Monique Wittig: la fuga che fa dimenticare tutte le altre

Note a margine di Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023, pp. 77, euro 10.

di Deborah Ardilli

Viviamo, per generale ammissione, in un’epoca in cui i tempi e gli spazi di ascolto concessi alla parola letteraria tendono a comprimersi. O a ridisegnarsi in funzione dell’ascendente esercitato da altri, più remunerativi, codici di comunicazione. Messo a confronto con i suoi fasti novecenteschi, l’accanimento nella ricerca di forme nuove, specie se animato da una tensione utopica e anti-conciliativa, oggi appare fortemente ridimensionato. Un’analoga sorte incombe sulla nostra memoria letteraria, cioè sull’unica riserva simbolica in grado di assicurare le condizioni di un uso rigenerante dei testi del passato. Date queste premesse, un écrivain — questo il nudo appellativo inciso sulla lapide del Père-Lachaise di Parigi — come Monique Wittig (1935-2003) sembrerebbe il candidato ideale a una ben gracile forma di sopravvivenza culturale, affidata per intero alle premure di una cerchia esclusiva di professionisti della parola in possesso delle chiavi per accedere ai suoi libri.

Se così non è, se l’opera di Wittig non è condannata a vegetare come una pianta da serra, insomma se la vita postuma di un’intellettuale di capitale importanza per la storia femminista e lesbica del Novecento può in qualche modo proseguire e confidare di raggiungerci nell’aperto, lo dobbiamo anzitutto al dinamismo di quel che ancora si muove alla periferia dell’accademia e del mercato editoriale. Appartengono a questa piccola schiera di engagées Eva Feole, specialista di letteratura francese, e la sociologa femminista Sara Garbagnoli, entrambe già autrici di diversi lavori su Wittig e su altre esponenti del femminismo materialista francofono, ai quali oggi si aggiunge Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, da poco pubblicato per la collana essentials di DeriveApprodi.

Con la sua perlustrazione limpida, concisa e solidamente informata delle coordinate entro cui gravita l’opera di Wittig, il volume si presenta nella veste di un’agile introduzione per principianti. Già questo basterebbe a raccomandarlo come esempio di divulgazione di qualità, a maggior ragione in una fase in cui torna di moda riavvicinare le parole “femminismo” e “materialismo”, sebbene resti per lo più eluso il confronto con le autrici (Christine Delphy, Monique Wittig, Colette Guillaumin, Nicole-Claude Mathieu, Paola Tabet) che per prime si sono poste il problema di estendere all’analisi dell’oppressione patriarcale la strumentazione concettuale del materialismo storico. Ma a favore del libretto depone anche un’altra ragione, meno esteriore e più direttamente legata alle iniziative promosse dalle autrici per restituire centralità al contatto diretto con i testi wittighiani: da ultimo, la conduzione del ciclo di letture Nel cantiere letterario di Monique Wittig, organizzato insieme a Lesbiche Bologna e Some Prefer Cake tra gennaio e maggio 2023.

Non è un merito da poco, per chi si adopera a costruire occasioni di questo tipo, riuscire a riaccendere il piacere del testo senza soccombere all’alternativa rovinosa tra “fruire” e “capire”, all’ombra della quale cova la tentazione di scindere la Wittig poeta dalla Wittig politica, e di salvare l’una a spese dell’altra. Dunque, se leggere Wittig «non è altro che un’esortazione a reinventare il mondo» (MW, p. 12), la fatica che Feole e Garbagnoli le consacrano richiede a propria volta di essere recepita non già come un bignami autosufficiente, ma come un vero e proprio invito al viaggio. Nella consapevolezza che la sollecitazione a prendere il largo, anche da collaudati schemi percettivi e interpretativi, potrà essere effettivamente raccolta a patto di non bruciare in un generico conato decostruttivo le tappe che separano il punto di partenza, ossia la comprensione del funzionamento politico e ideologico del regime eterosessuale, dalla destinazione finale, ossia il superamento delle classi/categorie di sesso prodotte e riprodotte da quel regime.

Ai fraintendimenti ancora sussistenti a questo riguardo, Feole e Garbagnoli dedicano alcune battute introduttive, rimarcando da un lato il paradosso costituito dalle interpretazioni differenzialiste di Wittig (a lungo in voga in area anglofona alla voce French Feminism, ma presenti anche nel contesto italiano) e, dall’altro, l’inadeguatezza delle letture inclini a fare della scrittrice una «prodomica manifestazione delle teorie queer» (MW, p. 10): letture per altro parzialmente condivise, sia pure con giudizio di valore negativo, dalla capostipite francese del pensiero della differenza sessuale, Antoinette Fouque [1]. L’ostilità e l’estraneità di entrambe le correnti, differenzialista e queer, al paradigma materialista entro cui Wittig si inscrive (ed entro cui continuerà a inscriversi anche dopo la tempestosa dissoluzione del collettivo editoriale di Questions féministes) è la principale ragione della difficoltà a cogliere i contorni teorici del suo percorso intellettuale. Wittig non risponde al richiamo delle proliferazioni di genere, perché le sa impotenti a scalfire la tenuta del sistema eterosessuale. Analogamente, non si lascia incantare dalle sirene di una differenza più “originaria” di quella posta dal patriarcato, perché riconosce l’inganno delle ontologie fondamentali che proiettano nell’essere le divisioni gerarchiche create dall’organizzazione sociale.  

Chiariti tali aspetti, le direzioni da seguire vengono individuate da Feole e Garbagnoli attraverso cinque lemmi-chiave illustrati, con gli opportuni riferimenti bibliografici, in altrettanti capitoli. Ultimo in ordine di apparizione — preceduto da «Femminismo materialista», «Pensiero straight», «Cantiere letterario», «Corpo lesbico» — «Cavallo di Troia» è il capitolo da cui suggerirei di cominciare. Avere preliminarmente chiaro cosa voglia dire «ridefinire l’universale, sottraendolo alla confisca fattane dai dominanti» (MW, p. 68) è, in effetti, il modo più spedito per rendersi conto di quale sia la sfida lanciata da Wittig a un tempo — il nostro, più ancora di quello della sua vita — talmente ripiegato su rivendicazioni di “parità nella differenza” da non avvertire nemmeno la contraddizione in termini custodita dallo slogan in questione.

Cavallo di Troia, dunque. Tratta dal secondo libro dell’Eneide, (ri)letta da Wittig nella straniante traduzione francese di Pierre Klossowski, la figura della macchina da guerra ideata dai greci per spiazzare le difese nemiche è l’immagine che, con frequenza crescente a partire dalla fine degli anni Settanta, la scrittrice elegge a metafora privilegiata del proprio fare poetico. Potremmo dire, in forzosa sintesi, che quella del cavallo di Troia è l’immagine deputata a descrivere il movimento dialettico che consente al fare poetico di liberare la propria riserva di energia senza disperderla nell’informe e nell’indeterminazione. Da un lato, si tratta infatti di mettere in crisi le convenzioni letterarie ereditate, a partire dai presupposti che fondano la classificazione canonica dei generi letterari; dall’altro, si tratta di procedere al «rimontaggio dei materiali precedentemente smontati e rilavorati che conduce alla costruzione di un senso nuovo» (MW, p. 67). Sotto questo profilo, l’opera letteraria può agire come una macchina da guerra solo sulla base di un alto grado di intertestualità e di un’esplicita intenzione anti-mimetica nei riguardi dell’ipotesto ripreso nella nuova scrittura. Il modello parodiato, ovvero riplasmato dal punto di vista minoritario, perde così il proprio statuto canonico per diventare materiale da lavoro, sottoposto a nuovi fini. Il «cantiere letterario», lo spazio «al contempo concreto e astratto che coincide con la pagina ancora da scrivere», pur contenendo «tutto ciò che è stato già scritto dagli altri scrittori e scrittrici» (MW, p. 39), altro non che è il luogo adibito alla fabbricazione di quegli avatar del cavallo del Troia che i testi wittighiani ambiscono a essere.

L’enfasi sulla scrittura come lavoro applicato al materiale linguistico e la valorizzazione della metafora militare sono i tratti che, con maggiore evidenza, permettono di distinguere la poetica wittighiana da quell’idea di écriture féminine che, a partire dagli anni Settanta, ha largamente influenzato la percezione del rapporto tra femminismo e letteratura, trasformando il primo in un elogio a oltranza della differenza (cioè in un anti-femminismo che si esplicita come tale a fasi alterne, a seconda delle geografie e delle opportunità politiche) e facendo della seconda una sorta di calco simbolico del corpo sessuato. Diversamente, come sottolineano Feole e Garbagnoli, stanno le cose per Wittig. Da questo punto di vista, la figura del cavallo di Troia si impone, in sede di riflessione meta-letteraria, come un morceau choisi sfilato dal fornitissimo arsenale di strumenti offensivi e difensivi, ordigni e marchingegni bellici che appaiono a cadenza regolare nella fiction wittighiana: ausili indispensabili allo scatenamento di quel «furore così perfetto» messo in scena per significare la violenza necessaria a condurre a buon fine l’«ultima guerra possibile della storia» (G, p. 184/ p. 115).

Difficile, in questo senso, non accorgersi di come la presenza massiccia, nei romanzi wittighiani, di archi, frecce, scudi, carabine, specchi capaci di proiettare raggi micidiali, lancia-razzi, mitragliette e pistole laser richiami, per antitesi, un aspetto costante dei rapporti di dominio patriarcali, vale a dire il sottoequipaggiamento tecnologico che priva le dominate di una capacità di intervento sul mondo estesa al di là delle possibilità e dei limiti del corpo fisico. «Non sarà questa», si chiede l’antropologa Paola Tabet, «una delle condizioni necessarie perché le donne stesse siano materialmente utilizzabili nel lavoro, nella riproduzione, nella sessualità?» [2].

Ecco allora che, per annullare le condizioni della reificazione delle donne e della feticizzazione della differenza sessuale, la pagina di Wittig si popola di armi, in modo tale da suggerire un’associazione stretta fra lotta antipatriarcale, apprendistato letterario ed emersione di quella «nuova dimensione dell’umano» costituita, per la scrittrice francese, dal lesbismo. Ne L’opoponax, per limitarsi a un esempio precoce, il desiderio tra Catherine Legrand e Valerie Borge si nutre senz’altro del dono reciproco di versi inventati o prelevati da poeti come Malherbe, Louise Labé, Leopardi e Baudelaire; ma anche delle tre pallottole di carabina che l’una, già avviata all’attività di tiro, mette in mano all’altra pregandola di conservarle (O, p. 267/p.208).

Il momento dello scambio amoroso delle pallottole si colloca, letteralmente, a un passo dal ciclo epico de Le guerrigliere, dal quale apprendiamo che «quelle che vogliono trasformare il mondo» devono «prima di tutto impadronirsi dei fucili» (G, pp. 120-21/p. 74). Se ci fermassimo al versante più agevolmente riconoscibile della frase, forse non coglieremmo altro che un’eco della retorica maoista dilagante nella Francia post-68. Senonché, in mano a Wittig, i problemi della guerra e della strategia assumono una dimensione di portata decisamente più ampia, definita sempre da una relazione fortissima e, non di pura derivazione, con l’insieme della tradizione letteraria.         

«Alla guerra penseranno gli uomini» è, come si ricorderà, la battuta perentoria che Ettore rivolge ad Andromaca nel sesto libro dell’Iliade, uno degli ipotesti alla base de Le guerrigliere. Con un ribaltamento apparentemente clamoroso, la guerra verrà poi qualificata come «un affare di donne» nella Lisistrata di Aristofane, un altro dei testi a cui Wittig fa esplicitamente allusione. Veicolata dal motivo dello sciopero del sesso, la competenza politica delle donne trova la propria fonte di legittimazione, nella commedia aristofanea, nel contributo da queste offerto alla polis in veste di madri: ragion per cui, spetta alle donne escogitare una soluzione per mettere fine a un conflitto ventennale, quello fra Ateniesi e Spartani, che minaccia la tenuta dell’ordine mandando in rovina le famiglie. Per effetto di un altro rovesciamento, sotto la penna di Wittig la stessa frase, «la guerra è un affare di donne» (G, p. 180/p. 112), assume un significato completamente nuovo che, salvo errori, non ha precedenti nella vicenda delle riscritture della Lisistrata — nemmeno nelle versioni a intonazione femminista [3]. A ridosso dell’esplosione del Movimento di liberazione delle donne in Francia, di cui la scrittrice sarà una delle principali istigatrici, si tratta infatti di legittimare il diritto di elles, l’eroe collettivo della moderna epopea guerrigliera, di partecipare non a una guerra qualsiasi, ma di fare la guerra contro ils per liberarsi dalle condizioni della propria soggezione, porsi come soggetti universali di enunciazione di sé e del mondo e affrancarsi dalla necessità di identificarsi con i simboli che esaltano il corpo frammentato e la specificità femminile, ovvero con l’ultimo legame che le stringe a una cultura morta.  

È, questo, solo uno dei molti campioni che si potrebbero prelevare in vivo per verificare cosa intendono Feole e Garbagnoli quando osservano che, per Wittig, si tratta «di far violenza a una lingua e a una letteratura che strutturalmente fanno violenza ai gruppi minoritari negando loro piena soggettività, di far dire al linguaggio e alla letteratura ciò che non sono fatti per dire: la piena umanità e universalità dei soggetti minoritari» (MW, p. 68). Ma è anche un esempio particolarmente idoneo a illuminare, per contrasto, gli ostacoli che si frappongono non solo alla legittimazione, ma alla stessa concepibilità, del conflitto prefigurato da Le Guerrigliere.

«Pensiero straight» è, nel lessico critico messo a punto da Wittig, l’espressione riassuntiva di tali ostacoli. Solo un’interpretazione superficiale della realtà del dominio, e di quello eteropatriarcale in particolare, potrebbe equipararli alla somma delle opinioni sessiste e dei giudizi svalorizzanti che circolano all’interno della società in un dato momento. Ciò che conta, nella definizione del pensiero straight, non sono i contenuti particolari, ma la forma ideologica di un’interpretazione del mondo rintracciabile tanto nella doxa corrente quanto nel discorso delle scienze umane (strutturalismo e psicoanalisi in primis, ma non solo). E questa interpretazione del mondo, condotta dal punto di vista del dominante, non ha altra funzione fuorché quella di agire come schema di occultamento del conflitto: di nascondere e congelare, a ogni livello, gli antagonismi che innervano la struttura sociale. Se quello fra uomini e donne è il più vulnerabile alla presa mistificante dell’ideologia straight, ciò non dipende solo dall’anteriorità storica del patriarcato rispetto a forme moderne di dominazione, ma dal fatto che i meccanismi concreti di appropriazione delle donne da parte degli uomini offrono un terreno propizio alla credenza nella necessità di un rapporto intimo e permanente fra “diversi” e “complementari”. Si radica qui la resistenza tenace a concepire donne e uomini come classi di sesso, anziché come gruppi naturali.

Nell’universo mitico forgiato dall’ideologia straight, in effetti, non esistono dominanti e dominati, appropriate e appropriatori, maggioritari e minoritari, così come non c’è spazio per la dialettica intesa come coscienza pensante della contraddizione reale. Esistono solo i titolari legittimi dell’universale, da un lato, e, dall’altro, differenze e alterità elevate a qualità intrinseche delle classi oppresse per meglio mascherare i rapporti sociali di dominio. La pacificazione garantita dal pensiero straight è sinonimo di riconciliazione con la disuguaglianza e consacrazione delle gerarchie. Come sottolinea “Wittig” (il personaggio messo in scena in Virgile, non) commentando una scena di prostituzione, la denuncia dell’inferno dell’oppressione, e della devastazione umana che ne scaturisce, sarà sempre, dal punto di vista straight, un’esagerazione imputabile al «flagello lesbico». E, in quanto tale, meritevole di censura (VN, p. 42/p. 42.).   

L’accostamento proposto da Feole e Garbagnoli tra la nozione di «pensiero straight» e quella di «ideologia razzista» elaborata da Colette Guillaumin [4] non è importante solo ai fini dell’individuazione di una delle fonti, del resto dichiarate, del pensiero di Wittig. La sovrapponibilità fra «pensiero straight» e «ideologia razzista» rimanda a un sistema globale di percezione basato su un’idea di natura in virtù della quale ai soggetti oppressi viene imputata una «forma di “determinismo endogeno” operante come causa insita del loro essere» (MW, p. 33). Che cos’è questa, se non la forma tipicamente moderna di legittimazione della pratica sociale della subordinazione, dotata di sufficiente plasticità da applicarsi a diverse possibili espressioni del dominio? Se non ci fossero principi moderni da negare nella prassi, se le deroghe agli universali presentati non necessitassero di una giustificazione compatibile con la salvaguardia formale dei criteri di uguaglianza, che senso avrebbe la scomposizione dell’umanità in un catalogo di alterità inemendabili, differenze essenziali, eterogeneità incommensurabili?

Se il femminismo materialista, nel suo insieme, scopre e mette a tema l’ubiquità di questo dispositivo di giustificazione del dominio, correlandolo di volta in volta agli assetti materiali che lo fondano, e in particolare al persistente regime di appropriazione delle donne da parte degli uomini, Wittig è colei che più di tutte punta a riqualificare il lesbismo come «posizione sociale a partire dalla quale è più facilmente possibile muovere una critica radicale al patriarcato» (MW, p. 51), circostanza che le è valsa il duro ostracismo — l’altra faccia dell’inferno — rappresentato nelle pagine di Virgile, non, del Voyage sans fin e di Paris-la-politique. Resta il fatto che nemmeno l’avversione più caparbia all’utopia perseguita da Wittig può negare il contributo offerto dalla scrittrice al riscatto del lesbismo dalla penombra del folklore sessuale: «Dai corpi delle guerrigliere a quelli delle amanti, passando per il corpo delle protagoniste lesbiche di Virgile, non, il “corpo lesbico” è un corpo scritto e immaginato per costringere chi legge a mettere in discussione la rappresentazione univoca, reificata, passiva, appropriata e straight delle donne e dei loro corpi. Alludendo, come la stessa Wittig fa spesso, alla tradizione evangelica, potremmo dire che il “corpo lesbico” non ha la facoltà di redimere e non libera dai peccati, ma apre a chi legge, e alle donne in particolare, un mondo al di là delle categorie di sesso» (MW, p. 60).

Negli Appunti per un dizionario delle amanti, il libro pubblicato da Wittig insieme a Sande Zeig nel 1976, si legge: «Esistono delle fughe simili alle perdite d’acqua nella coscienza di ogni persona. Le fughe o vuoti di memoria sono l’esempio più frequente. Quante amanti davanti a questa emorragia dei loro ricordi, delle loro informazioni e delle loro conoscenze si sono messe a digiunare. […] Esistono anche fughe di interesse, fughe di sentimenti, fughe di energia, fughe di immaginazione. Esiste anche un’altra sorta di fuga detta “fuga in avanti” che ha il vantaggio di far dimenticare tutte le altre» (B, p. 91/pp. 69-70). Meglio di così non si saprebbe descrivere il viaggio a cui Garbagnoli e Feole ci invitano. Che è tutto, fuorché d’evasione.       

SIGLE

B = Monique Wittig, Sande Zeig, Brouillon pour un dictionnaire des amantes, Grasset, Paris 1976; trad. it. di Onna Pas, Appunti per un dizionario delle amanti, Meltemi, Milano 2020.

G = Monique Wittig, Les Guérillères, Minuit, Paris 1969; trad. it. di Ana Cuenca, Le guerrigliere, Lesbacce Incolte, Bologna 1996 (nuova ed. La Porta Terra di donne, Bologna 2019). 

MW = Eva Feole, Sara Garbagnoli, Monique Wittig. Femminismo materialista Pensiero straight ‖ Cantiere letterario Corpo lesbico Cavallo di Troia, DeriveApprodi, Roma 2023.

O = Monique Wittig, L’Opoponax, Minuit, Paris 1964; trad. it. di Clara Lusignoli, L’opoponax,Einaudi, Torino 1966.

VN = Monique Wittig, Virgile, non, Minuit, Paris 1985; trad. it. di Rosanna Fiocchetto, Virgilɘ, non, Il Dito e La Luna, Milano 2005.

NOTE

[1] Cfr. Qui êtes-vous, Antoinette Fouque? Entretien avec Christophe Bourseiller, des femmes-Anoinette Fouque, Paris 2009, p. 48: «Ciò che interessava a Monique Wittig era dissotterrare una cultura dell’omosessualità femminile, liberare la lesbica dalla donna. Ma è stato necessario attendere due anni [dal 1968 al 1970] perché si risolvesse a farlo. Ciò l’ha condotta a porre una non-mixité assoluta, una sorta di separatismo, per arrivare a un movimento marcato dal femminismo e dal lesbismo che, in fondo, vuole la scomparsa della parola “donna”, la cancellazione delle donne. Alla fine, emigrerà negli Stati Uniti per teorizzare il suo pensiero e inventare il queer».

[2] Paola Tabet, Les mains, les outils, les armes, «L’Homme», 19, 3-4, 1979, p. 12; trad. it. «Mani, strumenti, armi», in Ead., Le dita tagliate, Ediesse, Roma 2014, p. 190.

[3] Per una rassegna, cfr. Simone Beta, La donna che sconfigge la guerra. Lisistrata racconta la sua storia, Carocci, Roma 2022.

[4] Colette Guillaumin, L’idéologie raciste. Genèse et language actuel, Mouton & Co, Paris 1972 [Gallimard, Paris 2002]; trad. it. di Sara Garbagnoli, L’ideologia razzista. Genesi e linguaggio attuale, il nuovo melangolo, Genova 2023.