” (Rubin, 1975). In questo studio audace, Rubin mostra il carattere profondamente sociale dell’eterosessualità. Ella sottolinea che lo stesso Claude Lévi-Strauss è stato pericolosamente vicino a sostenere che l’eterosessualità fosse un processo socialmente istituito, affermando che era la divisione sessuale del lavoro, socialmente costruita, a rendere imperativa la formazione di unità «familiari» costituite almeno da una donna e un uomo. Più precisamente, ciò che l’antropologo constata è che, in vista della riproduzione biologica e sociale, occorre obbligare gli individui a formare unità sociali costituite almeno da una «femmina» e un «maschio» — unità sociali che gli individui non formano spontaneamente. Sulla scorta di Lévi Strauss, Rubin dimostra che questa è la funzione della divisione sessuale del lavoro, intesa in questa prospettiva come un divieto per ciascun sesso di padroneggiare l’insieme dei compiti necessari alla sua sopravvivenza, cosa che li rende materialmente e simbolicamente dipendenti l’uno dall’altro. È anche e soprattutto questa, spiega Rubin, la ragion d’essere del tabù della similarità tra uomini e donne, intimamente legato al tabù dell’omosessualità — anteriore al tabù dell’incesto e più fondamentale di questo (Rubin, 1975) [15].

Alcuni anni più tardi, è collocando infine il lesbismo al cuore del ragionamento che altre due scrittrici e militanti femministe bianche, Monique Wittig e Adrienne Rich, riescono a spingere l’analisi più lontano. È consueto opporre queste due teoriche [16], tuttavia entrambe procedono a un riposizionamento particolarmente euristico del lesbismo, mediante una triplice operazione. Anzitutto, fanno uscire il lesbismo dal campo angusto delle pratiche strettamente sessuali. In secondo luogo, spostano l’attenzione da questa pratica «minoritaria» verso quella delle «maggioranze», ovvero puntando il proiettore sull’eterosessualità. Infine, e soprattutto, mostrano fino a che punto le poste sia del lesbismo che dell’eterosessualità non si trovano tanto nel campo della sessualità, quanto in quello del potere. Per entrambe l’eterosessualità, lungi dall’essere un’inclinazione naturale dell’essere umano, è imposta alle donne mediante la forza, ovvero mediante la violenza al tempo stesso fisica e materiale, compresa quella economica, e mediante un solido controllo ideologico, simbolico e politico, che fa intervenire un insieme di dispositivi che vanno dalla pornografia fino alla psicoanalisi.

Così, nel suo articolo «Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica» [17], Rich denuncia l’eterosessualità obbligatoria come una norma sociale resa possibile dall’invisibilizzazione del lesbismo — anche all’interno del movimento femminista. Il lesbismo viene situato nella prospettiva di un «continuum lesbico» che unisce tutte le donne che, in maniere differenti, si allontanano dall’eterosessualità obbligatoria e tentano di sviluppare dei legami tra loro per lottare contro l’oppressione delle donne, indipendentemente dalla loro sessualità. Rich ha criticato certi aspetti essenzialisti del concetto di «donna identificata alle donne» (Koedt, 1970). Nel suo articolo, sottolinea invece pratiche di solidarietà tra donne descritte da donne Nere come Toni Morrison o Zora Neale Hurston. Ed è in qualche modo ciò che si augura di vedere svilupparsi: una vera solidarietà tra le donne, non «naturale», romantica o ingenua, bensì volontaria e chiaramente politica, che faccia spazio a tutte nella lotta per la liberazione comune. In un lavoro successivo, Rich afferma:

«È fondamentale intendere il femminismo lesbico nel suo senso più profondo e radicale, come l’amore per noi stesse e per le altre donne, l’impegno per la libertà di tutte e di ciascuna di noi, che trascende la categoria di “preferenza sessuale” e quella di diritti civili, per trasformarsi in una politica che ponga le questioni delle donne che lottano per un mondo in cui l’integrità di tutte — e non quella di un pugno di elette — venga riconosciuta e tenuta in considerazione in tutti i campi della cultura» (Rich, 1979).

Monique Wittig, per parte sua, comincia subito con una delle proposizioni principali del femminismo materialista — che in quel momento si sviluppa intorno alla rivista Questions féministes, dove vengono pubblicati i suoi due articoli inaugurali [18] — secondo la quale donne e uomini non si definiscono in base al loro «sesso». Per questa corrente gli uomini e le donne non sono affatto definiti da un riferimento naturalista al corpo, ma da un rapporto di classe, da una posizione occupata all’interno di rapporti sociali di potere e che Colette Guillaumin ha definito come rapporti di appropriazione fisica diretta, che ha chiamato rapporti di sexage, con il loro aspetto mentale: la naturalizzazione delle dominate (Guillaumin, 1978). Nei termini di Wittig, «ciò che costituisce una donna è la particolare relazione sociale con un uomo, relazione che precedentemente abbiamo chiamato servaggio, relazione che implica obblighi personali e fisici, così come obblighi economici (“assegnazione di residenza”, corvée domestica, dovere coniugale, produzione di figli illimitata, etc.)» (Wittig, 1980). Le donne e gli uomini sono categorie politiche che non possono esistere l’una senza l’altra. Le lesbiche, «fuggendo, o rifiutando di divenire, o di restare, eterosessuali», mettendo in causa questa relazione sociale, l’eterosessualità, problematizzano l’esistenza stessa delle donne e degli uomini. Ma non è sufficiente fuggire a livello individuale, perché non esiste veramente un “fuori”: per esistere, le lesbiche devono condurre una lotta politica di vita o di morte per l’estinzione delle donne come classe, per distruggere il «mito della Donna» e per abolire l’eterosessualità:

«La nostra sopravvivenza esige che contribuiamo con tutte le nostre forze alla distruzione della classe — le donne — tramite cui gli uomini si appropriano delle donne e ciò può avvenire soltanto attraverso la distruzione dell’eterosessualità in quanto sistema sociale basato sull’oppressione e sull’appropriazione delle donne da parte degli uomini e che produce il corpus dottrinario sulla differenza fra i sessi [19] per giustificare tale oppressione» [Wittig, 1980].

Ciò che mostra Wittig è che l’eterosessualità (1) non è naturale ma sociale, (2) non è una pratica sessuale ma un’ideologia, che lei chiama «pensiero straight» e, soprattutto, (3) che questa ideologia centrale ai fini dell’oppressione patriarcale delle donne, della loro appropriazione da parte della classe degli uomini, è basata sulla credenza fervente e continuamente rinnovata nell’esistenza di una differenza sessuale. Wittig sottolinea che questa «differenza sessuale» costituisce un postulato sotteso non solo al senso comune, ma anche al complesso delle «scienze» occidentali, dalla psicoanalisi fino all’antropologia. Ora, secondo lei tale credenza, autentica pietra angolare dell’eterosessualità, non solo non viene mai sottoposta ad analisi, ma è smentita, giorno dopo giorno, dall’esistenza politica delle lesbiche e del loro movimento.

 

Le sfide attuali

Che bilancio possiamo fare oggi delle teorizzazioni che ho appena presentato e che costituiscono il fondamento di un pensiero femminista e/o lesbico materialista, anti-naturalista e radicale? Come ci permettono di affrontare alla radice i problemi «di fondo» che ho evocato all’inizio di quest’articolo? D’altronde quali sono, in ultima analisi, questi problemi?

Il primo, come ripetono con insistenza le militanti lesbiche e femministe Nere, fra le altre, è l’interdipendenza dei rapporti sociali di potere. Questo elemento fondamentale rimette profondamente in questione gli orientamenti di tutta una parte dominante del movimento LGBTQI [20], che combatte un solo tipo di rapporti sociali (di sesso) e contemporaneamente si basa — e rafforza — prospettive «gay-maschili-patriarcali», bianche e di classe media. Evidentemente, non si tratta qui di contestare in assoluto la legittimità delle lotte delle sessualità e dei generi «minoritari», ma di esortare alla vigilanza per non perdere, in qualche modo, sul piano della «razza» e della classe quello che si può eventualmente conquistare sul piano dei rapporti di sesso. Al tempo stesso, la coscienza dell’interdipendenza dei rapporti di potere obbliga a spingere più lontano le prospettive di Wittig, Rich o Mathieu. In particolare, dobbiamo portare avanti l’analisi del modo in cui l’eterosessualità come ideologia e come istituzione sociale costruisce e naturalizza non soltanto la differenza sessuale, ma anche la differenza di «razza» e di classe. Si tratta di un campo particolarmente vasto e appassionante, in cui la maggior parte delle analisi sono ancora da fare.

È di importanza tanto più vitale decifrare questo campo oggi, quando il nazionalismo, la xenofobia e l’essenzialismo (di «razza» e di sesso) ritornano in auge con la mondializzazione e lo sviluppo di un pensiero politico reazionario, naturalista e a-storico, legato all’ascesa dei fondamentalismi religiosi, negli Stati Uniti e nel mondo, incoraggiato moralmente e finanziariamente dai governi nord-americani che si sono alternati e/o esacerbato dalla loro politica. I lavori di Colette Guillaumin sulla naturalizzazione della «razza» e del sesso, che sono una delle principali fonti della corrente femminista e lesbica, costituiscono una base estremamente solida su cui appoggiarsi. Tuttavia, non inganniamoci sul «nemico principale»: ciò che questo processo ideologico (naturalizzazione delle posizioni sociali delle persone, ascesa del religioso come espressione culminante del politico) sottende è un processo materiale di sfruttamento, di estrazione e di concentrazione di ricchezze, che si intensifica nella mondializzazione neoliberale.

Una terza serie di sfide (il «cuore» del problema, forse) riguarda precisamente l’inasprimento dei rapporti sociali di potere e il deterioramento delle condizioni di vita di una grossa parte della popolazione mondiale. L’impoverimento brutale della maggioranza delle «donne» (e degli uomini) nel mondo costringe molte persone alla mobilità, mentre le politiche migratorie internazionali si fanno più dure e il controllo degli spostamenti interni si rafforza in molti paesi (tramite la minorizzazione giuridica, la concentrazione nei campi dei rifugiati, la reclusione penitenziaria, i muri eretti da ogni parte, la ghettizzazione di numerosi quartieri popolari, ma anche la minaccia dell’assassinio-femminicidio sul «modello» di Ciudad Juárez, il rafforzamento delle separazioni «etniche», la mancanza di mezzi finanziari per spostarsi, etc.). Il lavoro si modifica e si informalizza, mentre una quantità sempre maggiore di manodopera è spinta verso quello che altrove ho chiamato il «continuum di lavoro considerato femminile», né completamente gratuito, né veramente salariato, e che comprende l’insieme dei «servizi» attesi ed estratti a basso costo delle persone socialmente costruite come donne (Falquet, 2008).

A questo riguardo il lavoro di Paola Tabet, in sintonia con le analisi presentate qui, potrebbe rivelarsi di enorme utilità, in particolare il suo concetto di scambio economico-sessuale (2004). Infatti, esso potrebbe permettere di comprendere meglio le nuove logiche delle alleanze matrimoniali, sessuali e del lavoro (e dunque una parte importante delle pratiche sessuali e di genere) delle donne impoverite e razzizzate, le cui «scelte» possibili, per via della loro frequente mancanza di autonomia giuridica, oscillano sempre più tra il matrimonio con uomini bianchi e più ricchi, eventualmente di altre nazionalità, e il lavoro sessuale in tutte le sue forme, antiche e nuove. Simultaneamente, sarebbe necessario fare intervenire massicciamente le prospettive della co-formazione dei rapporti sociali per analizzare il modo in cui si organizza questo scambio economico-sessuale e come si combina con il «classico» lavoro salariato. Per esempio, per comprendere gli interventi sul corpo: dotarsi di seni, o ingrandirseli, o schiarire la pelle, permette di trovare un marito, un cliente o un impiego da receptionist, o di diventare o di restare una «donna», «bianca/bella»?

Come si vede, i problemi sono numerosi e complessi. Per orientarci, tuttavia, disponiamo di strumenti — ancora da perfezionare — : le teorie dell’interdipendenza dei rapporti di sociali di sesso, di «razza», di classe e l’analisi del «pensiero straight». Queste teorie sollecitano ad allontanarsi da una politica «identitaria» che si ipnotizza intorno alla difesa o alla contestazione di attributi simbolici, corporei e psichici di un sesso, di una «razza» o di una classe. Le lesbiche femministe l’hanno mostrato chiaramente: la Natura non esiste e questi attributi non sono altro che contrassegni e conseguenze dell’assegnazione di un posto particolare nell’organizzazione sociale del lavoro. Essi possono mutare senza che l’organizzazione del lavoro ne risulti, contestualmente, perturbata. Inoltre, finché si combatte una sola dimensione alla volta, l’interdipendenza dei rapporti sociali permette il loro riadattamento reciproco senza che la logica di fondo venga modificata — vale a dire l’oppressione e lo sfruttamento. E sono dunque l’oppressione e lo sfruttamento che dobbiamo aggredire, se vogliamo combattere efficacemente i loro effetti. In altri termini, dobbiamo lottare per modificare l’organizzazione della divisione del lavoro, dell’accesso alle risorse e alle conoscenze. E, per cominciare, possiamo ri-appropriarci delle analisi dei movimenti sociali che si sono proposti di attaccare direttamente il cuore dei rapporti di potere.

[Per citare questo articolo copiare il link:]

Rompere il tabù dell’eterosessualità, finirla con la differenza dei sessi: gli apporti del lesbismo come movimento sociale e teoria politica – Jules Falquet

NOTE

[1] Benché questo testo rifletta esclusivamente le mie posizioni personali, mi sarebbe stato impossibile scriverlo senza aver preso parte al movimento lesbico e femminista. Tengo a sottolineare l’importanza teorica e politica che hanno avuto per me i gruppi Comal-Citlalmina, Archives lesbiennes, La Barbare, Media Luna, Próxima, 6 novembre e Cora. G, in particolare. Ringrazio anche Nasima Moujoud, Florence Degavre, Ochy Curiel, Natacha Chetcuti, Cécile Chartrain e Nicole-Claude Mathieu per i loro preziosi commenti.

[2] Per controbilanciare la forte tendenza alla naturalizzazione di molte categorie analitiche, che si confondono spesso con categorie del senso comune, in questo testo utilizzo molte virgolette. Chiamerò «donna» tra virgolette una persona socialmente considerata come tale, in una società data, indipendentemente da ogni considerazione naturalista.

[3] Qui uso il concetto di «razza» per designare il risultato di un rapporto sociale che include diverse dimensioni, come il «colore» ma anche lo statuto migratorio o la nazionalità, fra gli altri.

[4] Le categorie di Sud, Nord e Occidente sono categorie politiche. Non si tratta in nessun caso di blocchi politici o a-storici. L’Occidente è multiplo e fratturato, come il Sud e il Nord; sono attraversati da contraddizioni di sesso, di classe, di «razza», regionali, etc., e sono in costante trasformazione.

[5] Non posso entrare qui nella complessità delle designazioni di ogni tendenza lesbica e femminista. Per maggiori dettagli sulle correnti del pensiero lesbico, si possono vedere Falquet (2004) o Turcotte (1998).

[6] Ben inteso, il mondo è infinitamente più vasto di questi due paesi, ma sono quelli in cui hanno vissuto le militanti e le teoriche il cui lavoro ho scelto di presentare, avendo coscienza di lasciare da parte altre riflessioni importanti.

[7] È nel 1982, in occasione del X Congresso mondiale di sociologia in Messico, che Nicole-Claude Mathieu ha presentato le basi di questo lavoro. In seguito, esso è stato pubblicato all’interno di un’opera collettiva, quindi ripreso nel 1991 nel libro di Mathieu già menzionato che offre una visione d’insieme delle sue ricerche: L’anatomie politique.

[8] «Nel modo III di concettualizzazione del rapporto tra sesso e genere, la bipartizione del genere è concepita come estranea alla “realtà” biologica del sesso (che diventa per altro sempre più complessa da discernere), ma non, come si vedrà, all’efficacia della sua definizione ideologica. Ed è l’idea stessa di questa eterogeneità tra sesso e genere (la loro diversa natura) che conduce a non pensare più che la differenza sessuale sia “tradotta” (modo I) o “espressa” o “simbolizzata” (modo III) attraverso il genere, ma che il genere costruisce il sesso. Tra sesso e genere si stabilisce una corrispondenza sociologica, e politica. Si tratta di una logica anti-naturalista e di un’analisi materialista dei rapporti sociali di sesso» (Mathieu, 1991, 255-256; traduzione nostra).

[9] Uso l’aggettivo patriarcale non per indicare un sistema presuntivamente universale e a-storico (un’idea che è stata largamente criticata e battuta in breccia, idea per altro incoerente con la prospettiva di co-formazione dei rapporti sociali di potere), ma per qualificare certe configurazioni dei rapporti sociali di sesso sfavorevoli alle donne (i rapporti sociali all’interno un dato gruppo, in una determinata epoca, possono essere più o meno patriarcali, vale a dire più o meno oppressivi per le donne, proprio come possono essere più o meno razzisti, per esempio).

[10] Matrilineare: sistema entro cui l’appartenenza al gruppo viene definita seguendo la linea materna. Uxorilocale: sistema entro cui, dopo il matrimonio, lo sposo va risiedere nella casa della sposa.

[11] È il motivo per cui la trasgressione, da parte di alcune «donne», dell’apparenza socialmente prescritta alle donne e soprattutto del loro posto nella divisione del lavoro, è severamente sanzionata nella maggior parte delle società (le «donne» che rifiutano la maternità e/o l’allevamento dei figli, il lavoro domestico, lo scambio economico-sessuale con gli «uomini», o ancora che avanzano la pretesa di guadagnare un salario migliore degli «uomini» e di occupare posizioni di potere). Per sperare di aggirare queste sanzioni, occorre essere particolarmente abili, disporre di un sostegno collettivo e/o beneficiare di privilegi legati all’età, alla «razza» e/o alla classe.

[12] «Butch» designa lesbiche mascoline e «fem» lesbiche «femminili» (Chetcuti, 2008; Lemoine, Renard, 2001)

[13] Per l’America latina, si può consultare il lavoro pionieristico di Norma Mogrovejo (2000).

[14] Le diverse teorizzazioni del «punto di vista», sviluppate in particolare da Patricia Hill Collins, Sandra Harding e bell hooks, implicano (1) la riflessività di chi conduce la ricerca in rapporto alla propria posizione sociale di sesso, classe e «razza», fra le altre cose, al momento di effettuare il proprio lavoro e (2) la considerazione del punto di vista a partire dal quale una teoria viene sviluppata, in modo da sapere quale posizione assegnarle nell’analisi.

[15] A partire dagli anni Ottanta, Rubin sviluppa analisi che si allontanano dalla corrente teorica che presento qui, riducendo la sessualità lesbica a una sessualità (oppressa) fra tante altre.

[16] In effetti, dopo aver pubblicato i due articoli di Wittig e nel contesto di un conflitto più ampio all’interno del movimento femminista in Francia intorno alla questione del sedicente «separatismo lesbico», in realtà quella del lesbismo radicale, la rivista Questions féministes esplode. Quando riappare, con il nome di Nouvelles questions féministes, pubblica immediatamente la traduzione dell’articolo di Rich, presentandola nell’editoriale come la sua «nuova linea» (Nouvelles Questions féministes, 1981). Più che l’opposizione Wittig/Rich, sarebbe importante esplorare maggiormente i principi e gli esiti di tale scissione, che ha influenzato profondamente lo sviluppo teorico della corrente femminista materialista francese. Bisognerebbe analizzare in parallelo (1) l’intervento, negli Stati Uniti, del «french feminism» (Delphy, 1996; Moses, 1996), (2) le evoluzioni teoriche di autrici come Gayle Rubin e del movimento femminista e lesbico nord-americano sulla sessualità, a partire dalla conferenza del Barnard College del 1982 sulla «politica sessuale», e (3) molto più di recente e in un altro ambito disciplinare, l’ascesa delle teorie butleriane, in parte appoggiate sull’interpretazione di autrici francesi, fra cui Wittig.

[17] Articolo inizialmente apparso in Signs nel 1981 e tradotto in Nouvelles Questions féministes (Rich 1980; 1981). La traduzione italiana dell’articolo, Eterosessualità obbligatoria ed esistenza lesbica, è apparsa su «DWF», 23-24, 1985, pp. 5-40.

[18] «On ne naît pas femme» e «La pensée straight», frutti di un lavoro presentato originariamente in inglese durante una conferenza tenuta nel 1978 negli Stati Uniti, e pubblicati in francese nel 1980 (Wittig, 1980; 1981).

[19] La sottolineatura è mia.

[20] Lesbico, gay, bisessuale, trans, queer e intersex.

 

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